Memorie di guerra a MARETTIMO

di Gianni Pizzati,  2003

 

      Durante la Seconda Guerra mondiale anche Marettimo, che sembrava un’isola tagliata fuori dal contesto bellico, ebbe a subire paure e preoccupazioni. Pagò anche il proprio contributo di sangue: dei  suoi figli  chiamati sotto le armi, diversi non tornarono più. Ne fa testimonianza la lapide affissa sulla facciata della chiesa.

Anche mio padre, che allora faceva servizio nell’Isola, essendo nella Guardia di Finanza di Mare, dopo un anno dal suo arrivo a Marettimo, nel 1941, fu mobilitato ed imbarcato per dodici mesi su un dragamine della Regia Marina in servizio di pattugliamento sulle coste libiche. Mia madre ed io, di appena un anno d’età, fummo lasciati presso i miei nonni materni a Catania, perché a Marettimo non potevamo stare soli. Ma sarebbe stato meglio, dal punto di vista della  sicurezza, rimanere sull’isola, anziché andare sulla terraferma martoriata dai bombardamenti.

Un anno passò presto e mio padre, appena sbarcato, ci andò a riprendere portandoci con sé di nuovo sull’isola. Per tutta la sua esistenza, fui sempre convinto che la Divina Provvidenza lo avesse deliberatamente risparmiato perché, dopo pochi mesi dal suo sbarco, il dragamine fu affondato dal nemico e nemmeno un membro dell’equipaggio si salvò. Rafforzò la sua convinzione del disegno divino sulla vita d’ogni uomo allorché nel 1964, a 57 anni,  in un letto d’ospedale sentì che ormai era finita per lui a causa di una complicazione dopo un’operazione alla prostata. Iddio lo aveva salvato da un siluro inglese, ma non da una banalità del genere.

A parte l’assenza dei suoi giovani mobilitati e la scarsezza ed il razionamento dei viveri principali, Marettimo non sembrò granché disturbata dagli eventi bellici. Invece la vicina Trapani (e se non erro anche Favignana) era costantemente dilaniata dalle bombe nemiche, in quanto porto strategico sul Canale di Sicilia. I bagliori nella notte, che si vedevano all’orizzonte ad est, erano i quintali di bombe che esplodevano sulla testa degli sfortunati trapanesi.

La notte  cercavamo di dormire a casa poiché, anche se ufficialmente il coprifuoco era imposto dalle autorità militari, di fatto  fu dovuto soprattutto alla circostanza che il gestore della minuscola centrale elettrica locale, un po’ per mancanza di mezzi, un po’ per motivi personali, chiuse l’attività ed il paese rimase con i lumi a petrolio per oltre un decennio. Le rare notti in cui si prevedevano massicci attacchi sulla terraferma, le autorità locali raccomandavano lo sfollamento verso la montagna, per passare prudentemente la notte in qualche grotta o in qualche casa di campagna, nel rispetto dell’assoluto coprifuoco.

Una di quelle nottate, passate tra l’ansia e la veglia, l’ ho ancora indelebile davanti agli occhi. Dovevamo essere ormai agli sgoccioli del conflitto, verso il 1943, e mi rivedo bambino di tre anni al buio, in braccio a mia madre, che piangevo e smaniavo, senza capire perché c’era ammassata in quella piccola casa colonica tanta gente attorno alla fievole luce di un lumino; gente   atterrita che  non osava prender sonno. Sopra il cielo della lontana Trapani si vedevano degli incessanti lampi rossastri, e  riuscivamo persino a sentire i fragori. Era segno che quella notte si ingaggiava una battaglia aerea  estremamente cruenta.  Ad un certo momento mio padre e gli altri uomini sussultarono e fecero segno che vicino alla nostra costa  qualcosa in fiamme si stava avvicinando, cadendo poi in mare. Il sito del nostro rifugio era la casa del podere di zio Pietro Maiorana, soprannominato con riverenza dai suoi compaesani “u’ papà ranni” per la sua veneranda età. In paese abitava in piazza, nella casa  dove adesso ha sede la banca. La casa colonica è oggi un rudere sopra l’altura, all’altezza della edicola di san Giuseppe a Scalo Vecchio, e l’anno scorso, in occasione della mia visita, l’ ho guardata commosso, ripensando a quella fatidica notte.

L’indomani, alla luce dell’alba, guardando giù nella scogliera, fui attratto da una sagoma metallica  luccicante tirata in secco sulla spiaggetta. Gli adulti vociferavano che si trattava di un nostro aeroplano abbattuto durante il combattimento aereo della notte precedente e che dei pescatori l’avevano rimorchiato a riva.  Nulla da fare per il giovane tenente pilota: il poveretto, morto eroicamente, fu  tumulato nel cimitero di Marettimo. La carcassa dell’aereo durò poco sulla spiaggia, poiché a quei tempi mancava tutto, sicché la gente dopo i primi giorni di smarrimento smontò ogni pezzo,  ricavandone cose utili per uso personale e domestico.

La guerra finì, perché vennero uomini in divisa color kaki che parlavano una strana lingua e che ci portarono tante sconosciute e squisite cibarie per sopperire alla fame che avevamo già sopportato da troppo tempo. Tra questi simpaticoni ricordo un rubicondo sergente americano che con un cordiale “Hello Johnny!” ed uno smagliante sorriso, mi elargiva ogni mattina una manciata di caramelle  dai più svariati colori.

