LA
FOBIA DEL PAZIENTE DESIGNATO.
La
scuola sistemica e la terapia familiare.
Secondo questo approccio teorico e metodologico, non si possono
studiare dati e persone senza considerare la dinamica interattiva
e il contesto in cui hanno vita gli scambi relazionali. Le
teorie psicoanalitiche e comportamentiste sono da essi considerate
limitate dal fatto che esse considerano ogni evento come consequenziale
all'altro, in modo lineare (il disagio psichico sarebbe
conseguenza del trauma infantile per gli psicoanalisti e del
condizionamento per i comportamentisti), mentre la scuola
sistemica prevede, per uno stesso effetto, tante cause in
relazione fra loro, secondo un sistema di causalità
circolare per cui la causa e l'effetto non hanno più
una linearità ma l'effetto si ritorce sulla causa e
da effetto diventa causa.
Per quanto riguarda le fobie, dal momenlo che tutti, pazienti
compresi, ne riconoscono l'alto livello di assurdità,
esse vengono trattate evitando di fare qualsiasi discorso
troppo "ragionevole" sulle possibili cause e concentrandosi
invece sullo studio della realtà, come viene vissuta,
qui e ora, dal soggelto. Scopo principale della terapia
è il cambiamento dell'immagine del mondo del paziente
attraverso delle prescrizioni comportamentali, cioè
suggerimenti su un nuovo modello di comportamento, più
funzionale. Ad esempio, quando l'entrare in un edifìcio
affollato e bene illuminato scatena un'ansia incontrollabile,
si potrà ricevere il suggerimento, assurdo quanto la
fobia stessa, di entrare in questo luogo, rimanendo però
ad una certa distanza da un punto critico x, stabilito dal
soggetto in base alle proprie percezioni, superato il quale
verrebbe sopraffatto dall'angoscia. In questo modo il fobico
sposta la "zona di pericolo", con il risultato pratico
di aver effettivamente spostato il problema da se stesso al
punto x.
Un altro esempio: se si ha la fobia di non essere puliti,
per cui si è ossessionati dalla necessità di
fare frequenti docce, il trattamento non prende di petto il
problema-docce, non vengono fatti discorsi o studi per capire
le ragioni di questo disturbo, ma si tenta di distogliere
l'attenzione del soggetto da se stesso, chiedendogli ad esempio
di usare diversi tipi di saponi, poi asciugamani differenti,
cambiare gli orari delle docce eccetera.
L'obiettivo è il cambiamento reale del comportamento
indesiderato, impedendo di fatto al soggetto di continuare
a ripetere ossessivamente i suoi riti, senza che egli ne sia
pienamente consapevole.
La terapia familiare, che è figlia della scuola
sistemica, ha come oggetto di indagine le relazioni fra i
diversi componenti della famiglia, vista come un tutto organico,
ovvero un sistema che supera e articola fra loro le varie
componenti individuali.
Una famiglia si compone di diverse unità, che si relazionano
all'intero "sistema famiglia" stimolandolo ed essendone
stimolati. Ogni unità, pur condividendo con i familiari
una vita di relazione, conduce anche esperienze esterne alla
famiglia (scuola, lavoro, tempo libero eccetera).
Non tutti i familiari dedicano lo stesso tempo e la stessa
intensità alla vita relazionale "interna":
c'è chi è più coinvolto, chi meno, avendo
spostato le sue attenzioni sull'ambiente esterno. Nella tradizione
della scuola sistemico-familiarista infatti esiste una sorta
di "pregiudizio relazionale", nel senso che,
qualsiasi sia il disturbo accusato dal singolo, si è
portati immediatamente a ritenere che la causa del problema
sia una relazione disfunzionale fra i membri della sua famiglia.
La terapia prevede la convocazione della famiglia al completo;
l'obiettivo terapeutico è la messa in luce di tutti
i conflitti più evidenti fra i suoi membri, per correggere
gli atteggiamenti anomali di ciascun componente, migliorando
la formula di convivenza e liberando così il "malato"
(cioè il familiare che è stato in qualche modo
designato a esprimere i disagi vissuti da tutto il gruppo-famiglia)
dalle tensioni legate alla sua condizione di capro espiatorio.
Un comportamento fobico di un singolo individuo viene allora
curato prendendo in considerazione l'intero gruppo familiare,
individuando e in seguito modificando le relazioni disfunzionali
fra i singoli componenti il sistema-famiglia che sono alla
base del disagio espresso dal singolo componente.
LA
FOBIA COME PROCESSO MENTALE
L'approccio cognitivista.
La psicologia cognitivista nacque nel 1968 come una sorta
di scissione dal Comportamentismo. Come abbiamo visto, i Comportamentisti
localizzavano la loro attenzione sullo studio dei comportamenti
appresi, attraverso le loro reazioni a determinati stimoli.
