Rituali di fine monda
![](../immagini/curmaia.jpg)
La "curmaia" era la festa di fine
lavoro offerta dal padrone alle sue mondine, una consuetudine antica di
cui beneficiavano soprattutto le locali. Le strofette cantate durante
la "curmàia" o nel periodo immediatamente precedente
avevano talvolta riferimenti agli attributi virili del padrone e mettevano
ben in evidenza il rapporto antagonista che si sviluppava tra padrone
e donne. Dalle testimonianze raccolte si ha l'impressione che questo antico
rito fosse difeso dai lavoratori come proprio diritto consuetudinario
che progressivamente sarà invece sempre più spesso negato
da molti padroni per liberarsi di arcaici vincoli extra-economici comunque
estranei a rapporti strettamente produttivi. Occorre poi ricordare che,
se la "curmàia" tese gradatamente a scomparire, tuttavia
non scomparve in modo omogeneo né ebbe le stesse caratteristiche
ovunque; in alcuni luoghi fu limitata ad un pranzo con abbondante vino,
in altri ancora fu accompagnata da balli, in alcuni casi assunse forme
più complesse, mediate da una tradizione arcaica non ancora scomparsa.
Nonostante specifiche differenze tra paese e paese, la "curmàia"
tradizionale, così come viene descritta dagli informatori, aveva
alcune particolarità comuni:
- era una festa esclusivamente femminile
a cui gli uomini potevano partecipare solo se invitati dalle donne;
- vi era abbondanza di vino e di cibo;
- spesso si ballava anche senza musica o
si eseguivano balli tradizionali (giga, curenta),
- le donne si ubriacavano, saltavano e ballavano,
erano talvolta particolarmente . intraprendenti o aggressive nei confronti
degli uomini. (V. canto "Curmaia
siur padron")
A Gravellona ad esempio talora le mondine
indossavano abiti maschili o si ornavano con piume, il gobbo che molte
si costruivano sulla schiena con stracci stava a significare, secondo
le informatrici, la deformazione del corpo durante il lavoro, talune donne
si dipingevano solamente il viso con caratteristiche maschili: baffi e
barba. Il tema dell'abbondanza era sempre presente nella "curmàia"
e si caratterizzava in una varietà di cibi che comparivano molto
raramente nelle mense contadine: vino ghiacciato, caramelle, torte, biscotti
e risotto, a volte si trattava di un vero e proprio pranzo con molte portate.
È da sottolineare nel rito il capovolgimento nell'uso degli oggetti
e nei ruoli: il "bàrlàt" (barilotto), tradizionale
contenitore dell'acqua durante il lavoro, zampillava vino, le donne si
facevano i baffi o la barba o si dipingevano con carta rossa le guance,
diventavano da passive attive, invitando gli uomini a ballare, talvolta
strimpellando strumenti musicali. Il rituale aveva singolari punti di
riferimento con l'immaginario del paese di cuccagna ed era un momento
liberatorio che richiama alla mente il mondo alla rovescia del carnevale.
Uno dei significati più antichi della "curmàia"
era infine probabilmente rappresentato dalla redistribuzione simbolica
dell'utile prodotto dal lavoro, che la maggior parte delle volte avveniva
attraverso il cibo ma in qualche sporadico caso si verificava ad un altro
livello. A Bagnolo, frazione di Langosco, sino ai tardi anni '20, si svolgeva
un particolare tipo di "curmàia": vi potevano partecipare
solo le nubili obbligate, i familiari maschi del padrone (figli, genero),
queste modalità della festa rendevano simbolicamente evidente una
sorta di proprietà o di diritto del padrone sulle donne non maritate
della cascina. Nel ballo, che avveniva con l'accompagnamento della fisarmonica,
le mondine danzavano tra loro o con i parenti del padrone; il rinfresco
era a base di biscotti e caramelle. Il padrone, alla fine della festa,
gettava alle sue mondine monetine da uno o due soldi. Da parte padronale
questi rituali di "curmaia " assumevano talvolta una funzione
paternalistica, senza dubbio retaggio del passato ma ancora efficace perché,
rispondendo ad alcune esigenze dei lavoratori, finivano col legittimare
e rafforzare la funzione positiva del datore di lavoro. In questa prospettiva
andrebbe intesa anche l'organizzazione del pellegrinaggio di fine monda.
Sempre negli anni venti a Rosasco, in alcune cascine, i fittabili fornivano
alle loro obbligate il mezzo di trasporto (un carretto con un cavallante
che fungeva da conducente) per compiere il viaggio verso il santuario
di Crea; per non perdere il lavoro si partiva nella notte tra sabato e
domenica, si arrivava all'alba e si ripartiva di pomeriggio. Le mondine
portavano con sé il cibo nel tradizionale sacchettino cucito con
vecchi ritagli di stoffa che si allacciava ai fianchi con un nastro. In
altri paesí le braccianti e le donne dei piccoli affittuari compivano
il pellegrinaggio autonomamente. A Valle, ad esempio, il gruppo di donne
partiva alle due di notte a piedi, in processione; non avendo la protezione
maschile come nel caso di Rosasco, la processione assumeva una funzione
magico-rituale che tutelava 1'onore del gruppo. Le donne attraversavano
i paesi e la campagna "à la òrba" (alla cieca,
senza mezzi di illuminazione), pregando e cantando le orazioni; all'alba
giungevano al santuario della Madonna della Pietà di Valenza dove
sostavano per qualche ora prima di riprendere il cammino del ritorno.
Dopo la confessione e la comunione, c'era la tradizione di spostare gli
ex-voto raffiguranti parti del corpo (braccia, gambe, ecc.) per ottenere
la guarigione dei propri mali. Poiché la monda era il periodo dell'anno
in cui maggiormente insorgevano patologie, si rendeva necessario ricomporre
simbolicamente e ritualmente il precedente equilibrio salute/malattia.
Significativo è l'uso degli ex-voto, testimonianza di guarigioni
avvenute e quindi nuovamente possibili in quanto, secondo la credenza
popolare, la grazia ricevuta li aveva investiti di un potere taumaturgico.
Il pellegrinaggio di fine monda era dunque una sorta di ringraziamento
per il lavoro svolto e la salute mantenuta durante un periodo considerato
critico per 1'esistenza femminile, o anche un modo per riacquistare l'integrità
fisica, là dove, eventualmente, la si fosse perduta.
M. Antonietta Arrigoni
(da "Mondine di Lomellina. Riti, cultura,
condizione femminile in risaia" in "Mondo Popolare in Lombardia
- Pavia e il suo territorio" a cura di Roberto Leydi, Bruno Pianta,
Angelo Stella, 1990, Regione Lombardia, per gentile concessione dell'Autrice
e della Direzione Generale Cultura della Regione Lombardia).
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