ELEMENTI DI MECCANICA QUANTISTICA
MODELLI ATOMICI
La fisica quantistica
“La meccanica quantistica è la descrizione del comportamento della materia e della luce in tutti i suoi dettagli e, in particolare, di ciò che avviene su scala atomica. Gli oggetti su scala molto piccola non si comportano come nessuna cosa di cui si possa avere diretta esperienza. Non si comportano come onde, non si comportano come particelle, non si comportano come nuvole, né come palle da biliardo, o come pesi attaccati a molle, o infine come una qualsiasi cosa che mai possiate avere visto.”
La scoperta dell’elettrone
Oltre allo spettro di emissione dei corpi caldi, i fisici erano interessati a numerosi altri aspetti della luce. Tra questi, lo studio della fluorescenza e dei colori prodotti da una scarica elettrica attraverso i gas produsse i risultati più sorprendenti. Già nel settecento si erano osservati i «bagliori» che si determinavano all’interno di un recipiente di vetro contenente aria rarefatta e collegato con una macchina elettrostatica. Da queste osservazioni presero le mosse importanti studi sulle scariche elettriche generate in tubi di vetro riempiti di gas in cui sia applicata una forte differenza di potenziale fra due elettrodi e si abbassi la pressione del gas.
Si osservò in particolare che nel processo di scarica nei gas rarefatti al diminuire della pressione davanti al catodo si formava una zona oscura via via più grande che, all’aumentare del grado di vuoto, occupava tutta la lunghezza del tubo, mentre sulle pareti del tubo appariva una luminosità verdastra. Si capì che la fluorescenza era dovuta all’urto, contro le pareti di agenti provenienti dal catodo. Si parlò genericamente di «raggi catodici» e si discusse a lungo se essi avessero una natura particellare o fossero di natura elettromagnetica come la luce. Gli esperimenti di Jean Perrin (1879-1942) prima e di Joseph John Thomson (1856-1940) poi dimostrarono che i raggi catodici trasportavano cariche negative.
Nei suoi esperimenti Thomson trovò che il rapporto carica/massa di queste particelle era identico per qualunque gas e che esso era circa 1800 volte più grande del valore del rapporto carica/massa precedentemente trovato per gli ioni idrogeno. Era l’anno 1897 ed era stato scoperto l’elettrone! In seguito Thomson, dopo aver fatto l’ipotesi che la carica negativa prodotta da una lastra di zinco per effetto fotoelettrico fosse associata a corpuscoli uguali alle particelle costituenti i raggi catodici, misurò il rapporto q/m di questi ipotetici corpuscoli e trovò che esso era uguale al rapporto trovato in precedenza per i raggi catodici. Trovò poi un modo per determinare la carica di tali particelle e, nel 1899, trovò che tale carica era uguale alla carica dello ione idrogeno dell’elettrolisi e che quindi la sua massa doveva essere circa 1/1000 di quella dell’atomo di idrogeno, cioè della più piccola massa nota a quel tempo.
Poiché queste particelle si trovavano in tutti gli elementi chimici, gli elettroni dovevano essere ritenuti i costituenti ultimi della materia e dovevano essere contenuti negli atomi. Questi perciò dovevano contenere gli elettroni, con carica negativa, e “qualche altra cosa” con carica positiva, dal momento che l’atomo è di per sé neutro dal punto di vista elettrico.
Con la scoperta dell’elettrone diventa quindi un problema di frontiera lo studio della struttura dell’atomo.
Modello atomico di Thomson
Il
modello atomico più noto fu quello di Thomson, elaborato nel 1904. Secondo tale
modello l’atomo doveva essere formato da “una sfera di elettricità positiva
uniforme, nella quale si distribuisce un’eguale quantità di carica negativa
sotto forma di elettroni distribuiti in una serie di anelli paralleli; ciascun
elettrone viaggia a velocità elevata lungo la circonferenza in cui è situato e
gli anelli stessi sono disposti in modo tale che quelli che contengono un numero
elevato di elettroni sono vicini alla superficie della sfera, mentre quelli che
ne contengono un numero minore sono più interni”. Le forze che trattenevano le
cariche negative all’interno dell’atomo erano dunque di natura elettrica. Il
raggio della sfera positiva era dell’ordine di 10-10
m.