Indagando su queste reazioni, alcuni studiosi, che poi sarebbero
stati chiamati Cognitivisti, osservarono come, fra
uno stimolo e una risposta, vi fossero dei processi mentali
interposti, per cui l'individuo poteva anche non rispondere
meccanicamente allo stimolo, avendo la possibilità
di fare riferimento alle strutture interne del suo sistema
nervoso, che potevano offrirgli non una, ma un ventaglio di
risposte a una serie di stimoli codificati, fra le quali era
possibile selezionare quella considerata la più adeguala
alla situazione.
Per la prima volta, dopo tanto tempo, si uscì dal modello
stimolo-risposta e ci si interessò ai processi che
si svolgono a livello psichico, osservandoli con un metodo
che fa riferimento sia ai dati della ricerca neurofisiologica
che alla "idealizzazione" di quanto realmente avviene
nella mente, prendendo spunto dal funzionamento del computer.
(Il computer non riproduce tout court strutture e funzioni
proprie dell'uomo, ma il fatto di conoscere come esso è
costruito e quali sono le regole che ne consentono il funzionamento
permette, per questi psicologi, un'analogia con la mente umana,
al fine di spiegarne i suoi processi di pensiero). Da un punto
di vista teorico, le nozioni fisiologiche vengono messe a
confronto con le operazioni logiche suggerite dal funzionamento
informatico: sistema percettivo-ingresso dati, sistema nervoso-rilevazione
e analisi dei dati, memoria-immagazzinamento dati e così
via.
Nell'ambito della psicologia cognitiva gode di un certo
successo il concetto di script o copione. Secondo tale modello,
le situazioni che si ripetono abitualmente nella vita quotidiana
vengono raccolte in categorie, al cui interno vi sono episodi
tipici, che diventano un punto di riferimento soggettivo per
ogni individuo. L'attivazione del sistema emotivo avverrebbe
allora solo in presenza di alcune circostanze già presentatesi
e facendo riferimento alle reazioni più tipiche degli
"antecedenti". I.e possibilità di gestire
la reazione emozionale, per renderla più adeguata alle
circostanze, dipenderebbe da un sistema di regolatori interni,
che fungerebbero da "controllo".
L'intervento terapeutico cognitivista parte dal concetto che
le reazioni dipendono essenzialmente dalla modalità
individuale di percepire l'ambiente circostante, le persone,
le cose. Se le reazioni individuali, e dunque i comportamenti,
sono considerati eccessivi, inadeguati, inefficaci, e comunque
"errati", l'intervento terapeutico mira a incidere
essenzialmente sulle modalità percettive del soggetto
portatore del disagio, in modo che egli impari a percepire
la realtà esteriore in modo diverso, attraverso un
nuovo modo di organizzare le informazioni che arrivano al
suo sistema nervoso. I cambiamenti desiderati vengono allora
raggiunti in seguito a una "ristrutturazione",
seppure graduale, della organizzazione cognitiva del soggetto,
che viene reso più consapevole delle proprie percezioni,
delle sue reazioni a esse e viene addestrato all'apprendimento
di nuovi schemi cognitivi. Questa terapia dura in media uno
o due anni.
L'ANSIA
FOBICA E GLI PSICOFARMACI
La
via psichiatrica.
Prima di parlare di come la psichiatria affronti il problema
delle fobie, è giusto chiarire che cosa sia la psichiatria
.Non si intende qui certo il significato letterario della
parola, in quanto è abbastanza noto che essa sia un
ramo della medicina avente per oggetto lo studio e la cura
delle malattie mentali. Parliamo invece dei differenti
approcci teorici e terapeutici che vi sono oggi in campo psichiatrico,
che rendono la materia trattata alquanto diversa se vista
dall'una o dall'altra angolazione. Negli ultimi cinquant'anni
infatti la psichiatria ha vissuto grandi rivoluzioni e involuzioni.
L'Antipsichiatria fu un movimento che negli anni '70 tese
a negare l'esistenza stessa di ogni malattia mentale, considerando
il disagio psichico come l'effetto dei condizionamenti che
il malato di mente poteva aver subito dalla famiglia, dall'ambiente,
dalla società. Le parole d'ordine del tempo furono
allora "depsichiatrizzare la società" e "portare
la psichiatria fuori dall'ambito medico", per poterla
trattare come un qualsiasi altro disagio sociale. Ovviamente,
non tutti gli psichiatri aderirono con entusiasmo a questa
nuova tendenza, specie chi si sentiva depauperato della propria
professionalità, assimilato a psicologi o assistenti
sociali, privato del camice bianco e del ricettario medico,
a favore di terapie basate sul colloquio, sul sostegno psicologico,
su interventi volti al miglioramento delle condizioni sociali,
per il paziente stesso e per la sua famiglia. In Italia questa
corrente di pensiero portò, con la famosa legge
180, alla chiusura dei manicomi. Nel 1980 vi fu un'altra
grande svolta, da parte della psichiatria americana, che ideò
e realizzò il famoso DSM III, cioè un manuale
diagnostico e statistico dei disturbi mentali, a uso degli
psichiatri, che ritornava alla sola "osservazione clinica".
