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n. 5-2002 - © copyright. TAR LIGURIA, SEZ. II – Sentenza 15 aprile 2002 n. 432
– Pres. Arosio, Est. Fina – Ristochef s.p.a. (Avv.ti Fantigrossi e Piscitelli) c.
GAMA s.p.a. (Avv.ti Dalla Mura e Russo) e Unità Sanitaria Locale n. 3 Genovese
(n.c.) - (accoglie). 1. Contratti della P.A. - Appalti di forniture -
Requisiti di moralità - Requisito dell’assenza di condanne penali - Ex art.
11 lett. b) del D.L.vo n. 358/1992 - Condanna inflitta a mezzo di decreto penale
- Sufficienza. 2. Contratti della P.A. - Appalti di forniture -
Requisiti di moralità - Requisito dell’assenza di condanne penali - Ex art.
11 lett. b) del D.L.vo n. 358/1992 - Nel caso di trasformazione di una società
in accomandita semplice in società per azioni - Verifica del requisito - Va
effettuata anche nei confronti dell’amministratore unico della società
trasformata. 3. Giustizia amministrativa - Risarcimento del danno -
Per lesione di interessi legittimi - Requisito della colpa grave - Nel caso in
cui la P.A. appaltante sia stata formalmente informata di cause che impedivano
l’aggiudicazione (nella specie, sussistenza di condanne penali) e che,
malgrado ciò, abbia aggiudicato l’appalto - Sussiste. 4. Giustizia amministrativa - Risarcimento del danno -
Per lesione di interessi legittimi - Nel caso di risarcimento per equivalente
monetario - Quantificazione - Criteri. 1. Ai fini dell’applicabilità dell’art. 11 lett. b) del D.L.vo n.
358/1992 (secondo cui sono esclusi dalla partecipazione alle gare per
l’aggiudicazione di forniture coloro nei cui confronti sia stata pronunciata
una condanna, con sentenza passata in giudicato, per qualsiasi reato che incide
sulla loro moralità pubblica e per delitti finanziari), non occorre
necessariamente una sentenza, a seguito di rito ordinario o speciale, ma deve
considerarsi sufficiente anche una condanna inflitta a mezzo di decreto penale,
previsto dall’art. 460 del C.P.P., per il caso di sola sanzione pecuniaria
(1). 2. Nel caso in cui una società in accomandita semplice si sia
trasformata in società per azioni, e, quindi, abbia mutato la propria veste
giuridica, costituendo un nuovo soggetto, si viene a realizzare una vera e
propria successione d’azienda con sostituzione, piena nei rapporti commerciali
e con attribuzione delle strutture tecniche e dei beni aziendali, mentre nessuna
rilevanza deve attribuirsi al mantenimento dello stesso numero di partita IVA,
atteso che la trasformazione non comporta di per sé, alcuna modifica di tale
dato fiscale; in tale ipotesi la società risultante dalla trasformazione ha
l’obbligo di dichiarare le condanne penali riportate anche dalla società
trasformata, nella persona dell’amministratore unico di quest’ultima, in
modo da consentire all’amministrazione la verifica del possesso dei requisiti
di moralità professionale richiesti dalla legge. 3. Va condannata al risarcimento del danno, sussistendo il requisito
della colpa grave, una P.A. che abbia aggiudicato un appalto nonostante che
fosse stata informata dei precedenti penali a carico dell’amministratore della
società rimasta aggiudicataria con apposita istanza presentata da una ditta
concorrente. 4. L’annullamento dell’aggiudicazione di un appalto comporta anche
il risarcimento del danno ingiusto derivante alla ditta che aveva diritto di
conseguire tale aggiudicazione; il danno, nel caso di impossibilità di disporre
il risarcimento in forma specifica, va determinato ai sensi 1226 cod.civ.