Gli spettri atomici e analisi spettrale
Nella ricerca di un modello di atomo che rispondesse ai fatti sperimentali occorreva tuttavia tener conto anche delle conoscenze acquisite in quegli anni mediante l’analisi spettrale.
Da molto tempo era noto che i gas o i vapori eccitati emettevano luce. L’eccitazione poteva essere provocata o portando il gas a temperatura elevata o facendolo attraversare dalla scarica elettrica di una lampada ad arco.
I primi studi erano iniziati nella seconda metà del ‘700; ci si rese conto che lo spettro della luce emessa da un gas ad alta temperatura presentava una serie di righe luminose, ciascuna delle quali era una immagine colorata della fenditura. I gas quindi emettevano luce formata da pochi colori ben definiti, a ciascuno dei quali corrispondeva uno stretto intervallo di lunghezze d’onda. Gli studi spettroscopici andarono moltiplicandosi nell’intento di arrivare a una determinazione sempre più precisa della lunghezza d’onda delle righe spettrali dei vari elementi chimici.
Particolarmente interessante apparve lo spettro dell’atomo d’idrogeno, costituito da una serie apparentemente regolare di righe. Nel 1885 un insegnante svizzero, J. Balmer, trovò empiricamente una semplice formula che dava la lunghezza d’onda delle linee note a quel tempo
(RH = 1,0967757 10-7 m-1)
Dove RH è una costante (detta di Rydberg) il cui valore fu dedotto empiricamente da Balmer e n è un numero intero, diverso per ogni riga, che assume i valori 3, 4, 5, 6. Per esempio per la prima riga (6562,10 Å) è n=3, per la seconda (4860,74 Å) è n=4, ecc.
Spettro dell’idrogeno
Balmer, come si è detto, aveva trovato la sua formula attraverso un’analisi empirica; tuttavia egli considerò la possibilità che nello spettro dell’idrogeno esistessero altre serie di righe non ancora osservate e corrispondenti alle lunghezze d’onda che si ricavavano dalla formula precedente sostituendo il 22 con 12, 32 ecc. Possiamo descrivere tutte queste serie di ipotetiche righe con un’unica formula :
dove nf è il numero caratteristico di una data serie, ni può assumere i valori nf+1, nf+2 corrispondenti alle successive righe della serie.
Quando più tardi i fisici cominciarono a cercare queste ipotetiche righe, con buoni spettrometri, trovarono che esse esistevano effettivamente.
Le quattro righe di emissione visibili nella serie di Balmer dell'idrogeno atomico
Sulla falsariga della formula di Balmer, furono escogitate altre formule matematiche che descrivevano la successione delle righe in spettri anche più complessi di altri gas. Il fatto che gli spettri diventavano sempre più complessi a mano a mano che si passava dagli atomi più leggeri a quelli più pesanti e che gli spettri molecolari presentavano un grandissimo numero di righe, suggerì che lo spettro doveva in qualche modo essere legato alla struttura degli atomi o delle molecole.
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Spettro continuo |
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Spettro idrogeno |
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Spettro elio |
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Spettro argon |
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Spettro sodio |
Per circa 30 anni, i fisici cercarono di interpretare le osservazioni sull’emissione di luce a determinate lunghezze d’onda per mezzo di modelli matematici adeguati.
Tali modelli dovevano tener conto di due fatti fondamentali: l’atomo doveva essere costituito da un insieme di elettroni e da un “qualcosa di positivo”, come già accennato precedentemente, ed inoltre doveva emettere radiazioni elettromagnetiche.
Il modello dell’atomo di Rutherford
Nei primi anni del XX secolo, grazie alle scoperte dell’elettrone e del protone, avvenute alla fine del XIX secolo, Rutherford ed un gruppo di scienziati che lavoravano con lui, formularono la teoria atomica che è nota come Teoria atomica di Rutherford.
