²
L'età dei Comuni
Il fenomeno comunale fu la manifestazione di un'impetuosa
volontà di autonomia delle città padane e toscane anzitutto, espressa dalla
piccola nobiltà locale contro la grande, e appoggiata per lo più dai vescovi e
dalle ancora rare, ma potenti personalità della produzione e del commercio. Il
Comune, nella sua fase primitiva, fu in sostanza il regime imposto alle città
da un'aristocrazia di piccoli signori consorziati, rappresentati dai consules,
confortato dal consenso popolare; e l'attività di questo regime fu volta, oltre
che ad amministrare liberamente la città, secondo le esigenze locali, e gli
interessi della classe, o meglio del partito dominante, a sottomettere il
territorio circostante. Milano, a partire dagli scorci dell' XI sec., e
Firenze, poco più tardi, avviarono questa politica con grande energia, sino a
raggiungere, in meno di un secolo, l'egemonia rispettivamente in Lombardia e in
Toscana. Contemporaneamente la lotta delle investiture impegnava Impero e
papato, obbligandoli entrambi a guadagnarsi, con la concessione di privilegi,
le città, e mandava in rovina molti grandi signori feudali, e la prima crociata
apriva all'intraprendenza dei cavalieri e dei mercanti ampi orizzonti di gloria
e di ricchezza in Oriente. Nei primi anni del XII sec., l'Italia marinara e comunale si proiettava in Oriente con
una costellazione di colonie veneziane, genovesi, pisane, e il Mezzogiorno
normanno col principato di Antiochia, conquistato in crociata dagli Altavilla
(1098) a pochi anni di distanza dalla cacciata dalla Sicilia dei musulmani
(1091).
Enrico V, succeduto al padre, riprese la lotta delle
investiture contro Pasquale II, che costrinse con le armi a una formale
rinuncia al potere temporale (privilegio di Sutri, aprile 1111); rinuncia rimasta
tuttavia senza effetto, e seguita dalla scomunica e da un riaccendersi della
guerra, complicata dalla questione dell'eredità della contessa Matilde la
quale, spentasi nel 1115, aveva lasciato per testamento tutti i suoi beni alla
Chiesa, senza distinguere tra beni allodiali, di cui poteva liberamente
disporre, e beni feudali, che, in mancanza di eredi diretti, dovevano tornare
all'Impero. I beni matildini si estendevano dalla Val Padana al Mezzogiorno;
rimasti praticamente acefali durante la contesa per l'eredità, si punteggiarono
di Comuni, dove l'autonomia confinava con l'indipendenza; tra questi, cominciò
a emergere Firenze. Pasquale II finì i suoi giorni a Benevento, mentre Enrico V
opponeva a Roma, al suo successore, Gelasio II, un antipapa, e lo costringeva a
rifugiarsi a Cluny, dove moriva poco dopo (1119). A Cluny fu eletto Callisto II
(1119-1124), che rovesciò con inattesa rapidità la situazione: con l'aiuto
normanno si liberò dell'antipapa e rientrò a Roma, poi si riconciliò con Enrico
V, col quale stipulò il concordato di Worms, che pose fine alla lotta delle
investiture e, sia pure con un compromesso, assicurò al papa, e solo a lui, il
diritto di conferire le investiture episcopali e abbaziali (1122). Il principio
gregoriano della libertas Ecclesiae ebbe così attuazione, ma in un clima
spirituale, politico ed economico-sociale molto diverso da quello dei tempi
della sua formulazione, quando il potere imperiale e pontificio erano ben più
forti e senza alternative. Ora, nel quadro dei due sommi poteri mondiali, altri
poteri erano emersi: grandi principi in Germania, re nazionali in Francia, nei
paesi iberici e in Inghilterra, Comuni in Italia settentrionale e centrale, e
una forte monarchia, anche se ancora senza corona, nel Mezzogiorno. La morte di
Enrico V (1125), con cui si estinse la dinastia di Franconia, mise in
drammatica evidenza queste forze nuove: la discorde potenza dei principi
tedeschi provocò una lunga guerra civile per la successione imperiale, in cui
comparvero per la prima volta i nomi dei partiti guelfo e ghibellino,
sostenitore il primo di Lotario II di Supplimburgo, dei fratelli Corrado e
Federico il Guercio di Svevia il secondo. La vittoria di Lotario, appoggiato da
Onorio II, portò, alla morte di questo, a una duplice elezione pontificia,
Innocenzo II (1130-1143) contro Anacleto II (1130-1138), e alla conseguente
divisione dell'Italia. Grazie a san Bernardo di Chiaravalle, Innocenzo II e
Lotario ebbero un effimero successo, isolando gli Svevi, che avevano seguito
tra i Comuni padani, e i Normanni, minacciati dal nuovo imperatore; nel corso
di questa crisi Ruggero II d'Altavilla ottenne dall'antipapa Anacleto II il
titolo di re di Sicilia (1130), riconosciutogli poi, a scisma concluso, anche
dal legittimo Innocenzo II (1139).
