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Bhavana Sati Sangha

Risolvere la problematica del Dolore

di Thanavaro

“Io insegno due sole cose: la sofferenza e la fine della sofferenza”. Buddha: Majjhima Nikáya 22 Conseguendo il perfetto risveglio (sammá sambodhi), Siddhartha Gautama si elevò alla posizione spirituale di un ‘risvegliato’ (Buddha).

L’iconografia buddhista lo ritrae spesso nel gesto di toccare con la mano la terra, chiamandola a testimone.

Credo che sia importante riflettere sul significato di questo gesto, perché attraverso di esso possiamo forse comprendere meglio cosa si intende per ‘risveglio’. Nel gesto del Buddha di toccare la terra possiamo scoprire che il risveglio è essenzialmente un’integrazione di tutte le energie fisiche e psichiche, la risoluzione del conflitto tra mente e materia.

La concezione dualistica mente-materia è alla base di uno dei nostri maggiori conflitti, quello con il corpo. La mente tende a voler dominare il corpo, ma spesso le pulsioni fisiche sono così forti da assoggettare la mente. Ritrovare il senso di cooperazione fra mente e corpo permette una maggiore stabilità emotiva, mentale ed energetica e dunque una migliore salute, in quanto la salute dipende principalmente dall’equilibrio armonico di questi tre livelli: mentale, energetico-emotivo e materiale.

Ognuno, nel corso della propria crescita e maturazione, viene chiamato a portare una maggiore attenzione a quelle aree di conflitto che causano sofferenza. I dolori, i disagi, le malattie, perfino le tragedie della nostra vita non sono altro che allarmi, modi in cui la vita stessa ci richiama all’attenzione. In questa prospettiva non c’è dolore, non c’è sofferenza, non c’è tragedia che non abbia in sé la potenzialità per il risveglio. Gli eventi dolorosi ci scuotono, ci costringono a uscire dal sogno di una realtà intoccabile, permanente. Il confronto con la realtà è sempre il confronto con la transitorietà degli eventi, la loro precarietà, la loro instabilità. Siamo chiamati a prendere coscienza della nostra stessa precarietà, vulnerabilità e questo avviene ogni qualvolta una persona, o anche un animale, un essere comunque a noi caro, viene meno, vuoi per malattia, per vecchiaia o per un incidente. In quello stesso momento c’è un’esplosione di emozioni al nostro interno e siamo chiamati in prima persona a prendere atto della nostra vulnerabilità.

Come diceva Hemingway, quando senti il suono della campana ti puoi chiedere per chi suona la campana; ma la risposta è la consapevolezza che quello stesso rintocco della campana a morto suona per noi. Quando un altro essere muore, una parte di noi muore.

La morte di un qualsiasi essere è un richiamo all’attenzione.

Viviamo in una società in cui si cerca di nascondere le verità dell’esistenza, la precarietà della vita. Il mio primo contatto con la morte avvenne quando ero bambino, quando mio padre investì involontariamente con la macchina un mio gattino che aveva pensato bene di farsi un pisolino sotto la ruota, ignaro chiaramente del pericolo. Dopo questo primo contatto con la morte ce ne furono molti altri, gli uccelli uccisi nella stagione della caccia, la morte di un mio compagno di scuola, a sedici anni, in un incidente con la motocicletta, la morte di mio nonno… momenti dolorosi, pregni di emozioni, di umanità. Momenti che giungono inesorabili, quasi come a volerci rammentare la fugacità dell’esistenza. In un certo senso, il dolore è lo strumento con cui la compassione ci risveglia alla ricerca di una visione più profonda dell’esistenza. Il Buddha stesso mise in moto la ruota del Dharma, ovvero iniziò a esporre la Verità che aveva compreso, mosso dalla compassione per tutti gli esseri.

Dopo aver conseguito l’Illuminazione, infatti, il Buddha, spinto da grande compassione, pensò bene di divulgare il suo insegnamento. Per prima cosa, mosso da gratitudine verso i suoi due insegnanti, Álára Káláma e Uddaka Rámaputta, andò a cercarli per condividere con loro i frutti del risveglio. Venne però a sapere che questi due erano ormai morti e, spinto dalla medesima compassione, andò alla ricerca dei suoi cinque compagni di ricerca spirituale, con i quali aveva trascorso lunghi periodi di ascetismo. Li trovò, dopo un lungo viaggio a piedi, al Parco delle Gazzelle di Sárnáth. Quando essi lo videro arrivare, da lontano, si riproposero di non esprimergli rispetto e di non rivolgergli nemmeno la parola, ricordando che egli aveva abbandonato gli estremi dell’ascetismo e quindi, ai loro occhi, aveva abbandonato la stessa ricerca spirituale. Malgrado le loro intenzioni, però, rimasero estremamente colpiti dall’aurea della luce che emanava dal corpo del Buddha e si mostrarono molto rispettosi nei suoi confronti. Gli prepararono un posto dove sedere, gli lavarono i piedi, gli offrirono da bere e condivisero il cibo che avevano con lui. Era evidente che il loro vecchio compagno di pratica aveva conseguito qualche realizzazione. Dopo il pranzo, il Buddha espose il discorso delle Quattro Nobili Verità, il discorso che di fatto mise in moto la ruota del Dharma.

