Testimonianze di mondariso

 (Si riporta qui una scelta molto breve e parziale di testimonianze orali di ex-mondine sui diversi aspetti del lavoro in risaia raccolte nel corso di vari incontri tenuti negli anni 1985-'86-'87 in alcune località lomelline. I testi dialettali sono stati tradotti).

Nell'acqua gelida.

"Delle volte, la primavera, il riso noi, tra il 25 e il 26 aprile [...] era già tutto seminato. Eravamo nell'acqua, delle volte dovevamo perfino scappare a casa, ci venivano delle tossi... Noi eravamo ragazzine, andavamo dietro alle manzette [...] per schiacciare, perché almeno la terra diventava più forte, e allora andavano due ragazzine di qui e due ragazzine di lì e le facevano andare dritte sempre in quella direzione e poi le facevano girare. Ma che mestiere faticoso! [...] E un grosso bastone in mano per continuare a picchiarle perché altrimenti andavano dove avevano voglia. Mi ricordo che una volta c'era il ghiaccio nell'acqua, un ghiaccio... [...] e il padrone è venuto là, l'ha toccato col bastone e ha detto: "Andiamo, andiamo, che non fa freddo". Sembrava che ci marcivano le caviglie, erano rosse le caviglie, l'acqua gelata, eppure siamo state lì, povere ragazzine: e poi è uscito un po' di sole, il mezzogiorno abbiamo mandato le bestie a mangiare in un prato e noi ci siamo sedute al sole, siamo diventate rosse come peperoni".

(Iole Sozzi, nata a Valle nel 1921, piccola affittuaria).

"Paga queste mondine!"

"Canti amoreggiava un mucchio di donne, negli anni passati i padroni amoreggiavano con le donne [...] Era terribile, io ero ancora una ragazzina, so che [...] andavano là, facevano un cerchio e lui diceva: "Vi do una lira" e la giornata era due lire (un cavurrino), lui voleva dare solo una lira, era tremendo, erano tutti terribili. Andavi in piazza e prendevano chi volevano [...] E gli hanno fatto la canzone: "o villano d'un Canti, paga queste mondine", tutta la fila di gente lungo lo stradone, tutto pieno di gente e andavano indietro e dicevano: "Paga queste mondine villano d'un Canti, paga queste mondine, la giornata è un cavurrino" E lui rispondeva: "Se volete mondare una lira io vi voglio dare", lo vedi, una lira gli voleva dare, metà paga, per fare tanto lavoro!"

(Rita Orbelli, nata a Castello d'Agogna nel 1898, piccola affittuaria a Valle).

Due giornate in una!

"Per esempio, noi locali eravamo a casa nostra, le forestiere venivano da lontano, anche loro facevano un bel sacrificio per venire giù, però noi stavamo peggio, perché noi andavamo via alla mattina, dovevamo prendere dietro la colazione e il pranzo, invece loro andavano in cascina, avevano la loro minestra calda. Noi altre come sacrificio... perché poi andavamo a casa, avevamo i bambini da accudire, i mestieri da fare, la cena, il pranzo e tutto, facevamo due giornate in una!"

(Maria Moretti, Candia 1923 - Mede 1988, bracciante)

La tenuta di lavoro della mondina.