I pericoli della guerra erano finiti, ma non per la gente che andava per mare, poiché le acque erano ancora disseminate di ordigni bellici che mettevano a repentaglio la vita dei pescatori nel calare le reti. Quel che si temeva successe infatti intorno al 1944/45 a dei pescatori marettimari, che avvistarono una grossa mina vagante lungo la costa antistante Scalo Nuovo.

La Guardia di Finanza, allertata, mandò un cablogramma al Comando Marina di Trapani che sollecitamente, in poche ore, inviò un dragamine. Per precauzione, il comandante della casermetta ordinò alla cittadinanza di allontanarsi dall’abitato verso la montagna. Molte donne, terrorizzate, crederono che fossimo ritornati in guerra, perché non capirono la necessità di un altro sfollamento come ai vecchi tempi; ma poi si tranquillizzarono, perché si persuasero che era un episodio  dovuto alla presenza in mare della mina. Ricordo che mio padre  ci mandò assieme ad altre persone in una vecchia grotta a noi ormai familiare, sita sull’altura che dominava la strada del giardino di zio Vanni La Torre, oggi via Paolo Scaduto. Da quella posizione vedevamo chiaramente con l’aiuto dei binocoli le operazioni di recupero che stava compiendo il dragamine, che ad un certo punto agganciò con cautela la mina e la rimorchiò molto al  largo, in direzione di Trapani, all’altezza della ex-lanterna di Scalo Nuovo. Nel tardo pomeriggio, ad un certo momento, si sentì una fortissima esplosione con una colonna d’acqua di decine di metri che si levò dal mare e  che sconquassò tutta l’isola. Ma,  all’infuori di qualche vetro rotto, non successe fortunatamente nulla. La gente giubilò con grida di gioia,  e lo spavento fu ricompensato per un paio di giorni dal consumo gratuito di qualche quintale di pesce, di ogni sorta e dimensione, che venne a galla morto con la lisca spezzata, ma pur sempre ottimo per le mense degli isolani..

Verso il 1947, in una casa posta in un angolo di via Mazzini (oggi sede di un ristorante), mentre frequentavo la 2^ elementare, il nostro maestro, un giovane trapanese di cognome Lupino,  ex-ufficiale dell’esercito, ci riferì un giorno con una punta di commozione che sull’isola erano arrivate da Livorno la mamma e la sorella del giovane tenente pilota caduto qualche anno prima durante la guerra, venute  a portare con loro  i poveri  resti.

I miei compagni di classe non capirono, ma io ricollegai subito il fatto all’aereo abbattuto che avevo visto quella lontana mattina e ne rimasi, più che sconvolto, incuriosito. Nel pomeriggio capitò infatti che uno dei miei inseparabili compagni di gioco mi disse: “Sai, Gianni, al cimitero stanno per disseppellire il morto. Ci andiamo a vederlo?”.

Senza dir nulla a mia madre, in men che non si dica fummo al cimitero. Lì trovammo le due donne con uno dei fratelli Carlino, i muratori che allora facevano anche i necrofori al cimitero. Il giovane aiutante Gianni Ornato  aveva già cominciato a picconare la prima tomba a sinistra adiacente al primo cancello. I muratori ci invitarono ad andarcene, poiché non era spettacolo adatto alla nostra tenera età. Ma noi disobbedimmo e rimanemmo lo stesso. A ogni colpo di piccone cresceva l’emozione delle poverette e qualche lacrima cadeva sulla foto raffigurante il bel  tenente in divisa che tenevano religiosamente in mano. Gianni Ornato a un certo punto arrivò al legno ormai fradicio della bara, che con due  colpi  decisi si aprì del tutto. Comparvero le pietose spoglie del militare. Io e il mio compagno sentimmo un brivido addosso alla vista del teschio che riportava ancora nelle orbite dei grumi di sangue di color brunastro e una nauseabonda sensazione ci venne alla vista dei vermi che circolavano dentro il torace. Stavolta le due donne proruppero in un pianto singhiozzante, mosso da compassione ed orrore. Poi si rasserenarono, in quanto sfatarono ogni dubbio circa l’identità della salma, riconoscendo il dente d’oro che spiccava in una mascella. I miseri resti vennero sistemati in una cassetta di legno, per affrontare il viaggio verso Livorno. Io ed il mio compagno ce ne tornammo mogi mogi a casa, in silenzio, pentiti di aver messo in atto quella insolita bravata.

Quella sera a casa, e nei giorni successivi, i miei genitori si accorsero che non ero in grado di prender cibo, ma ignoravano la causa del voltastomaco causatomi dal costante ricordo della scena  cui avevo assistito.

Mio padre intuì quindi qualcosa, e mi disse con un mezzo sorriso: “Non è per caso che hai fatto la stupidata di andare al cimitero ad assistere alla riesumazione dell’aviatore?”

Temendo la sua abituale severità,  negai fermamente per evitare  una punizione. Ma in effetti, la punizione me l’ero procurata da solo, poiché quella macabra vista mi restò impressa in mente per alcuni anni. Sino ad allora, i pochi morti che avevo visto durante le veglie funebri nelle case, credevo che rimanessero con lo stesso aspetto incontaminato anche sotto terra. Ora la mia innocenza di fanciullo era stata  dolorosamente turbata, perché avevo capito a mie spese, a quell’età, che la morte è  un evento turpe che devasta tutto e tutti inesorabilmente. 

                                                                                                                                                     (fine)

 

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