LA RESPONSABILITA’ CIVILE DEL...
CINGHIALE Un nuovo e temibile nemico minaccia la sicurezza
delle nostre strade: il cinghiale, con i suoi cento e più kilogrammi, lanciato
contro automobili e motociclette, può produrre ingenti danni a cose e persone
ma soprattutto può creare grossissime difficoltà ad ottenerne il risarcimento. Attratti nel patrimonio indisponibile dello Stato
(dapprima con la L. 27 dicembre 1977, n. 968 e quindi con la L. 11 febbraio
1992, n. 157), gli animali selvatici, e fra essi i cinghiali, hanno cessato
essere res nullius, suscettibili di
venire acquisite alla proprietà dei singoli attraverso l’occupazione di cui
all’art. 923 C.c., come appare testimoniato da una consolidata giurisprudenza
in materia di furto venatorio. La responsabilità generale della Regione, per i
danni da essi prodotti, viene essenzialmente affermata sulla scorta di quanto
previsto, all’interno della Legge 157, dal 3° comma dell’art. 1 (“le
Regioni provvedono ad emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di
tutte le specie della fauna selvatica”), dal 2° comma dell’art. 19 (“le
Regioni…provvedono al controllo delle specie di fauna selvatica anche nelle
zone vietate alla caccia”) e dagli artt. 10 e 26 (i quali prevedono
l’istituzione di un fondo regionale destinato al risarcimento dei danni
arrecati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole ed ai manufatti rurali),
indirizzo confermato anche da recenti pronunce della Corte di Cassazione (si
veda, ex multis, Cass. Civ. Sez. III,
12 agosto 1991, n. 8788). La stessa Legge 157, poi, stabilisce che le Province
esercitano i compiti amministrativi relativi alla protezione della fauna,
mentre, a norma dell’art. 19 del nuovo testo unico delle Leggi sulle autonomie locali, D.Lgs. 18 agosto 2000, n.
267, spetta alle Province la protezione della flora e della fauna. Però, mentre le norme dalle quali ricavare la
responsabilità della Regione sono di origine statale, quelle da interpretare ai
fini dell’affermazione di responsabilità della Provincia possono essere
contenute sia in Leggi statali che regionali, cosicché l’analisi giuridica
non può essere condotta con uniformità rispetto al territorio nazionale,
essendo necessariamente influenzata dai modi con cui le singole regioni hanno, o
non hanno, regolamentato la materia. In ogni caso, anche all’interno delle medesime
regioni è possibile rilevare differenti prassi applicative in materia: ad
esempio nell’Ufficio del Giudice di Pace di Torino, a distanza di pochi mesi,
si sono avute due pronunce totalmente difformi in quanto in un caso è stata
stabilita la responsabilità esclusiva della Provincia, mentre nell’altro caso
quella della Regione, a seconda di come, in concreto, venivano interpretate le
norme, contenute nella Legge Reg. Piemonte 4 settembre 1996, n. 70, che
conferivano le funzioni amministrative in materia egli enti provinciali (sempre
in Piemonte, il G.d.P. di Asti ha avuto invece modo di affermare, in maniera
costante, la responsabilità della Regione). Nel caso della Regione Liguria, la normativa di
riferimento è la Legge Reg. Liguria 1 luglio 1994, n. 29, la quale, in
concreto, non sembra operare un definitivo e totale conferimento delle funzioni
relative alla fauna selvatica alla Provincia, necessario ai fini
dell’attribuzione esclusiva della responsabilità in capo a tale ente. Ci sembra più corretto, invece, sostenere che la
Legge Regionale abbia diversificato tra funzioni di pianificazione e di
controllo, in capo alla Regione, e funzioni di attuazione ed esecuzione, in capo
alla Provincia, dalla quale sembrerebbe discendere una sorta di “responsabilità
solidale”, o quantomeno “ripartita”, tra i due enti (a tali conclusioni,
infatti, è pervenuto il Giudice di Pace di Cairo Montenotte, in una recente
sentenza). La seconda cospicua parte del discorso è invece
quella relativa alla natura della responsabilità derivante da questo tipo di
sinistri. Il primo orientamento che si è venuto consolidando,
all’interno della giurisprudenza di legittimità, in tema di titolo della
