Conversazioni su

ANTONIO CANOVA - Quello che conosciamo e quello che vorremmo conoscere

 la ricercatrice Simona Dall’Ara: “Qualcosa è cambiato” - Famiglie forlivesi in età neoclassica: la ricercatrice ha introdotto lo stretto rapporto tra la nostra città e Canova sottolineato anche in occasione della morte dello scultore veneto quando Leopoldo Cicognara si rivolse alle famiglie forlivesi per raccogliere fondi per il monumento allo scultore nella Chiesa dei Frari a Venezia. Ha quindi proposto l’ambiente forlivese nel periodo napoleonico, la soppressione degli Ordini religiosi e la vendita ai privati dei beni confiscati per far cassa per mantenere il costoso esercito. Fu in quel periodo che molte delle famiglie forlivesi si arricchirono acquistando questi beni, fu il caso delle famiglie Manzoni, Guarini, Gaddi e tante altre. In tale maniera Domenico Manzoni acquistò l’Abbazia di S. Maria di Urano a Bertinoro, sino allora sotto la giurisdizione del Sant’Eremo di Camaldoli. Le importanti famiglie forlivesi non s’indirizzarono al solo acquisto di opere d’arte, ma s’impegnarono in grandi progetti di ristrutturazione e valorizzazione dei loro palazzi coinvolgendo artisti come l’architetto Giuseppe Missirini e il pittore Felice Giani. Simona Dall’Ara ha ricordato come il neoclassicismo fu influenzato anche dalle importanti scoperte nel 1738 di Pompei ed Ercolano, intere città venivano per la prima volta alla luce. Tra i primi a muoversi fu nel 1805 Domenico Manzoni acquistando Palazzo Morattini su Borgo Schiavonia, chiamando Missirini e Giani per la sua ristrutturazione. Nel 1814 Giani è pure attivo a palazzo Guarini con Missirini che poi si sposta a Palazzo Gaddi, nel 1808 sarà a decorare le Sale comunali, quindi Borgo Schiavonia, Forlì è un cantiere aperto, un laboratorio artistico in cui i committenti dettano agli artisti i temi da illustrare nelle loro opere, ciò mostra il livello culturale delle famiglie forlivesi. Giani nel 1803 fu chiamato a Parigi per decorare i Gabinetti Napoleonici alla Malmaison, si può pure supporre, ma non è certa, una sua presenza al distrutto palazzo delle Tuileries. Veronica Guarini per illustrare le stanze della sua dimora scelse temi mitologici, l’Olimpo, le avventure di Telemaco, individuando probabilmente nella devozione filiale del figlio di Ulisse quella del figlio Pietro. Per Palazzo Gaddi sono scelte le figure di Teseo, Augusto, Ercole non come emblema della forza, ma come figura immortale, uomo fatto dio attraverso il latte di Giunone, auspicio di lunga vita a Ercole Gaddi, figlio di Antonio. Simona Dall’Ara ha quindi sviluppato il rapporto tra Canova, la famiglia Manzoni, Geltrude Versari, per la quale realizzò la stele funeraria per il marito alla morte di questi. Ha parlato quindi della commissione dell’Ebe e il rientro a Forlì di questa. Concludendo il suo intervento ha ricordato come si suppone pure che il gesso canoviano della Maddalena penitente sia stata per qualche tempo conservato presso Antonio Gaddi nel palazzo di Borgo Schiavonia.