Ancora oggi, sebbene le scuole buddhiste abbiano ormai sviluppato dottrine e orientamenti diversi, l’insegnamento sulle Quattro Nobili Verità resta il perno centrale del buddhismo. Il Buddha fu in grado di sintetizzare in poche parole tutto il suo pensiero religioso, offrendo un messaggio valido per l’intera umanità, senza distinzioni. L’universalità del messaggio del Buddha sta nell’attenzione che pone sulla condizione dell’essere umano, al di là di preconcetti, fedi, credenze, dottrine metafisiche; il Buddha ci invita essenzialmente a osservare la nostra esistenza così com’è e a riconoscere le cose così come sono. Probabilmente è per questo motivo che il buddhismo trova, almeno in Occidente, una difficile collocazione nell’ambito delle varie tradizioni religiose, pur presentandosi come un vero e proprio sentiero spirituale per l’intera umanità. L’insegnamento delle Quattro Nobili Verità è un approccio diretto e profondo alla problematica del dolore. Nella Prima Nobile Verità il Buddha ci invita a prendere coscienza della realtà del dolore e della sofferenza; l’esperienza del dolore è inevitabile, è qualcosa che accompagna l’esistenza intera dal concepimento alla morte. L’organismo psico-fisico sperimenta un disagio di fondo ed è alla continua ricerca di una soddisfazione permanente, soddisfazione che non riesce a trovare nel continuo fluire delle cose. Il Buddha ci dice che non c’è sicurezza, non c’è rifugio nel samsára. Non è facile crescere, invecchiare, affrontare la malattia, fino a giungere alle soglie del mistero e dunque alla morte. La nostra stessa incapacità di rispondere alle domande che sorgono di fronte al mistero della vita e della morte alimenta le nostre paure e, dunque, è fonte di sofferenza.

Tali domande, però, a volte sono usate come vere e proprie pratiche spirituali per scardinare il pensiero concettuale (incapace di trovare risposte) e dunque attuare al nostro interno quell’apertura che ci permette un’esperienza diretta di una realtà trascendente e dunque svincolata da ogni legame. Prendere coscienza della Prima Nobile Verità significa, in altre parole, incontrare veramente la realtà della sofferenza, senza il consueto filtro della paura: fino a quando l’incontro con la sofferenza non suscita in noi l’aspirazione ad andare oltre la sofferenza, la nostra reazione abituale, basata sull’attaccamento e sull’avversione, produrrà altra sofferenza. La Seconda Nobile Verità, infatti, indica come cause primarie della sofferenza l’ignoranza, l’attaccamento e l’avversione[1]. L’ignoranza è una visione impura, offuscata che ci spinge a identificarci con le nostre azioni (karma). Questa identificazione si manifesta come un attrito (attaccamento-avversione) che proviamo nel confronto con l’esperienza. Una volta una signora mi parlò delle difficoltà che attraversava la figlia tredicenne nel passaggio dalla fase infantile alla pubertà. Quel cambiamento irreversibile non le avrebbe più permesso di essere bambina, per cui reagiva con un pianto frequente, con quello strazio emotivo che avviene nella vita di ognuno di noi quando dobbiamo abbandonare il vecchio, quando non possiamo più vivere in una condizione per alcuni versi ideale. L’infanzia riserva una naturale predisposizione al gioco, al divertimento, alla celebrazione della vita. C’è una spontaneità e una naturalezza in quelle che sono le reazioni emotive: il pianto, il riso riescono facili e al tempo stesso bruciano, nella loro espressione, la carica negativa che noi adulti il più della volte tratteniamo al nostro interno.

La vita da adulti, poi, ci ripresenta periodicamente quel bisogno di amore incondizionato, unità, ed è nostra responsabilità prenderci cura di quel bisogno nella maniera più corretta, affinché non si volga verso il benessere e non verso la miseria, la sofferenza, il dolore. La scelta che ci si presenta e quella tra l’apertura e la separazione, cioè l’identificazione con alcuni aspetti isolati dell’esperienza. Un esempio di ciò è il disagio che si sperimenta vivendo nella condizione corporea. Esso è l’effetto della mancanza di un rapporto corretto tra corpo e mente. È importante contemplare il conflitto tra la mente e il corpo. Quando osserviamo la mente, possiamo osservare i giudizi che abbiamo del nostro corpo e riconoscere che, nell’esprimere quegli stessi giudizi, stiamo creando negatività al nostro interno e dunque disarmonia: non facciamo buon uso dello spazio in cui noi ci troviamo.