responsabilità per i danni cagionati da animali selvatici faceva applicazione
dell’articolo 2052 C.c. relativo ai danni cagionati da animali in custodia. Tale via ermeneutica, che peraltro ha avuto scarsa
fortuna, faceva gravare, in maniera oggettiva, la responsabilità per i danni
cagionati dall’animale sul proprietario o sull’utilizzatore dello stesso,
ovviamente salvo il caso fortuito inteso come evento imprevedibile ed
inevitabile estraneo al rischio tipico ed idoneo ad interrompere il nesso di
causalità. La giurisprudenza di legittimità, però, censurava
detto orientamento, affermando, per potersi applicare tale norma, la necessità
di una relazione diretta con l’animale, comportante una sorveglianza
continuativa, peraltro ontologicamente incompatibile con la natura selvatica
dell’animale stesso. Esclusa dunque l’operatività dell’art. 2052 C.c.,
residua una possibile area di responsabilità, fondata sul mancato rispetto del
principio del neminem laedere, secondo
gli ordinari principi della tutela aquiliana, ricorrendo i requisiti previsti
dall’art. 2043 C.c., ed in particolare sussistendo il nesso di causalità tra
il danno in concreto verificatosi e l’omissione delle misure idonee ad
evitarlo da parte dell’ente pubblico a ciò preposto, con assunzione a carico
del danneggiato del conseguente onere probatorio. In tal senso si è pronunciata la Corte
Costituzionale, la quale ha affermato che “i danni prodotti dalla fauna
selvatica, animali che soddisfano il godimento dell’intera collettività,
costituiscono un evento puramente naturale di cui la comunità intera deve farsi
carico secondo il regime ordinario e solidaristico di imputazione della
responsabilità civile ex art. 2043
C.c.” (Ord. N. 4, 4 gennaio 2001), confermando un filone già emerso nelle
pronunce della Suprema Corte di Cassazione (confronta, tra le tante, Cass. Civ.
Sez. III, 15 marzo 1996, n. 2192 o Cass. Civ. Sez. III, 14 febbraio 2000, n.
1638). L’imputabilità al soggetto pubblico del fatto
dannoso è stata prospettata per il caso in cui quest’ultimo abbia tollerato
passivamente condizioni di fatto (come il moltiplicarsi esagerato degli
esemplari) tali da aumentare notevolmente il rischio di incursioni dannose o da
accrescere oltre misura la voracità o gli istinti aggressivi della fauna o non
abbia effettuato adeguate segnalazioni visive circa la presenza di selvaggina
(omissione dei cartelli di avviso, mancata predisposizione di servizi di
vigilanza, mancata recinzione di appezzamenti in cui si trovino capi pericolosi
in prossimità di vie di comunicazione, senza però che possa pretendersi la
completa recinzione delle stesse). A tale riguardo è da riflettere, peraltro,
sull’estrema difficoltà dimostrativa che l’onere probatorio porta a carico
della vittima: ritenere infatti che l’ente possa essere responsabile solo
qualora ne venga provata la colpa significa lasciare il danno là dove cade. Non sono mancate, comunque, pronunce della
giurisprudenza di merito che, comprendendo la gravità della situazione che con
tale interpretazione si verrebbe a creare, hanno ritenuto la P.A. responsabile
per i danni arrecati dalla fauna selvatica ai sensi dell’art. 2052 C.c.,
sottolineando come ritenere inapplicabile il criterio di imputazione oggettivo
nel caso di specie rappresenti un odioso e del tutto ingiustificato privilegio
per la P.A., che in tal caso diventerebbe l’unico proprietario, nel nostro
ordinamento, che non risponde dei danni arrecati dal proprio animale secondo i
rigidi criteri di imputazione previsti dall’art. 2052 C.c. (come, ad esempio,
una sentenza del 2000 del Giudice di Pace di Cairo Montenotte). Alla luce di tali considerazioni, è da concludere
che in una logica di giustizia sostanziale e anche a costo di “forzare”
leggermente l’interpretazione delle norme, la P.A., in quanto dominus,
dovrebbe rispondere dei danni cagionati a terzi dalla fauna selvatica non ai
sensi dell’art. 2043 C.c., ma ai sensi del più rigido art. 2052 C.c..
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