La cultura materiale

La risaia
La mietitura
I trebbiatori


Risaie alla "Cascinazza" (Sannazzaro). Anni '30 (Foto Chiolini).

Per comprendere le condizioni di vita e di lavoro mi sembra importante partire da un fenomeno di lungo periodo: la cultura materiale. Si parla di solito genericamente di mondine, mentre sarebbe riduttivo focalizzare tutta l'attenzione solo sulle operazioni di monda e di raccolta poiché ad esse si aggiungevano le ordinarie mansioni per la sistemazione del terreno prima della semina e per le operazioni di trebbiatura, un ciclo di lavori che impegnava intere famiglie da marzo a ottobre. La lavorazione del riso esigeva cure supplementari non richieste dalle altre colture e presentava dunque per gli obbligati e gli avventizi d'entrambi i sessi un ventaglio abbastanza ampio di occupazioni che li coinvolgevano per una parte significativa dell'anno. Emerge in modo abbastanza evidente il ruolo subalterno e complementare all'attività maschile che la donna rivestiva nell'organizzazione del lavoro agricolo capitalistico, le donne infatti erano impiegate stabilmente o stagionalmente nelle mansioni meno qualificate e più umili.

Calendario dei lavori per la coltivazione del riso (desunto da testimonianze orali).

Diversi gruppi di donne impegnate in risaia:

