l'architetto ULISSE TRAMONTI presenta la Mostra "NOVECENTO - Arte e VIta tra le due guerre |
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La
mostra "Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre"
allestita ai Musei di San Domenico a Forlì offre perciò la possibilità
di effettuare interessanti approfondimenti per la vastità degli
argomenti di cui tratta. Così il professor Ulisse Tramonti, professore
all'Università di Firenze e nativo di Forlì, ha esordito sottolineando
la complessità e la vastità della mostra che comprende circa 900 pezzi
tra quadri, sculture, arredamenti, vestiti, scarpe, gioielli e mobili.
L’ha definita la più grande mostra in Italia sul Novecento dopo
quella del 1957, quando il critico, storico, teorico dell’Arte Carlo
Ludovico Ragghianti a Palazzo Strozzi realizzò una mostra
esclusivamente sulla Pittura dal 1916 al 1935, perché dopo questa data
l’Arte, l’Architettura italiana diventato veramente “fasciste”,
mentre fino al 1935 si può parlare di “libertà” nell’Arte. Il
primitivo titolo assegnato
alla mostra “DUX- L’Arte del consenso” sconsigliato per motivi di
sicurezza dalla Prefettura, era forse più adeguato, in quanto tratta
dell’Arte del consenso ad una ideologia, quella fascista, perché
tutti gli artisti erano assolutamente “fascisti militanti”. Ciò va
spiegato – ha proseguito il professore – gli artisti aderiscono
immediatamente al Fascismo, dopo il 1922, perché pensano che esso sia
una ideologia rivoluzionaria, l’opposizione a quella che era la
concezione borghese dell’Arte, soprattutto perché il Fascismo voleva
entrare nel problema dell’Arte. Mussolini, quando inaugurò a Milano
nel 1926 la mostra “Novecento” organizzata da Margherita Sarfatti,
affermò che non voleva “l’Arte di Stato”, cioè che la Pittura e
la Scultura fossero rappresentazione di una ideologia, quindi tutti gli
artisti aderirono al Fascismo, tranne uno, Lorenzo Viani. È ovvio che
proseguendo nel Ventennio, soprattutto dopo il 1935, quando l’Italia
conquista le colonie, ma inizia anche il declino del Fascismo con la
tragica alleanza con la Germani ed il Giappone che porteranno il Paese
alla rovina. Dopo l’intervento in Spagna, la brutalità, i massacri
nelle colonie, le leggi razziali, gli artisti si ricredono; molti di
loro aderiranno alla Resistenza, l’architetto Giuseppe Terragni si
suicidò per la negazione della ideologia. Il professore individuando un
difetto nella recente mostra a Palazzo Strozzi a Firenze “ANNI TRENTA-
L’Arte oltre il Fascismo” alla quale pure aveva collaborato, in
quanto non era presente l’Architettura, ha precisato che
effettivamente il Fascismo si identificava con l’Architettura,
Mussolini la considerava “l’Arte Massima”, era il grande strumento
principe del consenso, perché l’Edilizia sarà il grande volano
dell’Economia durante tutto il periodo del Fascismo. In tale periodo,
nessuna nazione al mondo ha superato l’Italia nello sviluppo
urbanistico; in vent’anni sono stati fatti 256 concorsi di
Architettura, nel 1941 Marcello Piacentini,
il vero deus
ex
machina di tutta l’operazione architettonica del Regime
dall’inizio alla sua fine, pubblicò nella rivista Architettura
l’elenco di 181 opere
selezionate, tra edifici monumentali e piani regolatori. La mostra è
veramente la documentazione di vent’anni di vita italiana attraverso
dipinti, sculture, mobili, arredi, scarpe, abiti, realizzati con i più
disparati materiali dettati dall’esigenze dell’Autarchia. Si apre
con il dipinto “ la madre”
di Gino Severini, del 1916
che ci spiega ciò che sta accadendo dopo la Grande Guerra, che è
l’interruzione di tutti gli “ismi”,
tutto quello che è Avanguardia, che si conclude proprio con la guerra.
