Ha
aperto la conversazione il professor Dino Mengozzi che ha
sviluppato il tema "Spallicci,
il dialetto romagnolo e l’italiano di Romagna"
offrendo ai presenti una vera e prorpia lectio magistralis.
Il
professore ha esordito con la premessa: Non sono un linguista né uno
specialista del dialetto romagnolo. Assunta Bionda e Dino Peri avrebbero
avuto più titoli di me. Cercherò di leggere Spallicci dal lato della
storia delle mentalità o per le implicazioni di storia sociale connesse
all’uso del dialetto di Romagna. Il mio approccio, dunque, privilegia
i contenuti della lingua come specchio di una società, almeno negli
ultimi cento anni, quando il dialetto romagnolo si trova a subire la
concorrenza della lingua italiana. Lorenzo Bedeschi nel suo saggio che
conclude l’opera omnia di Aldo Spallicci, da lui diretta, nel
licenziare il tredicesimo volume, scriveva che dobbiamo a Spallicci di
avere cooperato ad elevare a dignità di lingua il dialetto dei campi e
degli scariolanti (vol. 8, p. 7).Eravamo nel 1998 e Bedeschi si chiedeva
che cosa i giovani di oggi potranno ancora trovare nella poesia
dialettale. Non aveva una risposta precisa, però – diceva – che il
DNA di una cultura regionale come la romagnola non è facilmente
cancellabile. Il fatto che siamo ancora qui, a parlarne, mi sembra la
conferma che egli aveva ragione.
A
proseguito quindi rispondendo alla domanda : COME NASCE L’INTERESSE
PER IL DIALETTO IN ROMAGNA?
È
un effetto della modernità. Quando arriva in Romagna, la modernità
viene percepita come tabula rasa del passato, egualitarismo e
democrazia: ossia piattezza. Un fenomeno distruttivo del tessuto locale
dell’artigianato (nel Faentino le ceramiche) e della cultura: la
tabula rasa significa mancanza di religiosità, materialismo, egoismo,
un mondo rapportato a relazioni monetarie. Le folle urbane appaiono
scettiche, solo attratte dal materialismo, dall’edonismo. La fede nel
progresso e nell’igiene abbatte le antiche mura, le porte urbiche;
atterra i fabbricati “vecchi” e malsani, distruggendo con le mura la
tradizione che vi era impressa come l’ombra. La produzione in serie
cancellava le botteghe artigiane. Un grido d’allarme percorre larga
parte del mondo della cultura, a partire dallo stesso Carducci, che
molti giovani umanisti romagnoli eleggono a loro maestro, incontrandolo
all’Università di Bologna. Come contrastare questa piega
“rovinosa” della modernità?
La
risposta era nell’insegnamento carducciano, in quel suo “memore
innovo”, ossia rinnovarsi senza dimenticare l’antico. Innovare nella
continuità. Come il Maestro. i giovani intellettuali romagnoli del
periodo hanno simpatie mazziniane, radicali, anarco socialiste, non
amano l’Italia bottegaia, non eroica, che ha smarrito le idealità del
Risorgimento. Costruiscono una “terza via” attraverso la difesa
della loro regione tra progresso e conservazione. Danno alla Romagna la
dimensione della piccola patria, nella grande patria italiana. Una
piccola patria che sappia conciliare il nuovo con l’antico. La divisa
di Spallicci, che coltiverà per tutta la vita, ha l’accento
carducciano: fare del nuovo senza dimenticare l’antico.
E’
UN FENOMENO EUROPEO
Il
discorso può essere allargato. La reazione alla produzione
standardizzata dell’industrialismo è un fenomeno europeo. Si pensi
all’esperienza di John Ruskin in Inghilterra nella seconda metà
dell’Ottocento, quando si mette a costruire musei per le arti minori
al fine di istruire gli operai.
In
Italia lo stesso processo veniva a coincidere con la scoperta della
dimensione regionale, una volta acquisita la coscienza della scomparsa
degli antichi Stati regionali con l’unificazione nazionale. È anche
un modo per le élite locali di ergersi a dirigenti dei nuovi processi
sociali, mostrandosiegemoniche verso il centro, con il governo (per
esempio per contrattare i finanziamenti ai lavori pubblici). Mi viene in
mente la Valle d’Aosta, per esempio, ma potremmo citare anche
l’esempio della Sicilia, della Sardegna, di Napoli. È in questo
periodo che acquistano spiccati profili etno-storici. E qui la Romagna
si sente avvantaggiata avendo un nome famoso, già consacrato nella Commedia di Dante. Gli intellettuali si mettono all’opera per
darne un profilo originale.