Questi scienziati bombardando una sottile lamina d’oro, con delle particella alfa (nuclei di elio carichi positivamente), avevano osservato che la maggior parte delle particelle riuscivano a passare indisturbate e soltanto una su ottomila rimbalzava in direzione opposta e questo corrispondeva ad una probabilità di 10-4.
Gli
esperimenti di diffusione permisero di valutare approssimativamente le
dimensioni del nucleo (il raggio atomico, già conosciuto, era dell’ordine di 10-11
m): si trovò che il raggio del nucleo non superava 10-14
m, valore 1000 volte inferiore al raggio atomico. Il volume del nucleo
(proporzionale al cubo del raggio) occupava quindi solo un miliardesimo del
volume totale dell’atomo e di conseguenza l’atomo era quasi vuoto. Questo
spiegava la facilità con cui le particelle
a
attraversavano migliaia di strati di atomi nelle lamine metalliche subendo solo
raramente deviazioni molto grandi.
Il modello atomico di Rutherford considera l’atomo formato da un nucleo centrale, nel quale risiede la quasi totalità della massa e dagli elettroni che ruotano intorno al nucleo descrivendo delle orbite, per la sua somiglianza con il sistema solare viene detto modello atomico planetario
Questo modello atomico non era, tuttavia, in grado di dare una valida spiegazione agli esperimenti che avevano messo in evidenza la capacità degli elettroni di assorbire e di emettere energia.
Rutherford suppose che la forza elettrica di attrazione tra nucleo ed elettrone facesse da forza centripeta in modo che l’elettrone potesse muoversi su orbite fisse attorno al nucleo. Nacque così il modello planetario dell’atomo:
La forza di attrazione dell’elettrone verso il nucleo era data dalla forza di Coulomb:
(1)
In
cui Ze è la carica del nucleo (Z:numero di protoni; e
carica elementare di un elettrone)
r il raggio orbitale dell’elettrone
Naturalmente per le leggi della fisica classica tale forza deve rispettare la seconda legge della dinamica:
(2) F = m·a
e considerando il moto circolare
dell’elettrone si ha che accelerazione centripeta.
Sostituendo la (1) nella (2) si ottiene:
(3)
Per la conservazione dell’energia si ha
Ecin + Epot = Etot = cost da cui:
à
(4)
Tuttavia un sistema di questo genere non poteva essere stabile: secondo la teoria classica della meccanica e dell’elettromagnetismo un sistema atomico planetario non poteva essere stabile per un tempo superiore a una piccolo frazione di secondo (non più di un centomilionesimo): infatti l’elettrone ruotando attorno al nucleo, e quindi variando continuamente la direzione della velocità, doveva perdere energia per emissione di radiazione e cadere a spirale sul nucleo, distruggendolo. Inoltre, per l’atomo di Rutherford, non ci si poteva aspettare uno spettro a righe quale l’analisi spettrale aveva messo in luce: in base all’elettromagnetismo classico, infatti, le frequenze di radiazione associate al moto elettronico dovevano variare con continuità a causa dell’irraggiamento.
Quindi le critiche all’atomo di Rutherford erano in sintesi:
a) L’elettrone, in quanto accelerato doveva perdere energia sotto forma di onde elettromagnetiche;
b) Perdendo energia l’elettrone avrebbe dovuto avvicinarsi al nucleo;
c) Il contatto tra elettrone (carico negativamente) e nucleo (carico positivamente) avrebbe portato alla distruzione dell’atomo;
d) L’emissione graduale di onde elettromagnetiche avrebbe dovuto dar luogo a uno spettro continuo, mentre l’esperienza mostrava che lo spettro di emissione atomica era a righe.
Abbiamo così esaminato quali fossero i problemi in cui si trovarono gli scienziati a fine ottocento: era necessario elaborare una teoria che fosse in grado di spiegare la curva d’emissione del corpo nero e dare un modello di atomo che desse ragione dell’analisi spettrale relativa ai singoli elementi e che fosse consistente dal punto di vista meccanico. Al primo problema diedero soluzione Planck e Einstein che diedero l’avvio alla fisica dei quanti, al secondo si applicò Bohr che, alla luce della nascente teoria, modificò il modello di Rutherford e elaborò una teoria dell’atomo più rispondente alle evidenze sperimentali.