"Prendevamo un legaccio lo legavamo qui [in vita] poi arrotolavamo la gonna. L'"ariónda" più avanti che dietro. Poi infilavamo su le mutandone con l'elastico fin qui così sotto, perché se no i moscerini ci mangiavano [...] e infilavamo sotto le calze. [...] Le manichette erano delle cose fatte così, da sopra il gomito venivano fin qui in basso, con l'elastico qui e l'elastico qui, perché il riso mentre mondavamo tagliava tutto il braccio, oh se tagliava! se non infilavamo la manichetta ce la faceva, e anche se bagnavamo la manichetta poi venivamo a casa alla sera e le facevamo asciugare e avevamo i ricambi, ma senza manichette non si poteva. E infilavamo su le calze, per esempio queste calze qui fini, era sempre per il riso, andare in mezzo al riso... c'erano i tafani che ci mordevano lo stesso anche se avevamo su le calze, ma le mettevamo per ripararci anche un po', perché il riso taglia, soprattutto quando diventava alto, oh tagliava, tagliava le gambe e le braccia [...] Il fazzoletto in testa legato dietro e il cappello di paglia, il cappello in testa da solo non stava, delle volte c'era il vento ce lo portava via, perché il fazzoletto teneva i nostri capelli radunati vicino, con solo il cappello di paglia non si poteva […] il cappello di paglia quelli larghi. Ai piedi niente, a piedi nudi, è adesso che vanno con le scarpette, ma noi, quando ero una ragazza, andavamo dappertutto, attraverso i prati, qualunque lavoro, che mi ricordo mi è persino venuto un livido, tutti i piedi scorticati [...] le calze erano tagliate, le avevamo solo fin qui così. Noi con i calzoncini non andavamo, le forestiere scendevano sempre con i calzoncini, loro sì, noi non li mettavamo, invece"

(Maria Boggio, nata a Rosasco nel 1906, salariata obbligata a Cozzo)

"Questo è giavone o riso?"

"Il primo anno che sono andata a mondare il riso, oh, era come domare un cavallo, venivo a casa la sera, avevo addosso una battuta che oh, poi i primi giorni, di erba non ce n'è nelle risaie, devi sempre andare su e giù, su e giù nei campi a strappare quei grossi fuscelli che ci sono ogni tanto, che ci sono dei cespugli alti così. E allora io ero abituata a star seduta tutto il giorno, andavo a cucire, figurati, non ero abituata a stare in piedi e neanche scalza, mi facevano male tutti i piedi sotto, e poi vedevo doppio, la sera ero tanto stufa, tanto stufa, tutto il giorno su e giù, su e giù, avevo i piedi che mi facevano tutti male, non ce la facevo più, oh; poi una sera sono andata a casa, mentre mangiavo vedevo tutti i fili del riso davanti agli occhi, tutti cespugli alti così che strappavi, una battuta addosso che io: "Oh, ma io domani non so come ho da fare ad andare a lavorare". La prima volta che vai, scherziamo [...] non sei abituata, non hai la pratica (...) Poi c'erano le mondine che venivano giù, quelle erano capaci solo di trapiantare [...] a mondare il riso non valevano niente [...] perché non riconoscevano neanche il giavone, sai, il giavone, di prima monda, non lo riconosci perché l'acqua alta e il giavone rimane a livello dell'acqua, non riconosci quello che è giavone e riso e io seguitavo a dire: "Questo è giavone o riso, questo è giavone o riso?". Tutto il giorno così, invece quando il riso è diventato più alto così, che è venuto fuori dall'acqua e il giavone anche lui, lo riconoscevi, perché il giavone aveva l'infiorescenza. [il baffo] bianca e l'infiorescenza rossa e poi aveva un gambo più piatto del riso, il riso aveva un gambo più rotondo, invece il giavone aveva il gambo piatto e lo riconoscevi subito, ho subito imparato, c'erano dei cespi di giavone che dovevi strappare con due mani e io ho fatto due o tre capitomboli sul sedere nel riso, tutta bagnata, perché dovevi mettere una gamba davanti e una indietro e stare in posizione, se tu mettevi le gambe alla pari, tirando, facevi bum, all'indietro".

(Liberina Mazzucco, nata a Langosco nel 1929, bracciante a Cozzo).

"E dopo la monda, la meliga!"

"Avevamo il granoturco insieme al padrone, il padrone lavorava la terra e noi seminavamo il granoturco, poi, quando il granoturco nasceva, andavamo con la zappa a tirar via le erbacce, quel lavoro lì lo facevamo la sera dopo la monda. [...] Stanchi come asini la sera, dopo che facevamo otto ore in risaia, venivamo a casa, prendevamo la zappa e via ancora, a zappare la meliga".