Con
caratteri elitari ed un po’ troppo da eruditi lo facevano Gasperoni e
Grilli con la rivista “Romagna”; già Emilio Rosetti nel 1894 aveva
scritto la guida alla Romagna, stabilendone i confini, la storia a mo’
di dizionario. Antonio Morri, faentino, che già aveva abbozzato un
dizionario romagnolo nel 1840, lo riprendeva in mano nel 1863.
Partecipano
a tale costruzione culturale della Romagna, con piglio popolareggiante,
intellettuali e scrittori della prima generazione dell’Italia unita,
come Spallicci (1886), Beltramelli (1874), Pratella (1880), fondando
riviste regionali come “Il Plaustro” (1911) e poi “La Piè”
(1919). Costoro traducono localmente uno degli indirizzi culturali di
una grande rivista nazionale come “La Voce” di Prezzolini e Papini.
Se nel programma della rivista fiorentina figurava il proposito di
“far conoscere l’Italia agli italiani”, “Il Plaustro” si dà
la missione di far conosce la Romagna ai romagnoli.
ORGANIZZAZIONE
DEGLI INTELLETTUALI
Si
costituiva su queste coordinate di massima la prima organizzazione degli
intellettuali regionali, che contava su un cenacolo a dimensione
regionale, con una voce a stampa e la messa in cantiere di una serie di
iniziative: mostre, esposizioni, musei, insomma la promozione delle arti
e delle arti applicate. Si sentivano al passo con il Governo nazionale,
che si segnalava sul piano legislativo con la promulgazione nel 1904
della legge per la difesa (reimpianto, in verità) della Pineta di
Ravenna. Nello stesso periodo Gaetano Ballardini a Faenza ricreava le
botteghe per le ceramiche e ne faceva ripartire il commercio; veniva poi
il museo (ancora oggi in funzione).
UN
PASCOLI CARDUCCIANO
Uno
snodo importante è Pascoli, erede di Carducci sulla cattedra bolognese.
E carducciano lo intendono i romagnoli. Spallicci è in collegamento con
lui, da quando la fidanzata e futura moglie, Maria Martinez, ha deciso
di fare una tesi sulla poesia popolare romagnola, diretta dal poeta di
San Mauro. Spallicci sottopone a Pascoli il progetto di una nuova
rivistine romagnola: il “Plaustro” nel 1911. Il titolo allude alla
coperta dei buoi e vuole essere un omaggio al Pascoli romagnolo, al
poeta che ha introdotto termini del dialetto nel lessico della cultura
alta.
INTERVENTO
SULLA LINGUA
Se
Pascoli aveva introdotto nelle sue poesie solo alcune parole in dialetto
romagnolo, Spallicci va oltre, sia per i contenuti sia per l’uso del
dialetto.
La
promozione del dialetto per Spallicci si inseriva in un’operazione
politica e civile: fare partecipare la popolazione ai nuovi orizzonti
della patria e della storia risorgimentale, dalla quale era nata
l’Italia. Occorreva dare nuove canzoni a quel proletariato che
cresceva con ideali di rivolta e di opposizione all’idea di patria.
IL
ROMAGNOLO NON AVEVA STATUTO DI LINGUA
Alla
fine dell’Ottocento, il dialetto romagnolo era considerato una parlata
barbara, gutturale, tutta consonanti, priva della sonorità e della
dolcezza delle vocali.Papini diceva che quando sentiva due romagnoli
discutere fra loro aveva l’impressione che non si scambiassero parole,
ma pugni.Stecchetti che viveva a Bologna come bibliotecario
all’Archiginnasio lo usava ma fra gli amici ma per fare ridere. Se
rileggiamoIl critico d’artee
l’altraDe verborum
significatione,risulterà più chiaro il senso dell’operazione
linguistica.Nella prima, spicca la caricatura dell’italiano tagliato
col dialetto a scopo palese di provocare il riso. Il critico d’arte è
ignorante e la lingua lo conferma: confonde l’iscrizione sulla croce
posta da Pilato: INRI,JesusNazarenus Rex Judaeorum, Gesù Nazzareno re
dei giudei, con la firma del pittore.Nella seconda, Automedonte, è il
termine usato da chi ha fatto studi umanistici: ovvero il nome
dell’auriga di Achille, qui usato per cocchiere, ma questo non può
saperlo l’interessato, separato dalla sapienza umanistica proprio dal
suo dialetto, che quindi reagisce irritato, maledicendo il padrone.
