I SETTE FRATELLI
I sette fratelli Cervi: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando,
Agostino, Ovidio, Ettore, il primo di quarantadue anni, l'ultimo di ventidue;
fittavoli d'una fattoria emiliana, furono fucilati il mattino del 28 dicembre
1943, al tiro a segno di Reggio Emilia, da un plotone d'esecuzione fascista.
Al ricordo di questo fatto, certamente uno tra i più tragici della
nostra lotta di liberazione, la commozione si appunta su quel numero di
sette, sulla tremenda strage familiare, sul dolore di quella madre e di
quel padre. Ma non vorremmo che in questo primo spontaneo moto dell'animo
si esaurisse la traccia lasciata dal sacrificio dei Cervi, cioè
che si trascurasse soverchiati dalla pietà e dall'esecrazione,
di conoscere chi realmente furono quei sette fratelli.
Ecco a pochi chilometri da Reggio, tra Campegine e Gattatico, il fondo
di Fraticello. Una vasta casa colonica, tra verdi preti da foraggi era
ed è la casa dei cervi. Ci vivono ora le quattro vedove e gli undici
figli dei Cervi; la vecchia famiglia patriarcale è unita oggi come
allora, intorno ad Alcide Cervi, il vecchio Cide, il padre dei sette e
intorno alla memoria dei fucilati e della madre, morta di dolore poco
dopo.
Quando i Cervi presero in affitto questo fondo, nel 1934, erano una povera
famiglia di Campegine, carica di debiti, di bocche da sfamare, con poche
bestie; e questo era un terreno poco produttivo, accidentato e pieno di
dislivelli. Ma i sette fratelli avevano braccia forti ed idee in testa.
Per prima cosa decisero di spianare tutta la campagna. Si misero con dei
vagoncini di quelli dei lavori stradali, a caricare terra a trasportarla
e distribuirla per il podere. Anche dopo il tramonto i vicini li vedevano
andare avanti e indietro con quei carrelli, un po' li prendevano in giro.
Il livellamento dei terreni non era ancora diventato pratica comune, allora;
i Cervi furono i primi. Appianato, percorso da canali di irrigazione,
il loro fondo cambiò faccia in poche stagioni.
"Teste nuove" erano considerati i Cervi nei dintorni; cioè
gente che viene fuori ogni momento con qualche idea mai sentita, come
quella stalla modello, quell'abbeveratoio razionale, cose imparate sui
libri; però la fattoria dei Cervi con tutte quelle idee nuove e
tutte quelle schiene sempre al lavoro prosperava di bene in meglio, e
l'allevamento di bestiame che misero su in pochi anni faceva invidia a
tutti. A casa Cervi i contadini dei dintorni ci capitavano sovente, sempre
diffidenti e pronti a criticare ma pur sempre curiosi, e pronti ad imparare
quando vedevano che c'era del buono. Frequentarli troppo poteva anche
essere pericoloso, perché i Cervi erano "rossi" e non
facevano mistero con nessuno della loro avversione per duce, fascio, impero
e tutto il resto, ma anche nella previsione degli avvenimenti politici
(e, quindi anche dei prezzi dei prodotti e dei concimi e delle merci)
pareva impossibile ci azzeccassero sempre. Segno che quella loro mania
di leggere i libri, alla sera invece di andare all'osteria, o ai balli,
piantati coi pugni sulle tempie a cavarsi gli occhi tutti e sette intorno
a un tavolo, qualcosa serviva.
Erano una famiglia fuori dal comune; che i sette fratelli fossero così
uniti e in buon accordo era già un fatto fuor dall'ordinario. E
ancor più che quest'accordo non si basasse su una disciplina rigida
come nelle famiglie patriarcali di campagna simili alla loro (poche ormai
ne restavano). Gelindo, il fratello maggiore, era quello che aveva più
autorità, ancor più del padre; ma i Cervi erano come una
repubblica, e prima di decidere qualcosa ne discutevano tutti insieme,
e ognuno diceva la sua, il padre e la madre insieme ai figli, come due
di loro.
