L’articolo 147 del cc. nell’ambito delle disposizioni
concernenti il matrimonio si cura di prevedere una serie di obblighi imposti ai
genitori nei confronti dei figli. Più precisamente si stabilisce che il
matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed
educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e
delle aspirazioni dei figli. La sedes materiae è quantomeno infelice, in quanto
si colloca all’interno del Titolo IV “Del matrimonio”, quasi che gli
obblighi verso i figli nascano dal vincolo matrimoniale e non invece, più
propriamente, dalla filiazione, ma la legislazione successiva (soprattutto in
tema di divorzio) e l’interpretazione giurisprudenziale non sembrano porre in
dubbio che la norma di cui all’art. 147 sia riferita ai genitori
“naturali”[1],
siano essi sposati, divorziati o semplici conviventi more uxorio. Conseguenza
diretta di questa impostazione è il fatto che l’obbligo di prestare quanto
necessario al mantenimento sorge automaticamente dalla filiazione, e non a
seguito della domanda da parte dell’interessato, come accade nell’ipotesi di
assegno alimentare[2].
L’obbligo del genitore trova il suo corrispettivo in un
diritto assolutamente personale del figlio: tale diritto, che per molti versi può
essere accostato al diritto agli alimenti, ha tuttavia, rispetto a questi una
sfera di azione molto più ampia, in quanto prescinde da qualsiasi situazione di
bisogno del figlio e si commisura in proporzione alle sostanze[3]
dei genitori. Tale diritto non viene meno con la maggiore età, ma anzi si
protrae fino a che il beneficiario non sia in grado di provvedere alle proprie
esigenze, con un’appropriata collocazione in seno al corpo sociale.
Esistono tuttavia dei casi in cui il diritto al mantenimento
viene meno, e precisamente:
§
Quando il figlio non
sia in grado di provvedere alle proprie esigenze per colpa;
§
Quando il figlio non
si ponga in condizione o rifiuti di procurarsi un proprio reddito, mediante
l’espletamento di attività lavorativa;
§
Quando il figlio
viva in altri nuclei famigliari o comunitari, o abbia raggiunto un’età tale
da far presumere la sua capacità di provvedere a sé stesso[4].
In relazione a quanto detto, tuttavia, la giurisprudenza
fornisce solo dei criteri di massima e non pone dei punti fermi, ribadendo anzi
che il giudice dovrà valutare il caso concreto e non dare un giudizio in
astratto sulla permanenza o meno di un obbligo di mantenimento. Ciò è molto
importante soprattutto ai fini alla definizione di “capacità di provvedere
alle proprie esigenze”, ossia della raggiunta indipendenza economica che
giustifica il venir meno dell’obbligo di mantenimento. In genere, infatti, la
giurisprudenza afferma che nel caso in cui il beneficiario raggiunga
l’indipendenza economica, anche per un limitato periodo di tempo, il suo
diritto al mantenimento viene meno e non torna a rivivere con la ricaduta nella
dipendenza da altri: in tal caso, infatti, sussistendone i presupposti, il
soggetto potrà richiedere la corresponsione degli alimenti, ma non più del
mantenimento. Ciò detto l’interpretazione della norma rischia di cader facile
preda di un affrettato rigorismo o di un condiscendente lassismo: parte della
dottrina (Tamburino, “La filiazione” in Giurisprudenza sistematica di
diritto civile e commerciale – UTET) sembra legare la sussistenza
dell’obbligo di mantenimento alla convivenza con i genitori (nella specie con
il genitore affidatario), altri autori legano invece l’obbligo alla non
percezione di reddito del beneficiario (sempre che non dovuta a colpa), la quale
tuttavia cade nel momento in cui questi svolga un’attività lavorativa seppur
precaria.
La giurisprudenza tanto di merito quanto di legittimità
sembra prevalentemente orientata in un senso “rigorista”, ritenendo che
l’aver svolto attività lavorativa dimostri di per sé la potenziale
produzione di reddito e quindi la possibilità di acquisire una indipendenza
economica. Tuttavia una riflessione attenta allo sviluppo del diritto del lavoro
negli ultimi anni potrebbe portare il Supremo Collegio a ripensamenti sul punto.
In effetti l’obiettivo principale che si prefiggono i giudici nelle sentenze infra
citate è quello di evitare una sorta di parassitismo dei figli nei confronti
dei genitori, stimolandoli nella ricerca e nella conservazione dell’attività
lavorativa; tale indirizzo, certamente condivisibile nei fini che si prefigge,
deve tuttavia essere armonizzato da un lato con una revisione della normativa in
tema di diritto del lavoro, dall’altra con la realtà imperfetta del
“nuovo” mercato del lavoro: in sostanza il legislatore ha consentito e
consente ampie possibilità di impiego ad interim della forza lavoro, ma,
in questa fase, tale innovazione legislativa non ha ancora avuto sul mercato
l’effetto di creare quel sistema dinamico che è presupposto dalla flessibilità.
