Intervista a Mario Tronti sul movimento "no global"

[...] Questi movimenti antiglobalizzazione devono avere la capacità di stare dentro una storia, altrimenti subiscono anche loro il fascino di una sorta alternativa di nuovismo: "è un movimento nuovo in tutti i sensi, non ce n´è mai stato uno di questo tipo qua, interessante è questa sua novità per il modo in cui vive, per come si organizza, per come si esprime". Però, sarebbe interessante se loro riconoscessero una storia dietro le spalle, sapere da dove si viene è importante. E dietro ci sono queste esperienze di lotta, non c´è nessun movimento che possa prescindere dal fatto che ci sono state le lotte operaie, nessun movimento contestatore (come si dice) dell´ordine costituito può pensare di prescindere da questa storia qui. E´ un movimento che si presenta subito con una sua apparente forza e reale debolezza. La forza è di continuare una storia, di prendere una bandiera. Nemmeno io penso che sia oggi riproponibile un ciclo di lotte operaie come quello degli anni ´60, né qui in Italia né in altri paesi, è chiaro che ci sono altre forme di conflitto; però, appunto è la continuità del conflitto, la storia del conflitto che è fondamentale. Tale consapevolezza non c´è, questi tipi di studi, di raccolte, di ricerche come questa dovrebbero anche servire per immettere là dentro questa consapevolezza. Non tanto perché da queste ricerche scaturisca un´esperienza di riproposta, ma per immetterle dentro un collettivo attualmente esistente di protesta, che sicuramente c´è, c´è più di quello che si vede. Del resto una delle cose interessanti di questi movimenti è che ti fanno scoprire che c´è ancora una carica pure eversiva, giustamente eversiva, anche il carattere poi della violenza è la spia di qualcosa, di una mentalità non-ordinante, dis-ordinante anzi. E´ interessante vedere che c´è ancora, perché guardando il mondo si può pensare che ormai ciò sia chiuso. Invece, questo è tipico del grande capitalismo, che ripropone sempre al suo interno contraddizioni nuove, e anche forme di spinte, di anticapitalismo: il capitalismo produce anche l´anti. E´ interessante perché appena la cosiddetta globalizzazione scavalca questo orizzonte viene fuori l´antiglobal. Però, anche lì è importante capire che ciò sta dentro una logica di sistema e non è una cosa che capita adesso per la prima volta, c´è stata sempre da quando c´è storicamente capitalismo: poi le forme sono state sempre diverse, questa può essere una forma di anti, però sta dentro la storia dell´anti. Lì questo tipo di consapevolezza io non riesco a vederla, non so se c´è una conoscenza anche limitata del movimento. Cioè, il fatto che si dica più globalizzazione che capitalismo è significativo: io non dico mai globalizzazione, dico sempre globalizzazione capitalistica, questa è la caratteristica che definisce la globalizzazione, la sua natura capitalistica. Allora, anche l´anti diventa più chiaro, perché altrimenti quando parli di antiglobalizzazione devi dire: "però non siamo contro la globalizzazione in quanto tale ma si tratta di usare in un altro modo la globalizzazione", c´è questo discorso leggero, all´acqua di rosa insomma, "non siamo contro ma...". Invece, se tu sei contro la forma capitalistica della globalizzazione, allora il discorso diventa molto chiaro. Però, io non lo vedo declinato così, tranne magari in qualche frangia più consapevole. Bisognerebbe aprire una discussione, ma è difficile poi capire chi sono, dove sono. C´è questa per me fastidiosa natura pauperistica del movimento, che poi gli dà un´intonazione etica, "per i poveri del mondo contro i ricchi del mondo", messa così non è che ci si cavi un granché: tanto è vero che poi ti ritrovi lì la parte cattolica, i papa-boys, ti ritrovi dentro tutti, la cancellazione del debito ecc. Bisogna far capire che sono forme che erano già state superate a un certo punto dai cicli ricorrenti delle lotte operaie, la loro caratteristica era stata proprio quella di