La coscienza politica era stato Aldo a portarla in famiglia. Aldo da soldato
era stato condannato a tre anni di Gaeta, per aver obbedito troppo fedelmente
alla consegna. Era di sentinella ad una polveriera, e aveva fatto fuoco
verso un'ombra che non aveva risposto al "chi va là";
quell'ombra era di un tenente colonnello che restò ferito ad un
dito e lo mandò sotto processo. A Gaeta come in ogni carcere d'Italia,
a quel tempo era facile incontrare i comunisti, e Aldo li incontrò.
Passò anche per lui "l'Università del carcere";
lesse molti libri, discusse di storia, d'economia, di politica. Tornò
a casa, amnistiato, dopo due anni con in testa un sistema di idee ben
preciso. Con i fratelli gli fu facile continuare le discussioni del carcere,
e procurarsi libri per approfondire i problemi. L'unione tra fratelli
diventò anche un'unione tra compagni; e anche il padre - che pure
un tempo votava per il Partito Popolare - li seguì nelle nuove
idee.
Studiavano la storia d'Italia in cinque grossi volumi d'un popolare testo
illustrato; e leggevano Gorki e Anatole France, ma anche Dante e Omero
e Virgilio. E' la figlia di Antenore una ragazza di diciannove anni che
mi mostra i libri del padre e degli zii.
Sto aspettando il vecchio Cide che non è in casa; è a Reggio
a una riunione della cooperativa. "E' sempre in movimento il vecchio
- si lamentano le nuore, - a settantasei anni suonati, con qualsiasi tempo,
in autobus, a piedi, in bici, al Consiglio comunale, alla cooperativa,
o per la campagna…"
Aspettando la Irnes, la vedova di Agostino, mi guida nel tinello che raccoglie
i pochi cimeli di quelle vite, i mobili che costruiva Antenore, provetto
falegname, i diplomi vinti nelle esposizioni agricole, i libri, le fotografie…
Ecco i loro sette volti, magri, ostinati, seri.
Su una delle credenze fatte da Antenore troneggia un mappamondo. Era stato
Aldo a comprarlo, il giorno che era andato a Reggio a prendere il trattore.
Era un gran giorno per la famiglia; l'azienda andava bene, erano riusciti
finalmente a comprarsi un trattore, e Aldo tornò guidando la macchina
nuova fiammante, con a bordo quel mappamondo anch'esso nuovo nuovo.
Dopo l'8 settembre casa Cervi diventò un rifugio di soldati sbandati
e di prigionieri stranieri fuggiaschi. Ci passarono un centinaio di persone
in quei mesi, sovietici, inglesi, un aviatore americano, un tedesco disertore.
L'attività partigiana era agli inizi. Di squadre di pianura non
ne esistevano ancora, furono i Cervi ad avere la prima idea. Era Aldo,
il più impegnato nella lotta, andò in montagna con una delle
prime bande, ai piedi del monte Ventasso, e Agostino col cavallo faceva
il trasporto d'armi. Dopo aver disarmato il presidio fascista di Toano,
la formazione, isolata e priva di rifornimenti, dovette sciogliersi. Aldo
scese a casa e animò le azioni di pianura, il disarmo del presidio
di S. Martino in Rio, l'abbattimento di un pilone per l'alta tensione
per le fabbriche militari di Reggio, e girava per i paesi trasportando
bombe a mano nella cesta delle verdure, eludendo con astuzia contadina
le perquisizioni degli sbirri. Che la fattoria fosse un luogo segnalato
e pericoloso, era ormai chiaro. Quel via via di fuggiaschi stranieri non
poteva non dare nell'occhio. Aldo, che s'era votato nella lotta anima
e corpo, non voleva che i fratelli s'esponessero; c'era la campagna da
mandare avanti; a far la guerra ai tedeschi e ai fascisti pensava lui,
ed era pronto a pagare di persona. Ma era un momento in cui sistemare
in un altro posto quei sovietici e quegli inglesi che dormivano nella
loro stalla, era un affar serio. Chi se li sarebbe presi, col rischio
di farsi bruciare le case dai tedeschi?