LA
RIFORMA DEI GIOVANI INTELLETTUALI ROMAGNOLI
Spallicci
e i suoi sono all’oscuro di Stecchetti. Lo riconosceranno come
predecessore solo negli anni Venti del Novecento. Ai primi del secolo,
iniziano a costruire una letteratura regionale, con riferimenti storici
e allo stesso tempo mitologici. Non sono dei freddi divulgatori, ma
degli educatori. La loro letteratura deve incidere sulla società, come
critica, invettiva, imitazione. Beltramelli nel 1904, con il suo romanzoGli
uomini rossidescrive una Romagna innamorata della politica, divisa
in rossi e neri, ossia clericali e anticlericali, sempre esagerata,
virile e pantagruelica. E pretende di dare una lezione ai romagnoli
mediante l’ironia.
Spallicci,
a sua volta, come poeta e organizzatore di cultura, torna alla vita
popolare, ai riti folklorici, visti come rituali antichi, carichi di
sacralità. La sua idea è che nel romagnolo “barbaro” si celi, in
verità, un personaggio non livellato dalla modernità, un tipo
autentico, capace di grandi sentimenti e generosità.Spalliccisi propone
di correggerne l’immagine, mediante il teatro popolare, ad esempio, e
naturalmente riformando la lingua. Il dialetto va addolcito mediante
l’aggiunta di vocali, per dare sonorità alla parlata, lavorando sul
vocabolario, affinandolo, per renderlo capace di esprimere sentimenti
delicati, alla “bela burdela fresca e campagnola”, e grandi
aspirazioni di libertà (come il grillo che non si rassegna a fare il
canterino, se tenuto in gabbia).
Spallicci
prescrive una fonetica del dialetto (come trascriverlo?) e ne amplia il
vocabolario mettendovi parole nuove: il trattore,
appunto, ovvero la modernità. Si rilegganoE
singioz di muturoppure Mutor
da partigher o ancoraCs’el
che pasa travers a i mi chemp?eSera
sora i cudalnuv, e si
noterà il lavorio linguistico per adattare il “trattore” al
dialetto.
L’INDUSTRIA
DELLA ROMAGNOLITA’
L’intrapresa
riscuote un certo successo. Per la prima volta un disegno culturale e
artistico crea occupazione.A Faenza il successo delle ceramiche, altrove
le coperte stampate, il ferro battuto, le gite, i trebbi di poesia
dialettale,poi arriveranno i vini, perfino il turismo incoraggiato
dall’immagine della Romagna “ospitale”. Per non dire della
penetrazione nel tempo libero, con i trebbi di poesie, il teatro.
URBANIZZAZIONE
ANNI ‘60
Tutto
cambiava con l’urbanizzazione degli anni ’60. Il fenomeno è noto.
Un’unica lingua s’imponeva nelle famiglie anche grazie alla
televisione. Un italiano standard, che fa vergognare i dialettofoni. I
giovani scolarizzati cercano un’integrazione rapida e il dialetto
nataleviene nascosto.
Di
più: nella politicizzazione degli anni ’60-’70 il culto del
dialetto è considerato un fenomeno “reazionario”. Pasolini in una
nota antologia di poeti dialettali mettevaSpallicci fra i tardi
imitatori di Pascoli, facendone il frutto di una ideologia “piccolo
borghese”. Ovviamente sbagliava: Spallicci è se mai un carducciano,
ma non è qui il punto. Il punto è che nessuno si ergeva a difendere
Spallicci. Come nessuno si metteva a difendere Garibaldi e la tradizione
risorgimentale di fronte alla mitologia di Che Guevara.
IL
DIALETTO EMIGRAVA FRA L’ELITE
Abbandonato
dal popolo, il dialetto però non moriva, ma si trasferiva lentamente
fra un’elite urbana, che lavorava nella letteratura e nel cinema. Lo
aveva notato già Lorenzo Bedeschi nell’introduzione citata. Se
Spallicci attraverso la lingua aveva cercato di farsi riconoscere dal
popolo dei dialettofoni, i nuovi cultori del dialetto cercano invece una
diversa espressività dell’io e il dialetto si fa lingua intima,
ermetica.