Il lavoratore “interinale”, in sostanza si trova all’interno di un sistema
che non gli consente ancora di passare agevolmente da un impiego all’altro
senza (o quasi senza) soluzione di continuità, al punto che la precarietà
dell’impiego si accompagna anche ad una precarietà del reddito[5].
C’è dunque da chiedersi se, e fino a quale punto una flessibilità
(imperfetta) possa portare a ritenere che il lavoratore, per il solo fatto di
svolgere un’attività lavorativa, sia autosufficiente dal punto di vista
economico o, come si legge in alcune massime sia in grado di trovare una
“collocazione appropriata” nel corpo sociale. In questo senso mi pare
interessante l’affermazione della Corte d’Appello di Roma quando ritiene
che: “L'obbligo dei genitori di provvedere al mantenimento del
figlio anche dopo la maggiore età di quest'ultimo, obbligo perdurante fino a
quando il figlio acquisisca l'idoneità ad inserirsi nel mondo del lavoro, così conseguendo l'indipendenza
economica, viene
meno allorché il
figlio sia stato avviato ad un'attività lavorativa tale da
consentirgli una
concreta prospettiva
di autonomia economica”;
nel
caso di specie la corte romana nega il diritto al mantenimento del figlio
maggiorenne “scarsamente motivato” a dedicarsi ad un’attività economica
in grado di garantirgli l’indipendenza economica, ma sembra non escludere a
priori la possibilità di una persistenza del mantenimento laddove l’attività
lavorativa non sia tale da consentirgli una concreta prospettiva di autonomia
economica: il che è comprensibile in quanto, applicando con rigore il diverso
principio secondo cui qualsiasi attività lavorativa svolta è di per sé idonea
ad interrompere la dipendenza economica del beneficiario del mantenimento, si
giungerebbe all’eccesso opposto[6].
In tutti i casi sopraesposti, l’onere della prova della
causa che esclude il diritto al mantenimento è ad esclusivo carico del genitore
che nega il persistere delle condizioni che lo giustificano; tuttavia la
giurisprudenza sembrerebbe molto più rigorosa nel caso di divorzio, quando
afferma che nel caso in cui il coniuge divorziato intenda ottenere un contributo
dall’altro genitore deve provare che persiste il bisogno di mantenimento del
figlio (così Cass. 10 aprile 1987 n° 3570).
Come
si accennava poco sopra, il diritto al mantenimento sopravvive alle sorti del
matrimonio e può anzi essere oggetto di particolari statuizioni nella sentenza
di separazione o divorzio. Di norma è infatti il giudice che, pronunciando lo
scioglimento del matrimonio, dispone anche un assegno di mantenimento per il
figlio, che talora è inglobato nell’assegno post-matrimoniale dovuto al
coniuge affidatario. L’assegno di mantenimento versato al coniuge affidatario
non è che la continuazione in diversa forma dell’obbligo gravante su entrambi
i genitori di mantenere, educare ed istruire i figli e, naturalmente, non cessa
con la maggiore età, ma solo in presenza di una causa che ne faccia venire meno
i presupposti come si è visto al punto 1).
La
particolare natura dell’assegno di mantenimento, totalmente svincolata a mio
modo di vedere dalla giustificazione dell’assegno divorzile (assistenziale,
risarcitoria e compensativa), mi pare confermata dall’espressa previsione
dell’art. 6 L.D. che richiama direttamente gli obblighi di cui agli artt. 147
e 148 c.c.; da ciò si desume che l’assegno in questione ha sorti diverse
rispetto a quelle dell’assegno dovuto al coniuge, dovendo commisurarsi alle
concrete esigenze dei figli, oltre che alle sostanze e agli eventuali nuovi
carichi famigliari del coniuge-debitore.