Il modello dell’atomo di Bohr
Nel 1913 Bohr sviluppò un nuovo modello atomico, che prendeva come base di partenza il modello di Rutherford, ma introduceva una ipotesi di quantizzazione. Esso si basa sui seguenti postulati:
a) l’atomo non si comporta come un sistema della meccanica classica che può assorbire od emettere energia in quantità arbitrariamente piccole;
b) l’atomo può esistere in un certo numero di stati stazionari (o quantizzati), ciascuno dei quali corrisponde a una energia definita del sistema senza emettere radiazione;
c) l’emissione e l’assorbimento di onde elettromagnetiche di qualsiasi frequenza ha luogo solo attraverso una transizione tra due stati stazionari. Gamow dice che il meccanismo è pressappoco simile al cambio di velocità di una automobile: si può innestare la prima, la seconda, la terza, ecc., ma mai la prima e mezzo, la terza e tre quinti;
d) la frequenza n della radiazione emessa o assorbita è legata alla differenza tra i valori Ein e Efin dell’energia dell’atomo negli stati iniziale e finale dalla relazione
hn = Ein – Efin (Legge di Bohr)
cioè le righe spettrali sono date dalle relazioni
E1 – E0 = h n 1; E2 – E0 = h n 2; ……… En – E0 = h n n
dove h è la costante di Planck.
Bohr intuisce che debbano esistere delle configurazioni di equilibrio, delle disposizioni in cui l’atomo non emette energia elettromagnetica, Bohr inoltre, per stabilire quali, fra tutti gli stati stazionari ipotizzabili, fossero realmente possibili, si servì ancora dei concetti quantici.
Si è visto che nel modello
planetario si aveva l’equilibrio tra la forza centrifuga perfettamente
bilanciata da quella attrattiva colombiana: (3) da questa si potevano ricavare i valori di r e
v,
(3’) e
(3’’) mentre per l’energia avevamo
Nel caso della fisica classica i valori di r, v e Etot potevano assumere qualsiasi valore.
Nel caso quantizzato si trattava di stabilire quali potessero essere i possibili valori di r, v e Etot per stati stazionari dell’atomo, cioè quali fossero le orbite permesse agli elettroni. Bohr suppose che il momento angolare orbitale[1] che caratterizzava l’orbita stabile non potesse assumere qualsiasi valore, ma solo certi valori discreti definiti dalla relazione
(5) (ipotesi quantica di Bohr)
con n numero intero positivo, diverso quindi da zero.
L’intero n della formula fu detto numero quantico. Ogni numero quantico corrispondeva a un’orbita permessa e stabile dell’elettrone.
Il raggio di Bohr
Dalla (5) e dalla (3) si può ricavare il valore del raggio orbitale quantizzato di Bohr:
(5’)
da cui elevando al quadrato
Ricavando v2
dalla (3) avremo che il raggio atomico quantizzato di Bohr risulta:
Con questa relazione si ebbe il primo risultato in accordo con l’esperienza: infatti il raggio dell’atomo di idrogeno ricavato sperimentalmente era di circa 5 · 10-11 m, valore che era in accordo col valore di previsto per n=1 e Z=1 (r = 5,3 · 10-11 m).
L’atomo di Bohr dava anche spiegazione della serie di Balmer per l’atomo di idrogeno.
Si calcola l’energia corrispondente a ogni stato stazionario dell’atomo tenendo conto di quanto già trovato per l’atomo di Rutherford, equazione (4):
=
Calcolando il
valore delle costanti ottengo: =2,18·10-18 J = 13,6 eV
L’energia di legame di un elettrone che si trova al livello n di un atomo con numero atomico Z si
può scrivere:
nel caso in cui Z=1, n=1 si ottiene E1= - 13.6 eV (è l’energia corrispondente al primo livello dell’atomo di idrogeno).