(Maria Moretti)

Sull'aia.

"Noi ragazze obbligate facevamo solo l'aia, ci facevano stare nell'aia e non a tagliare [il riso], dovevamo stare sull'aia a allargare il riso e girarlo e pulirlo dalla paglia, e poi aiutare a tenere il sacco che lo insaccavamo con l'emina, e poi sono andata anche alla pila […] C'era la "ragia" con il cavallo che allargava il riso e noi di dietro eravamo un uomo e una donna, che uno adoperava il rastrello e l'altra la scopa, però quando il riso era tutto allargato bene, passavano tutti, uomini e donne, e facevano gli scalini. Il pomeriggio andavamo a voltarli […]. Poi la sera veniva il cavallo […] e noi donne dietro scopavamo, una col rastrello la radunava e l'altra scopava […] Quando pioveva, la notte facevamo mezza notte a testa andare ad aiutare a dare in spalla i sacchi a quelli che vuotavano dentro. Era un lavoro duro".

(Maria Boggio)

E i bimbi delle mondariso?

"Nei paesi (le donne) dai piccoli affittuari prendevano un'ora a mezzogiorno e poi alle tre andavano a casa e facevano tempo a mettere su la pentola, lavare tutto, chi andava nelle cascine no, perché doveva andare a piedi e allora doveva mettere su la pentola al mattino, mia mamma veniva su alle tre, alle tre e mezza, [...] Quelle che davano il latte gli davano la mezz'ora, correvano a casa... avevano la mezz'ora di strada, figurati, davano la cagliata da mangiare a quei poveri bambini, correre per quella strada a piedi... Ai miei tempi c'era il nido (anni trenta) e prima c'erano le donne anziane, quelle donne anziane che non andavano più a mondare il riso, ne avevano tre o quattro di bambini, invece al mio tempo c'erano le suore e le mamme alle quattro portavano quei fagottoni di bambini e li mettevano nelle ceste, dalle suore".

(Ida Vandone, nata a Cozzo nel 1921, piccola affittuaria a Valle).

"Avevo sette anni e curavo mio fratello che ne aveva due e via e via...""Ti ricordi quando l'abbiamo rovesciato, abbiamo tirato la corda lunga, lunga, attaccata alla culla, tira, tira, eravamo arrivate alla chiesa e la corda non veniva più. E lo mettevamo nel letto e saltavamo su bon bon, quello saltava giù"."Sono andati a vedere anche i carabinieri perché avevano lasciato il bambino a casa da solo". "Quando c'ero io c'erano già gli asili nidi e allora, alla mattina, avanti, di buon'ora a portare il figlio all'asilo e poi andare in campagna, e poi venivo a casa a mezzogiorno se ero vicina, andavo a vedere se il bambino piangeva"."Io, alle undici e mezza, avevo la mezz'ora, mio marito mi veniva a prendere nel campo con la bicicletta e mi toccava correre a casa ad allattare il bambino".

(Adele Ferrari, nata a Castellaro de' Giorgi nel 1913, bracciante a Mede; Bice Carpanelli, nata a Pieve del Cairo nel 1913, bracciante a Mede; Maria Moretti; Relina Pivetti, nata a Mede nel 1908, bracciante).

Alle 6 in risaia!

"Alla mattina ci alzavamo alle 5 perché alle 6 dovevamo trovarci sul lavoro, quelle che erano capaci di andare in bicicletta, andavano in bicicletta, io povera, non sono mai stata capace, dovevo fare magari due ore di strada a piedi per andare al lavoro. Andavamo giù alle 6, alle 9 si smetteva, facevamo colazione in piedi sull'argine, con la nostra sacchetta legata dietro, un po' dì pane e magari un po' di marmellata, poi, dopo mezz'ora riprendevamo il lavoro".

(Maria Moretti).

Rubare per mangiare.