Lotario II (1125-1137) non lasciò tracce positive in
Italia; la sua politica inconcludente gli alienò il papato, del quale si era
presentato come amico e difensore, e i Comuni, e favorì, con le sue infondate
ambizioni mediterranee, il consolidamento dello Stato normanno. Al tempo stesso
la sua politica portò a indebolire anche il papato; poco dopo ìa fine dello
scisma, a Roma si costituì infatti tumultuosamente il Comune (renovatio
Senatus, 1143), creando gravi difficoltà ai successori di Innocenzo II,
Celestino II, Lucio II ed Eugenio III (1145-1153). Quest'ultimo cercò
l'appoggio del nuovo re di Germania ad imperium promovendum, Corrado III
di Svevia (1138-1152); ma, se ebbe la soddisfazione di vederlo partire
crociato, non poté ottenere il suo aiuto a Roma contro il Comune, più che mai
risoluto a ottenere la piena indipendenza, sotto lo stimolo della predicazione
antitemporalistica di Arnaldo da Brescia.
Chi ebbe una visione unitaria dei problemi italiani fu
Federico I di Svevia, il Barbarossa (1152-1190). Egli avviò la sua politica
italiana con la rivendicazione dei diritti sovrani usurpati dai Comuni, ed ebbe
dapprima alleati i papi, Eugenio III e Adriano IV (1154-1159), che liberò
dall'assillo del Comune romano con l'eliminazione di Arnaldo da Brescia e confortò
nei confronti dell'irrequieto re di Sicilia Guglielmo I (1154-1166), e dal
quale ebbe la corona imperiale. Ma la lotta contro i Comuni padani, culminata
con la distruzione di Milano (1162), provocò la concentrazione intorno al nuovo
papa Alessandro III (1159-1181) di un poderoso sistema con i suoi punti di
forza nella Lega lombarda (più esattamente, Societas Lombardiae, Marchiae et
Romaniae, nata dalla fusione delle precedenti leghe veronese e lombarda,
1167) e nel regno di Sicilia, e come ausiliari l'imperatore bizantino Manuele I
Comneno oltre mare e i principi guelfi di Germania, sotto la guida di Enrico il
Leone, oltre le Alpi.
Questo sistema logorò a poco a poco le forze imperiali e le
rovinò del tutto con la battaglia di Legnano (1176), che da episodio puramente
militare si trasformò in un successo politico, e divenne immediatamente il
simbolo del trionfo della causa della libertà (libertà dei Comuni e del popolo
che ne era l'anima, libertà della Chiesa, tormentata da una serie di antipapi
suscitati dall'imperatore) contro, non l'Impero, ma la persona dell'imperatore.