Di
qui Guerra, Fellini e poi Raffaello Baldini, vincitore del Bagutta a
Milano: un premio nazionale di letteratura conferita a un poeta che
scrive in vernacolo.Il fenomeno non ha riguardato solo il dialetto
romagnolo, ma qui da noi va sottolineato il successo di massa riscosso
in questi anni da Raffaello Baldini, grazie anche a Ivano Marescotti,
che lo ha portato in giro nei teatri della Romagna.
Dov’è
la novità? In tale dialetto d’elite scompare la gerarchia fra
dialetto e italiano o addirittura fra dialetto, italiano e inglese:
dall’uno si passa all’altro, se serve a dare espressività al verso.
Si pensi solo al titolo dell’ultima raccolta di versi di Baldini, Intercity,
il nome del treno che lo riporta in Romagna, ma che diventa metafora del
viaggio e della vita.
L’ITALIANO
DI ROMAGNA
Ma
un’altra novità si è imposta. Lo ha notato la linguista Valeria
Miniati, recentemente, con il suo volume Italianodi
Romagna. Storia di usi e di parole, Bologna, Clueb, 2010. Ho avuto
l’onore di presentarlo a Forlimpopoli, nella Sala del Consiglio
comunale, il 12 novembre 2011. Il lavoro della Miniati parte dalla
seguente constatazione. L’italiano che si è affermato a partire dagli
anni ’60, che tipo di fenomeno linguistico ha prodotto? Ha prodotto in
ciascuno di noi romagnoli qualcosa di simile a tanti Baldini minori.
Vale a dire un italiano che ha radici nel dialetto o, per altri versi,
un dialetto italianizzato.
La
linguista spiega il fenomeno storicamente. I vocabolari dialettali
dell’Ottocento – spiega - avevano un intento pedagogico: offrivano
ai dialettofoni la corretta voce italiana corrispondente a un termine in
dialetto. E ci si accontentava della correzione. Il problema nasceva
quando non esisteva un diretto corrispettivo in italiano, specie quando
si faceva riferimento a cose prettamente locali. Allora nel tentativo di
tradurle in italiano si ricorreva a sinonimi, cioè a voci con
significato affine, ma che non rispecchiavano pienamente il valore che
la parola aveva nel dialetto.Finché la norma dell’italiano standard e
l’imbarazzo per l’uso del dialetto hanno tenuto banco, il problema
è rimasto senza soluzione.Cadendo però l’imperativo dell’italiano
standard, quell’incongruenza è stata avvertita come limite e i
parlanti hanno finito per mantenere il termine dialettale adeguandolo
foneticamente o morfologicamente alla lingua (ivi, p. 10).
LA
RICERCA SUL CAMPO
Il
libro-dizionario di Valeria Miniati raccoglie frasi reali, tratte dalla
viva voce dei parlanti, brani di conversazione spontanee, risposte e
spiegazioni direttamente fornite da informatori che usano i termini nel
contesto. Per questo la studiosa si è servita di registrazioni di
interviste, colloqui guidati, conversazioni spontanee, condotti in
luoghi diversi di svago e di lavoro, con parlanti di età diversa,
sesso, estrazione culturale e sociale, cioè un contesto comunicativo
reale.
Ne
risulta che lo spettro dei contenuti di questa lingua è molto ampio:
prendo alcuni esempi. Resta la parola dialettale pura: pedga, per orma, accanto a termini che nel processo di
italianizzazione subiscono adattamenti: lozzo
per sporcizia, schioppare per
scoppiare.Altri termini continuano a vivere in senso figurato e non nel
loro significato proprio: fare i
franchi, ovvero arricchirsi, senza riferimento al franco moneta. Così
fare pochi franchi, per dire
scarso successo.Altri sono costrutti usati anche da persone di cultura
medio-alta, perché non avvertiti come dialettismi: un caspo
d’insalata, ho rimasto solo
pochi euro; ci sono andato da per
me; prendersi dietro
l’ombrello.