La
palmare differenza si avverte soprattutto nel caso in cui nella sentenza di
divorzio non sia prevista la corresponsione dell’assegno di mantenimento: in
tal caso la giurisprudenza ammette la possibilità di richiederlo in un momento
successivo, sia nel caso in cui si versi in corso di causa (in tal senso la
Cassazione ha affermato che la domanda può essere proposta anche per la prima
volta in appello), sia nel caso in cui, al contrario, sia intervenuta sentenza
definitiva. Il coniuge divorziato ha dunque la possibilità di richiedere al
giudice, e contro l’altro coniuge non affidatario, la corresponsione di un
assegno di mantenimento anche laddove questo non fosse stato previsto nella
sentenza definitiva di divorzio (Cass. 9 aprile 1983, n.2514). Il presupposto di
questa pronuncia, come più in generale dell’art. 9 sta nel rilievo che le
disposizioni personali e patrimoniali contenute nel divorzio sono date sic
stantibus rebus, e pertanto suscettibili di variazione nel tempo per
adeguare le iniziali previsioni alla situazione di fatto sopravvenuta, qualora
siano sensibilmente difformi.
Non vi è dubbio che tale revisione, per quanto riguarda la
specifica posta dell’assegno di mantenimento, sia indipendente dalla maggiore
età dei figli e sopporti come unici limiti, quelli posti dalla giurisprudenza
alla sopravvivenza dell’obbligo di mantenimento.
A.
MATRIMONIO
1998 72 GIUR CASS
Coniugi (diritti, doveri): mantenimento dei figli
Il principio generale di tutela della prole, desumibile da varie norme dell'ordinamento (art. 30 cost., art. 147, 148, 155, comma 4, c.c., art. 6, l. n. 898 del 1970, come modificato dalla l. n. 74 del 1987) che porta ad assimilare la posizione del figlio divenuto maggiorenne, ma tuttora dipendente non per sua colpa dai genitori, a quella del figlio minore, e che impone di ravvisare la protrazione dell'obbligo di mantenimento, oltre che di educazione e di istruzione, fino al momento in cui il figlio stesso abbia raggiunto una propria indipendenza economica, ovvero versi in colpa per non essersi messo in condizione di conseguire un titolo di studio o di procurarsi un reddito mediante l'esercizio di un'idonea attività lavorativa, o per avere detta attività ingiustificatamente rifiutato comporta che il coniuge separato o divorziato è legittimato (in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio maggiorenne, che trova il suo fondamento nella titolarità del diritto al mantenimento) ad ottenere "iure proprio" dall'altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne con esso convivente e che non sia ancora in grado di procurarsi autonomi mezzi di sostentamento.
Ente giudicante: Cass. civ., sez. I, 8 settembre 1998, n. 8868
B.
MATRIMONIO
1997 148 GIUR CASS
Divorzio: (assegno di mantenimento dei figli)
Il diritto del coniuge divorziato di ottenere dall'altro coniuge un assegno per il mantenimento del figlio maggiorenne convivente è da escludere quando quest'ultimo, ancorché allo stato non autosufficiente economicamente, abbia in passato espletato attività lavorativa, così dimostrando il raggiungimento di un'adeguata capacità e determinando la cessazione del corrispondente obbligo di mantenimento da parte del genitore, atteso che non può avere rilievo il successivo abbandono dell'attività lavorativa da parte del figlio, trattandosi di una scelta che, se determina l'effetto di renderlo privo di sostentamento economico, non può far risorgere un obbligo di mantenimento i cui presupposti erano già venuti meno, ferma restando, ovviamente, l'obbligazione alimentare, fondata su presupposti affatto diversi e azionabile direttamente dal figlio e non dal genitore convivente.
Ente giudicante: Cass. civ., sez. I, 5 agosto 1997, n. 7195
C.
MATRIMONIO
1996 136 GIUR CAPP
Divorzio: (assegno di mantenimento dei figli)
Se in via generale va riconosciuta la legittimazione del genitore (separato o divorziato), con il quale il figlio, divenuto maggiorenne, continui a convivere, a richiedere "iure proprio" all'altro genitore il contributo relativo al suo mantenimento, tale legittimazione più non sussiste nell'ipotesi in cui il figlio, dopo aver raggiunto la indipendenza economica, successivamente la perda; in tal caso, il figlio, sempre che l'evento non abbia determinato la perdita dell'indipendenza economica non sia a lui imputabile, può agire personalmente, e non quindi per il tramite di un terzo (genitore convivente), al fine, però, di reclamare solo gli alimenti.
Ente giudicante
App. Roma, 29 maggio 1995
D.