abbandonare questo terreno: non la rivendicazione ricchi contro poveri, ma due classi che non si disputavano poi tanto la quantità di ricchezza da spartire, quanto invece il livello di potere da esercitare. Quello è stato il movimento operaio, nella lunga storia delle classi subalterne è intervenuta questa consapevolezza non più di debolezza ma di forza: "siamo alla pari, non è che vogliamo una migliore redistribuzione della ricchezza, vogliamo che si metta in discussione il criterio di produzione della ricchezza stessa; e siccome nel rapporto di produzione c´è implicito un rapporto di potere, lì, nel rapporto di potere, dobbiamo fare il conflitto". Questo è il punto altissimo da cui non si può tornare indietro: tanto è vero che gli operai poi si organizzavano attraverso i sindacati, attraverso i partiti, per la conquista del potere politico. Ora, non si tratta di fare una lezione ai nuovi movimenti dalla cattedra, però bisognerebbe trovare un´interlocuzione che si ponesse lì dentro e a un certo punto facesse fare anche un salto. Questi salti all´interno dei movimenti sono possibili, ci sono stati anche dentro ai movimenti degli anni ´60: questo paragone che si fa con il ´68 in parte non funziona, in parte però sì. Quelli erano movimenti che erano partiti da determinate cose e poi nel corso del tempo avevano cambiato registro. Partivano da un´impostazione antiautoritaria, antiaccademica, era il movimento studentesco; dopo il ´68 e negli anni seguenti frange consistenti, che poi hanno preso anche la guida del movimento stesso, anche nei gruppi, hanno visto che il problema non era quello che si pensava. Il movimento negli slogan passò da "potere studentesco" a "potere operaio", e credo appunto che quello sia stato un salto del movimento stesso.

- A proposito di quanto stai dicendo ci interesserebbe approfondire il rapporto tra movimenti e progettualità dei movimenti. La tua analisi viene fuori in termini evidenti rispetto a quanto è successo negli ultimi mesi, in particolare in relazione a Genova: ciò che manca di più è l´esprimere una progettualità che abbia una dimensione più consistente della spontaneità. Questo movimento è stato molto spontaneo nelle forme della partecipazione, ed è stato anche molto spinto da un rapporto che non si può più trascurare, quello con i media che, in assenza di un conflitto grosso, co-creano l´evento. Ciò avviene anche per dinamiche loro interne, nell´ambivalenza di essere imprese capitalistiche ma nello stesso tempo essere altro: contribuiscono quindi anche a creare la costruzione dei movimenti, almeno nella dimensione quantitativa. Se non si fosse parlato per mesi di Genova non ci sarebbe stata una partecipazione così grossa e le cose sarebbero andate in modo sicuramente diverso. L´altro aspetto, contingente al rapporto tra classe e capitale, è che oggi non si dà un conflitto più maturo nei territori, non intesi come il locale bensì come territori produttivi. Questo perché c´è una debolezza effettiva di quella che è la conflittualità di classe. Allora, per esempio, si danno delle ricomposizioni con caratteristiche specifiche all´interno di questi momenti che diventano un evento, sia come forma di radicalità sia come forma di raccolta fisica. Una volta la lotta si costruiva in luoghi specifici, come la fabbrica, ora invece la situazione è molto diversa. La globalizzazione da una parte sta dentro ad una dimensione capitalistica che però non è sganciata da un certo passato, la globalizzazione non viene fuori in questi anni, ha un percorso di lunga durata; invece, una delle cose che è stata significativa di questo passaggio di fase è che sono riusciti ad azzerare o comunque a diminuire notevolmente le forme di conflittualità di classe. Sarebbe dunque importante tornare a riflettere sul nodo del rapporto tra movimenti e loro progettualità, comparandolo anche con esperienze passate: perché oggi non si può sicuramente riproporre ciò che è trascorso, però nello stesso tempo bisogna tenerne conto.