Il disastro della guerra fa ripensare tutti gli artisti, a partire dalla
Francia, da Jean Cocteau, di diffonde in tutta Europa un movimento
“Rappel à l’ordre” che invita a tornare ai valori veri della vita
quotidiana, della vita comune, tutti gli artisti vi aderiscono, pure
Picasso, scaturisce un periodo di grande classicismo. Si torna
soprattutto ai primitivi italiani. Il bellissimo ritratto di Felice
Casorati Ritratto di Silvana Cenni
del 1922, all’inizio della mostra, è veramente emblematico del
ritorno alla grande pittura del Quattrocento
italiano; è chiaro il rapporto diretto con Piero della Francesca
e la sua Madonna di Brera.
Quello di Casorati è definito “Realismo magico”, espressione
coniata dallo scrittore Massimo Bontempelli. Con Casorati, pure Carrà e
Sironi seguirono questo rinnovamento. L’architettura di Sironi si
richiama alla classicità, non è quella che fu dei Futuristi. Sironi
sarà fondamentale, proprio in rapporto all’ideologia, quando nel 1933
Milano dichiarerà superata la pittura da cavalletto dalla pittura
murale, quella che può educare il popolo, il Fascismo voleva realizzare
un uomo nuovo, forgiare l’uomo nel quale italiano e fascista dovevano
coincidere. Novecento è stato un movimento prettamente milanese, un esempio può
essere la Ca brutta dell’architetto
Giovanni Muzio, poiché egli usa gli ordini architettonici, ma li
spoglia, li semplifica, come De Chirico nei suoi paesaggi, nei suoi
edifici dove l’elemento architettonico è spogliato delle sue
decorazioni, questo è il Movimento
Novecento.Tutto ciò
succede pure in Pittura e Scultura. Nelle opere di Carlo Carrà ritorna
Giotto. Circa l’Architettura, il professore ha spiegato che egli ha
curato la piccola sezione ad essa dedicata, commentando che si dovrebbe
fare una mostra dedicata esclusivamente ad essa. Il materiale presente
è ricavato completamente dall’Archivio Piacentini, di proprietà
della Facoltà di Architettura di Firenze. Nel periodo preso in
considerazione dalla mostra si vuole intervenire sulle città,
l’Architettura deve essere presente all’interno delle città che
rimangono i veri centri di cultura architettonica. Il Fascismo si
dedicherà, sì, anche alle campagne, alle bonifiche, alle città di
fondazione, alle città carbonifere, a tutto ciò che può dare sviluppo
al recupero delle campagne, ma in realtà si continua ad intervenire
all’interno delle città; la città storica è la vera
rappresentazione della cultura urbana. Il modello di tutti gli
interventi che vengono fatti nelle città italiane è Brescia, piazza
della Vittoria, fatta da Marcello Piacentini, una piazza moderna, una
piazza contemporanea per la città antica. Da precisare che sotto questo
aspetto l’Italia era divisa in due parti, il settentrione era gestito
da Marcello Piacentini, il centro ed il sud da Cesare Bazzani del quale
a Forlì abbiamo numerosi esempi. Bazzani era protetto di Costanzo Ciano
del quale era consuocero, quindi intoccabile, tra l’altro i due
condividevano la fede massonica; Bazzani
era pure amico personale del Re e del Papa, questi gli detterà il motto
da incidere sul campanile della chiesa di S. Antonio a Predappio. Con
Piacentini iniziano i grandi sventramenti dei centri storici, retaggio
che il Fascismo eredita dalla Architettura post-unitaria. Ha quindi
descritto il progetto per il Piazzale della Vittoria, del discusso
grattacielo dell’INA Assicurazioni, straordinaria speculazione
fondiaria. Ma ritornando al rapporto di Mussolini con gli architetti del
momento, il professore ha sottolineato che il Duce non aveva un
atteggiamento rigido, non osteggiava gli accademici a favore dei
razionalisti né voleva un unico architetto che lo rappresentasse. La
sinergia tra Regime e Razionalismo sembra realizzarsi soprattutto grazie
a questi giovani architetti che si erano affrancati dalle Accademie e