(secondo cui "se il danno non può essere provato nel suo preciso
ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa") e va
quantificato dall’amministrazione ai sensi dell’art. 35, 2° comma, del
D.L.vo n. 80/98, tenendo conto: a) della diminuzione patrimoniale derivante
dalla mancata aggiudicazione; b) di ogni altro elemento derivante dalla mancata
aggiudicazione alla società ricorrente. Alla somma, individuata secondo i
predetti criteri, vanno aggiunti interessi legali e rivalutazione monetaria dal
momento in cui si è verificato il comportamento illegittimo. ------------------ (1) Ha osservato in proposito il
T.A.R. Liguria che deve ritenersi sufficiente anche una condanna inflitta a
mezzo di decreto penale per due ordini di ragioni: - il decreto penale, pur non
potendo assumere il valore decisorio di una sentenza, tuttavia rappresenta una
decisione motivata, non equiparabile, ma, almeno assimilabile ad una sentenza di
condanna; - l’estensione, recentemente
registratasi, delle fattispecie punibili con pena pecuniaria e del ricorso al
decreto penale, rischierebbe, in caso di esclusione della suddetta tipologia di
procedimenti differenziati, di svuotare di contenuto la disposizione di cui
all’art. 11 del D.l.vo n. 356/1992 e di renderla priva di qualsiasi incisività.
Commento di PAOLO DIVIZIA Note sparse sulla risarcibilità dell’interesse
legittimo La sentenza in commento si
segnala perché tocca alcune discusse questioni in tema di risarcibilità
dell’interesse legittimo nel settore degli appalti ed offre, ancora una volta,
lo spunto per effettuare qualche breve riflessione sull’argomento. La fattispecie, nei suoi
astratti lineamenti, può essere così sintetizzata: a seguito di una
licitazione privata per l’affidamento di una fornitura annuale di pasti
preconfezionati, alla quale partecipano due sole imprese, risulta aggiudicataria
una società sprovvista di un requisito essenziale. L’impresa seconda
classificata segnala all’Amministrazione la mancanza di tale requisito in capo
alla rivale, insistendo per la sua esclusione. L’Amministrazione non tiene in
alcun conto l’esposto ed affida l’appalto. Il T.A.R., riconosciute le
ragioni della società sconfitta, annulla l’ aggiudicazione e condanna la P.A.
al risarcimento del danno. La prima interessante tematica
che emerge dalla sentenza concerne l’analisi dell’elemento soggettivo (la
colpa) del comportamento dell’Amministrazione. La dottrina, nel corso
dell’ultimo cinquantennio, ha tentato a più riprese di tracciare un confine
netto alla fattispecie della colpa nell’ambito dell’azione amministrativa,
individuando una serie di parametri ed indici di riconoscimento, che hanno
trovato applicazione in giurisprudenza (1). È pacifico che la
manifestazione di un comportamento colposo, in linea di principio, si
contraddistingua per la sostanziale imperizia, imprudenza e negligenza con cui
si tiene una determinata condotta. Secondo le risalenti posizioni dottrinali e
giurisprudenziali, la Pubblica Amministrazione , in quanto soggetto tenuto ex necesse al rispetto della legge, integrava una condotta colposa
tutte le volte in cui subiva una pronuncia di annullamento dei propri atti,
motivata dal mancato rispetto – a monte – di norme legislative o
regolamentari che ne disciplinavano l’adozione. Su questa linea, quindi, la
configurazione di un comportamento colposo si definiva automaticamente con la
pronuncia di annullamento in sé, rendendo del tutto superflua un’indagine sul
comportamento effettivamente tenuto dall’autorità procedente (2). Le Sezioni Unite, con la
sentenza n. 500 del 1999, ridisegnano l’approccio a questo tema ed invertono
