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Annuncio choc di Ilario Tottone. Parafrasando Hemingway, anche lui dice: “Addio al calcetto”

Farewell to soccer

Il racconto commovente di un ex-calciatore ormai quasi “a rota”. Nell’analisi di Tottone c’è la rievocazione del lucido tortuoso viaggio iniziatico di un ciclista adolescente che sognava Bartali e Coppi e che invece ha fatto la fine del “mosquito”(*)

Di Ilario Tottone

No… basta! Lascio il calcetto… (il primo che esulta lo picchio!). Non se ne può più!?? Ti fanno arrabbiare e ti correggono anche la grammatica. Basta! Basta assistere alla scena straziante di quello che cade e urla e piange solo perché si è distrutto un menisco. Cambio sport! E le liti? "Il fallo è mio!" "No, tu hai mandato fuori la palla!" "Ma no, tu l'hai toccata per ultimo!" Basta! "Quanti ne siamo oggi?" "Dovremmo essere in dodici…". "Ma se siamo solo in nove!" "Qualcuno si è dimenticato di venire, o forse arriverà più tardi". Non c'è serietà. Basta! Chi calcia di punta (e fa anche gol!), chi calcia il tuo stinco: "scusa non ti avevo visto". Chi calcia troppo alto; chi calcia troppo; chi non sa calciare; chi perde i capelli; chi perde sempre! Ho deciso cambio sport! E poi c'è sempre quello: "gioca la palla bassa; ma segui l'azione no!" Ma se è raccapricciante! E quello che è sempre smarcato, perché si marca da solo? E quello che organizza il gioco? "Tu vai più avanti; tu marca quello; tu!? Va be' lascia perdere", e la partita ancora non inizia. E c'è quello che si lamenta del campo pieno di buche; chi cade nella buca, sparisce, e nessuno se ne accorge. Non mi trattenete! Abbandono: mi do al ciclismo. Non comincio mica da zero. Non ci credete? Ecco qui pronto il curriculum! Il mio primo mezzo di trasporto aveva, ahimè, quattro ruote (circostanza, credetemi, di cui io non ho alcuna colpa). I miei genitori lo chiamavano carrozzino, in realtà era un mero strumento di coercizione psicologica oltre che fisica. Ero legato da una cinghia, che nonostante i miei innumerevoli sforzi non sono mai riuscito a slacciare. Più tardi mi hanno spiegato che quella cinghia non era altro che il cordone ombelicale che io, assolutamente, non volevo recidere. Il mio secondo mezzo di trasporto (abilitato al solo transito in appartamento) è stato un triciclo (piano piano mi avvicinavo alle fatidiche due ruote), di questo ho solo un ricordo nebuloso causato probabilmente da una rimozione volontaria. Una, ormai piccola cicatrice sulla fronte, rimasta lì imperterrita, mi lega dolorosamente a quel passato, quando decisi di percorrere l'intera scalinata della mia abitazione (per fortuna abitavo solo al primo piano) a cavallo del mio velocipede. Arrivò, quindi, la "due ruote". Era una 14, in verità era stata acquistata per mio fratello più grande, gran funambolo, che riusciva (non ci crederete), in sella alla bici, a sorreggersi con un piede poggiato a terra. In quel periodo, devo dire la verità, ho odiato i miei genitori, mio fratello e il mondo intero. Ho il ginocchio ancora dolorante dopo la memorabile caduta causata, presumo, dalla differenza di altezza del sellino da terra e la mia gamba. Alla 14 è seguita la 18 e poi la 22 e, udite gente, una 27 da corsa, con tre corone e cinque rapporti, avevo, forse, quindici anni. Ero il ragazzo con il ginocchio dolorante (vedi bici 14) più invidiato di Teramo (o comunque di quella parte della città che conoscevo). Iniziarono le prime competizioni: memorabile fu il "giro del Castello", così chiamammo quel percorso che, con partenza dalla "Via", saliva (e come saliva!) fino a "Terracalata" ed oltre fino alla "casa cantoniera" (oggi quella salita non mi sembra più tanto erta come allora, sarà per quella piccola appendice che ho montato alla mia bici? Chissà). Comunque, finalmente, quando ormai il cuore era salito in gola (o meglio quella piccola porzione di cuore che restava, la parte più grande era nelle mani del mio primo amore che aspettava all'arrivo), iniziava la discesa: ripida, disconnessa con la grande insidia della famosa curva a ferro di cavallo (divenuta oggi ampia ed agevole anche per nostro merito), che ogni volta ti poneva lo stesso dilemma: rallento? Superato lo scoglio della curva occorreva cominciare a preoccuparsi, ormai, dell'attraversamento di viale Bovio; era il momento cruciale, quello che poteva farti perdere la gara: occorreva dribblare la 500; scansare il 1100, scavalcare il motorino ed evitare il vecchietto anche lui in bicicletta (Rizziero). Quindi, pensando a Coppi, a Bartali e ai francesi che s'incazzano, ci si rialzava sui pedali per lo scatto finale, in salita, con la preoccupazione di aver impostato il rapporto giusto. L'arrivo si oltrepassava di gran foga: la tua ragazza ti stava guardando. Avresti dato l'anima, in verità l'ho data. A quel primo circuito, che a noi tutti plasmò la gamba (anche il culo), seguirono i più arditi: giro di Torricella, di Campli e di Montorio con il muro della Specola. Percorsi, tutti, che io ho sempre interpretato con ottimi risultati (il curriculum è mio e scrivo quello che voglio). Devo dire, per chiudere, che oggi quelle salite non mi sembrano più così faticose. Con il tempo ho imparato che l'importante per non fare fatica è la posizione assunta sulla bicicletta. E qui svelo il segreto, che certamente Gianni aspetta con ansia: ritengo che la posizione più remunerativa sia quella che si assume su una bicicletta gentlemen (lo scrivo come mangio), eretto, sguardo altero e sorriso sulle labbra. Vi suggerisco comunque di accertarvi che la bici sia ben accessoriata: freni a bacchetta, sellino morbido e… motorino Garelli. Anche se quest'ultimo accessorio alcuni lo ritengono superfluo. Si riesce (capienza del serbatoio permettendo) a superare distanze insperate con pochissima energia.
Sì, ho deciso, cambio sport.

(*) Il mosquito è una specie di biciletta con motorino. Ha il vantaggio di costare poco e lo svantaggio di essere lento come una lumaca e di avere scarsa potenza. In salita, infatti, è bene ricorrere ai pedali per "arrancare" a dovere. E' ottimo per le piccole città come Teramo e per i ciclisti scadenti come Ilario.

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