 la storica dell’Arte Serena Togni: “…non posso lavorare se non per amore” – le donne nella vita e nell’arte di Antonio Canova”: Serena Togni ha sviluppato l’importante ruolo delle donne nell'opera di Canova. Attraverso le parole con cui Ugo Foscolo ricordava le emozioni provate davanti alla Venere dei Medici e alla Venere Italica realizzata da Canova dopo che la prima era stata carpita da Napoleone, ha illustrato come Canova non intendesse “copiare” il Classicismo ma attraverso la conoscenza di questo proporre una nuova Idea di Bellezza.  La Togni ha proseguito ricordando che la naturalezza, anche cromatica, delle sue “carni” ha origine nella sua formazione veneta, dal naturalismo pittorico veneto, anche attraverso una lettura più moderna della scultura che ancora risentiva dell’influenza barocca. Di tutto questo, nella sua opera, Canova fece una magica miscellanea. Nella bellezza neoclassica Canova voleva ricordare come per i Greci Bello volesse dire anche Buono, un equilibrio quindi quello di Canova nella scultura tra Bellezza Ideale e Bellezza Naturale. Ha quindi parlato dell’Ebe commissionata da Veronica Naldi Zauli Guarini, confrontando l’opera di Canova con la coeva di Thorvaldsen e Tenerani, altrettanto di valore e interessante ma certamente più legata al modello classico e altrettanto idealizzata.  Se all’origine del neoclassicismo vi è il pensiero di Winchelman, Canova è oltre, è un passo in avanti, tra neoclassicismo e romanticismo. Con Amore e Psiche Canova riporta il mito a un livello terreno, fa sognare il paradiso sulla terra, anche se nelle composizioni vi sono evidenti riprese dal barocco nella torsione delle figure e delle teste. Con Canova anche l’arte funeraria non spaventa, non allontana, anzi avvicina, la Bellezza diventa consolazione. Nelle Tre Grazie vi è la rappresentazione di sentimenti, affetti, tenerezza, il Mito è riportato a un aspetto naturale, terreno. Canova eleva le figure femminili, prototipo della Bellezza, all’Olimpo, avvicinandole al Mito. La Togni ha quindi parlato del ritratto di Paolina Bonaparte come Venere vincitrice, ricordando l’uso, anche da parte di Canova, dei calchi delle mani, dei piedi come, in questo caso, dei seni; pratica tanto antica quanto discutibile, e che sottolinea come lo sguardo di Canova fosse rivolto al naturale. È stata quindi la volta della Maddalena penitente dalla quale traspare non la marcata sensualità del Seicento, ma una più pacata, naturale; in scultura Canova trasferisce i temi trattati in pittura. La conversazione su Canova si è quindi conclusa ricordando, dopo quelle in marmo, le donne che hanno avuto un qualche ruolo nella vita dello scultore: sono state quindi ricordate la madre Angela Zardo che abbandonò il figliolo per passare a seconde nozze; la prima modella che Canova utilizzò per realizzare Euridice, la cugina Bettina Biasi, che fu autorizzata a posare nuda solo davanti ad un coro di “controllori” che ne tutelassero la purezza quando l’artista aveva appena sedici anni; Domenica Volpato, figlia dell’incisore Giovanni, la fidanzata infedele; madame Juliette Recamier, considerata la donna più bella di Francia, conosciuta da Canova a Roma, ma che non apprezzò il busto che di lei fece lo scultore e infine Therese Cuty Tambroni, che pare abbia ispirato a Canova il gruppo delle Tre Grazie.

 lo studioso Alvaro Lucchi: “la Danzatrice dimenticata”: Lucchi ha ripercorso le avventure che coinvolsero le due opere commissionate a Canova da famiglie forlivesi, l’Ebe e la Danzatrice con il dito al mento. Di quest’ultima ha ricordato come fu commissionata e come giunse a Forlì per rimanervi solo pochi anni prima di essere venduta per 5.000 scudi al conte russo Nicolay Dmtrievich Guriev (1792-1849). Lucchi ha quindi ripercorso le vicissitudini della nostra Danzatrice con il dito sul mento, il periodo romano (1833) nella residenza romana del conte Guriev e le ultime notizie sul marmo nell’ottobre 1857, quando la vedova del conte Guriev, Marina Naryskina, l’offrì in vendita all’Ermitage, e la sua scomparsa nel nulla. Dopo aver illustrato dove affondano le origini del tema delle Danzatrici sviluppato da Canova e il suo processo evolutivo dall’idea, ai disegni e quindi ai modelli, Lucchi ha illustrato il successo di tale tema anche tra gli artisti coevi di Canova e la diffusione delle numerose copie in tutti i continenti. La conversazione è proseguita quindi con il racconto della scoperta effettuata dal ricercatore Enzo Borsellino, durante un viaggio in Russia nel 1997; lo studioso, entrando nella stazione telefonica internazionale che si trova