Alla fattoria la notte si montava la guardia, fino all'alba. Ma il 25
novembre la guardia era appena smontata, perché era gia chiaro.
I fascisti arrivarono a piedi, facendo un gran giro per i campi, con uno
spiegamento di forze come dovessero circondare un paese. Quando i Cervi,
le donne e i prigionieri sentirono i primi spari, la fattoria era già
circondata. Credevano di poter resistere e cominciarono a rispondere dalle
finestre con qualche bomba a mano e qualche raffica d'una mitragliatrice
che presto s'inceppò. I fascisti diedero fuoco ad un'ala della
casa. Il capitano Pilati intimò la resa. Non c'era scampo, i fascisti
erano troppi, la casa bruciava. I Cervi uscirono a mani alzate. Furono
portati a Reggio, al carcere dei Servi, i sette figli e il padre.
Negli interrogatori Aldo prese su di sè tutte le responsabilità:
"Io solo sapevo dei prigionieri, venivano di notte, li facevo entrare
io e al mattino se ne andavano; i miei fratelli non sospettavano di niente".
Il suo calcolo era quello di salvare i familiari, d'essere fucilato lui
solo.
Intanto c'era sempre la speranza di riuscire tutti a scappare, perché
tenere in prigione sette, anzi otto tipi della razza dei Cervi non era
facile. La serie di tentativi di evasione falliti è troppo lunga
da raccontare. Prima con un cucchiaio, poi con un mattone, poi con la
connivenza di un secondino, poi collegati ai partigiani che dovevano assaltare
la prigione… L'ultimo tentativo era predisposto per il 30 dicembre,
quando una parte delle guardie sarebbe stata in licenza per il capodanno.
Ma il 27 dicembre.. in un'azione partigiana, venne giustiziato il segretario
del fascio di Bagnolo in Piano; a notte si riunì il Tribunale Speciale
di Reggio; il 28 mattina i sette fratelli insieme al giovane Quarto Cimurri,
un disertore dell'esercito repubblichino che era tra i rifugiati nella
loro fattoria, furono passati per le armi. Morirono da "cinici"
dissero i fascisti; il che in bocca al nemico, è quanto dire:"da
eroi".
Ecco l'ala della casa che bruciò quella notte, ecco la finestra
da cui i Cervi risposero agli spari, ecco la stalla in cui si nascondevano
i fuggiaschi… . E in quella stalla, appena arrivato di città,
mentre senza neppur cambiarsi d'abito ha gia afferrato il forcone e rivolta
un mucchio di fieno, incontro il vecchio Cide. E' un ometto basso, nodoso,
di parola calorosa e pronta.
"I miei figli? - dice - scrivete questo; che dire uno era come dire
sette, e dire sette era come dire uno".
Vorrei dirgli che sotto i suoi occhi, in questa casa, sono avvenuti fatti
di importanza storica enorme; lo sviluppo politico e culturale e tecnico
d'una avanguardia contadina in pieno fascismo, la nascita di un nucleo
di fraternità internazionale in piena guerra, le prime esperienze
di nuove forme di lotta partigiana che dovevano poco dopo propagarsi a
tutta l'Italia occupata. Ma forse il vecchio Cide non mi intenderebbe.
E' una storia familiare, questa, per lui; è un lutto familiare
il suo, come quello di tanti che hanno perduto i figli in guerra. Ma tra
le vicende che studiavano i suoi figli la sera coi pugni sulle tempie
intorno al tavolo nei volumi della vecchia storia d'Italia, questa storia
familiare deve trovare il suo posto.
Italo Calvino
da L'Unità
Domenica, 27 dicembre 1953
Tratto da fratellicervi.it |