La prima operazione da compiere sulla futura risaia era la concimazione: i bifolchi o i cavallanti scaricavano sul campo mucchi di letame, che le donne obbligate dovevano poi sparpagliare con le forche ; in caso di concimazione chimica venivano trainati sul campo particolari spandiconcime oppure gli avventizi gettavano il concime a spaglio, come fosse semente. Iniziavano poi i lavori di aratura: sul campo, oltre ai bifolchi con i buoi e l'aratro, erano presenti le donne. Dapprima si approfondiva il vecchio solco e le obbligate con le zappe intervenivano a ripulirlo e ad abbassarlo. Ciò era necessario in quanto sul solco dell'anno precedente, dopo l'aratura, si sarebbe venuto a trovare il colmo, cioè il cumulo di terra formato da due falde opposte di terreno sollevate dall'aratro, prima procedendo in un senso e poi nell'altro. Questa operazione femminile, in genere non descritta dai manuali di agronomia, serviva a tener livellato il più possibile il campo, evitando la cosiddetta baulatura, la quale poneva diversi problemi in altre zone e sarebbe stata incompatibile con l'allagamento previsto. Dopo l'aratura bisognava costruire solidi argini tra una camera e l'altra della risaia, cioè tra le varie parti pianeggianti del campo, che difficilmente si presentava tutto allo stesso livello. Gli argini, che erano in genere preparati dagli avventizi con il badile, dovevano essere ben compressi per evitare smottamenti.
Essi presentavano delle bocche di scolo, protette con cotiche erbose dalla eccessiva erosione, dovuta al passaggio di acqua tra una camera e l'altra. Gli argini che dovevano essere rifatti tutti gli anni erano quelli trasversali, cioè i perpendicolari ai solchi, mentre i longitudinali, paralleli alla linea di aratura, dovevano essere solo ritoccati. Il compito dell'aratura era affidato ai salariati fissi che si occupavano degli animali da tiro: i bifolchi con i buoi, sostituiti in seguito dai cavallanti con i cavalli. L'aratura però non esauriva i lavori di preparazione del terreno in vista della semina: l'aratro lasciava in superficie zone troppo grosse che andavano sminuzzate, sia passando con l'erpice fisso, trainato da un cavallo guidato da un cavallante, sia con la zappatura (smottatura) che era affidata alle donne obbligate. Veniva poi immessa l'acqua che dava modo di evidenziare le parti di terreno affioranti, abbassate e spoltigliate (slottatura) con zappe dalle obbligate, mentre un cavallante livellava ulteriormente il terreno passando con una tavola di legno trainata dall'animale.
Questa operazione risultava particolarmente fastidiosa perché veniva compiuta a piedi nudi nell'acqua ancora fredda di marzo-aprile. Molto gravoso era pure il lavoro di costipazione del terreno, attuato sulla risaia col ripetuto passaggio di mandrie, guidate in genere da giovinetti d'entrambi i sessi (figli di salariati fissi) che faticavano non poco a tener dietro agli animali nel fango; questa pratica veniva attuata nei terreni troppo permeabili all'acqua. A questo punto avveniva la semina, compiuta un tempo alla volata da avventizi particolarmente esperti, e perciò meglio pagati, i seminatori. Essi dovevano cadenzare il passo alla gettata, per seminare uniformemente e nella quantità voluta, tradizionalmente un'emina alla pertica. Il seminatore doveva porsi al centro del "pianón", lanciando la semente da un solco all'altro, compito particolarmente complicato in risaia dove 1'acqua impediva un preciso orientamento. Si predisponevano perciò dei rami nei solchi, come punti di riferimento; una fila di sacchi di semi posti nell'acqua serviva, inoltre, per poter regolare la semente da gettare per unità di superficie.
Dopo la semina iniziava un periodo di relativa stasi di lavoro in risaia. Dall'istituzione dell'imponibile di manodopera si cercò di utilizzare ugualmente i lavoratori, abbiamo raccolto la testimonianza di mondature ordinate a squadre di avventizi maschi, su risaie in cui il riso era appena germogliato, allo scopo di estirpare l'erba bianca, un'infestante precoce. In aprile, cioè prima dell'inizio dei lavori di monda, si rendevano spesso necessari interventi di manutenzione e di pulitura: temporali o venti forti potevano estirpare le piantine appena nate che venivano accumulate da una parte della risaia, lasciando intere zone scoperte, in questi casi bisognava ricorrere a piccoli trapianti. Le obbligate venivano spesso mandate a ripulire coi rastrelli la superficie dell'acqua da paglie galleggianti (frammenti di stoppie) e dallo strato di alghe. Da quanto detto risulta evidente come la coltivazione del riso richiedesse l'impiego di molti lavoratori già prima della monda (anche se in questa fase vi era una maggior concentrazione di manodopera) e come si attuasse una accurata manutenzione della risaia.
Con il termine monda si sottintendono spesso lavori diversi: la monda vera e propria che avveniva da fine maggio a giugno e, sporadicamente, in luglio, ed il trapianto, che si eseguiva quaranta giorni dopo la nascita delle piantine nel vivaio. Bisogna inoltre ricordare che le operazioni di mondatura, in genere, avvenivano una sola volta nelle risaie trapiantate, ed erano appannaggio delle locali, due volte nelle risaie seminate dove intervenivano anche le migranti. Nella monda ogni squadra di mondine procedeva allineata in avanti, le erbe estirpate venivano fatte passare di mano in mano e depositate nei solchi dalle due lavoratrici che si trovavano ai lati del "pianón". L'allineamento favoriva la comunicazione e l'operazione era considerata meno faticosa di quella del trapianto dove era richiesto un ritmo incalzante, mentre nella mondatura potevano esserci momenti di relativo "riposo" quando si incontrava un tratto di risaia con poche erbacce.
