Conversazioni
su ANTONIO CANOVA
- Quello che conosciamo e quello che vorremmo conoscere lo
studioso Alvaro Lucchi: “la
Danzatrice dimenticata”:
Lucchi ha ripercorso le avventure che coinvolsero le due opere
commissionate a Canova da famiglie forlivesi, l’Ebe
e la Danzatrice con il dito al
mento. Di quest’ultima ha ricordato come fu commissionata e come
giunse a Forlì per rimanervi solo pochi anni prima di essere venduta
per 5.000 scudi al conte russo Nicolay Dmtrievich Guriev (1792-1849).
Lucchi ha quindi ripercorso le vicissitudini della nostra Danzatrice
con il dito sul mento, il periodo romano (1833) nella residenza
romana del conte Guriev e le ultime notizie sul marmo nell’ottobre
1857, quando la vedova del conte Guriev, Marina Naryskina, l’offrì in
vendita all’Ermitage, e la sua scomparsa nel nulla. Dopo aver
illustrato dove affondano le origini del tema delle Danzatrici
sviluppato da Canova e il suo processo evolutivo dall’idea, ai
disegni e quindi ai modelli, Lucchi ha illustrato il successo di tale
tema anche tra gli artisti coevi di Canova e la diffusione delle
numerose copie in tutti i continenti. La conversazione è proseguita quindi con il racconto della
scoperta effettuata dal ricercatore Enzo Borsellino, durante un viaggio
in Russia nel 1997; lo studioso, entrando nella stazione telefonica
internazionale che si trova vicino al Museo dell’Ermitage, a San
Pietroburgo, ebbe la fortuna di trovarsi a “tu per tu” con una
versione inedita della “Danzatrice” che decorava l’androne. Il
palazzo si trova proprio di fronte all'Ermitage, o meglio alle spalle,
dal lato dove si apre Piazza Dvortsovaya. La Danzatrice si trova proprio
nell'androne. La statua risultava abbastanza segnata dal tempo e
dall’incuria, portava i segni di una probabile caduta, una crepa
orizzontale al di sopra delle ginocchia, altre crepe sul collo e sul
mento, tutte malamente stuccate, il mignolo della mano destra spezzato,
mancava pure un fiocco della veste nella parte posteriore destra. Sotto
un evidente manto di polvere, l’opera però aveva conservato la patina
antica e mostrava una notevole accuratezza nella lavorazione. Esaminando
l’opera si può osservare come la parte terminale delle pieghe della
veste che ricadono sul velo sottostante all’altezza della vita è
scavata all'interno in profondità così da dare maggior effetto di
movimento e di chiaroscuro, allo stesso modo i boccoli e le narici sono
scavati fino al limite della rottura. Tale virtuosismo tecnico,
impiegato spesso da Canova in altre opere è il frutto di una mano molto
esperta. La compattezza e la lucentezza del marmo, nonostante che la
scultura non sembri essere stata mai pulita, emergono prepotentemente.
Logico quindi ipotizzare in un primo momento di trovarsi di fronte
all'originale canoviano misteriosamente scomparso a San Pietroburgo.
L’edificio era di un certo prestigio, in origine ospitava l'importante
Banca di Azov e del Don. Fu costruito per ospitare la sede di tale
istituto a partire dal 1907 dall'architetto di origine svedese Jhoan
Friedrich Lidval. Solo dopo la rivoluzione del 1917 la banca fu adibita
a Stazione centrale telefonica e ufficio postale. Che una banca di nuova
istituzione volesse darsi un'immagine dignitosa ponendo all'ingresso una
scultura canoviana è ipotesi più che credibile. In effetti la
posizione della statua di fronte allo scalone che porta al grande salone
principale è preminente. Enzo Borsellino successivamente propose
giustamente al mondo scientifico la sua scoperta. In un primo tempo lo
storico britannico Hugh Honour
(1927), Alvar Gonzàlez-Palacios (1936), storico dell'arte ed esule
cubano, e altri stimatissimi studiosi del Canova, pur con le riserve
dovute ad un esame solo fotografico, ritennero plausibile tale ipotesi;
furono molto vicini e solidali a Borsellino. Successivamente ad un
viaggio in Russia, dopo aver preso visione della statua e avere
incontrato Sergej O. Androsov, responsabile della scultura dell’Ermitage,
lo studioso inglese ebbe un ripensamento indotto da alcune
considerazioni di carattere stilistico, e rimanendo convinto da Androsov
che il marmo della Danzatrice di Pietroburgo proveniva da una cava russa
(senza fare alcuna prova petrografica, che lo stesso Borsellino aveva
sollecitato). Da allora tutto sembra bloccato e irrisolto. Non si sa se
tale necessaria prova sia stata fatta, e soprattutto non se ne conosce
l'eventuale esito. Sulla “Danzatrice” della stazione telefonica non
si sa praticamente nulla e mai è stata citata, nemmeno come copia, pur
essendo sotto agli occhi di tutti a poche centinaia di metri dall'
Ermitage. Sono state poi indicate alcune altre versioni di non certa
attribuzione, esistenti in Russia, di cui si è venuti a conoscenza
successivamente alla scoperta di Enzo Borsellino. Non si può
accantonare il rinvenimento di San Pietroburgo senza fare attenti