l’orientamento giurisprudenziale che si era consolidato. L’analisi investigativa
sull’operato dell’Amministrazione viene oggi considerata necessaria ed
imprescindibile e dunque, in capo al ricorrente, si prospetta un onus
probandi aggiuntivo teso a dimostrare che l’emanazione e l’esecuzione
dell’atto illegittimo è avvenuta, non solo in contrasto con la normativa che
ne disciplina l’adozione, ma anche in violazione delle generali regole di
imparzialità, correttezza, diligenza e buon andamento, alle quali l’esercizio
della funzione amministrativa deve comunque ispirarsi. Questa nuova impostazione
comporta l’introduzione, all’interno del processo amministrativo, di alcune
categorie concettuali ormai consolidate nel diritto civile in tema di tutela
risarcitoria, primi fra tutti i concetti di negligenza ed imperizia. La Corte di Cassazione ha
precisato, a più riprese, che il privato non dovrà provare la colpa dei
singoli funzionari, bensì la colpa della P.A. nel suo complesso, laddove essa
violi le comuni regole di prudenza e diligenza (3). La sentenza del T.A.R. Liguria
in esame offre conferma di questo nuovo approccio interpretativo. Nel corpo
della motivazione il Collegio indica in maniera succinta ma precisa
l’imputazione di un profilo specifico di colpa all’Amministrazione per non
aver tenuto in debita considerazione l’esposto presentato dalla società e,
per questo, responsabile, non solo per aver violato la disciplina legislativa
della procedura di assegnazione, ma anche per esser venuta meno a quelle
basilari regole di diligenza (4) che avrebbero dovuto informare
la sua azione complessiva. Nel caso di specie l’Amministrazione ha integrato
il profilo soggettivo della colpa disattendendo l’obbligo di svolgere almeno
un controllo, una verifica a fronte di quanto denunciato nell’esposto. Il secondo punto di riflessione
è dedicato alle modalità di soddisfacimento della domanda risarcitoria. Come ha avuto modo di chiarire
un’attenta voce dottrinale (5), in giurisprudenza non vi è
ancora una posizione pacifica circa l’esistenza di una priorità logica fra le
modalità del risarcimento in forma specifica e per equivalente. Pare corretto affermare, però,
che in materia di appalti, sulla base di quanto disposto dall’art. 35 del
decreto legislativo n. 80 del 1998, a seguito dell’annullamento del
provvedimento di aggiudicazione (6), la società
illegittimamente esclusa abbia diritto, se possibile, al risarcimento in forma
specifica dell’interesse legittimo leso. Tale risarcimento consisterebbe
nell’aggiudicazione ex officio dell’appalto
e nella sostituzione della società indebitamente vincitrice nell’esecuzione
del contratto (7). Tuttavia, nei casi in cui la
fornitura oggetto di gara sia già stata eseguita dalla società non avente
diritto ed il contratto si sia dunque consumato (si pensi ad una fornitura su
base annuale rinnovabile), l’interessato potrà ottenere solo il risarcimento
pecuniario. Il ricorso alla forma della reintegrazione per equivalente è, in
questi casi, l’unica soluzione prospettabile. Ed anzi, non pare imprudente
osservare che, sebbene la soluzione pecuniaria sia la forma risarcitoria
residuale sul piano logico, essa rappresenti la regola nella prassi giudiziaria.
Spesso, infatti, la statuizione giudiziale nel merito – a patto che non vi sia
stata una tempestiva fase cautelare – arriva molto dopo l’esecuzione della
fornitura e dunque una reintegrazione in forma specifica è, in concreto,
irrealizzabile. Proprio su questa linea si è
posta la sentenza in oggetto, la quale, facendo espresso richiamo all’art.
