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L'età carolingia
Dopo
l'incoronazione a re dei Longobardi, Carlo lasciò il regno alle cure dei
duchi preesistenti limitandosi a esigere da loro il giuramento di fedeltà e a
sottoporli a una blanda vigilanza da parte di propri ufficiali. Ma durante la
sua assenza i duchi, sobillati dall'esule Adelchi, si ribellarono; Carlo calò
di nuovo in Italia e li destituì tutti, trasformò i ducati in più ampie regioni
amministrative e le affidò a reggenti di nazionalità franca, suoi comites,
conti o marchesi (cioè conti messi al governo di una marca, o territorio di
confine, quindi di maggiore responsabilità), strettamente vincolati alla sua
persona (776). Nemmeno questa sistemazione si dimostrò tuttavia soddisfacente,
per le ambizioni del superstite principe longobardo Arechi II di Benevento sui
territori della Chiesa; così che Carlo, invocato dal papa Adriano I, fece una
terza spedizione in Italia, acquietò il principe e, a Roma, fece consacrare dal
papa i suoi figli Carlomanno, ribattezzato Pipino, re d'Italia, e Ludovico re
d'Aquitania (781). Comparve allora per la prima volta il nome di regno
d'Italia, a designare quello che era stato il regno dei Longobardi, e Pavia
ne rimase la capitale. Lo stesso Arechi II, tornato all'attacco del territorio
romano, provocò la quarta discesa di Carlo, che rese tributario il principe
beneventano (786). I tentativi immediatamente successivi di Adelchi di
rimettere piede in Italia, contando sull'aiuto bizantino e beneventano,
naufragarono.
Carlo Magno dominava già su un impero, quando, esortato
dagli ambienti colti della sua corte e invitato personalmente, in veste di patricius
Urbis, da papa Leone III (795-816), venne a Roma, e la notte di Natale
dell'800, in San Pietro, fu cinto dal papa della corona imperiale. Da questa
cerimonia nacque l'istituto del Sacro romano impero, concepito non già come una
realtà nuova, ma come la riapparizione in Occidente dell'antico unico Impero
romano, rinnovato per la sua compenetrazione con la Chiesa romana e arricchito
così di un arcano significato carismatico. Bisanzio fu umiliata: si parlò di
ritorno dell'Impero alla sua sede originaria (translatio Imperii),
voluto dalla provvidenza dopo un necessario periodo di permanenza a
Costantinopoli. Ovviamente gli imperatori d'Oriente non accettarono mai questa
tesi, e continuarono a considerarsi i legittimi continuatori dell'Impero nato
con Augusto (o, secondo la concezione medievale, con Cesare).
² Organizzazione politica e amministrativa
dell'Italia
Al momento della
conquista carolingia l'Italia venne a trovarsi all'incontro di tre sistemi
imperiali: quello franco, limitato da un immenso arco di confini, quasi un
semicerchio, dalle foci dell'Ebro a quelle dell'Elba e da queste ultime a
quelle della Narenta; quello bizantino, che aveva i suoi avamposti occidentali
nel Mezzogiorno italiano; quello arabo, pure steso ad arco intorno al
Mediterraneo dalla Siria all'Egitto, dall'Egitto al Marocco, dal Marocco, oltre
lo stretto di Gibilterra, alla penisola iberica, alla destra dell'Ebro. E i tre
imperi premevano sull'Italia: quello franco vi si incuneava col Regnum
Italiae, che di fatto finiva poco sotto Roma; quello bizantino con Venezia,
parte della Puglia e della Calabria, la Sicilia e la Sardegna (la Corsica
apparteneva al Regnum Italiae); quello arabo aveva a portata di mano la
Sicilia, e non avrebbe atteso molto a prenderne possesso. Nel cuore della
penisola, Roma, col suo vasto patrimonio tra il Tirreno e l'Adriatico,
costituiva un'entità relativamente compatta; viceversa a sud, il vecchio
principato di Benevento, esteso anch'esso da un mare all'altro, andava a pezzi,
e città come Napoli, Amalfi, Capua, Gaeta, Salerno, Bari e la grande enclave
dei possedimenti dell'abbazia benedettina di Montecassino, compresi nel suo
ambito, ne erano praticamente indipendenti.