Tra l'altro, l'organizzazione del campo a "pianón" si spiegava proprio con gli spazi per le erbacce (i solchi appunto) rispetto a cui, soprattutto nell'Ottocento, si appuntarono le critiche degli igienisti e dei medici che consideravano la putrefazione delle infestanti lasciate nei solchi fonte di pericolose malattie. A luglio e ad agosto, le obbligate venivano mandate sia ad estirpare il riso crodo, un riso selvatico che maturava precocemente, sia a rivoltare le erbacce lasciate nei solchi, per evitare che riattecchissero; il lavoro era considerato dalle donne particolarmente disgustoso e faticoso: infatti, poiché il livello dell'acqua nei solchi era molto più alto, occorreva farsi "un'ariónda" fino all'inguine (nell'"ariónda" tradizionale la gonna veniva arrotolata e fermata col laccio del grembiule, quando si rivoltavano le erbacce era invece fissata sotto l'elastico delle mutande anche con l'aiuto di spille).
Le erbe erano maleodoranti, bisognava rivoltarle nell'acqua a mani nude, ad ogni donna era assegnato un solco. La tcnica del trapianto fu introdotta in Italia dal dottor Novello Novelli e si diffuse su vasta scala a partire dagli anni '20. Si seminava il vivaio ai primi di aprile se doveva fornire le piantine per il trapianto nei campi ove era stato coltivato il fieno, a fine aprile per quelli ove si era mietuto il grano. Nel primo caso il trapianto avveniva agli inizi di giugno, nel secondo tra la fine di giugno e gli inizi di luglio. Il trapianto manuale, attuato sin oltre gli anni '50 nonostante i ripetuti tentativi di meccanizzazione, richiedeva grandi quantità di manodopera poiché doveva essere realizzato in un tempo breve. Alle mondine locali toccava il compito di estirpare le piantine del vivaio e di legarle a mazzetti (in genere quest'ultima mansione veniva svolta da donne anziane). Nella risaia poi, mentre un uomo o un ragazzo gettavano i mazzetti di riso nell'acqua, le donne si occupavano di impiantarli, procedendo anche qui a squadre allineate ma all'indietro. Le squadre potevano essere molto più numerose rispetto a quelle della monda. Era un lavoro faticoso in quanto si doveva arretrare velocemente, sempre curve, mentre con una mano si reggeva il mazzetto e con l'altra si conficcava la piantina nel terreno. Ogni lavoratrice indietreggiava badando di non perdere il ritmo imposto dalla caposquadra, questa situazione scoraggiava il canto e la comunicazione, che erano meno frequenti. Il trapianto, più della monda, si configurava come un lavoro parcellizzato in cui era determinante il ritmo e il tempo d'attuazione; secondo molti informatori divenne ben presto l'occupazione tipica delle mondine forestiere, preferite perché più svelte.
Qui si doveva subire anche la concorrenza dei maschi: spesso i fittabili assoldavano squadre di trapiantini, lavoratori emigrati che scendevano dalla collina o venivano dai paesi circonvicini e trapiantavano in appalto, con ritmi molto alti. Alcuni padroni non esitavano a far lavorare insieme sullo stesso campo squadre di forestiere e di locali, per sfruttare al massimo le contraddizioni e le rivalità presenti all'interno del proletariato rurale femminile e diminuire i tempi di esecuzione. Nel trapianto ad ogni lavoratore era affidato un mazzetto, era importante l'allineamento delle pianticelle e anche la giusta distanza tra una e l'altra, per evitare che si creassero vuoti nel campo. Il maggior ritmo delle forestiere e dei trapiantini comportava spesso una esecuzione meno accurata, poiché le piantine venivano poste a dimora ad una distanza maggiore (rispetto a quella attuata dalle locali) e con una inclinazione tale da simulare un trapianto più fitto. Questo era un tradizionale motivo di lamentela da parte dei padroni perché quando veniva alzato il livello delle acque le piantine inclinate galleggiavano ed era necessario ritornare nel campo per ripiantarle. Il fatto stesso di lavorare a squadre poneva alle lavoratrici alcuni problemi che potevano essere risolti solo tramite la collaborazione ed il rispetto reciproco. Il riso, notoriamente, cresce più rigoglioso nelle parti centrali del "pianón" mentre è più rado lungo i solchi, e lo stesso avviene per le erbe infestanti. Così le donne che si trovavano nelle parti centrali (sia nella monda che nella mietitura) avevano un lavoro ben più pesante da svolgere che poteva essere alleviato solo con la cooperazione delle altre che stavano ai fianchi. Anche per il trapianto ciò in un certo senso avveniva: per attuarlo in modo corretto occorreva pianificare i propri gesti, armonizzandoli con quelli delle mondine a lato, altrimenti accadeva che rimanessero parti del campo scoperte.
Determinante era il ritmo imposto dalla caposquadra che spesso si piazzava lungo i solchi (così aveva meno lavoro da svolgere e procedeva più velocemente) ma anche la collaborazione tra mondine della squadra. Se alcuni elementi si mettevano al di fuori di queste tecniche collaborative, procedendo per conto loro, le mondine delle file centrali erano costrette a sopportare una fatica enorme e, il più delle volte, rimanevano indietro, formando "la coda". Alla base della solidarietà nel lavoro in risaia stava la capacità della squadra di instaurare un equilibrio tra i suoi componenti, equilibrio che fu sempre difficile da trovare, anche nelle epoche più moderne. Bisogna va inoltre tener presente che, in alcuni casi, la scarsa collaborazione poteva portare anche a seri inconvenienti. Nella mietitura, la donna che non riusciva a mantenere il ritmo, rischiava di infortunarsi poiché era costantemente incalzata dalla falce della compagna che le stava dietro. Per la mietitura erano impiegate sia uomini che donne del luogo e, in piccola parte, almeno in Lomellina, anche lavoratori immigrati. Per la trebbiatura invece bastavano quasi esclusivamente gli avventizi e le obbligate locali.