Il quale al convegno di Venezia (1177) ottenne una tregua di sei anni per
negoziare con quei Comuni della Lega che egli avrebbe voluto cancellare dalla
storia, e concluse la pace con papa Alessandro III, col nuovo re di Sicilia
Guglielmo II e con Manuele Comneno; poté così riprendere quota in una Germania
di cui aveva perso il controllo. La tregua coi Comuni della Lega, che intanto
si era alquanto assottigliata, si concluse con la pace di Costanza, dove
Federico Barbarossa legittimò con un privilegio le libertà comunali (1183). I
diritti regali usurpati nel corso di un secolo, dall'autonomia amministrativa
allo ius belli et pacis, dall'immunità giudiziaria alla facoltà di fare
alleanze, furono riconosciuti in cambio di un formale vassallaggio e di un
contributo in danaro.
Morto Federico (1190), il suo programma imperiale fu
raccolto dal figlio Enrico VI (1190-1197), che aveva sposato Costanza
d'Altavilla, erede del regno di Sicilia. In Italia, la prima impresa di Enrico
fu l'insediamento in Sicilia, contro il partito normanno, che contrappose a lui
e a Costanza Tancredi di Lecce, poi il figlio di questo Guglielmo III,
sostenuti dal papato, atterrito dal profilarsi di un accerchiamento, sottopose
la Toscana, dove ferveva la vita comunale, al regime vicariale di suo fratello
Filippo di Svevia; intimidì i Comuni padani, rimettendo in discussione la pace
di Costanza. Anche in Germania si creò una posizione solidissima. Si
preparavano febbrili resistenze in Lombardia, in Toscana, a Roma che sarebbero
state certamente stroncate, come quella siciliana, se Enrico non fosse morto
d'improvviso a poco più di trent'anni, a Messina, alla vigilia di una crociata;
il suo unico erede, Federico II, era nato a Iesi meno di tre anni prima.
La guida dell'Europa cristiana passò allora,
immediatamente, al papa Innocenzo III (1198- 1216); tutore del fanciullo per
volontà della madre, il papa si pose arbitro della successione imperiale,
contesa tra il guelfo Ottone IV di Brunswick e il ghibellino Filippo di Svevia,
fratello di Enrico VI, e sollevò il primo; al piccolo Federico II intendeva
lasciare soltanto il regno di Sicilia, vassallo e sostegno della Chiesa. Ma
l'inconcludente politica di Ottone IV e la resistenza di Filippo di Svevia (uno
dei promotori della quarta crociata, voluta da Innocenzo III, donde derivò,
anziché la liberazione della Terrasanta, un impero franco-veneto in Levante)
indussero il papa a sconfessare Ottone IV, già coronato imperatore (1209) e a
preferirgli il giovane Federico II (1212), a patto che, re di Germania,
d'Italia e imperatore, rinunciasse alla Sicilia, e conducesse, finalmente, una
vera crociata contro gli infedeli. Ma la morte di Innocenzo III (1216) produsse
un improvviso vuoto di potere, di cui Federico II approfittò immediatamente. Il
nuovo papa Onorio III (1216-1227) lo incoronò imperatore (1220), senza peraltro
ottenere da lui né la rinuncia formale alla Sicilia né la crociata; lo vide
anzi consolidare la sua posizione nel Mezzogiorno, stroncando le ricorrenti
rivolte arabe e in Toscana, nel Veneto e in Lombardia, svolgendo una
sistematica azione per demolire i Comuni; fu allora che, intorno a Milano, si
ricostituì, ma con ben minor vigore della prima, la cosiddetta seconda Lega
lombarda (1226). La politica dilatoria dell'imperatore fu bruscamente
interrotta da Gregorio IX (1227-1241), che costrinse Federico II a partire per
la crociata (1227), la quale conseguì la restituzione di Gerusalemme e degli
altri Luoghi santi ai cristiani, ma coi mezzi diplomatici anziché con le armi
(1229); così che Federico II rientrò in Italia con moltiplicato prestigio, e