Il modello atomico di Bohr, oltre a prevedere un atomo stabile dal punto di vista energetico, è quindi in grado di spiegare perché negli spettri dei gas monoatomici si osservano le serie spettrali.
Quindi per un livello generico n possiamo scrivere:
considerando che h·n
= Ein – Efin e che
n = c /
l
Si ha, per il passaggio dallo stato iniziale i allo stato finale f,
o anche
Questa formula dà
la lunghezza d’onda della radiazione emessa o assorbita secondo il modello di
Bohr quando l’atomo passa da uno stato stazionario con numero quantico a un
altro con numero quantico. Se nf = 2 la suddetta formula coincide con
quella trovata empiricamente da Balmer per l’atomo di idrogeno, a patto di porre
cosa
che, dal punto di vista sperimentale, è accettabile con buona approssimazione.
L’atomo di
idrogeno
Il modello di Bohr per l’atomo di idrogeno si può schematizzare come in figura.
L’orbita più bassa consentita – quella più vicina al nucleo – è detta stato fondamentale, o stato di energia minima, dell’atomo. Proiettando, per esempio, luce su un atomo, è possibile eccitare l’elettrone facendolo passare a un’orbita superiore permessa. Da quest’orbita potrà ridiscendere o direttamente o passando per gli stati che lo dividono da quello a energia minima emettendo radiazione. Queste transizioni sono dette salti quantici.
Nella figura sottostante sono schematicamente rappresentate le transizioni possibili di un elettrone nel modello di Bohr dell’atomo di idrogeno per le prime sei orbite.
Le frequenze delle radiazioni emesse variano al variare della quantità di energia. Nell’esempio sopra riportato si dovrebbero avere tre radiazioni diverse, ognuna di esse con una determinata frequenza e quindi con una ben determinata lunghezza d’onda.
Lo spettro a righe che si ottiene somministrando energia all’idrogeno sembra dimostrare la validità della teoria di Bohr.
Le ipotesi di Bohr si dimostrarono valide per l’idrogeno (1 solo elettrone), errate per atomi più complessi. Infatti, prendendo in considerazione lo spettro di emissione dell’idrogeno, le frequenze ottenute sperimentalmente da Bohr coincidevano con quelle calcolate teoricamente, mentre con atomi più complessi il numero di radiazioni emesse era superiore a quello ipotizzato. Un’importanza notevole nel confermare il modello di Bohr viene assegnata all’esperimento di Franck ed Hertz, eseguito nel 1914, anche se solo alcuni anni più tardi ne venne fornital’interpretazione “corretta”.
Il principio di corrispondenza
E’ interessante, dal punto di vista epistemologico, osservare che la teoria di Bohr non prevede una rottura con la fisica classica. E questo costituisce proprio i limiti della teoria. Bohr, infatti, prevede un modello di atomo che obbedisce alle regole classiche (principio d’inerzia, legge di Coulomb) ma che, quando è necessario, se ne discosta (le orbite stazionarie senza emissione di radiazione, salti quantici). Questo problema fu superato da Bohr con quello che egli definì un principio di corrispondenza il quale richiede che, al limite, per grandi numeri quantici, cioè quando le energie dei livelli quantizzati degli atomi differiscono così poco le une dalle altre da simulare un continuo, le previsioni quantistiche debbano ricondursi a quelle classiche. Ma i fisici erano consapevoli che il principio di corrispondenza rappresentava soltanto una soluzione temporanea e che era necessario trovare una teoria completa e coerente, fornita di strumenti matematici chiari ed efficaci. Nello stesso periodo, altri scienziati stavano prendendo in considerazione una teoria completamente diversa, nota come teoria ondulatoria.
MECCANICA ONDULATORIA
Il dualismo onda-corpuscolo per la radiazione
Il cammino fatto finora può essere schematicamente riassunto attraverso questi tre nuovi concetti fondamentali:
- Planck: h è una costante universale di quantizzazione dell’energia.