Valeria
Miniati disegna tutto un mondo che resiste ai processi di omologazione
attraverso la salvaguardia della propria cultura tradizionale e della
lingua della propria comunità. Si pensi che diverse tv locali hanno
adottato la formula dei salotti d’intrattenimento, dove il linguaggio
è il parlato comune, infarcito da localismi. C’è poi c’è la
riscoperta di feste, fiere e soprattutto sagre di paese, processioni
religiose, giochi; la riscoperta dell’insegnamento del dialetto nelle
scuole elementari; la riscoperta dei vecchi mestieri contadini. Talvolta
si tratta di reinventare una tradizione volta alla promozione di certi
prodotti commerciali (si pensi al formaggio di fossa).
ALCUNI
CONTESTI
Per
cogliere la vivacità dell’italiano di Romagna, ho provato a procedere
per situazioni. E faccio qualche esempio.
LA
QUOTIDIANITA’ DOMESTICA
Impiluccarsi,
impiluccato: riempirsi di peluzzi, granelli di polvere.
Non
mi piacciono i vestiti blu, perché s’impiluccano subito.
Spazzolati
il bavero della giacca, che è tutto impiluccato.
Tra
cani e gatti, il divano è sempre impiluccato.
Impazzimento, per
lavoro, impegno: Bisognerà almeno
regalargli qualcosa per l’impazzimento, visto che non vuole essere
pagato.
Incriccarsi:
T’incricchi perché sei vecchio, mica per l’umidità.
Indentro,
dare indentro: Dacci indentro al caffè, che lo zucchero è in fondo.
oindidentro:
Ripiega le maniche un po’ indidentro, perché sono troppo lunghe.
RELAZIONI
SOCIALI QUOTIDIANE
Incantonare,
in senso figurato: mettere alle strette verbalmente e in modo violento
qualcuno:
Ho
avuto una bella paura, stamattina: mi ha incantonato urlando come una
matta.
Incantonare
per circuire maliziosamente: Non
so più cosa fare con lui: ogni volta che mi vede da sola, m’incantona.
Incantonare
per nascondere beni o denaro, spesso in modo disonesto: Sai
quanti (soldi) ne hanno incantonati in Svizzera.
Incarognirsi,
incarognito:
oltre ai significati di lingua: incattivirsi, ma anche impuntarsi:
Non
è mai stato simpatico, ma con l’età s’è proprio incarognito.
Quando
s’incarognisce su un’idea, non lo smuove più nessuno.
Immattire,
immalgato, immaltato, impaciugare, impallinare, impalugarsi, e
imparare, per dire: venire a
conoscenza di qualcosa o di sentito dire:
Guarda,
sono sicuro, perché l’ho imparato proprio da lei (cioè
dall’interessata)
PARLARE
USANDO “IN”
L’uso
di in preposizione: La
minestra nei fagioli, con i fagioli
Il
libro è nella tavola, sulla tavola
Stiamo
andando in stazione, alla stazione
S’è
innamorata in un fatto tizio, s’è innamorata di un tipo strano
Nella
gara di pesca sono arrivato negli ultimi, tra gli ultimi
Era
nel caffè, al bar
Smettila
subito di darmi nella voce, di darmi sulla voce, non interrompermi.
INSULTI
Indarlito,
inderlito
Inaquarito
per annacquato. Ti s’è inaquarito il cervello?
Incantato,
oltre ai significati di lingua: affatturato, passa al significato di
ingenuo e infine stupido, imbecille:
Vacci
te, perché quell’incantata di tua sorella non è capace.
Dino
Mengozzi ha quindi così concluso la sua affascinante lezione:
La
parola dialettale italianizzata, insomma, è usata comunemente da tutti
senza suscitare censure, effetto di un ibridismo che ha conquistato lo
statuto di norma regionale del parlare in italiano.Dunque, una Romagna
dialettale esiste, in fondo, sempre enonostante la tv e
l’omologazione, di cui si parla. C’è una marca della romagnolità
negli italiani di Romagna. E questa norma, a differenza del dialetto
“puro”, è quella più proteiforme, perché passerà inevitabilmente
anche agli immigrati recenti.A costoro, c’è da scommettere, il
dialetto arriverà come radice di quell’italiano di Romagna che i loro
figli stanno imparando a scuola. In fondo è questa la lezione più
esaltante del “dialetto italiano” o dell’ “italiano
dialettale” di Romagna, che certo sarebbe piaciuta a Spallicci.
Nessuna chiusura, nessuna frontiera dialettale, nessuna torre contro chi
non può intendere il dialetto; nessuna rivendicazione di una supposta
superiorità della “razza bianca”, ma apertura al nuovo, senza
smarrire l’antico.