Al fine di riportare un maggiore equilibrio al nostro interno è essenziale riscoprire la preziosità della nostra esistenza, la preziosità del nostro essere fisico. Da questa prospettiva ogni giorno si presenta come opportunità di risveglio e di comprensione profonda. Al contrario, la mancanza di fiducia, quindi l’autosvalutazione, è una dispersione di energia e ci impedisce di sviluppare le nostre potenzialità. Il risultato è una forma di malessere che distorce la nostra visione del mondo, rafforzando la nostra concezione dualistica. Nella Terza Nobile Verità il Buddha afferma, con la piena autorità di un risvegliato, che è possibile giungere alla cessazione di questa sofferenza. È possibile purificare il karma, liberarlo da qualsiasi riferimento egoico, trasformando l’azione in semplice espressione funzionale. Si dice infatti che le azioni di un illuminato sono di carattere puramente funzionale, sono un’espressione di pura energia, pregne di amorevolezza. Riguardo a ciò, in molti testi si dice che l’azione diventa ‘non azione’ ed è la risposta non concettuale ai nostri quesiti circa l’esistenza. La Quarta Nobile Verità è il sentiero che conduce alla cessazione del dolore, chiamato Nobile Ottuplice Sentiero. Esso consta, infatti, di otto fattori tra loro interdipendenti: retta comprensione (sammádißßhi), retta aspirazione (sammásankappa), retta parola (sammávácá), retta azione (sammákammanta), retti mezzi di sussistenza (sammájiva), retto sforzo (sammáváyáma), retta consapevolezza (sammásati), retta meditazione (sammásamádhi). Grazie a tali fattori è possibile coltivare e realizzare la nostra naturale aspirazione al bene più profondo, che è strettamente connesso alla saggezza (cui appartengono i primi due fattori), all’etica (che raggruppa i successivi tre fattori), alla contemplazione (che consiste degli ultimi tre fattori del sentiero). Abbiamo un’intima necessità di chiarezza, di presenza mentale, di uno stile di vita giusto, che rispetti le nostre relazioni: sono aspetti strettamente collegati tra loro.

Eppure, sebbene abbiamo bisogno di queste qualità, tendiamo a limitarci negli angusti confini di un interesse personale. Non è facile mettere in pratica gli insegnamenti del Buddha. A questo proposito, il retto sforzo è l’applicazione della nostra energia nelle tre aree menzionate, che rappresentano la direzione contraria rispetto alle nostre abitudini, anche inconsce. Uno degli aspetti del retto sforzo, infatti, è la rinuncia (pahána), una rinuncia dettata dalla consapevolezza. Non si tratta infatti di una sorta di menomazione, di una privazione, ma della rinuncia alla sofferenza, alle cause della sofferenza, si tratta della rinuncia a quell’ottica del possesso che ci spinge verso un illusorio senso di sicurezza. La rinuncia, lo sforzo, non sono la fuga dai piaceri sensoriali verso l’estremo opposto, la deprivazione, la mortificazione dei sensi.

Rispondono, invece, all’insegnamento del Buddha sulla Via di Mezzo. La Via di Mezzo è la libertà dagli estremi dell’indulgenza e della mortificazione, e conduce alla piena soddisfazione, alla piena realizzazione della coscienza. La bussola della Via di Mezzo è la consapevolezza. e la consapevolezza non è controllo, ma è una visione universale delle cause e degli effetti dell’esperienza. La consapevolezza è vera conoscenza, essere pienamente consapevoli significa, di fatto, essere illuminati. Usando l’immagine della candela in una stanza buia, ci rendiamo conto che più siamo vicini alla fonte luminosa, più siamo nella luce, più ce ne allontaniamo e più rimaniamo avvolti nell’oscurità.

Il Buddha dice che la natura della mente è luce[2], che essere nella luce significa affidarci alla conoscenza, a quella profonda capacità cognitiva che sa discernere. Significa vivere pienamente nel momento presente, partecipare alla vita nel suo valore originale, cogliere la sacralità di ogni istante, di ogni incontro. Essere consapevoli significa essere svegli. L’immagine che simboleggia il Nobile Ottuplice Sentiero è l’immagine della ruota. Gli otto fattori corrispondono ai raggi della ruota: non è possibile muovere i raggi separatamente. I raggi della ruota si muovono contemporaneamente, l’Ottuplice Sentiero si sviluppa armoniosamente, portandoci oltre la prigione di condizionamenti e di sofferenza accumulata. Ed è alla portata di tutti, sul palmo della mano. Questo è il messaggio liberatorio offerto dal Buddha.

[1] Avijjá (moha), lobha (rága) e dosa (paßigha).

[2] Aýguttara Nikáya, I.5,9-10; I.6,51-52.

MARIO THANAVARO

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