Questo è un tema, infatti sono questi i due versanti, movimento-storia e movimento-finalità, un collegamento indietro e uno in avanti. La nuova forma di movimento è stata brava nell´uso degli strumenti di comunicazione, evidentemente è anche empiricamente una generazione che è nata dentro questi modi della comunicazione e quindi la usa in maniera molto intelligente. Ciò costituisce un limite, ma dovuto a ragioni anche oggettive, delle lotte operaie, che non erano molto abili: avevano i loro canali di comunicazione ma autonomi, erano canali che non sempre poi raggiungevano il grande pubblico, proprio perché avevano il loro percorso, la loro autonomia. Invece, adesso il raggiungere subito nella comunicazione il grande pubblico è una cosa che poi aumenta certo anche quantitativamente il movimento perché lo riproduce in maniera allargata. Anche se c´è chi dice che forse c´è un eccesso di uso di queste cose, addirittura una forma di subalternità, perché tutto si fa in funzione di comunicare più che di ottenere un risultato. Tanto è vero che anche l´organizzazione della protesta di Genova è stata tutta in questa chiave, cioè visibilizzare una cosa, allora annunciare che si aggredisce la zona rossa, e questo dà un input alla comunicazione di un certo tipo. Questa è la differenza dalle lotte operaie, che invece contavano molto sul risultato concreto della lotta, il raggiungere determinati obiettivi, nel contratto di lavoro dove stava scritto che aumentava il salario, diminuiva l´orario, cambiano le condizioni di fabbrica, quindi il raggiungere nella lotta certi obiettivi. Qui non ci sono mai obiettivi in concreto, tranne quello di fare casino, di visibilizzare al massimo lo scontro.

- Con un certo uso anche del simbolismo.

Ciò anche può essere utile, usare molto la forma simbolica, lo hanno fatto un po´ tutti i nuovi movimenti: ha cominciato il femminismo a valutare molto la parte simbolica del discorso, del linguaggio, anche del comportamento. E ciò credo che sia molo legato anche alla dittatura della comunicazione, che vuole pure creazione di simboli e di obiettivi simbolici. L´altra cosa è che anche questo risulta essere un movimento molto antiautoritario, con l´idea quindi degli 8 grandi come un´autorità mondiale a cui si contrappone una sorta di rivendicazione, che però poi anche quella risulta arretrata, una rivendicazione democratica, far partecipare tutti alle decisioni. Ci sono aspetti che per un verso risultano già superati dalle precedenti forme di lotta. Dal momento in cui sono cadute quelle forme di lotta del passato di impronta operaia c´è stata una sorta di regresso storico, e non di progresso: allora, dentro questo regresso storico si configurano anche queste nuove forme di conflitto, che possono essere arretrate rispetto alla forma di lotta operaia, che aveva una fase molto avanzata di conflitto e di strutture sociali, anche di opinione, di massa ecc. Adesso, di fronte al regresso che c`è stato, queste sembrano delle forme avanzatissime, quindi c´è un effetto ottico da tenere presente. Effettivamente dopo due decenni, dopo gli anni ´80 e ´90, dopo tutta questa morte dei conflitti e dei movimenti, il risorgere di questi movimenti sembra una grande novità e opportunità, e in questo senso va valutata. Ripeto, io credo molto che poi internamente la cosa possa crescere, cresca di fatto. Però, negli altri movimenti, anche nel ´68, c´erano state prime queste esperienze di pratica operaista, quindi c´era stato un facile riferimento ad esse perché c´erano state, poi sono state riconosciute, prese, assunte; queste dietro hanno un po´ un vuoto, quindi adesso è più difficile che il movimento internamente salti in avanti. Infatti, i riferimenti sono in parte a queste nuove teorie più di sabotaggio che di organizzazione. Non a caso si trovano più a proprio agio dentro questi movimenti certe forme un po´ alla Negri, molto più legate a un contrasto e a un conflitto di tipo in parte anarchicheggiante, quello dei centri sociali, dell´Autonomia, con relativo uso della violenza. Loro in questo senso già avevano rotto con una tradizione di movimento operaio, e questa sorta di movimento si trova più vicino a queste cose.