Ha preso
quindi la
parola il professor Dino Pieri che attraverso un percorso che, come lui
ha anticipato, potrebbe intitolarsi "I giorni del confino di Aldo
Spallicci a Mercogliano" ha voluto ricordare l'uomo, il soldato
Aldo Spallicci.
Spallicci,
è noto a tutti, fu antifascista, durante il Regime lui e tutta la
famiglia trascorsero momenti davvero difficili,duri; la moglie era stata
espulsa dall'insegnamento nelle scuole statali, lui stesso subì
dapprima il domicilio coatto a Milano, quindi il confino, sino ad essere
imprigionato a San Vittore. La prigione l'aveva già conosciuta nella
rocca forlivese. Ma non tutti sanno che tra Spallicci e Mussolini vi era
stata, nella prima giovinezza, una certa amicizia.
Da
Dovia di Predappio spesso Mussolini veniva a Forlì ed incontrava
l'amico Aldo in biblioteca e passeggiando lungo il corso. Mussolini a
quei tempi era socialista ed anche Spallicci, prima di abbracciare la
fede repubblicana, aveva idee socialisteggianti, aveva scritto qualche
articolo di Medicina sull'Avanti. quando nel 1911 scoppiò la
guerra di Libia, entrambi erano contrari alla guerra come lo erano
Pietro Nenni, Renato Lolli. Spallicci non era un rivoluzionario, era
meno "baricadero" di Mussolini, che con Nenni, Lolli ed altri
tentarono di bloccare la partenza dei treni che portavano agli imbarchi
i militari. Per questo vennero pure processati e Mussolini chiese
appunto Spallicci come teste della difesa. Anche durante la prima guerra
mondiale l'amicizia tra i due non si era ancora incrinata, entrambi
furono volontari poichè credevano che attraverso ad essa si sarebbe
realizzata l'Unità d'Italia, acquisendo quelle regioni ancora
irredenti. A seguito dello scoppio di una bombarda Mussolini ebbe
qualche decina di scheggie nel corpo e Spallicci lo andò a
trovare all'ospedale. La rottura si sarebbe consumata più avanti con il
sorgere di una "dittatura borghese, liberticida ed intollerante
delle opinioni altrui " (parole di Spallicci). Nel 1926, quando
ormai il Fascismo si era consolidato, Spallicci fu inviato al domicilio
coatto a Milano con la famiglia. In una lettera a Piero Zama scriveva
"...a quarant'anni rifare tutto da capo è doloroso quanto mai ma
essere d'accordo con se stessi ripaga di tante ansie e di tanti
scoramenti...". Il domicilio coatto lo estraniava, lo sradicava
dalla gente di Romagna, dalla direzione de la Piê che nel 1933 sarebbe
stata soppressa. Non gli si potè impedire di praticare la professione
di medico, in caso contrario la famiglia non avrebbe avuto alcun
sostentamento, però pure come medico era sempre seguito da agenti della
Prefettura, dopo la guerra scoprirà che pure la sua infermiera era una
spia dell' O.V.R.A. ed un suo paziente che curava gratuitamente, un
delatore. Proprio per le delazione di questi, nell'aprile del 1941
Spallicci venne condannato al confino a Mercogliano (Avellino), un
paesino dell'Irpinia vicino al Santuario di Monte
Vergine. La Prefettura milanese infatti aveva definito Spallicci
"...attivo antifascista che non tralascia occasione per muovere
critiche al Regime e svolgere una subdola propaganda pericolosa in
rapporto all'attuale momento...", siamo nel 1941, l'Italia è in
guerra da due anni. Di quel periodo vissuto in condizioni di reietto,
come si definisce, Spallicci tenne un diario, che però pubblicò
trent'anni dopo, nel 1972, pochi mesi prima della morte, quando già, in
seguito alla scomparsa della figlia Anna, si era trasferito dall'altra
figlia Ada a Premilcuore. Dalla premessa, del 1972, si ha l'impressione
ancora di una vitalità intellettuale e morale intatta, egli scrive
"...rileggo ora, dopo un trentennio queste pagine, e non vi trovo
accenni di disperazione ed odio verso i miei persecutori; una
rassegnazione al triste destino come una pena inevitabile a chi si
ostina a tener fede ai propri ideali..." parole sulle quali, ha
sottolineato il professor Pieri, ancora oggi si dovrebbe meditare a
lungo. Chi vuole tener fede ai propri ideali, deve essere preparato,
pronto a sopportare, ad affrontare pene inevitabili. Tener fede ai
propri ideali, l'imperativo categorico che ha orientato Spallicci nelle
scelte di vita, anche le più scomode e dolorose, e ha alimentato in lui
la fede per la poesia, il famoso verso ... quel ca cant a cred...
