L'organizzazione delle bande dei "ribelli"
In una circostanza così complessa ed incerta si
cominciò a guardare con qualche interesse a quelle formazioni irregolari
che, nate all'indomani dell'8 settembre dall'unione di numerosi perseguitati
politici del regime fuggiti dalle città assieme gli ufficiali ed
i soldati del disciolto esercito, avevano trovato rifugio e scampo nei
boschi dei nostri monti.
Queste bande di "ribelli" erano inizialmente indipendenti ed
autonome: quasi tutte coltivavano la grossa speranza, o meglio, l'illusione,
che gli Alleati che stavano combattendo nel Sud sarebbero arrivati in
un batter d'occhio anche nel Nord, e tutto sarebbe finito.
Una banda come quella del Greco (così chiamata per la nazionalità
del suo capo, Andrea Spanojannis, che teneva insieme con la forza del
suo prestigio, oltre a reduci italiani, anche russi, greci, sudafricani
ed aveva la sua roccaforte a Tana di Pecorara, in quel di Romagnese, operando
nei territori che di lì, attraverso la Val Tidone, vanno fino alla
vie Emilia, importantissima arteria dei collegamenti e vettovagliamenti
nazi-fascisti) fu, ad esempio, sempre fonte di gravi problemi per il movimento
della Resistenza nella nostra zona, a causa dei suoi colpi di mano piuttosto
avventurosi e poco ponderati.
La banda del Greco appena ricordata era, naturalmente, un'eccezione -
ed eccezioni ve ne furono, purtoppo, anche di seguito persino fra i componenti
delle formazioni che si fecero molto onore (si ricordi, ad esempio, il
massacro di quasi un'intera famiglia di S. Pietro Casasco ad opera di
sedicenti partigiani; massacro, peraltro regolarmente punito da una sentenza
di un tribunale di guerra che ebbe poi l'avallo, in tempo di pace, da
un tribunale regolare) - tra tanta buona volontà e spirito di abnegazione
e sacrificio che, pur negli innegabili limiti della condizione umana e
degli errori ad essa connaturati, vanno riconosciuti anche alle prime
formazioni partigiane della nostra comunità.
Tra queste occorre ricordare quella della Primula Rossa (Angelo Ansaldi,
un manovale di Varzi, figura indubbiamente interessante per il suo spirito
innato di garibaldinismo e per la sua coscienza antifascista che si esplicava
nell'odio verso i ricchi ed il potere e nello spirito di premurosa protezione
verso le popolazioni rurali più perseguitate ed umiliate dai fascisti)
che operava prevalentemente nel settore di Cella, Monteforte e Varzi e
che, per lungo tempo, avrebbe difeso l'autonomia del suo gruppo e ne avrebbe
rifiutato l'inquadratura partitica. Nella zona bassa della Valle Stàffora,
nei dintorni di S. Ponzo, c'era il gruppo "Staffora" di Alberto
Piumati, mentre nella zona di S. Albano e nella Val Ardivesta operava
il gruppo di Tino (Tino Schiavi) ed Elmo (Gregorio Fracchia) e in quella
dell'alta Val Tidone, a Pometo e Ruino, quello di Tiziano Marchesi, detto
Tundra.
L'organizzazione e l'inquadramento di queste formazioni partigiane che,
come diceva il foglio comunista "La nostra lotta" dell'ottobre
1943, "sono nate come reazione spontanea del popolo e della parte
migliore dell'esercito", aumentò la loro credibilità,
così che esse diventarono il naturale punto di riferimento per
tutti coloro che non se la sentirono di diventare i soldati della R.S.I.
e di combattere per i Tedeschi. Lì vicino, nei boschi intorno ai
loro paesi, c'erano i partigiani: andando con loro si era più liberi,
si stava vicino a casa e, ogni tanto, si poteva anche andare a dormire
nel proprio letto, oppure dare un'occhiata alle bestie ed ai campi.
A partire dalla primavera del '44, cioè dal momento in cui le minacce
verso coloro che rifiutarono di arruolarsi si tradussero in triste realizzazione
e la famigerata Sicherheit di Voghera iniziò ad attuare sconvolgenti
persecuzioni, la resistenza armata cominciò a presentarsi agli
occhi dei nostri contadini e di tutta la gente, anche della più
tranquilla, come l'unica cocreta possibilità di non lasciarsi portar
via i figli e di difendere le proprie case, insieme al bestiame ed ai
raccolti, presi di mira con frequenza sempre crescente dai vandalismi
dei repubblichini.
Se si considera il clima di soprusi e di intimidazione creato dai nuovi
fascisti, si capisce anche perché l'iniziale diffidenza verso quelle
bande di uomini malvestiti e dalle barbe incolte, che sembravano vivere
come dei briganti, divenne poi favore, simpatia, affetto e non si negò
mai ad un partigiano un letto per riposare, un pasto caldo, una coperta
o un paio di scarpe, benché corressero tempi di miseria e di sofferenza.
"Vennero a portarci via alcuni giovani del paese, approfittando della
notte e del tradimento" - racconta un vecchio di Rossone, con gli
occhi lucidi di lacrime -, "li portarono a Varzi e gli misero addosso
i panni della milizia. Poi, quando qualcuno riuscì a scappare,
ritornarono a Rossone. Avevamo appena incascinato il grano e il 'fugòn'
non veniva mai a trebbiarlo: lo avremmo subito macinato per le nostre
necessità e il resto l'avremmo venduto perché, specie quell'anno,
il grano era la nostra vita. Ma quelli vennero su di un camion (erano
una quindicina armati fino ai denti, e c'erano anche delle donne), passarono
sulla strada principale dove s'affacciavano quasi tutti i cascinali e
vi appiccarono il fuoco: spararono su chi cercava disperatamente di salvare
il suo grano. Io ero sulla collina ad arare coi buoi e vidi tredici cascine
andare in fiamme: tredici famiglie che avrebbero fatto la fame. Allora
capii che andare partigiano e fare la guerra a chi non aveva rispetto
neppure del grano, non era poi tanto sbagliato".
Qualche settimana dopo quei roghi, nella battaglia per la presa del castello
di Pietragavina, furono parecchi i contadini di Rossone a dar manforte
ai partigiani con gli attrezzi più rudimentali del loro lavoro.
Tratto da PAESI E GENTE DI QUASSU'
Storia - Vita - Arte - Bellezze dei 19 Paesi della
Comunità Montana dell'Oltrepò Pavese
Edizione a cura del CENTRO CULTURALE "NUOVA PRESENZA" - Varzi
1979
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Varzi
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