"Pagavamo dei soldi per andare a ballare e stavamo tutta la settimana senza il companatico a mondare il riso per avere i soldi per andare a ballare la domenica. O che andavamo a rubare, andavamo nelle botteghe in due o tre, facevamo finta di comprare e quelle dietro rubavano, un po' di arachidi, qualche mela... Mia mamma mi dava due soldi tutti i giorni, mi dava due soldi, diceva, toh, passi davanti la Rusinon [...] e noi andavamo là a comperare, e non li spendevamo i soldi, eravamo sei ragazze in un pianòn, spendevamo due soldi al giorno a testa, così che ne avanzavamo ancora otto per andare a ballare, oggi compravo io, dicevo: " Di', Rusìn, datemi due soldi di gallette" e quelle dietro rubavano, cominciavano a prendere un po' di noci, se era la stagione delle ciliege, la frutta che c'era, il pranzo tra quello, lo dividevamo, toccava tre o quattro ciliege, tre o quattro gallette a testa e mangiavamo il pane. È che poi avevamo la cipolla cotta, mia mamma tutti i giorni mi dava una bella cipollona cotta, la metteva nella cenere fatta su nella carta, a volte si disfava, era piena di cenere, la mangiavamo lo stesso, avevamo sempre una fame da suonatori" .

(Emilia Pallestrini, nata aCandia nel 1911, salariata obbligata a Cozzo)

Niente caffelatte, a colazione!

"Mia nonna si alzava all'una e mezzo a regolare le bestie perché avevamo due vacche e l'asino". "Il primo mestiere accendevamo il fuoco, non c'erano le stufe come adesso, accendevamo il fuoco e mettevamo su il pentolone con i fagioli e un po' di verdure". "Ma noi avevamo la nonna e veniva su prima lei perché io mi ricordo che lei (la madre) si alzava alle quattro per aiutare a mungere le vacche e portare il latte al casone e poi mangiava quel poco brodo perché la mattina si faceva "àl pàn mòi" [il pane ammollato] non c'era il caffè e latte. Mia nonna, la mattina, dava due tagli così al lardo con il coltellaccio, poi c'erano tutti quel lardini, a me veniva voglia di vomitare [...] e poi lo buttava nella pentola con nient'altro e i fagioli [...]. (A mondare) avevamo dietro il borsellino, mettevi dentro qualche pezzo di pane, il salame e il pomodoro e via che andavi".

(Rita Orbelli e Iole Sozzi)

"Il padrone ci mangiava i minuti!"

"[Il padrone] Ci mangiava i minuti, invece di mezzo giorno quasi le 12 e 10, avevamo su i calzoni, no, ho messo una cintura qui, ho preso dietro la sveglia, l'ho legata dentro, l'ho puntata, l'ho tirata su, quand'era mezzogiorno, drinn! Siamo saltate su, via! e sì! Perché il padrone rubava, rubava, dieci minuti il mezzogiorno, dieci minuti la sera, sulle 20-25 mondine dieci minuti qua, dieci minuti là, lui faceva le ore". "Anche la nostra capa (...) loro non volevano che prendevi l'orologio". "Cinque minuti, cos'è cinque minuti, ma senti, fare la pipì, e ben!". "C'era là anche il padrone quando la facevamo, non venivamo neanche fuori". "Non venivamo mai fuori a pisciare". "Pisciavamo nel riso". "Che si giri di lì, che si giri di là che dobbiamo pisciare e noi pisciavamo, perchè noi avevamo su i pantaloni [...] e allora dovevamo tirare giù i pantaloni e tirare fuori il sedere"

(Giromina Vanone, nata nel 1908, e altre mondine di Gravellona).

Le fatiche della monda...