La mietitura.

La mietitura del riso, sostanzialmente simile a quella del grano, si svolgeva con squadre disposte a scalare sul campo; ogni squadra si suddivideva in coppie: il primo mietitore (o mietitrice) poneva a terra un legaccio fatto di piantine intrecciate o di lisca su cui venivano appoggiate le spighe per farle seccare al sole, il secondo mietitore deponeva i suoi mannelli sullo stesso legaccio. I mietitori afferravano con una mano una manciata di spighe e falciavano con la falce messoria nell' altra, in genere venivano compiuti tre tagli prima di avere la mano piena e quindi deporre le spighe e procedere in avanti.
Il secondo mietitore che non doveva predisporre il legame, poteva mietere qualche spiga in più e controllare che non ne venissero tralasciate. Le messi allettate rendevano più difficile il lavoro: bisognava sollevare le spighe con la punta ricurva della falce prima di tagliarle. I manipoli venivano lasciati distesi a seccare per due o tre giorni , poi si procedeva alla legatura formando così i covoni, i quali venivano lasciati ancora sul campo ad essiccare, però dopo averli raddrizzati e appoggiati l'uno all'altro a formare le biche, in modo da proteggere in parte il cereale da eventuali piogge. Le legatrici potevano essere le stesse mietitrici, spesso questa mansione era riservata a giovani non ancora capaci di tagliare. Come già detto, la mietitura non permetteva l'instaurarsi di occasioni comunicative simili a quelle presenti durante la monda e, in minor misura, durante il trapianto, gli informatori sono concordi nell'affermare che mai durante la mietitura si cantava e neppure si poteva comunicare, e questo a causa del ritmo e della fatica che il lavoro comportava, ma anche per la particolare disposizione dei lavoratori sul campo.
La prima operazione meccanizzata che si diffuse fu la trebbiatura. Già all'inizio del novecento si era abbandonata la "tresca", attuata facendo passare animali da tiro sulle messi distese sull'aia, e si riservava la battitura del cereale col correggiato solo alla preparazione dei semi di risone. Le prime trebbiatrici introdotte erano azionate a vapore, si trattava di macchine semi-fisse distinte in due corpi: la caldaia e la trebbia vera e propria, che venivano unite con cinghie di trasmissione, in seguito vennero usate trebbiatrici azionate da motori a scoppio o dall'energia elettrica. La trebbiatura a macchina richiedeva ancora molto lavoro umano poiché bisognava continuamente alimentare il fuoco, se si usava la macchina a vapore, e, in ogni caso, "dar da mangiare" alla macchina, cioè infilarvi le spighe.
Questo compito era affidato a un uomo mentre altri uomini preparavano nuovi covoni che una donna liberava dal legaccio. Le donne avevano l'incarico di rimuovere la paglia che man mano veniva accumulata, e di trasferirla nei luoghi dove si sarebbero alzati i pagliai. Prima della diffusione degli essiccatoi il cereale trebbiato ma non ancora pulito veniva allargato sull'aia: doveva subire un'ultima e definitiva essiccatura, inoltre si dovevano separare i chicchi dai residui di paglia. Spesso l'aia aveva una superficie sufficiente ad accogliere tutto il risone, in questo caso esso non veniva steso in uno strato uniforme ma in molte file leggermente ammonticchiate, che andavano spostate varie volte nella giornata per portare man mano al sole tutto il cereale. Questo lavoro era svolto indifferentemente da uomini e donne con rastrelli, in seguito fu introdotto un attrezzo particolare, una tavola spinta con un manico, fornita nella parte inferiore di latte a forma di V, che rivoltavano il cereale.
Alla sera si raccoglieva il risone con una tavola piatta, guidata sempre grazie ad un manico ma trainata da un cavallo, le donne passavano a scopare i chicchi rimasti nel mucchio centrale che era ricoperto di teloni durante la notte. Le donne usavano ancora le scope ma di forma particolare, a trama più rada, quando si "ventolava" il riso, cioè si sfruttava il vento per separare i chicchi dai residui. Un uomo con una pala gettava in aria il cereale contro vento cercando di fargli compiere un arco, in questo modo le pagliuzze ricadevano più vicino dei chicchi e le donne le allontanavano. Presso i piccoli affittuari o per piccole quantità di cereali si usavano i ventolatori meccanici, che pulivano il risone sfruttando l'azione di setacci mobili e della corrente d'aria provocata dalla ventola, essi venivano azionati dalle donne.