1226 c.c. (8), apre anche una terza grande tematica, e cioè
quella delle modalità con cui il giudice debba procedere alla liquidazione del
risarcimento. La dottrina civilistica è
compatta nell’affermare che il potere del giudice di quantificare il danno con
valutazione equitativa presuppone sempre la prova dell’esistenza del danno
stesso, la quale può essere conseguita con tutti i mezzi ammessi
dall’ordinamento, ed è subordinata alla condizione che sia impossibile (9)
o molto difficile provarne il preciso ammontare. In generale, a fronte
dell’illegittima esclusione da una licitazione privata, il giudice
amministrativo, riconosciuto anche il profilo dell’ingiustizia del danno, è
tenuto ad accordare, come visto, un risarcimento pecuniario. Nell’effettuare
questa valutazione, tuttavia, egli non è assistito da alcuno strumento di
calcolo matematico, statistico o gabellare (10), ma deve –
per contro – procedere ad una valutazione per intero equitativa, logicamente
preceduta dalla fissazione di alcuni criteri guida. Nel settore degli appalti, la
giurisprudenza tende a scindere il danno in due componenti: da un lato, si
richiama il concetto di danno emergente, facendo riferimento alle spese vive
sostenute dalla società per la partecipazione alla gara, e, dall’altro, al
c.d. lucro cessante, parametrato alla perdita di chance
patrimoniale (11). A dire il vero, la sentenza in
oggetto è molto precisa nell’indicare il lucro cessante, menzionando
espressamente la “diminuzione patrimoniale derivante dalla mancata
aggiudicazione”; sapientemente, poi, conserva un elevato grado di genericità
laddove nel secondo criterio parla di “ogni altro elemento derivante dalla
mancata aggiudicazione alla società ricorrente”, comprendendo, quindi, ogni
profilo del danno emergente. In stretta correlazione con
quanto esposto, l’ultimo motivo di riflessione offerto da questa breve ma
significativa sentenza è la richiamata procedura per la liquidazione del danno,
prevista nel secondo comma dell’art. 35 del decreto legislativo n. 80 del
1998, chiamata dalla legge “proposta di risarcimento”. Questa particolare (e forse
macchinosa) modalità di quantificazione porta il giudice a confezionare una
sentenza dotata di una struttura particolare, che contiene una statuizione di
condanna generica, in cui il Collegio si limita ad affermare l’an
debeatur, corredata peraltro dalla definizione di criteri in base ai quali
l’Amministrazione deve proporre al ricorrente il pagamento di una somma, entro
un congruo termine. Nella fattispecie, sotto il
profilo del quantum, richiamato
l’art. 1226 c.c. ed optato per una valutazione equitativa, il Tribunale ha
fissato una serie di criteri guida, di principi di riferimento per la
definizione dell’ammontare del danno, in base ai quali la P.A. dovrà
formulare una proposta di liquidazione del danno entro il termine ritenuto
congruo (12). La procedura così prospettata
pare, ad una prima lettura, lineare e di facile attuazione pratica, ma non
possono essere nascoste alcune difficoltà nell’attuazione del meccanismo
previsto dalla legge. In primo luogo, in ordine alla
fissazione di questi principi, è corretto, da una parte, sostenere che un
eccessivo grado di dettaglio nella stesura degli stessi potrebbe vincolare
eccessivamente la P.A. nella formulazione della sua proposta finale;
dall’altra, indici troppo generici rischiano di essere poco efficaci e di
scarso aiuto per il raggiungimento di un accordo fra privato ed Amministrazione.
La ricerca di un punto di equilibrio non pare quindi essere per nulla agevole. In secondo luogo, qualche
problema si pone nel caso in cui l’accordo non sia raggiunto. La legge in tal
caso prevede che il danneggiato possa ricorrere al rimedio dell’ottemperanza,
nell’ambito del quale, “può essere richiesta la determinazione della somma
dovuta” (13). Per contro, la norma non precisa
quali rimedi siano esperibili nell’ipotesi in cui, ad accordo definito,
l’Amministrazione risulti inadempiente alle pattuizioni. In questa ipotesi, il
ricorso allo strumento dell’ottemperanza può essere problematico. Questa osservazione vuole essere
un mero spunto, volano di uno studio ben più meditato su un tema così ampio e
delicato, nell’ambito del quale, in primo luogo, sarebbe importante offrire
una bilanciata chiave di lettura del dato normativo alla luce dei principi
generali del processo, su tutti gli assiomi dell’ “effettività” della
tutela e della “ragionevolezza”. In secondo luogo, questa
indagine dovrebbe portare a tratteggiare i reali confini dei poteri del giudice
amministrativo nei confronti della P.A. nell’ambito di questa ipotesi di
ottemperanza, in cui il giudice deve effettuare – de facto – un intervento sostitutivo rispetto
all’Amministrazione rimasta inadempiente. Come ha precisato la dottrina (14),
l’esecuzione del giudicato spesso può richiedere non solo un’attività di
mera esecuzione, ma può talora comportare profili compositi, di natura
cognitiva e valutativa del rapporto giuridico. Tornando all’ipotesi descritta
in cui, raggiunto un accordo fra privato e P.A., quest’ultima non dia
esecuzione dello stesso, bisognerebbe interrogarsi su quale margine di
intervento possa avere il giudice dell’ottemperanza. Nel caso di specie
l’accordo raggiunto è fonte di un rapporto obbligatorio e ad esso
bisognerebbe dare attuazione. Ad avviso di chi scrive, al fine
di garantire una celere tutela del privato, anche in questo caso dovrebbe esser
garantito al giudice amministrativo un adeguato margine di manovra, affinché
possa effettuare un giudizio cognitivo sul rapporto costituito dall’accordo e
possa disporre per la sua pronta esecuzione con i mezzi più opportuni, non
ultimo il ricorso ad un commissario ad acta (15).