MATRIMONIO
1996 137 GIUR CAPP
Divorzio: (assegno di mantenimento dei figli)
L'obbligo dei genitori di provvedere al mantenimento del figlio anche dopo la maggiore età di quest'ultimo, obbligo perdurante fino a quando il figlio acquisisca l'idoneità ad inserirsi nel mondo del lavoro, così conseguendo l'indipendenza economica, viene meno allorché il figlio sia stato avviato ad un'attività lavorativa tale da consentirgli una concreta prospettiva di autonomia economica, ovvero allorché il figlio sia stato messo in condizione di reperire un lavoro idoneo alle attitudini del figlio stesso ed alle sue esigenze economiche, od anche allorché il figlio abbia ricevuto dai genitori la possibilità di conseguire un titolo sufficiente all'esercizio di una attività lucrativa, se esso di fatto non abbia voluto approfittarne, ovvero allorché il figlio abbia raggiunto un'età tale da far presumere il raggiungimento della capacità di provvedere a se stesso, salvo il caso di grave, inibente, minorazione fisica o psichica, ovvero infine, allorché il figlio si sia inserito in altri nuclei familiari o comunitari, in tal modo interrompendo, comunque, il suo legame e la sua dipendenza materiale e psicologica dalle figure parentali. Non ha perciò diritto al mantenimento il figlio maggiorenne scarsamente motivato o per nulla intenzionato a dedicarsi ad attività remunerativa, ovvero il figlio dedito ad attività sterili, frutto di scelte velleitarie, data la carenza di effettive, adeguate capacità, o di valutazioni della situazione occupazionale del settore prescelto dettate da aspirazioni non conformi a realtà, fermo restando che la valutazione e qualificazione delle circostanze che giustificano il ricorso all'obbligo di mantenimento dei genitori vanno effettuate caso per caso, con criteri di rigore proporzionalmente crescente in rapporto all'età del figlio beneficiario, allo scopo di impedirne forme di vero e proprio parassitismo di giovani e non più giovani ai danni di genitori sempre più anziani (nella specie, la Corte ha escluso il diritto al mantenimento per il figlio maggiorenne, convivente con la madre, il quale aveva rinunciato ad un lavoro retribuito consono alle sue capacità per motivi ritenuti non adeguati, preferendo iscriversi all'università, senza, peraltro, che fosse stato dimostrato, in giudizio, il suo rendimento negli studi).
Ente giudicante: App. Roma, 29 maggio 1995
E.
MATRIMONIO
1996 138 GIUR CASS
Divorzio: (assegno di mantenimento dei figli)
Il coniuge obbligato a corrispondere l'assegno di mantenimento per il figlio divenuto maggiorenne ha l'onere di provare la sopravvenuta sufficienza economica del figlio stesso.
Ente giudicante Cass. civ., sez. I, 21 dicembre 1995, n. 13039
[1] In senso atecnico.
[2] E’ pur vero che in talune ipotesi (es. divorzio o separazione) l’obbligo a prestare l’assegno di mantenimento decorre dalla domanda: tali ipotesi attengono tuttavia a casi di scioglimento della stabile convivenza fra genitori e figli che motivano la necessità di dare una decorrenza più certa ad un diritto che, per quanto spettante al figlio, viene fra l’altro esercitato nella maggior parte dei casi dal coniuge affidatario. In questa evenienza, tuttavia, l’assegno non è che l’estrinsecazione in forma diversa di un obbligo preesistente la cui origine rimonta, per l’appunto, alla filiazione.
[3] Per sostanze si intende ex. Art 148 cod. civ. “la complessiva consistenza del patrimonio di ciascun coniuge, quale espressa da ogni forma di reddito, dagli utili derivanti da investimenti di capitali e dal valore degli immobili, I quali, anche se improduttivi, sono comunque suscettibili, oltre che di utilizzazione diretta, di essere diversamente impiegati o convertiti” (Cass. 16 ottobre 1991 n°10901; Cass. 494/81)
[4] “salvo” aggiunge un’interessante sentenza della Corte d’appello di Roma “ il caso di grave, inibente, minorazione fisica o psichica”. (App. Roma, 29 maggio 1995)
[5] In un sistema di flessibilità perfetta il lavoratore si trova ad essere impiegato a tempo determinato per brevi periodi in diverse attività, passando dall’una all’altra a seconda delle esigenze del mercato: c’è in questo senso una precarietà dell’impiego (oggi sono fattorino, domani lavoro alla catena di montaggio, dopodomani mi occupo di telemarketing ecc.), ma non una precarietà del reddito che pur provenendo da diverse fonti, si mantiene, nel complesso ad un livello tale da garantire la sussistenza del percettore. In un sistema di flessibilità imperfetta, invece, la “precarietà” interessa anche il reddito, in quanto non è detto che al termine di un impiego interinale il lavoratore trovi in tempo ragionevole una nuova occupazione e quindi mantenga, nel complesso, un livello di reddito sufficiente a garantirgli autonomia economica.
[6] Si pensi ad esempio al figlio (minorenne o maggiorenne) che svolge saltuariamente il lavoro di cameriere o di PR per una discoteca.