Voi parlavate prima di assenza di progettualità, tranne questo slogan pure interessante considerando questi ultimi decenni, "un altro mondo è possibile", che però è un po´ generico. C´è comunque un´opzione che salta oltre questa forma sociale e vuole qualcos´altro, però è tutta in funzione di un´alternativa a livello molto distributivo. E´ dominante un po´ l´aspetto redistributivo, anche perché forse questa è una caduta di centralità dell´altro aspetto, dell´aspetto produttivo. Bisogna dunque continuare a lavorare su queste ricerche; poi, dal punto di vista pratico, più che tentare di riproporre quel tipo di modello come fanno alcuni, proverei invece a immettere questa consapevolezza. Bisogna trovare i canali di immissione della storia delle lotte e dei conflitti dentro quel movimento, facendo in modo che riconoscano dietro di sé qualcosa, che si renda visibile un percorso che va da quello a questo, e da questo poi può andare oltre, così la progettualità si costruisce meglio. Allora anche quell´altra forma di mondo può cominciare a prendere forma: secondo me a un certo punto bisognerà cominciare a dire quello che oggi non si sa più, cioè che altra forma di rapporto sociale è possibile, che altra forma di potere politico è possibile. Cioè, ricostruire un po´ i fini, non utopicamente ma cercando di capire. E poi, ecco, sottolineare che tipo di contraddizione è questa dentro la globalizzazione così com´è, che strutture per esempio di durata si può dare un movimento di questo genere, oltre questa rincorsa dei vertici che, se uno la guarda bene, anch´essa è abbastanza subalterna alle scadenze capitalistiche. Va bene che non mancano mai, come si vede in questi giorni, però si rimane legati a quel calendario lì invece di imporre un calendario proprio.

- Anche rispetto a quanto stavi dicendo probabilmente può essere importante l´analisi dei limiti e delle ricchezze di determinate esperienze, sicuramente non come riproposizione di un qualcosa che è trascorso ma in chiave di rielaborazione critica rispetto ai nodi aperti nel presente. Partendo anche dalle interviste di questa ricerca, Romano ha formulato un´ipotesi sull´operaismo politico. La ricchezza secondo lui sta in una lettura nuova e dirompente, rispetto a una certa tradizione marxista, del sistema socio-economico, dentro la particolare fase che stava attraversando l´Italia, quella dell´entrata nel taylorismo-fordismo; e soprattutto nell´individuazione dell´operaio-massa come forza di una classe che può potenzialmente muoversi non solo per se stessa ma anche contro se stessa. In ciò rompendo con il lavorismo, il produttivismo, il tecnicismo, lo scientismo tipico della tradizione marxista, formatasi sulla figura dell´operaio di mestiere. Il limite sta nel non essere stati in grado di ri-elaborare una nuova cultura politica, nuovi fini e nuovi obiettivi, un nuovo progetto comunista adeguato a quel tipo di rottura, a quel nuovo referente collettivo. Molti operaisti, salvo alcune eccezioni, tendono a far coincidere e appiattire la politica e soprattutto il politico con una questione soprattutto di organizzazione. Lenin, ad esempio, aveva ribaltato questa impostazione, ponendo prima gli obiettivi e i fini, il progetto comunista, e poi corelazionando ad essi i mezzi adeguati alla realizzazione del processo. Questo nodo, in tutt´altre forme, resta aperto nel presente: è la questione della politica e del politico, inteso come progettuale agire indirizzato alla processuale trasformazione dell´esistente e dello status quo.

E´ un´ipotesi interessante. Questo è un problema che si ripropone sempre, si riproporrà anche adesso in questa forma di movimento. Sono le vicende del politico. E´ vero che gli operai non sono poi riusciti a dare una nuova definizione e una nuova pratica di politica, questo forse è stato il limite maggiore. La prima parte del discorso di Romano è molto giusta, cioè questa classe che non combatte soltanto contro l´altra classe ma anche contro se stessa: questo è un filone fondamentale anche dell´operaismo italiano e bisognerà anche metterlo in evidenza perché non è stato fatto abbastanza. Dunque, la lotta contro il lavoro e via dicendo. Da lì doveva scaturire effettivamente anche una nuova idea e una nuova pratica di politica.