guardavano ciò che accadeva nel resto dell’Europa e del mondo. La
rivista Architettura, diretta
da Piacentini, aveva nelle ultime pagine una sezione che trattava di
tutto quello che accadeva nel mondo. Chi nega l’Architettura moderna
invece è proprio Mussolini che nega il visto d’ingresso a Le
Corbusier che intendeva venire in Italia per un ciclo di conferenze e
non risponde mai alle sue richieste per avere l’incarico per la
progettazione delle città nell’Agro Pontino e per il piano di Adis
Abeba poi. Mussolini negò spazio pure a Frank
Lloyd Wright, il più grande architetto del momento nel mondo, perché
si era permesso di dire che in Italia occorreva cambiare direzione,
occorreva aderire alla Architettura moderna. Questi giovani architetti
che uscivano da queste nuove scuole di Architettura, che lottavano
contro questa figura dell’architetto integrale, come Mussolini,
“zigzagava dando un colpo al cerchio ed un colpo alla botte” non la
spunteranno perché i vecchi accademici, che avevano grande potere nei
concorsi, nei grani appalti delle, opere pubbliche, non lascieranno mai
loro spazio. C’è da dire che se Mussolini da l’incarico a
Piacentini, però gli impone di avere dei collaboratori. Così per la
Città Universitaria e per l’EUR gli incarichi saranno distribuiti
mediante concorsi o incarichi diretti. L’EUR doveva essere
l’espressione massima della città di marmo, la capitale dei destini
imperiali, una grande esposizione di opere permanenti. La massima libertà
degli architetti, in quel periodo, dal 1926 al 1937 è rappresentata
dalla Stazione ferroviaria di Firenze, che riunisce in sé razionalismo
e organicismo. Confrontandosi con l’abside della vicina chiesa di S.
Maria Novella, i giovani architetti capitanati dall’architetto
Giovanni Michelucci, allora quarantenne, decidono di partecipare al
concorso, con grande scandalo in città, i fiorentini li osteggiano non
comprendendo la contemporaneità. La grande idea geniale di questo
progetto è la grande cascata di vetro, la trasposizione esatta della
navata della vicina chiesa, il rapporto tra la vetrata e la pietra forte
che era la pietra della grande architettura civile fiorentina, l’atrio
diviene parte della città, vi è la dimensione rinascimentale,
dell’uomo del Quattrocento. Siamo nel 1932, e qui è Piacentini che
comprende che occorre dare spazio a questi giovani, aderire alla
Architettura razionalista, poi ci ripensa e farà tutt’altra cosa. La
novità è che sino ad allora le stazioni non erano considerate
Architettura, ma paragonate a fabbriche, elementi esclusivamente
funzionali, a Firenze diviene Architettura. All’incontro
era presente pure il dottor Rambelli, in rappresentanza del Presidente
della Fondazione Cassa dei Risparmi, Piergiuseppe Dolcini,
impossibilitato a presenziare all’evento. Il dottor Rambelli ha
portato il saluto del presidente aggiungendo che anche questa come le
precedenti sette mostre organizzate dalla Fondazione con la
collaborazione dell’Amministrazione comunale, ha sicuramente una
indirizzo di promozione turistico-culturale del nostro territorio. Ma la
specificità degli eventi, che ha fatto apprezzare e conoscere il
“modello forlivese” è quella che sono mostre che nascono sul
territorio, non sono mostre che mirano semplicemente a muovere pubblico
ma puntano a far scoprire ad approfondire ai visitatori la conoscenza
del nostro territorio. Sono mostre che, attraverso il lavoro, il
confronto tra studiosi, intendono mettere in relazione il nostro
territorio, la nostra memoria storica, con quelli nazionali, con i
grandi movimenti, vogliono aiutare a far comprendere la nostra storia,
sia locale che nazionale, favorire lo sviluppo del tessuto culturale
locale e non solo, dal quale possa pure nascere uno sviluppo di
carattere sociale ed economico.
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