è che scriva poesie per il senso estetico, vi è in lui un'estrema
coerenza tra vita e poesia. Durante il viaggio da Milano a Mercogliano,
in treno si trova in compagnia di alcuni ufficiali baldanzosi, fiduciosi
nella vittoria, che parlano tra loro e Spallicci ascolta e annota ...
ero avviato verso il mio esilio, quelli erano in armi, fiduciosi nella
vittoria del paese come ero io ventisei anni prima. Cosa era accaduto in
questo tempo perchè io fossi diventato un reietto e loro sempre sulla
trincea nel nome d'Italia? Molte cose erano accadute, il mio atto di
fede all'Italia era tutt'uno con il mio credo mazziniano, che non sapeva
percepire la Patria se non con il rispetto delle patrie altrui - Non
nazionalismo, una nazione sopra altre nazioni, ma una nazione accanto
alle altre nazioni - quindi alla voce che mi tempestava dentro
"e tu cosa fai per il tuo paese?" dovevo rispondere con il mio
foglio di via... Quel provvedimento inaspettato naturalmente mise a dura
prova l'intera famiglia, il cui sostentamento, una volta chiuso
l'ambulatorio a Milano, cadde tutto sulle spalle della moglie Maria che
già teneva lezioni private di greco e latino, una volta espulsa pure
lei dall'insegnamento. Questa donna coraggiosa, vera consorte del marito
condividendone le sorti, raddoppiò l'impegno e fu di grande sostegno
morale al marito con telegrammi, telefonate di incoraggiamento. L'amore
e l'affiatamento dei due fu davvero l'arma vincente con la quale
riuscirono a superare quella difficile situazione senza abbandonarsi ad
uno sterile sconforto, in sintonia del resto con la loro forte fibra
morale....a vegh par la mi strê, incontra a la mi guëra, s'a
chésch a chésch in tëra, zidenti a ch'i m' tô sò... Spallicci
si era portato al confino il libro di poesie di Leopardi e scrive il 13
maggio prendendo spunto dalla poesia leopardiana La Ginestra
"...Leopardi è sul mio tavolo, sono con lui ad odorare la ginestra
sulle falde del Vesuvio ma non lo segue in quella sua cieca
disperazione, La malinconia, così perdutamente nera, è patologia dello
spirito, ed a me piacciono gli spiriti sani... Al confino, gli giovò
anche continuare la sua attività di medico a favore della popolazione,
pur con difficoltà, la Questura lo osteggiava e pure i colleghi del
posto, anche se Spallicci svolgeva l'attività gratuitamente. Tra i suoi
assistiti vi furono, oltre ai confinati, pure gli internati, persone
degli stati in guerra con l'Italia. Scrive Spallicci "... grande
conforto essere medico, poter giovare agli altri, mi prendo omaggi di
parole..." Dalle lettere degli ex compagni di confino emerge tutto
tondo la personalità di Spallicci. Scrive infatti Lorenzo Bedeschi
"...si direbbe che egli instauri nel borgo avellinese fra non pochi
confinati sballati diffidenti toni prima sconosciuti, di reciproca
affidabilità, oltre che di rispetto. Attorno a lui si raggruppano gli
appartati, gli abbandonati a se stessi, il suo entusiasmo, serenamente
mazziniano e romagnolo, sembra attirare coloro che i vari settarismi
partitici hanno trascurato e respinto. Tra gli abbandonati vi erano pure
le sorelle Warren, due anziane signorine inglesi citate più volte nel
diario, oggetto spesso di azioni teppistiche duramente riprovate da
Spaldo che scrive "... un paese che non rispetta i vecchi non è un
paese civile. <La ragazzaglia cenciosa e lurida si è scatenata a
grida e sassate contro le due vecchie signore inglesi Warren..." .