In pratica venivano descritti i sintomi di ogni malattia mentale,
senza porsi più problemi circa la ricerca delle cause
che erano alla base del disturbo mentale. Dopo di ciò,
molti psichiatri hanno dunque ricominciato a trattare le malattie
mentali con i loro classici melodi di intervento terapeulico:
gli psicofarmaci e l'elettroshock. Con la rivalutazione
dell'approccio medico, dunque, si è tornati nuovamente
a una posizione "riduzionista", che poggia unicamente
sul dato empirico e sulla prova clinica. Per capire quanto
sia stata drastica la svolta, basti pensare che la parola
"nevrosi", utilizzata da Freud per indicare
disturbi di ansia, fobia e isteria, da lui intese come le
manifestazioni esteriori di un sottostante conflitto inconscio,
compare nel nuovo manuale addirittura fra parentesi.
Secondo questo modo di vedere le cose, gli stati d'animo umani,
le emozioni (quali ansia, paura, dubbio, tristezza, euforia
o aggessività) sarebbero allora solo i risultati di
prodotti chimici, sintetizzati nel cervello e derivanti da
una interazione di molecole endogene con specifici reattori
forniti dall'ambiente. L'amore altro non sarebbe che l'attrazione
fra due soggetti affetti da un determinato disturbo mentale
che consente loro di provare particolare affinità emotiva
e spirituale. La fobia, sempre di origine biologica, sarebbe
una vera e propria malattia, il cui nucleo fondamentale sarebbe
il Disturbo da Attacchi di Panico o DAP. Il DAP, insieme
ai disturbi di tipo ossessivo, viene descritto come
una disfunzione localizzala in diverse zone del cervello e
in diversi sistemi neurofisiologici. Secondo gli studi di
psichiatria medica, il DAP riguarderebbe il 3% della popolazione
e fra le malattie psichiatriche sarebbe al secondo posto,
subito dopo la depressione, cui peraltro sembra spesso associato.
Esso si presenta sempre come una violenta crisi di angoscia
e di terrore, che compare all'improvviso: da un momento all'altro
il soggetto comincia a sentire fame d'aria, impressione di
soffocare, gola chiusa, tachicardia, palpitazioni, senso di
oppressione toracica, tremori, vertigini, formicolio agli
arti, vampate di calore e, nei casi più gravi, nausea
e perdita di controllo degli sfinteri. L'attacco di panico
dura da pochi secondi a 10 minuti e può presentarsi
anche con una sintomatologia parziale.
Il primo attacco di panico e sempre inatteso. Si presenta
in situazioni o ambienti in cui la persona avverte costrizione,
isolamento o comunque limitazione della propria libertà
e autonomia. In altre parole avviene sempre in una situazione
in cui la persona non si sente perfettamente a suo agio. La
fobia vera e propria subentrerebbe dopo, quale risultato dell'associazione
condizionata fra il luogo dove si è avuto il primo
attacco, ciò che si stava facendo in quel momento e
la paura che questa bruita esperienza possa ripetersi in situazioni
analoghe. E' interessante notare come, in questa spiegazione,
venga ripresa l'idea del condizionamento, già
utilizzata dai Comportamentisti, per spiegare l'origine
della fobia. Tuttavia la causa della paura non è
in questo caso uno stimolo minaccioso proveniente dall'esterno,
ma un segnale d'allarme interno, non appartenente alla vita
"inconscia" degli psicoanalisti, ma a disfunzioni
presenti nell'apparato neurofìsiologico, che evidentemente
non èdel tutto "equilibrato".
Il DAP sembrerebbe colpire prevalentemente le donne
e comunque, in genere, soggetti con personalità
passivo-dipendente. Le fobie che seguono l'attacco di
panico riguardano invece in gran parte la paura di essere
malati, ma possono essere anche di altro tipo. Chi ha provato
un attacco di panico non riesce più a stare solo, perché
è preda di una sorta di ansia anticipaloria, che non
gli consente più di vedere le cose con serenità.
Per questo motivo in genere chiede a qualche persona di fiducia
(amica, marito, sorella eccetera) di accompagnarlo ogni volta
che debba uscire di casa o affrontare una situazione "difficile".
L'assenza della persona accompagnatrice rende il soggetto
fobico molto ansioso, il che abbassa ulteriormente la
soglia di sensibilità ai fattori scatenanti e permette
all'attacco di panico di manifestarsi ancora, sempre più
violentemenite. Queste teorie non sono ottimiste, in quanto
ritengono che la maggior parte delle persone siano almeno
un po' malate, poiché hanno nel proprio patrimonio
genetico delle disfunzioni neurofisiologiche croniche ed ereditarie,
che non possono essere guarite se non con trattamenti
farmaceutici: l'umore di fondo meno scintillante e tendente
all'appiattimento, a causa dei trattamenti farmacologici,
sarebbe allora il prezzo da pagare per ritrovare un sano equilibrio.
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