- E anche nuovi fini e obiettivi.

Però, non so se lì la politica sia stata tutta ridotta ad organizzazione. La mia tesi è che gli operai storicamente si sono poi incontrati con il percorso lungo e travagliato della politica moderna e in qualche misura si sono con essa quasi identificati. E la politica moderna non era soltanto riduzione della politica a organizzazione, ma era proprio declinazione della politica in quanto potere, conquista, gestione del potere, trasformazione del potere stesso, quindi il luogo era quello. Ciò secondo me non è stato un limite, è stato un tentativo realistico di prendere atto che quello era un punto attraverso cui bisognava passare, anzi era una soglia che bisognava forzare. Questo insomma era il passaggio del movimento operaio alla sua fase comunista rispetto alla fase socialista, dove la dimensione era ancora molto di carattere etico, dove dominava Kant e il kantisimo. E invece questo passaggio a una fase comunista è proprio la cesura con l´etica e con tutto quello che comportava, con tutte le conseguenze a cui poteva portare l´assunzione in proprio della politica e quindi della politica moderna. Lenin per me è fondamentalmente questo. L´idea era che su quel terreno bisognasse poi operare il passaggio di ribaltamento del potere stesso, distinguendo le fasi: c´è una fase in cui va ribaltato il potere, va cioè ribaltato il rapporto di forza, perché poi il potere viene concepito realisticamente come rapporto di forza, quindi la tradizione che va da Machiavelli a Weber, questa è entrata dentro la tradizione comunista. L´idea è che fosse necessario questo periodo di ribaltamento del potere quasi nella stessa forma, puro e semplice ribaltamento, puro e semplice ribaltamento dei rapporti di forza: è l´idea che a me convinceva molto e ha sempre convinto. Non si trattava di costruire subito il mondo degli uomini liberi, eguali ecc., ma si trattava di ribaltare la situazione: quelli che stavano sopra andavano sotto, quelli che stavano sotto andavano sopra. La Rivoluzione d´Ottobre è fondamentalmente questo. Ciò è essenziale, è come quello che si diceva prima della storia delle lotte: io non riesco a recedere da questo, posso andare oltre e dire che poi non c´è stato il seguito, però non vado indietro, come tutti ci chiedono di fare, di pensare che l´errore sia fare questa operazione. Non c´è stato il dopo, ma quel prima lì, quel punto originario, quello è essenziale, quello ha cambiato la storia delle classi subalterne, che da quel momento in poi non possono più chiedere qualcosa perché è giusto, ma operano nella prospettiva che la classe operaia dovesse diventare per un certo periodo classe non solo dirigente, ma classe dominante, che il proprietario, il grande latifondista, il grande capitalista, dovesse essere deprivato della propria proprietà. Naturalmente in questo Lenin era molto chiaro: la fase della dittatura del proletariato era una fase transitoria, che doveva servire poi a rimettere in campo in una diversa società, una volta abolite le grandi distinzioni di classe, nuove forme di potere, e quindi anche una nuova forma di politica. Ci doveva essere un punto in cui non c´era più ragione che la politica fosse soltanto politica moderna, tutta accentrata intorno al tema del potere in termini di gestione dei rapporti di forza; una volta abolite le classi c´era poi quel passaggio presente anche in Marx del deperimento della politica, del deperimento dello Stato, utopie della riassunzione delle funzioni politiche dentro la società in un certo processo. Non c´è stato questo secondo passaggio. Ora, c´è chi sostiene (può darsi anche che abbia ragione, bisogna lasciare aperte tutte le ragioni anche degli altri) che non era possibile, una volta impostato il tema della politica in quel modo, poi liberarsi da quella politica, e infatti poi non ci si è liberati, si è rimasti dentro, e tutta la fase staliniana è stata poi quella fondamentalmente, la riproposizione dei caratteri della politica moderna dentro il campo del movimento operaio stesso. Lì è accaduta una cosa strana, paradossale: così come la classe operaia lottava contro se stessa a un certo punto anche il potere sovietico ha cominciato a lottare contro se stesso. Io trovo delle ragioni, in parte l´ho detto nel libro, ma