(1)
A mero titolo esemplificativo, cfr. CASETTA, L’illecito
degli enti pubblici, Torino, 1953; ALESSI, La
responsabilità della Pubblica Amministrazione, III ed., Milano, 1955;
CAFAGNO, La tutela risarcitoria degli
interessi legittimi, Milano, 1996. (2)
Cfr. su questa linea Cass. civ., 1 marzo 1989, n.1137, in Giust.
civ., 1989, I , pag. 832 e ss.; Cass. civ. sez. I, 24 maggio 1991, n. 5883
in Foro it., 1992, I, pag. 453 e ss; Cass. Civ. sez. III, 9 giugno
1995, n. 6542 in Giur. it. , 1996, I,
pag. 191 e ss. (3)
Cfr. a titolo esemplificativo Cass. civ., sez. II, 24 maggio 1991, n. 5883, in Cons.
Stato, 1991, II, 1709. (4)
È noto che la migliore dottrina ha definito la diligenza come una vera e
propria qualità soggettiva di un’attività, qualificandola come “cura,
sollecitudine, sforzo, studio, attenzione al fine”. Cfr. MENGONI, Manuale
di diritto civile, Milano, 1954, pag. 193. (5)
Cfr. TRAVI, Tutela risarcitoria e giudice
amministrativo, in Dir. Amm., 1 /2001, pag. 7 e ss. (6)
E sempre che siano ristretti gli ambiti di esercizio, da parte della P.A.
competente, di scelte espressione di discrezionalità tecnica ed amministrativa,
cfr. Tar Trentino A.A., 7 dicembre 2000, n. 335, in Urbanistica
ed Appalti, 2001, pag. 197 (7)
Cfr. su questa linea Tar Toscana sez. I, 21 ottobre 1999, n.766 in Foro
amm. 2000, pag. 2264; Tar Veneto sez. I, 9 febbraio 1999, n. 119, in Urbanistica ed appalti, 1999, pag. 1140; Tar Catania, sez. I, 23
giugno 1999, n. 804, in Urbanistica ed
appalti, 2000, pag. 304 secondo cui “il risarcimento in forma specifica si
pone come primo rimedio cui ricorrere, nei limiti in cui sia possibile e non
risulti eccessivamente oneroso…”. Ma di avviso diverso proprio un Tar
Liguria, sez. I, 12 agosto 1999, n. 424, in Urbanistica
ed appalti, 1999, pag. 1139 il quale sempre in ipotesi di impugnazione di
aggiudicazione di un appalto, nega il risarcimento in forma specifica,
osservando che l’annullamento dell’aggiudicazione avrebbe già restituito al
ricorrente le proprie aspettative in forma specifica. (8)
Art. 1226 cod. civ. Valutazione equitativa del danno. “Se il danno non può
essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con
valutazione equitativa”. (9)
L’impossibilità di provare il danno deve essere intesa in senso relativo e
non assoluto e come precisa la Cass. Civ. n. 736 del 1987 “sussiste ogni qual
volta, in relazione alla peculiarità del fatto dannoso e delle caratteristiche
personali del danneggiato, la precisa determinazione dell’ammontare del danno
si presenti notevolmente difficoltosa”. (10)
Si pensi alle c.d. tabelle predisposte in ogni distretto di Corte d’Appello
per la quantificazione del “danno biologico”. (11)
Cfr. Tar Toscana sez. I, 21 ottobre 1999, n. 766, cit. (12)
Il Tar Liguria assegna un termine di 90 giorni, decorrenti dalla comunicazione
della sentenza. (13)
Sul punto TRAVI, Lezioni di giustizia
amministrativa, Torino, 2000, pag. 307 e ss. “In questo caso al giudizio
di ottemperanza, a ben vedere, non è demandata tanto l’esecuzione della
sentenza, ma è demandata piuttosto la pronuncia definitiva su una domanda
proposta nel ricorso originario”. (14)
Cfr. TRAVI, op cit. (15)
Sull’opportunità ed i rischi di ricorrere ad un commissario ad
acta a tal fine, si confronti TRAVI, op.