- Einstein: la radiazione consiste di quanti di grandezza hn (fotoni) che si comportano come particelle indipendenti. Negli anni Einstein evidenzia il conflitto tra teoria della radiazione basata sulla teoria ondulatoria classica e “il punto di vista della teoria newtoniana dell’emissione”. “E’ mia convinzione, disse, che la prossima fase di sviluppo della fisica teorica ci condurrà a una concezione della luce che potrà essere interpretata come una sorta di fusione della teoria ondulatoria e di quella dell’emissione (1909).”
- Bohr: gli atomi si trovano in stati di energia quantizzati; il passaggio da uno stato di energia ad uno stato di energia minore è caratterizzato dall’emissione di un quanto di radiazione di energia hn.
Il dualismo onda-corpuscolo per la materia
Ipotesi di de Broglie
Nel 1924 de Broglie postulò che ogni particella in movimento avesse anche proprietà ondulatorie e propose di considerare l’elettrone, ruotante attorno al nucleo, come un’onda stazionaria.
Sviluppando le sue ipotesi, de Broglie sviluppò la seguente analogia:
come a un’onda di frequenza n e di lunghezza d’onda l corrisponde un fotone di energia h n e quantità di moto p = h/l
ad una particella di energia E e quantità di moto p = mv corrisponde un’onda di lunghezza d’onda l = h/p e di frequenza n = c/l
Utilizzando le relazioni caratteristiche della relatività speciale e concetti derivati dalla teoria delle onde, arriva ad affermare che ogni corpo in movimento (con mo → 0) può essere accompagnato da un’onda e che è impossibile disgiungere il moto di un corpo e la propagazione dell’onda.
Questa teoria consente di
spiegare le condizioni di quantizzazione di Bohr.
Infatti, fissato r, all’elettrone è associata un’onda stazionaria percorrente l’intera circonferenza di lunghezza 2pr.
Poiché ad ogni punto dell’orbita, dopo un intero giro, deve corrispondere sempre la stessa fase (onde stazionarie) il percorso deve contenere un numero intero di lunghezze d’onda
2pr = n l (l = h/p) (1)
2pr = n h/p = n h/mv
mvr = n·h/2p
Si ritrova la quantizzazione di Bohr del momento angolare!
In questo modo si individuano le orbite permesse:
per la (1) se
n = 1 l = 2pr un’onda
n =2 l = 2pr
l = 2pr/2 due onde
n =3 l = 2pr
l = 2pr/2
l = 2pr/3 tre onde
…… ecc.
La conferma dell’ipotesi di de Broglie arrivò nel 1927 attraverso l’osservazione della diffrazione degli elettroni, fatta contemporaneamente da parte di due fisici americani, C.J. Davisson e L.H. Germer, e di un fisico inglese, G.P. Thomson. La scoperta della diffrazione degli elettroni rappresentò la prima scoperta fondamentale diretta delle proprietà ondulatorie della materia che, suggerite da de Broglie, furono formalizzate tre anni dopo da E. Schrödinger. E’ suggestivo venire a sapere che George P. Thomson che appunto nel 1929 prese il premio Nobel perché coi suoi esperimenti aveva verificato la natura ondulatoria dell’elettrone era il figlio di Joseph John Thomson che aveva ricevuto il Nobel per avere dimostrato la natura corpuscolare dei raggi catodici scoprendo l’elettrone.
La natura ondulatoria della materia è possibile osservarla sperimentalmente solamente con particelle dotate di massa molto piccola, infatti se consideriamo come esempio il calcolo della lunghezza d’onda associata al volo di un uccello avente la massa di 50g e una velocità di 10 m/s abbiamo:
Si tratta, come si vede, di una distanza piccolissima.
Il Principio di indeterminazione
Venuto a conoscenza dei lavori di de Broglie, Erwin Schrödinger (1887-1961), alla fine del 1925, si convinse che l’ipotesi di de Broglie poteva essere accettata solo se si era in grado di scrivere un’equazione d’onda. Schrödinger riteneva infatti che dovesse costruirsi una nuova meccanica che stesse alla meccanica classica come l’ottica ondulatoria stava all’ottica geometrica. Il lavoro teorico di Schrödinger, assieme a quello Heisenberg e Born, contribuì alla costruzione teorica della meccanica quantistica così come in gran parte è utilizzata ancora oggi.