confronti con il modello di Possagno, ecco perché era bene che alla
mostra fosse stato pure in visione l’esemplare in discussione; questo
poteva essere confrontato con il calco dell’originale che si trova,
anche se frammentato, nei depositi della Gipsoteca canoviana, con
l’incisione del Marchetti, e infine, ma non ultimo e assolutamente
determinante, è necessario fare l’esame petrografico per determinare
se il marmo con il quale è stata realizzata la “Danzatrice” di San
Pietroburgo proviene o no dalle cave di Carrara. Il prof. Enzo
Borsellino e chi come me, condivide le sue opinioni, non vogliono
affermare con arrogante presunzione che ci troviamo di fronte al
“Danzatrice con il dito al mento Manzoni-Guriev” ma auspicherebbero
almeno indagare a fondo, prima di scartare tale ipotesi. Un’occasione
perduta quindi quella di portare questo marmo a Forlì e farlo vedere ai
forlivesi, un’occasione che avrebbe dato una grande occasione agli
esperti di studiarlo, confrontandolo, comparandolo al modello di
Possagno e agli altri marmi canoviani giunti a Forlì per questa
importante occasione. Il Presidente della Fondazione Cassa dei Risparmi avv. Piergiuseppe Dolcini: Il Presidente della Fondazione Cassa dei Risparmi ha fatto un’interessante sintesi delle prime attività e mostre promosse dalla Fondazione. La prima mostra, quella su Palmezzano, quasi una combinazione nata per caso per rendere omaggio a un pittore forlivese; ma specifica volontà fu però quella di farla nel San Domenico restaurato, per sollecitare il compimento dei lavori di restauro dell’importante complesso. Quell’edificio era il migliore più bel contenitore per tale occasione. In quell'occasione è nato il caso Forlì, oggi si parla del progetto forlivese nel contesto di un panorama culturale italiano e non solo. Palmezzano, Lega, Cagnacci e Canova hanno una grossa importanza nello scenario culturale attuale, dove progetti franano nella globalizzazione o nella disperata frammentazione locale. Come è stato fatto per Palmezzano, comparandolo con il Rinascimento, per Lega si è confrontato la macchia con il Quattrocento toscano. Con Cagnacci è stato messo a confronto il suo con il nudo di Caravaggio, e l’Arte del Settecento. Lo stesso per Canova, mettendo a confronto l’Ebe con il neoclassicismo, il romanticismo di Hayez. Il presidente ha sottolineato ciò che differenzia le iniziative forlivesi da quelle più commerciali, locali di altre strutture del Nord, Brescia, l’attività di Marco Goldin. Tutto questo è ciò che ha mosso la Fondazione a promuovere mostre a Forlì, un impegno socio-culturale per un progetto che prenda dimensioni sovra-nazionali. Tutto ciò è premiato già dai primi successi della mostra su Canova, 1000 persone di mercoledì, ci si auspica di portare alla mostra 100-110 mila persone a fronte dei complessivi 150 mila visitatori delle altre tre mostre. Queste iniziative mettono in evidenza la traiettoria, la traccia sulla quale si sta muovendo la nostra città sul piano culturale, economico e sociale; fanno comprendere come qui la “ sensibilità culturale sia di casa”. La mostra non ha fatto solo questo, ma può fare altro. Una città che fa di San Domenico un punto di forza nel quale s’identifica, si deve domandare se l'attuale situazione della piazza antistante al complesso museale sia adeguata o no. Quindi una riflessione urbanistica non solo della piazza ma anche del quartiere, dei servizi pubblici. Chi ha responsabilità imprenditoriale occorre che si renda conto che durante l’apertura delle mostre anche i servizi devono essere aperti, fruibili. Fondamentale è trarre da tutto ciò gli strumenti perché le mostre siano veicolo di promozione del tessuto paesaggistico e storico del territorio alle spalle della città. Il futuro non è semplice, tutti avvertono la crisi. Ci possiamo ancora permettere di far mostre e se sì, quali e come farle? Occorre maggiore discrezione nel destinare le più ridotte risorse, puntare su iniziative di alto valore contenutistico culturale, non si deve chiudere quest’attività, le mostre devono continuare. Molto è stato investito in queste prime quattro mostre ma non è da trascurare il significativo indotto, quindi occorrerà impegnarsi in obiettivi più modesti come richiamo ma efficaci a dimostrare la continuità del nostro impegno. Abbiamo un nuovo argomento da trattare, una nuova conversazione sul Novecento forlivese, che storicamente, politicamente dobbiamo affrontare; il Razionalismo va riletto con maggiore obiettività e va valorizzato per quello che merita, senza orpelli ideologici. Obiettivo impegnativo proseguire su questa strana, impegno finanziario grave e complesso; in questi momenti di difficoltà è indispensabile la collaborazione, concertazione tra pubblico e privato per proseguire il disegno iniziato con il recupero del complesso di San Domenico. |