costrinse a sua volta il papa a lasciargli il regno di Sicilia (1230) e ad
assistere al riordinamento e al potenziamento di esso (Costituzioni di Melfi,
1231), tanto da emulare le monarchie più salde dell'Occidente, anzi superarle
per la modernità e l'efficienza delle istituzioni politiche e amministrative,
militari e culturali. Si trattava di strutture assolutistiche, che l'imperatore
svevo mirava a estendere a tutta l'Italia, frantumata viceversa nella
moltitudine dei Comuni, in lotta l'uno contro l'altro e lacerati all'interno
dai partiti, guelfi e ghibellini. La minaccia di Federico II provocò una serie
di guerre, nelle quali Gregorio IX, coadiuvato dagli ordini mendicanti, cercò
di polarizzare intorno a sé il mondo comunale padano e toscano, contro Federico
II, come già Alessandro III contro Federico I; ma con minor successo, poiché
Federico II aveva alleati potenti, e tra gli stessi Comuni e tra i grandi
signori come Ezzelino da Romano, che aveva in mano quasi tutto il Veneto. La
seconda Lega lombarda, e anzitutto Milano, fu infatti sconfitta dall'imperatore
in una grande battaglia, che parve cancellare il ricordo di quella di Legnano
(Cortenuova sull'Oglio, 1237).
L'imperatore, già sulla via di Roma, offrì la pace al
successore di Gregorio, Innocenzo IV (1243-1254), ma le trattative fallirono:
un concilio, voluto da Gregorio IX, che non si era potuto tenere a Roma e che
si svolse a Lione (1245), ribadì la condanna e la crociata contro Federico II,
la cui fortuna declinò rapidamente: gli si ribellò Parma (1247); il re Enzo,
suo figlio, cadde prigioniero dei Bolognesi alla Fossalta (1249); in Germania,
gli venivano meno familiari e vassalli e gli disconoscevano la corona; i suoi
collaboratori si staccavano da lui, come Pier delle Vigne. Federico II si
spense in questo clima sinistro: l'ultimo tentativo di dare all'Italia un
assetto unitario, troncando la tradizione delle autonomie cittadine protette
dal papato, falliva con l'ultimo Svevo. Per un quindicennio, il papato, con
Innocenzo IV, Alessandro IV, Urbano IV, Clemente IV, condusse un'implacabile
battaglia per soffocare i tentativi di ripresa svevo- ghibellini nel
Mezzogiorno, in Toscana, nella valle del Po: fu una battaglia vittoriosa, sia
per l'orientamento guelfo, sempre più nettamente delineantesi nel mondo
comunale lombardo, veneto, emiliano e toscano, sia per l'intervento di Carlo
d'Angiò, conte di Provenza e fratello di Luigi IX di Francia, che da Clemente
IV ebbe la corona di Sicilia perché conquistasse il regno e ne scacciasse il
figlio di Federico II, Manfredi. Con la battaglia di Benevento (1266), nella
quale Manfredi incontrò la morte, s'instaurò in Sicilia il dominio, in Italia
il predominio angioino, cioè francese di nazione e guelfo di parte.
L'insediamento francese in Italia, reso possibile dal
favore di papi francesi, dalla crisi dell'Impero (il “grande interregno”) e
dall'appoggio della grande borghesia d'affari, anzitutto fiorentina, divenuta
l'anima del guelfismo, non tardò a divenire il cardine di una politica
imperialistica, contrastante anche col papato, che pure l'aveva provocato. Ma
subì una violenta scossa dall'insurrezione siciliana dei Vespri, sfociata in una
guerra ventennale (1282-1302) tra i re d'Aragona, da Pietro III a Giacomo II, e
gli Angioini, da Carlo I a Carlo II, e nel definitivo passaggio della Sicilia
alla dinastia aragonese. Si apriva così tra la fine del Duecento e i primi anni
del Trecento il conflitto gallo-íberico per il predominio sul Mediterraneo, che
doveva far infine cadere l'Italia, estenuata, sotto l'egemonia spagnola.