vicino al Museo dell’Ermitage, a San Pietroburgo, ebbe la fortuna di trovarsi a “tu per tu” con una versione inedita della “Danzatrice” che decorava l’androne. Il palazzo si trova proprio di fronte all'Ermitage, o meglio alle spalle, dal lato dove si apre Piazza Dvortsovaya. La Danzatrice si trova proprio nell'androne. La statua risultava abbastanza segnata dal tempo e dall’incuria, portava i segni di una probabile caduta, una crepa orizzontale al di sopra delle ginocchia, altre crepe sul collo e sul mento, tutte malamente stuccate, il mignolo della mano destra spezzato, mancava pure un fiocco della veste nella parte posteriore destra. Sotto un evidente manto di polvere, l’opera però aveva conservato la patina antica e mostrava una notevole accuratezza nella lavorazione. Esaminando l’opera si può osservare come la parte terminale delle pieghe della veste che ricadono sul velo sottostante all’altezza della vita è scavata all'interno in profondità così da dare maggior effetto di movimento e di chiaroscuro, allo stesso modo i boccoli e le narici sono scavati fino al limite della rottura. Tale virtuosismo tecnico, impiegato spesso da Canova in altre opere è il frutto di una mano molto esperta. La compattezza e la lucentezza del marmo, nonostante che la scultura non sembri essere stata mai pulita, emergono prepotentemente. Logico quindi ipotizzare in un primo momento di trovarsi di fronte all'originale canoviano misteriosamente scomparso a San Pietroburgo. L’edificio era di un certo prestigio, in origine ospitava l'importante Banca di Azov e del Don. Fu costruito per ospitare la sede di tale istituto a partire dal 1907 dall'architetto di origine svedese Jhoan Friedrich Lidval. Solo dopo la rivoluzione del 1917 la banca fu adibita a Stazione centrale telefonica e ufficio postale. Che una banca di nuova istituzione volesse darsi un'immagine dignitosa ponendo all'ingresso una scultura canoviana è ipotesi più che credibile. In effetti la posizione della statua di fronte allo scalone che porta al grande salone principale è preminente. Enzo Borsellino successivamente propose giustamente al mondo scientifico la sua scoperta. In un primo tempo lo storico britannico Hugh Honour (1927), Alvar Gonzàlez-Palacios (1936), storico dell'arte ed esule cubano, e altri stimatissimi studiosi del Canova, pur con le riserve dovute ad un esame solo fotografico, ritennero plausibile tale ipotesi; furono molto vicini e solidali a Borsellino. Successivamente ad un viaggio in Russia, dopo aver preso visione della statua e avere incontrato Sergej O. Androsov, responsabile della scultura dell’Ermitage, lo studioso inglese ebbe un ripensamento indotto da alcune considerazioni di carattere stilistico, e rimanendo convinto da Androsov che il marmo della Danzatrice di Pietroburgo proveniva da una cava russa (senza fare alcuna prova petrografica, che lo stesso Borsellino aveva sollecitato). Da allora tutto sembra bloccato e irrisolto. Non si sa se tale necessaria prova sia stata fatta, e soprattutto non se ne conosce l'eventuale esito. Sulla “Danzatrice” della stazione telefonica non si sa praticamente nulla e mai è stata citata, nemmeno come copia, pur essendo sotto agli occhi di tutti a poche centinaia di metri dall' Ermitage. Sono state poi indicate alcune altre versioni di non certa attribuzione, esistenti in Russia, di cui si è venuti a conoscenza successivamente alla scoperta di Enzo Borsellino. Non si può accantonare il rinvenimento di San Pietroburgo senza fare attenti confronti con il modello di Possagno, ecco perché era bene che alla mostra fosse stato pure in visione l’esemplare in discussione; questo poteva essere confrontato con il calco dell’originale che si trova, anche se frammentato, nei depositi della Gipsoteca canoviana, con l’incisione del Marchetti, e infine, ma non ultimo e assolutamente determinante, è necessario fare l’esame petrografico per determinare se il marmo con il quale è stata realizzata la “Danzatrice” di San Pietroburgo proviene o no dalle cave di Carrara. Il prof. Enzo Borsellino e chi come me, condivide le sue opinioni, non vogliono affermare con arrogante presunzione che ci troviamo di fronte al “Danzatrice con il dito al mento Manzoni-Guriev” ma auspicherebbero almeno indagare a fondo, prima di scartare tale ipotesi. Un’occasione perduta quindi quella di portare questo marmo a Forlì e farlo vedere ai forlivesi, un’occasione che avrebbe dato una grande occasione agli esperti di studiarlo, confrontandolo, comparandolo al modello di Possagno e agli altri marmi canoviani giunti a Forlì per questa importante occasione.