Trebbiatori dell'Oltrepo alla cascina Erbogna di Ferrera.

Negli anni ' 10-'20 si diffusero gli essiccatoi, presso i quali venivano impegnati solo uomini. Per risparmiare combustibile si ricorreva ad essi solo in caso di maltempo, diversamente si preferiva la tradizionale essiccatura sull'aia che si è protratta fino agli anni '60. Il risone doveva, come ultima operazione, essere pilato dalla lolla e sbiancato dalla pula. Le riserie si diffusero tardi, per cui in molte cascine esisteva la pila, azionata, in genere, da una ruota di mulino. Gli informatori ricordano pile di cascine con le operazioni ormai completamente meccanizzate, nell'ottocento si usavano pile più semplici, dove i chicchi sgusciati dovevano essere fatti passare in una serie di grossi crivelli appesi al soffitto; un tempo si pilava a mano, pestando il risone in un grosso mortaio di pietra con un pesante pistone di legno rivestito in fondo di ferro.
Ben noti sono gli sviluppi successivi della risicultura: abbandono del trapianto, diserbo chimico e fitormonico, mietitura e trebbiatura completamente meccanizzate. Prima di questi grossi cambiamenti colturali, volti essenzialmente a ridurre il fabbisogno di manodopera, anche a scapito di produzioni più cospicue (come dimostra la rinuncia al trapianto), la coltivazione del riso richiedeva numerosi momenti di lavoro collettivo che impegnavano salariati fissi, obbligate, avventizi locali e immigrati d'entrambi i sessi.

M. Antonietta Arrigoni

(da "Mondine di Lomellina. Riti, cultura, condizione femminile in risaia" in "Mondo Popolare in Lombardia - Pavia e il suo territorio" a cura di Roberto Leydi, Bruno Pianta, Angelo Stella, 1990, Regione Lombardia, per gentile concessione dell'Autrice e della Direzione Generale Cultura della Regione Lombardia).