Per comprendere almeno per sommi capi gli sviluppi della meccanica ondulatoria, riassumiamo i fatti conosciuti riguardanti il problema del cosiddetto dualismo onda corpuscolo:
La luce come onda
L’insieme dei fenomeni di interferenza e di diffrazione (come l’esperienza di Young a due fenditure o a una fenditura), ci fa dire che la luce è formata da onde.
La luce formata da corpuscoli
Gli esperimenti relativi all’effetto fotoelettrico o all’effetto Compton ci portano a dire che la luce è formata da corpuscoli (i fotoni)
Il dualismo
Ø Ogni volta che la radiazione scambia energia con la materia (emissione o assorbimento) questo scambio si può descrivere come assorbimento o emissione, da parte della materia, di fotoni.
Ø Quando si vuole descrivere lo spostamento globale dei corpuscoli di luce nello spazio bisogna ricorrere a una propagazione per onde.
Lo stesso dualismo si ritrova per le particelle materiali.
Ø La meccanica del punto materiale, confermata da numerosissimi esperimenti, è posta in contrapposizione con l’esperimento sulla diffrazione degli elettroni.
Si rendeva necessaria la formulazione di una meccanica che facesse uso di equazioni di propagazione in grado di descrivere sia il comportamento ondulatorio che il comportamento corpuscolare delle particelle. Questo è ciò che fece Schrödinger con la meccanica ondulatoria.
Le difficoltà erano determinate dal fatto che in fisica classica l’universo delle particelle è diverso dall’universo delle onde.
Il primo, infatti, è governato dalle leggi della meccanica newtoniana che identificano con precisione “posizione”, “velocità”, “accelerazione” di una particella di “massa” m. L’equazione che descrive il moto del corpo è la seconda legge della dinamica.
Il secondo è invece governato dall’equazione delle onde mediante la quale è definibile, nello spazio e nel tempo, l’ampiezza della grandezza soggetta al fenomeno ondulatorio:
y = y (x, y, z, t) è l’equazione di Schrödinger per un’onda che si propaga nello spazio.
Tale equazione non prevede affatto l’esistenza di orbite ben definite, bensì ci indica solo la probabilità che l’elettrone occupi certe posizioni all’interno dell’atomo. Si rimpiazzò quindi il concetto di orbita con quello di orbitale, come una zona di spazio ad alta densità di probabilità di trovare l’elettrone.
In particolare, si scoprì che dato un elettrone in moto, di cui supponiamo di conoscere perfettamente la velocità, la probabilità che esso si trovi in un determinato punto dello spazio è sempre diverso da uno; ciò equivale a dire che la posizione dell’elettrone non è individuabile.
E’ vero anche il contrario: se conoscessimo perfettamente la posizione in un determinato istante, sarebbe impossibile conoscerne anche la velocità.
In definitiva: non è possibile determinare con esattezza contemporaneamente la posizione e la velocità dell’elettrone in un dato istante; o meglio: quanto maggiore è la precisione con la quale è determinata una di queste grandezze, tanto minore è la precisione con la quale è determinata l’altra.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg del 1927 fissa appunto un limite a tale precisione.
Egli fisso due grandezze associate all’elettrone: la quantità di moto p e la posizione x.
L’enunciato del principio è il seguente:
Nessun oggetto può avere contemporaneamente una quantità di moto e una posizione determinate con precisione assoluta.
Se chiamiamo Δx e Δp rispettivamente l’indeterminazione sulla posizione e l’indeterminazione sulla quantità di moto, ossia gli intervalli entro cui si trovano i loro rispettivi valori.
Il principio di indeterminazione si traduce come:
h/4p fornisce il limite inferiore per il prodotto delle incertezze sulle due grandezze fisiche. E’ da notare che questa limitazione non può essere addossata a una imprecisione strumentale, ma è insita nella natura stessa delle cose.