"Per esempio questo è il pianón era tutto ingarbugliato, qui magari c'erano tutte quelle onde che andava giù così, dovevi venirlo a prendere qui, dove potevi tagliarlo [...] allora quelle che erano in mezzo, perchè vicino ai solchi era sempre rado il riso, quelle che erano in mezzo c'erano dei mucchi di riso da rompersi la schiena, c'era quel magari che alla fine era dietro il solco, perchè magari quelle che erano in mezzo prendevano poco, le restava un pezzo come da qui a là, allora c'erano quelle che dicevano: - Guarda che quella dietro è troppo carica. [...] Ti ricordi che veniva là quel grosso lupo là [il padrone) e ci contava i passi, ci dava tre file a testa, quella che era dietro il solco aveva tre file che erano leggere come una piuma [...] quella che era in mezzo doveva scoppiare. Non eravamo mai alla fine, o mamma, e dovevamo darci un pezzetto di distanza per non tagliarci le gambe".

(Maria Boggio).

"Una volta siamo andate nella "ciàpa di cavàl an mès" [è il nome di un campo, letteralmente: pezza dei cavalli in mezzo] e c'era un tratto molto lungo e allora è venuto là quel lupo lì e ha detto: - Le mondine forestiere in un'ora, un'ora e mezzo fanno tutto questo pianón". Abbiamo cominciato andare, andare, anche noi come matte [...] in due ore del pomeriggio abbiamo fatto tempo ad arrivare in fondo, avevo il sudore che mi colava tutto nell'acqua".

(Liberina Mazzucco).

…e quelle del trapianto.

"Noi perdapè andavamo a mietere il grano nei nostri campi e a trapiantare la sera, poi la festa prendevamo le donne, gli dicevamo la sera: "Su, vieni tu domani per me e dicevano sì; per un campo grosso prendevamo gli uomini, i trapiantini [...] erano svelti ma lasciavano dei buchi, io andavo là e gli dicevo: "Questa sera venitemi a trovare ma non lasciatemi dei buchi così" e poi continuavamo delle settimane a portare i mazzetti da trapiantare perché lasciavano dei buchi grossi così [...] [Per fare "il quarto"] smettevi alle 5, dovevi correre per essere giù alle 5 e mezza [...] Smettevi alle 8, da qui (prima) che eri a casa... e poi la mattina su... delle volte non ti lavavi neanche i piedi. E poi il trapiantare, per me il trapiantare mi ammazzava, mi veniva un mal di schiena, erano quei 17 - 18 giorni che ti ammazzavano …".

(Iole Sozzi).

"E' nella monda che si canta di più perchè il trapianto è pesante, perchè il trapianto bisogna andare all'indietro [...] La monda, una volta abituata che i polpacci si sono fatti così la monda è una cosa leggera... invece il trapianto bisognava andare indietro. Cantavo io nel trapianto [ero la caposquadra], magari, più che loro, tanto per tenerle un po'...".

(Pinuccia Albieri, nata a Dorno nel 1929, salariata obbligata a Gravellona).

"Nel trapianto eravamo sempre in movimento, invece per mondare il riso eravamo sempre appoggiate, si riposava di più, invece il trapianto lavorano tutte e due le mani, mani e gambe, perchè c'è da camminare e non c'è un appoggio. Avevamo tre file, una in mezzo alle gambe, una così e avanti, via, il mazzetto in mano. Perchè davanti avevamo una capa, la nostra capa, sempre davanti lei che tirava, che eravamo 20-25, anche 40 [nel trapianto] e nella monda c'era il quadro (il pianon) di 8-10, 8 e 10 e facevamo la lotta chi andava più forte. (Nel trapianto) quella lì davanti, se aveva il suo passo regolare, tutti andavamo dietro con le nostre tre file aggiustate bene; ma se quella là, delle volte c'era anche il padrone [...] quella là magari con due file invece di tre, cominciava andare, cominciava andare, noi che eravamo dietro, gli occhi erano sul nostro lavoro, alzavamo gli occhi e quella là era avanti, o mamma, o mamma, aiuto!".

(Mondine di Gravellona).