questo è un discorso che andrebbe documentato empiricamente: il seguito e il passaggio al dopo della politica moderna dentro la costruzione del socialismo non c`è stato, non perché c´è stata una cattiveria e una malvagità degli uomini, un demonismo di Stalin e così via, ma perché questa esperienza è stata accerchiata, ha subito la sindrome dell´accerchiamento, la rivoluzione che aveva come suo naturale sbocco quello di risorgere in altri paesi, anche in quelli dell´Europa sviluppata, non ha seguito questo percorso, c´è stata nei primi anni un´aggressione dall´esterno micidiale, la guerra civile, il comunismo di guerra non è stata un fase ma è diventata una permanenza, due guerre mondiali, il nazismo alle porte di casa. Era difficile insomma pretendere che si passasse al deperimento dello Stato e al disarmo della politica. Naturalmente questo poi ha prodotto altri aspetti effettivamente tragici che sono andati sicuramente oltre la necessità, il terrore e via dicendo, tutti implicati dentro quella logica. Anche lì c´è da ricostruire una storia e non da condannare le scelte e i fatti soltanto perché sono avvenuti. Ho sempre chiesto a Rita (senza ottenere quello che volevo) un affresco, la grande storia di quella fase lì: ci vorrà un pool di storici, ho chiesto di costruire qui le Annales italiani, che riprendessero a fare quella storia con una grande interpretazione di quella fase. Lì non ci vogliono piccole interpretazioni, ci vogliono grandi interpretazioni perché è stata a suo modo una grande storia, non una parentesi che si è chiusa, facciamo finta che non c´è stata oppure che è opera del demonio. Insomma, capire che diavolo è successo lì è fondamentale per capire poi le sorti della classe operaia dopo, e anche le sorti dei conflitti anticapitalistici dopo. Qui siamo rimasti con un buco nella lettura dei processi, un buco di storia enorme, insopportabile, non è possibile che non si dia una lettura di quelle cose all´altezza delle cose lì avvenute. Poi gli ultimi decenni sono stati decenni di decadenza, quindi anche quelle premesse venivano cancellate.
Le vicende della classe operaia non riesco a distinguerle da questa storia, non sono storie separate, differenti: le lotte operaie dentro il capitalismo hanno come interfaccia quell´esperienza lì di costruzione appunto di un altro mondo possibile, che è andata a finire come è finita. Quando si dice "un altro mondo è possibile" di che si tratta? Anche un altro mondo possibile non è che potrà fare a meno di giudicare quelle cose lì, nella stessa storia delle lotte non è che fai dei movimenti senza poi rimettere in gioco la storia delle lotte di classe. Così, quando dici "un altro mondo è possibile" non è che puoi fare a meno di capire che lì il tentativo di un altro mondo possibile c´è stato, ha avuto quel tipo di sviluppo, quel tipo di crollo. Devi attraversare tutta quella vicenda, ma attraversarla in proprio, dicendo "anche quella è la mia storia, non è la storia di qualcun altro, è la nostra storia, la storia della classe operaia e del movimento operaio che ha prodotto anche quelle cose lì". E te ne devi far carico, non è che ti puoi far carico solo delle cose belle, delle lotte, degli eroismi, il ´48 a Parigi, la Comune, le cose in cui hai avuto solo i martiri: ti devi far carico anche di quella roba lì, quando tu hai saltato quelle cose, non sei stato più il martire. Anche quel tragico della storia del movimento operaio è storia nostra, tutta, i lager, Stalin, è storia nostra, non scherziamo. Che difficoltà c´è? La storia è mica una passeggiata. Io prendo sempre il modello della Chiesa Cattolica, questa istituzione millenaria che continua a vivere nel tempo perché ha una grandiosa sapienza storica dietro di sé: e c´è dietro tutto, non è che ci siano dietro solo i santi, ma ci sono dietro le crociate dove ammazzavano i bambini, le guerre di religione, c´è dietro l´istituzione autoritaria del papato, l´inquisizione. Tutte le grandi istituzioni, tutti i grandi tentativi hanno dietro queste cose. Lo dicevo anche nella scorsa intervista: quello che un po´ distingue me da altre opzioni è l´approccio alla storia operaia, io la vedo sempre dentro una storia più grande, se si vuole anche dentro la storia umana, la storia degli operai dentro la grande storia.