cit., pag. 310.
Per l’annullamentoDella deliberazione n. 2147 del
9.7.1999 avente ad oggetto l’aggiudicazione della gara per la fornitura di
pasti preconfezionati per il periodo di un anno; degli atti con i quali è stata
disposta l’ammissione alla gara della controinteressata e di ogni altro atto,
comunque connesso, preordinato e conseguente e, in particolare dei verbali della
commissione esaminatrice; Visto il ricorso con i relativi
allegati; Visto l’atto di costituzione
in giudizio dell’Amministrazione intimata; Viste le memorie prodotte dalle
parti a sostegno delel rispettive difese; Visti glia tti tutti della
causa; Uditi alla pubblica udienza del
28.2.2002 relatore il cons. Sergio Fina e uditi altresì, l’Avv. Francesca
ALESSI, per la ricorrente e l’Avv. Leonardo RUSSO, per la controinteressata; Ritenuto e considerato quanto
segue: ESPOSIZIONE DEL FATTOA seguito di una licitazione
privata per l’affidamento di una fornitura di pasti preconfezionati veniva
disposta l’aggiudicazione nei confronti della controinteressata GAMA s.p.a.
Contro la deliberazione di approvazione degli atti di gara e di aggiudicazione
definitiva la società ricorrente propone ricorso e deduce i seguenti motivi: 1. violazione e falsa
applicazione dell’art. 11 lett. B ed F del D.lgs. n. 358/1992, come modificato
dal D.lgs n. 402/1998; 2. violazione e falsa
applicazione dell’art. 17 del D.lgs n. 358/1992; eccesso di potere per
violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione,
sancito dall’art. 97 della Cost.; eccesso di potere sotto il profilo di
difetto d’istruttoria e di presupposti; 3. violazione e falsa
applicazione dell’art. 11 del D.lgs n. 358/1992; eccesso di potere per difetto
d’istruttoria e di presupposti; travisamento dei fatti. Si è costituita la società
controinteressata rilevando l’inammissibilità del ricorso e chiedendone il
rigetto nel merito. Alla pubblica udienza del
28.2.2002 il ricorso è stato tratto in decisione. MOTIVI DELLA DECISIONESono impugnati gli atti di
aggiudicazione e di ammissione alla licitazione privata della controinteressata
GAMA s.p.a., per l’affidamento della fornitura di pasti preconfezionati in
reparti di degenza, centri diurni e mense del personale appartenenti all’Unità
sanitaria locale n. 3 Genovese. Deve, in via preliminare,
respingersi l’eccezione di tardività del ricorso per omessa impugnazione
dell’aggiudicazione provvisoria che ai sensi delle disposizioni di gara teneva
luogo del contratto. Il Collegio non ignora l’orientamento giurisprudenziale, prevalentemente seguito dal Consiglio di Stato, secondo cui gli atti endoprocedimentali di gara adottati in presenza del rappresentante dell’impresa concorrente, se a contenuto lesivo, vanno tempestivamente impugnati, ma tuttavia, ritiene che per l’aggiudicazione provvisoria l’impugnazione non costituisce un obbligo, ma, soltanto, una facoltà, risolvendosi, comunque, il procedimento nell’atto conclusivo dell’approvazione degli atti di gara e dell’aggiudicazione definitiva. Nel merito il ricorso è fondato
in relazione all’assorbente primo motivo di ricorso con il quale si rileva la
violazione e falsa applicazione dell’art. 11 lett. B del D.l.vo n. 358/1992. A norma della precitata
disposizione sono esclusi dalla partecipazione alle gare nei cui confronti sia
stata pronunciata una condanna, con sentenza passata in giudicato, per qualsiasi
reato che incide sulla loro moralità pubblica e per delitti finanziari. Ora il primo aspetto che va
chiarito è quello relativo al tipo di pronuncia necessaria ad integrare