"Cantare non si poteva cantare, non si poteva mica cantare a trapiantare, al galoppo come andavamo se ci fosse stato [...] un leone dietro con la bocca spalancata gli andavi dentro e non te ne accorgevi neanche [...] Bisognava andare al galoppo, perchè, questa va, questa va, andiamo, in riga, in riga, non fate la coda, dai, ma sì, qualche parola, avevi solo il tempo di gridare: - Di', dammi un mazzetto. [...] Raddrizzarsi? Ma no, non potevi, c'era il padrone col bastone che fruch, fruch, ti seguiva. Oh, se ci penso, non voglio più tornare indietro a quei tempi, c'era la schiavitù, neanche per tutto l'oro del mondo!".

(Emilia Pallestrini).

"Avanti o popolo, cui pè in t'al tàul…"

"Durante il trapianto il padrone, quel povero asino, ci faceva cantare la canzone dei bersaglieri [per andare più veloci]. Il mio padrone della cascina [...] che era un fascista, un vero fascista, diceva: - Su una cantata di Bandiera rossa che possiamo finire questo pezzo qui. E noi, ignoranti, cantiamo Bandiera rossa. Io facevo solo la monda del riso. Le altre cose, quando andavamo in campagna così non c'era mica sempre dietro il padrone tutti i minuti, il padrone era sempre lì, e c'era il fittabile e c'era il fattore. E poi quando gridava: - Andiamo, fate andare quelle mani.[...]. Dopo rispondevamo, ma dopo, dopo la guerra, ma prima no, non si poteva, ci gridavano dietro [...] Invece dopo gli dicevamo: - Oh, ma che noioso! [...] Dopo la guerra potevamo cantare quello che avevamo voglia, cantavamo: - Avanti o popolo, cui pè an t'al tàul, bot i fitàul e i ciacarè! [Avanti o popolo, coi piedi sul tavolo, botte ai fittabili e ai piccoli affittuari], invece prima non potevamo. Cantavamo ma poi raccontavamo delle cose, raccontavamo delle stupidate, raccontavamo dei libri, c'era la Nina che raccontava Suor Bianca, tante cose, ma non piacevamo ai padroni, perché si stava zitte ad ascoltare, veniva la molla".

(Margherita Orbelli, nata a Cozzo nel 1911, bracciante, e altre mondine di Sannazzaro).

Il rosario

"Tutti i giorni dicevamo il rosario, quei dieci minuti, la mattina o il pomeriggio, a mondare, perché a trapiantare non potevi dire il rosario, parlavi [...] parlavamo c'erano tanti argomenti... E poi dicevamo il rosario, al tempo di guerra lo dicevamo tutti i giorni, c'era sempre la solita che lo diceva e le altre rispondevano, e poi cantavamo le litanie".

(Ida Vandone).

"C'erano quelle che volevano sempre dire il rosario, oh mamma, come non mi piaceva, e bisognava dirlo perché se no... e io una volta mentre dicevano il rosario, ero così stanca che mi è andato vicino il cuore [si è addormentata] e bum... sono caduta indietro nel riso e mi sono bagnata tutta".

(Maria Boggio).

"Il rosario lo dicevamo a San Luigi e dicevamo: - Prigumma San Luis, ch'al faia gnì tant'erba nti ris" (preghiamo San Luigi che faccia crescere tant'erba nel riso); tutte le mattine mia sorella diceva: - Ragazze? Diciamo il rosario. E ci mettevamo lì e dicevamo il rosario".

(Emilia Pallestrini).

E dopo il rosario, scherzi e battute!

"Gridavamo: - Padéla, padéla... tra la là / padéla a chi la va / 'gh la dumma a l'Ernesta cul sò Bèrtu 'namurà" [Padella, padella... tra la là / padella a chi va / la diamo all'Ernesta col suo Berto innamorato] e via. E questo:- Gh'è pasà 'na squadra d'uslón / i gh' an purtà via, i gh'an purtà via / gh'è pasà 'na squadra d'uslón / i gh' an purtà via l'urlòg al padrón. [E' passata una squadra d'uccelloni / hanno portato via, hanno portato via / è passata una squadra di uccelloni / hanno portato via l'orologio al padrone] Perchè il padrone ci rubava cinque minuti, dieci minuti, e allora veniva mezzogiorno e non ci lasciava andare a casa e noi gli cantavamo la canzone".