Questo episodio rappresenta forse l'acme del disagio nei confronti dei
mercoglianesi che pur apprezzavano le sue prestazioni di medico. Scrive
sempre Spallicci "... quando vado a Torelli ( una frazione di
Mercogliano) pare che vi arrivi un vecchio amico, sono tutti a farmi
festa e non chiamano altri...." Figuriamoci i volti gialli dei
colleghi! Irritava soprattutto Spallicci, confinato a causa di
delazioni, la propensione di molti degli abitanti di Mercogliano a
spiare per poi riferire alle autorità."... lungo il viale c'è
sempre qualcuno che tende l'orecchio ai nostri conversari, magari
nascosto dietro ad un platano, ascoltano, prendano la penna , fanno il
rapporto o la denuncia al federale; e sono studenti, e alcuni
universitari..." Un altro aspetto del costume locale che lo colpiva
negativamente, Spallicci era un laico, era il fanatismo della
folla in pellegrinaggio al Santuario. Le donne portavano sulla testa dei
grossi cesti con le vivande, il viaggio era lungo, e tutta la scalinata
la facevano in ginocchio. Scriveva Spallicci "... Di costoro ne ho
trovato letanianti e oranti in nenie piagnucolose sulla gradinata del
convento, le donne con i canestri dei viveri intesta avanzavano in
ginocchio scalino per scalino fino a che gruppo di cenci pittoresco sono
giunte alla chiesa ove le voci raddoppiate di fanatico fervore hanno
echeggiato sino all'altare...". Se subiva queste amarezze da parte
della popolazione si riconciliava con essa mediante l'incontaminata
bellezza dell'ambiente naturale "... stamane con un'aria così pura
e limpida sono salito verso Capo Castello e mi sono buttato ai monti.
Tutto era vestito di cielo e lievità; io andavo, correvo, quando vado
per i campi e per i monti mi riconcilio con questa gente...". Il
contatto con la natura continuo in quella assolata estate mediterranea,
fu per Spallicci un grande corroborante sia del corpo che dello spirito.
L'anima della terra che aveva scoperto fin dall'infanzia nelle larghe
attornio a Santa Maria Nuova e sui colli della sua Bertinoro e che aveva
avvertito persino lungo le strade di Milano, dove sotto l'asfalto
arroventato gli pareva di sentire il fermento della terra buona sepolta
viva sotto l'asfalto, e percepita con una intensità che raggiunge lo
spasimo nel rigoglio delle campagne di Mercogliano "...quando passo
tra le messi alte e i trifogli e ascolto le voci della terra le vene e
le membra mi tremano come se mi annientassi..." quindi non gli
interessa solo i paesaggio della Romagna, ma la natura tutta. Alla
dimensione corporea delle percezioni diurne, grande protagonista il sole
che vivifica la natura e gli uomini, subentra in certi notturni una
sorta di misticismo visionario, nel cielo stellato si incontrano il
tempo e lo spazio, il poeta sembra rivedere il volo delle anime
immortali "... trascorrono sotto le stelle come nebbia ... e
passano sopra le case degli uomini con il brivido delle cose perdute.
Hanno dell'eterno e dello stellare, recano, quasi polverio siderale, lo
scintillio delle menti...". l'immagine di Spallicci al confino, ma
in pace con la propria coscienza, con lo sguardo rivolto all'immensità
del cielo stellato richiama alla mente Dante che all' epistola
dell'amico fiorentino che gli scrive che può ritornare a Firenze
umiliandosi, chiedendo perdono e pagando una multa, risponde
ringraziando ma rifiutando l'offerta.. e che, non potrò contemplare il
sole e le stelle ed il loro corso dovunque io sia ? Non potrò
dovunque sotto la volta del cielo meditare verità dolcissime senza
rendermi prima rendermi spregevole, anzi abbietto ? Il prezzo pagato per
mantener fede ai prorpi ideali sarà molto alto anche per Spaldo. Infatti,
dopo il confino, dovevano trascorre altri quattro anni densi di prove
ancora più dure, terminate con la carcerazione a San Vittore, il figlio
Mario carcerato a Firenze alle Murate ecc. La lettura di questo diario,
giorno dopo giorno, ci ha molto svelato dell'uomo Spallicci e del poeta,
poeta importante ma, ha volturo sottolineare concludendo il professor
Pieri, pure un uomo importante!
L'incontro
si è quindi concluso con la lettura da parte della signora Pieri, Maria
Assunta Biondi, di tre poesie del poeta:
A
Mario
Anna
rundanena
A
Maria
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