Teoria atomica moderna
Molti studiosi tra cui Heisenberg, non si trovavano d’accordo con quelle teorie che consideravano l’elettrone come un corpuscolo, essi ritenevano che, date le piccole dimensione e l’elevata velocità con cui si muoveva, fosse più corretto considerarlo come una nuvola. Secondo la teoria atomica oggi accettata gli elettroni non descrivono delle orbite intorno al nucleo ma si trovano sugli orbitali. L’orbitale viene definito come la zona dello spazio intorno al nucleo dove si ha la maggiore probabilità di trovare l’elettrone. La teoria atomica moderna si base su un equazione matematica nota come Equazione di Schrödinger. I numeri quantici sono soluzioni di questa equazione e consentono di definire forma, dimensioni ed energia degli orbitali.
I numeri quantici sono:
Ø n, numero quantico principale, indica il livello energetico e le dimensioni degli orbitali. Insieme ad l determina l’energia dell’orbitale. Può assumere valori interi, in genere, compresi tra 1 e 7.
Ø l, numero quantico secondario o angolare, indica il sottolivello energetico e la forma degli orbitali. Dipende dal valore di n. Può assumere tutti i valori compresi tra 0 e n-1.
Ø m, numero quantico magnetico, indica l’orientamento nello spazio della nuvola elettronica ed il numero degli orbitali. Dipende dal valore di l. Può assumere tutti i valori compresi tra -1 e +l.
Ø s, numero quantico magnetico di spin, indica il senso di rotazione dell’elettrone intorno al proprio asse, può avvenire in senso orario o antiorario, assumendo rispettivamente i valori + ½ e - ½.
Struttura elettronica degli elementi
I numeri quantici e gli orbitali
I sottolivelli energetici ed i relativi orbitali vengono indicati da alcune lettere minuscole dell’alfabeto. In questo corso prenderemo in considerazione gli orbitali s, p, d, f .
Il sottolivello s è identificato dal valore l=0, possiede un solo orbitale e può contenere due elettroni.
Il sottolivello p è identificato dal valore l=1, possiede tre orbitali e può contenere sei elettroni.
Il sottolivello d è identificato dal valore l=2, possiede cinque orbitali e può contenere dieci elettroni.
Il sottolivello f è identificato dal valore l=3, possiede sette orbitali e può contenere quattordici elettroni.
Il primo livello energetico possiede soltanto il sottolivello s, e quindi un solo orbitale.
Il secondo livello energetico possiede i sottolivelli s e p, per un totale di quattro orbitali.
Il terzo livello energetico possiede i sottolivelli s, p e d, per un totale di nove orbitali.
Il quarto livello energetico possiede i sottolivelli s, p, d e f, per un totale di sedici orbitali.
Ogni orbitale può contenere al massimo due elettroni che si disporranno con spin opposto. Quindi il primo livello energetico può contenere al massimo due elettroni, il secondo otto, il terzo sedici, il quarto trentadue. Gli elettroni occuperanno per primi gli orbitali di più bassa energia. L’energia cresce con il livello energetico e con la complessità della forma degli orbitali. In uno stesso livello energetico l’energia cresce nel seguente ordine: s < p < d < f, gli orbitali appartenenti allo stesso sottolivello energetico hanno la stessa energia (orbitali degeneri). Quando gli elettroni vanno ad occupare orbitali con uguale energia li riempiono prima parzialmente, disponendosi con lo stesso spin, e poi li completano.
L’ordine di riempimento degli orbitali, che si può ricavare ricorrendo alla regola della diagonale, è il seguente:
1s, 2s, 2p, 3s, 3p, 4s, 3d, 4p, 5s, 4d, 5p, 6s, 4f, 5d, 6p,7s, 5f, 6d, 7p.
A volte può essere utile scrivere la struttura elettronica rappresentando gli orbitali con dei quadratini e gli elettroni con delle frecce orientate in modo da tenere conto dello spin.
[1] Definiamo in generale momento della quantità di moto il prodotto mv per la distanza percorsa. In particolare indichiamo con mv · 2pr il momento della quantità di moto o momento angolare orbitale che caratterizza l’orbita stabile