l’ipotesi normativa in esame e, cioè, se deve trattarsi di sentenza, a
seguito di rito ordinario o speciale, così come sembra ricavarsi dal dato
letterale della norma, oppure è da considerarsi sufficiente anche una condanna
inflitta a mezzo di decreto penale, previsto dall’art. 460 del C.P.P., per il
caso di sola sanzione pecuniaria, pena che risulta applicata in tre distinti
episodi, attraverso tale speciale procedimento alla società GAMA s.a.s., tra
gli anni 1995-1996. Ad avviso del collegio
quest’ultima impostazione appare più rispondente al senso della disposizione
e al sistema, nel suo complesso, per due ordini di ragioni: - il decreto penale, pur non
potendo assumere il valore decisorio di una sentenza, tuttavia rappresenta una
decisione motivata, non equiparabile, ma, almeno assimilabile ad una sentenza di
condanna; - l’estensione, recentemente
registratasi, delle fattispecie punibili con pena pecuniaria e del ricorso al
decreto penale, rischierebbe, in caso di esclusione della suddetta tipologia di
procedimenti differenziati, di svuotare di contenuto la disposizione di cui
all’art. 11 del D.l.vo n. 356/1992 e di renderla priva di qualsiasi incisività. A tale riguardo va evidenziato
che: - Il reato è estinto e, dunque,
vengono meno tutti gli effetti penali se nel termine di due anni, quando il
decreto concerne una contravvenzione, l’imputato non commette un reato della
stessa indole e non sembra essere questo il caso della controinteressata che ha
subito tre condanne consecutive tra il 1996 e 1997; per violazioni della stessa
normativa, punibili con la pena dell’arresto e dell’ammenda; - tutte le violazioni accertate
riguardavano la disciplina igienica della produzione e vendita delle sostanze
alimentari, e, cioè, la medesima attività oggetto dell’impresa. Tra le diverse argomentazioni
sviluppate nel ricorso e fortemente contestate dalla controinteressata vi è
quella della continuità dei soggetti giuridici: GAMA s.a.s. e GAMA s.p.a. che,
secondo la ricorrente emergerebbe, con tutta evidenza dagli atti di gara,
essendosi la seconda, avvalsa, ai fini della partecipazione alla gara, anche di
dichiarazioni inerenti a servizi ed importi fatturati, relativi all’attività
della prima Anche in questo caso il Collegio
ritiene fondata la tesi della ricorrente, poiché se è vero che la società in
accomandita semplice si è trasformata in società per azioni, e, quindi ha
mutato la propria veste giuridica, costituendo un nuovo soggetto, è altrettanto
vero che per quest’ultimo si è realizzata una vera e propria successione
d’azienda con sostituzione, piena nei rapporti commerciali e con attribuzione
delle strutture tecniche e dei beni aziendali, mentre nessuna rilevanza deve
attribuirsi al mantenimento dello stesso numero di partita IVA; poiché la
trasformazione non comporta di per sé, alcuna modifica di tale dato fiscale. In conclusione l’art. 11 del
D.l.vo n. 358/1992 appare violato, poiché la società risultante dalla
trasformazione aveva l’obbligo di dichiarare le condanne penali riportate
anche dalla società trasformata, nella persona dell’amministratore unico di
quest’ultima, condanne che, peraltro, risalgono ad epoca assai recente, in
modo da consentire all’amministrazione la verifica del possesso dei requisiti
di moralità professionale richiesti dalla legge. Relativamente alla domanda
risarcitoria occorre, preliminarmente, rilevare che l’azienda sanitaria è
stata, compiutamente, informata dei precedenti penali a carico
dell’amministratore della GAMA s.a.s con apposita istanza della società