Il Presidente della Fondazione Cassa dei Risparmi avv. Piergiuseppe Dolcini: Il Presidente della Fondazione Cassa dei Risparmi ha fatto un’interessante sintesi delle prime attività e mostre promosse dalla Fondazione. La prima mostra, quella su Palmezzano, quasi una combinazione nata per caso per rendere omaggio a un pittore forlivese; ma specifica volontà fu però quella di farla nel San Domenico restaurato, per sollecitare il  compimento dei lavori di restauro dell’importante complesso. Quell’edificio era il migliore più bel contenitore per tale occasione. In quell'occasione è nato il caso Forlì, oggi si parla del progetto forlivese nel contesto di un panorama culturale italiano e non solo. Palmezzano, Lega, Cagnacci e Canova hanno una grossa importanza nello scenario culturale attuale, dove progetti franano nella globalizzazione o nella disperata frammentazione locale. Come è stato fatto per Palmezzano, comparandolo con il Rinascimento, per Lega si è confrontato la macchia con il Quattrocento toscano. Con Cagnacci è stato messo a confronto il suo con il nudo di Caravaggio, e l’Arte del Settecento. Lo stesso per Canova, mettendo a confronto l’Ebe con il neoclassicismo, il romanticismo di Hayez. Il presidente ha sottolineato ciò che differenzia le iniziative forlivesi da quelle più commerciali, locali di altre strutture del Nord, Brescia, l’attività di Marco Goldin. Tutto questo è ciò che ha mosso la Fondazione a promuovere mostre a Forlì, un impegno socio-culturale per un progetto che prenda dimensioni sovra-nazionali. Tutto ciò è premiato già dai primi successi della mostra su Canova, 1000 persone di mercoledì, ci si auspica di portare alla mostra 100-110 mila persone a fronte dei complessivi 150 mila visitatori delle altre tre mostre. Queste iniziative mettono in evidenza la traiettoria, la traccia sulla quale si sta muovendo la nostra città sul piano culturale, economico e sociale; fanno comprendere come qui la “ sensibilità culturale sia di casa”. La mostra non ha fatto solo questo, ma può fare altro. Una città che fa di San Domenico un punto di forza nel quale s’identifica, si deve domandare se l'attuale situazione della piazza antistante al complesso museale sia adeguata o no. Quindi una riflessione urbanistica non solo della piazza ma anche del quartiere, dei servizi pubblici. Chi ha responsabilità imprenditoriale occorre che si renda conto che durante l’apertura delle mostre anche i servizi devono essere aperti, fruibili. Fondamentale è trarre da tutto ciò gli strumenti perché le mostre siano veicolo di promozione del tessuto paesaggistico e storico del territorio alle spalle della città. Il futuro non è semplice, tutti avvertono la crisi. Ci possiamo ancora permettere di far mostre e se sì, quali e come farle? Occorre maggiore discrezione nel destinare le più ridotte risorse, puntare su iniziative di alto valore contenutistico culturale, non si deve chiudere quest’attività, le mostre devono continuare. Molto è stato investito in queste prime quattro mostre ma non è da trascurare il significativo indotto, quindi occorrerà impegnarsi in obiettivi più modesti come richiamo ma efficaci a dimostrare la continuità del nostro impegno. Abbiamo un nuovo argomento da trattare, una nuova conversazione sul Novecento forlivese, che storicamente, politicamente dobbiamo affrontare; il Razionalismo va riletto con maggiore obiettività e va valorizzato per quello che merita, senza orpelli ideologici. Obiettivo impegnativo proseguire su questa strana, impegno finanziario grave e complesso; in questi momenti di difficoltà è indispensabile la collaborazione, concertazione tra pubblico e privato per proseguire il disegno iniziato con il recupero del complesso di San Domenico.                              

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