Perché la mosca non è un cavallo

GIUSEPPE SERMONTI

Che cosa fa mosca la mosca e cavallo il cavallo? Il problema sembra così ovvio che non vai la pena porselo. Sappiamo che cosa fa albino un albino o talassemico un talassemico e non staremo a perdere tempo di fronte a una domanda così banale. E invece la domanda va posta, e la risposta non c’è. Sarà una differenza di codice generico, si dice l’uomo della strada. E non è giusto, benché la dizione sia entrata nell’uso, e si dica «il mio codice generico». per dire la mia costituzione profonda e personale. Sbagliatissimo. Il codice generico», cioè il cifrario della vita, è identico in tutti i viventi, dal batterio all’elefante, senza eccezioni. Tutti usiamo lo stesso alfabeto cellulare. Allora, se non è l’alfabeto, saranno i testi scritti con quell’alfabeto a differenziare le specie? La lettura dei testi che compongono l’informazione genetica, cioè dei “geni» delle varie specie. è in corso da più di trenta anni e ha portato a questa sconcertante conclusione: i geni sono sostanzialmente gli stessi in tutti gli animali, solo soggetti a una minima variazione neutrale che non ne altera la funzione. Un gene che svolge una data funzione nella mosca non si distingue da quello che svolge la stessa funzione nel cavallo. Essi sono intercambiabili. Ma allora. nasce subito la domanda, come si sono separati, nel corso dell’evoluzione, la mosca e il cavallo? Rispose Francois Jacob, pochi anni dopo: “A generare la diversificazione degli organismi non sono state le novità biochimiche... Ciò che distingue una farfalla da un leone, o un verme da una balena è molto meno una differenza nei costituenti chimici che nell’organizzazione o distribuzione di questi costituenti”. Come dire, ciò che distingue un quadro da un altro non sono i colo-ti usati, ma la loro dislocazione. Che cosa stabilisce la dislocazione delle sostanze viventi? Nel moscerino dell’aceto (drosofila) furono isolati mutanti senza occhi, con torace doppio, con zampe al posto delle antenne. I geni interessati sono stati «mappati» e il risultato è stato sorprendente ed emozionante: essi si trovano tutti adiacenti, in una serie allineata di dieci. Il primo è preposto al segmento anteriore e via via di seguito, segmento per segmento, fino alla coda. Il pacchetto di geni è come un moscerino in miniatura, inserito tra la baraonda degli altri geni. La ricerca dei geni ordinatori si estese ad altre specie animali. Al topolino, a un anfibio, alla sanguisuga e in-fine anche all’uomo. E quei geni furono trovati, nel loro pacchetto, ed erano gli stessi ovunque, nello stesso ordine, con le stesse caratteristiche. Si arrivò alla conclusione che tutti gli animali hanno la stessa sequenza di geni a decretare l’ordine delle loro regioni corporali. Quel pacchetto, si concluse, è antichissimo e universale, alla radice di tutto il regno animale, rimasto intatto durante tutta l’evoluzione zoologica, il che vuoi dire per oltre mezzo miliardo di anni.

Un moscerino privo dei gene che sovraintende alla regione oculare non ha occhi. Se andiamo a prelevare quello stesso gene nel pacchetto regolatore di un gattino e io trasferiamo nell’uovo del moscerino cieco, accadrà una cosa meravigliosa e cioè che il moscerino riacquisterà gli occhi. E i suoi occhi saranno gli sfaccettati occhi rossi della sua specie, benché il gene regolatore provènga da un gattino con occhi tondi e azzurri. Queste sono le sbalorditive scoperte della genetica più recente. scoperte poco note, tuttavia, perché estranee al molto che la vita sia nel Dna, tutta nel Dna, nient’altro che nel Dna. A questo punto il lettore si chiederà, dal momento che il Dna è risultato così universale, che spazio timanga all’ingegneria genetica. al progetto genoma, ai ceppi transgenici. alla terapia genica. Il fatto d’essere ubiquitario non esime il gene dall’essere perfetto. È sufficiente un minuscolo difetto in un gene per metterlo fuori uso e produrre una malattia, la cecità, la morte. Come un frustolino nel motore può fermare un Tir. L’ingegnere generico lavora sulle minuzie di una macchina chimica che non sopporta errori. E quegli errori minuziosi possono produrre malattie, deficienze, disastro. Ma non c’è idea più sbagliata di quella che la macchina prodigiosa si sia formata attraverso la correzione di innumerevoli difettucci, cioè attraverso una serie accidentale di «mutazioni vantaggiose. Le piccole differenze, i minuscoli difetti (talvolta con esiti gravi) degli organismi sono dovuti alle mutazioni del Dna, ma le grandi diversità, che distinguono tra loro le specie, gli ordini, le classi e che riguardano la forma esteriore e l’organizzazione generale, quelle non dipendono dal Dna, ma da elusive informazioni spaziali, campi morfogenetici immateriali, archetipi indefinibili. Nessun biologo molecolare ci dirà mai se il genoma che sta analizzando è di un genio odi un imbecille, è di un bianco o di un nero, e neppure se è quello di una mosca o quello di un cavallo. Ci dirà solo di quali malattie generiche è portatore, ci rivelerà i difetti ma non le virtù. E aggiungerà che le inafferrabili bellezze non lo interessano neppure.