ricorrente, di esclusione della controinteresstata dalla gara, ma è rimasta,
sostanzialmente inerte. Appare, pertanto, integralmente
imputabile all’amministrazione quanto meno, sotto il profilo della colpa, la
responsabilità per il danno subito dalla ricorrente, danno ingiusto in quanto
effetto diretto di un comportamento illegittimo della pubblica amministrazione e
legato a quest’ultimo da un chiaro nesso di causalità. Ora non potendosi attuare nella
fattispecie alcun tipo di risarcimento in forme specifiche, essendo la
fornitura, oggetto della gara, limitata ad un solo anno, eventualmente
prorogabile a due ulteriori annualità, deve farsi luogo al risarcimento per
equivalente, condannando l’azienda sanitaria al pagamento di una somma di
denaro. Poiché lo svolgimento della
licitazione privata ha visto la società ricorrente come unica ricorrente nei
confronti della società risultata illegittimamente aggiudicataria, il suo danno
patito deve essere individuato nella diminuzione patrimoniale derivante dalla
mancata aggiudicazione. Il bando di gara, infatti, prevede, l’ipotesi di
aggiudicazione anche in presenza di un’unica offerta. L’art. 1226 del C.C. statuisce
che "se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è
liquidato dal giudice con valutazione equitativa". Nel caso di specie appare equo
individuare, come criterio di determinazione del danno emergente e del lucro
cessante della società ricorrente i seguenti parametri: a) la diminuzione patrimoniale
derivante dalla mancata aggiudicazione; b) ogni altro elemento derivante
dalla mancata aggiudicazione alla società ricorrente. Sulla base di queste premesse in
applicazione dell’art. 35/2 c. del D.l.vo n. 80/1998 deve assegnarsi alla
pubblica amministrazione un termine per formulare una proposta di risarcimento
da ragguagliarsi, nel quantum ai
parametri sopra indicati (TAR Lombardia sez. 3 n. 5130 del 31.07.2000). Alla somma, individuata secondo
i suesposti criteri, vanno aggiunti interessi legali e rivalutazione monetaria
dal momento in cui si è verificato il comportamento illegittimo e che può
riportarsi in modo certo al 06.10.1999, data in cui l’amministrazione dimostra
in atti di essere pienamente edotta degli elementi trasmessi dalla ricorrente. Per tutte le suesposte
considerazioni il ricorso deve essere accolto e per l’effetto deve annullarsi
l’impugnata deliberazione di approvazione degli atti di gara e di
aggiudicazione; deve, inoltre, condannarsi la U.S.L. n. 3 genovese al
risarcimento dei danni causati alla ricorrente, nei limiti di quanto fissato in
motivazione, assegnando per questo all’azienda sanitaria il termine di novanta
giorni decorrenti dalla comunicazione, in via amministrativa, della presente
sentenza per effettuare la proposta di risarcimento ai sensi dell’art. 35/2°
c. del D.l.vo n. 80/1998. Le spese seguono la soccombenza
e devono essere liquidate come indicato nel dispositivo. P.Q.M. IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO
REGIONALE DELLA LIGURIA, Sezione II, definitivamente pronunciando sul ricorso n.
1371/1999 ACCOGLIE e per l’effetto annulla l’impugnato provvedimento; condanna, inoltre,
l’amministrazione a risarcire oi danni alla ricorrente nei limiti indicati in
motivazione. Condanna alle spese
l’amministrazione nella misura di euro 1.000 (mille). Ordina che la presente sentenza
sia eseguita dall’Autorità Amministrativa. Così deciso in Genova, nella
Camera di Consiglio del 28.2.2002. Mario AROSIO Presidente Sergio FINA Consigliere,
estensore. |
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