(Pinuccia Albieri).

"Ricorderò sempre quella volta che è passato un uomo in bicicletta e io ho detto alle altre, adesso gliela faccio io a quello lì e ho cantato: - Quello là che passa adesso l'è 'l ciulòn de l'altra sera / lui mi guarda e mi rimira / l'è no bon di far l' amor. Quello là... è sceso dalla bicicletta e voleva picchiarmi e noi a ridere... Mia mamma: - Ma non ne hai più da farmene! [...] Una volta c'era il signor... [il padrone] dietro e io gli ho detto: - Nè lui, la sa questa: al prèvi ad San Luréns / gh'l'a longh ch'al fa spuént / tut i siri dòp sénna / la so sèrva agh la tira e'gh la ménna / quand agh l'a tirà e mnà / al prèvi l'è cunsulà. [Il prete di San Lorenzo / ce l'ha lungo che spaventa / tutte le sere dopo cena / la sua serva glielo tira e glielo mena / quando gliel'ha tirato e menato / il prete è consolato]. E lui è diventato di tutti i colori. - Ma non lo sa - gli ho detto - ma è lo scaldaletto ["previ", prete, in dialetto], ma perché? Ma cosa pensava che era, signor padrone? E tutte ridevano..."

(Emilia Pallestrini).

Così parlavamo e dice: - Ho comprato il pesta bistecche. Ah sì, ma io non ne ho di pesta bistecche [...] Viene su il temporale, comincia a piovere, piovere, piovere e lì non cessa [...] Andiamo a casa, vento e acqua, prendiamo quella mezza ombrella tutta rotta con quella bicicletta. Ma diamine, ma io non sono capace di andare avanti, ma quella bicicletta va tutta da una parte, ma cristan, ma io non sono più capace d'andare in bicicletta [...] Tutta la squadra seguitavano a ridermi dietro e io con quel manubrio mi trovavo sempre sul montone della ghiaia. Arrivo a casa, tiro giù dal manubrio quella borsa, la borsa che avevamo dietro da mangiare, oh mamma, che peso... una spiattella, un sassone dentro nella mia borsa, m'hanno fatto il pesta bistecche!"

(Giromina Vanone).

E alla fine della monda, la curmaia!

"C'era la curmaia a Bagnolo [...] solo per noi ragazze obbligate, allora lì ci stavano i Leva [...] allora ci facevano andare nella loro corte dove stavano loro, allora neh, lì si che ci facevano la curmaia, ci davano i biscottini, le caramelle, e il vino e poi c'era l'armonica (...) l'armonica che suonava e noi ballavamo e c'era anche il genero del padrone, noi ballavamo tutte assieme, poi voleva ballare lui [...] vedevi come ballava bene, era grande così, magro... era rabbioso ma era un bell'uomo. Poi, quando avevamo finito di ballare che eravamo là che mangiavamo i biscotti insieme a quelle due o tre caramelle che ci faceva servire, lui, il papà che era ancora al mondo, era alla finestra, buttava giù in mezzo al cortile, buttava giù un soldo, due soldi, quattro soldi... chi poteva raccattarli, li gettava in mezzo al cortile [...] facevamo la gara chi era capace di prender su quelle lire, quei due soldi [...] Eravamo solo noi ragazze, tutte le obbligate della cascina [...] andavamo vestite com'eravamo da mondariso, magari venivamo a casa dopo aver finito la giornata".

(Maria Boggio).

