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RADICI EMERGENTI |
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Anche se semplice, legata pure ai ritmi delle feste religiose, la nostra vita, magra quanto si voglia, era pur sempre tranquilla, per non dire felice; se qualcuno, fuori di qui, sentendo quel nostro idioma cantilenante, misto di livornese e di napoletano, ci chiedeva di dove fossimo, rispondevamo, con istintivo orgoglio: di Porto Santo Stefano o di Porto Ercole. Perché, quando la Maremma era sinonimo di malaria e sui treni si chiudevano i finestrini da Tarquinia a Cecina, i Santostefanesi si offendevano ad essere confusi coi Maremmani. Appartenevano allo “scoglio” e basta. Erano tranquilli di trovarsi nel “ventre di vacca” che li teneva distaccati dalle vicende del continente – loro che parlavano, per esperienza diretta, di Francia, di Barberia, di Grecia e delle Americhe - e nemmeno si sognavano di invidiare Orbetello quando vi furono gli aviatori Atlantici. Tanto, tutte le sere o quasi , li vedevano cenare sulla terrazza di Sabina. Orbene, era così radicata questa convinzione di essere gente diversa che, durante l’arringa del Pubblico Ministero contro i responsabili dell’eccidio di Istia – tra i quali, purtroppo venne a trovarsi un Santostefanese – questi, interpellato come “Maremmano”, si alzò (ne doveva pur avere di preoccupazione!) e corresse con semplicità e orgoglio: “Santostefanese, non Maremmano” (Stralcio di un articolo di Ettore Zolesi pubblicato su ARGENTARIO Magazine n.1 del 1992 )
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