Su quest'area profondamente eterogenea, non meno dal lato
umano che da quello naturale, col dominio dei Franchi si impiantò, ma allignò a
stento, l'Ordinamento politico, sociale ed economico che era congeniale ai
Franchi stessi e che essi estesero con profitto in tutti i paesi transalpini,
il feudalesimo. Il regno d'Italia fu diviso in grandi feudi, tra i quali i più
importanti erano le marche di Susa, di Torino, d'Ivrea e di Toscana, i ducati
del Friuli, di Lucca, di Spoleto, la contea di Genova, che venivano retti da
grandi vassalli del sovrano. I titolari, che si possono chiamare genericamente comites,
erano per un lato paragonabili a viceré, in quanto soggetti alla stretta
dipendenza, solo in seguito destinata ad allentarsi, del sovrano e alla sorveglianza
dei suoi missi dominici; ma d'altro lato la loro veste di funzionari era
radicalmente alterata dal fatto che essi erano legati al sovrano anche dal
vincolo personale del vassallaggio, essenzialmente fiduciario e contrattuale,
per cui costituivano una cerchia, relativamente ristretta, di fedeli, tenuti
bensì a prestazioni, soprattutto militari, ma compensati con la concessione del
godimento di terre (beneficia) e di immunità di varia natura,
consistenti in esenzioni fiscali e privilegi, che consentivano a essi, entro
certi limiti, l'esercizio di diritti di natura pubblica nell'ambito dei loro
possedimenti personali. In questa tendenza, sempre più accentuata, alla
trasformazione del feudo, da ufficio accompagnato da corrispettivi benefici, in
possesso personale, consiste la più radicale differenza tra lo Stato romano,
essenzialmente centralizzato, e lo Stato feudale, costituzionalmente orientato
verso il decentramento, la dispersione, e infine la disgregazione. Questa
disgregazione venne impedita da Carlo Magno per la potenza della sua
personalità, ma non la poterono evitare i suoi successori.
A Pavia, capitale d'Italia, si adunava l'assemblea del
regno, composta soltanto dei maggiorenti, laici ed ecclesiastici: essa aveva il
potere di legiferare, ma il re poteva legiferare anche senza consultarla. Le
leggi emanate dai Franchi per l'Italia furono raccolte in un corpo (Capitolare
italico), raccordato dai giuristi con quelle precedentemente emanate dai
Longobardi. Va da sé che in Italia, oltre alle leggi particolari del regno,
avevano vigore quelle generali dell'Impero. Nel campo economico, il feudalesimo
introdotto dai Franchi non provocò in Italia, come in altri paesi, quelle forme
estreme del regime curtense per cui il territorio venne a dividersi in circoli
di produzione e di consumo autosufficienti e chiusi, anche se la tendenza fu
quella peculiare del feudalesimo di concepire ciascun feudo come un gran campo
armato, la cui autosufficienza doveva essere conservata come strumento
difensivo. Scambi commerciali continuarono a svolgersi, più o meno
intensamente, per impulso delle numerose città, specialmente marinare, che non
interruppero mai la loro tradizionale attività. Dal punto di vista sociale
s'inserì nella nazione una nuova aristocrazia franca, che venne rapidamente
espandendosi e dando luogo, attraverso le diramazioni familiari e nuovi
rapporti di dipendenza feudale, a una nuova aristocrazia italiana, sottilmente
sfumata. La società rurale si appiattì, per la progressiva riduzione della
media e piccola proprietà, assorbita dalla grande, feudale o ecclesiastica; ai
medi e piccoli proprietari succedettero coloni legati a svariatissimi tipi di
contratti, più o meno restrittivi della libertà personale; persistettero servi
e schiavi. La figura del borghese cittadino era ancora rara; i mercanti e gli
artigiani avevano una posizione economica e sociale per lo più modesta.
Dopo l'incoronazione imperiale, Carlo Magno non tornò più
in Italia; ma l'incoronazione provocò una reazione da parte dell'imperatore
bizantino Niceforo I: il contrasto tra i due imperatori sboccò in un conflitto,
che ebbe come obiettivo Venezia, già da oltre un secolo autonoma, ma favorevole
a riconoscere piuttosto la sovranità di Bisanzio che quella di Pavia. Perciò il
figlio di Carlo Magno e re d'Italia Pipino, sostenuto dal patriarca di Grado,
che aveva la giurisdizione ecclesiastica su Venezia, fece una spedizione fino
alla laguna, ma senza alcun successo (810). Il contrasto tra gli imperatori fu
tuttavia composto poco dopo, quando il successore di Niceforo I, Michele I,
riconobbe a Carlo Magno la dignità imperiale, contro la promessa della rinunzia
a Venezia e a tutti gli altri territori italiani ancora sotto la sovranità
bizantina (812). Pipino intanto era morto e il regno d'Italia passato al suo
giovane figlio Bernardo (810-818). Poco dopo moriva anche Carlo Magno (814) e
si apriva il dramma della successione.