"L'ultimo giorno di mondariso allora il padrone ci pagava la festa, ci faceva la torta col vino, il risotto o pastasciutta [...] magari un pollo [...]. Ti ricordi quando mi hai prestato la fisarmonica del Giuseppe? Dovevamo cambiarci tutte perché eravamo tutte bagnate, dovevamo fare la curmaia. Me le facevano fare tutte ed io come una povera scema. Mi hanno vestita come un burattino col gobbo. C'era una casa di una nostra amica ed eravamo là che ci vestivamo perché pioveva. Mi hanno messa la tuta da lavoro di un uomo, poi mi hanno fatto un gobbo che era alto così di dietro, poi mi hanno messo un cappellaccio in testa con tutte le piume del gallo che pendevano giù, tutta mascherata in faccia, un paio di scarpe da uomo lunghe così, che saranno state il 45, poi questa signora qui, abitavamo vicino, ci ho detto: - Imprestami la fisarmonica di tuo figlio. E poi, vestita così, con quell'armonica, mi hanno preso e mi hanno portata dal Gino, e tutti ridevano e io seria, con quell'armonica gnagnìr, gnagnàr, gnagnúr, diritta e dura e quella lì con l'ombrello aperto anche sì!".

(Giromina Vanone e altre mondine).

"L'ultimo giorno si mangiava e si beveva e si andava ubriachi! […] Sì, come carnevale, la curmaia si faceva ballando, si pitturavano e allegre…C'era tanta allegria, si pitturavano e cantavano: - Si chiudono le fabbriche / si fermano i tranvai / ma la sissola della donna / non si chiude mai! - Ed erano molto allegre, facevano gli uomini, prendevano su le donne a ballare, certe facevano l'uomo".

(Pinuccia Albieri).

"Quel giorno avevano bisogno di un uomo per lavorare in una roggia, il Demanio, e allora sono venuti a cercarmi. E allora venendo a casa passavo dalla Strada Vecchia, sono arrivato lì e avevano fatto la curmàia [...] e allora "Bevi, bevi" ho cominciato a bere attaccato al barilotto e c'era ghiaccio e vino [...] C'era la curmaia e le donne mi chiamano: "Bevi, bevi". Poi ero mezzo ubriaco, la Marcella dice: "Voglio far ballare il Mario". Mi fa ballare, siamo caduti in un mucchio di fieno, lei sotto e io sopra, [...] Cantavano e ballavano senza musica, facevano delle stupidate".

(Mario Mazzucco).

E poi, al Santuario.

"Ed era una tradizione così, andavamo a ringraziare la Madonna che abbiamo fatto la monda, io ero una ragazzina, sono andata qualche volta, ma lei tante volte e poi venivamo a casa al mattino; partivamo le due di notte, andavamo là, pregavamo, ci confessavamo, facevamo la comunione, poi c'erano le cose, (gli ex-voto) si trasportavano, se avevamo male al braccio e male in una gamba e poi cantavamo e poi mangiavamo, avevamo dietro il sacchettino, avevamo dietro un panino, magari una pera, si mangiava là, sotto la lea di Valenza [...] e poi si partiva e si veniva a casa" . "La Madonna è la così con il Signore in braccio morto, è la Madonna della Pietà [...] era una tradizione così finito la monda andavamo, eravamo stanche come le bestie e andavamo a piedi fino là". "Andavamo a ringraziare la Madonna. Pregavamo ed era di notte e poi si cantava qualche orazione. Andavamo 30, 35 a seconda chi voleva venire [...] Partivamo per modo di dire il sabato sera e poi la domenica venivamo a casa e pregavamo sempre lungo la strada. Cantavamo "O bella mia speranza", andavamo alla cieca, non. avevamo luce in mano". "E una volta alla Torre c'erano i soldati, erano ancora in giro, saranno state le tre di notte, queste ragazze scappavano tutte"."E poi quando arrivavamo al Travachìn avevamo paura, eravamo delle ragazzine e dicevano che lì si facevano vedere, ci davano d'intendere delle sciocchezze e noi avevamo paura".

(Iole Sozzi e Rita Orbelli)

M. Antonietta Arrigoni

(da "Mondine di Lomellina. Riti, cultura, condizione femminile in risaia" in "Mondo Popolare in Lombardia - Pavia e il suo territorio" a cura di Roberto Leydi, Bruno Pianta, Angelo Stella, 1990, Regione Lombardia, per gentile concessione dell'Autrice e della Direzione Generale Cultura della Regione Lombardia).