- La politica e il politico. C´è una faccia di questa medaglia che poi diventa anche amministrazione, quando si ha a che fare con delle istituzioni che possono essere quelle del movimento operaio, lo Stato ecc. Questo è un aspetto, sul quale ci si è confrontati con luci ed ombre. C´è poi un´altra faccia della medaglia, il politico, che è la capacità di realizzare un superamento dell´esistente, come rottura, come rivoluzione, sapendo trovare incroci, momenti particolari, creando eventi. Sono due aspetti che sono sempre vissuti intrecciati ma con una differenza grossa all´interno della storia dei processi di liberazione, del movimento operaio e via dicendo. Quanto si può separare un discorso di gestione e un discorso invece di rottura di questa forma politica? Quanto un discorso di rivoluzione può avere una dimensione anche di superamento della forma comunista, non intesa in termini astratti ma così com´è stata realizzata nelle esperienze che si sono date? E´ una questione con cui bisogna sicuramente confrontarsi, pur partendo da quello che dicevi tu, ossia dalla capacità di fare i conti con quello che c´è dietro di noi.

Credo che queste due cose siano destinate a convivere per una lunga fase strategica. Io ho cambiato un po´ i termini, non parlo tanto di utopia che la vedo molto dentro a una concezione anche borghese della politica, nell´utopia c´è sempre molta ideologia, molto apparto ideologico. L´utopia è stata molto spesso funzionale al potere e ai rapporti di potere reali. Sta dentro la politica moderna il paragone che io ho fatto tra Machiavelli e Tommaso Moro, che erano tutti e due agli inizi e alle origini della politica. La politica moderna è poi la politica borghese, che è nata dentro la storia capitalistica, ha avuto sempre bisogno di rapporti realistici di potere e poi di lanciare verso un domani indefinito la prospettiva di un´altra isola felice. Io cambio i termini, uso per esempio quel termine che mi rendo conto essere ostico di profezia, ostico anche perché ha delle risonanze un po´ teologiche. Profezia è una cosa altrettanto forte quanto il realismo, non è assimilabile come l´utopia stessa perché è il parlare a nome di qualcuno contro un altro più che indicare che cosa poi si raggiungerà. Il profeta insomma grida, spesso nel deserto, però scuote. Quelle due dimensioni è facile tenerle insieme quando combatti ancora per la conquista del potere, perché le distingui, nel senso che quella di gestione del potere diventa una parte più consegnata alla tattica, allora abilmente ti devi muovere in modo conseguente, con alleanze per cercare di raggiungere il potere, lì sì puoi essere profetico. Ciò si complica nella fase di gestione effettiva del potere, quando ti trovi a tenere in mano e a governare certi meccanismi che in sé hanno una loro logica, che è una logica di ferro, la gabbia d´acciaio weberiana, ti metti dentro le strutture: è come l´arte del governare una forma di società che non è tua e che tu devi nello stesso tempo trasformare. Questo secondo me è l´esperimento più alto della politica, quello di governare meccanismi che sono oggettivi, che ti condizionano, e nello stesso tempo essere liberi da questi meccanismi in modo tale da avere sempre in mente come si trasformano e come alla fine poi si abbattono in una certa forma. Quella è la più alta forma di politica che io riesco a concepire, la forma della politica alternativa, come io la chiamo, dall´alto del governo. Ed è quella che il movimento operaio poteva fare dentro la società capitalistica. A un certo punto è sembrato che la socialdemocrazia nel movimento operaio fosse la più adatta a fare questa operazione; poi è accaduto invece che questa socialdemocrazia, appena al governo, abbandona subito l´altra faccia, della libertà dai meccanismi. Rimaneva l´opzione comunista, che in fondo questa cosa qui non l´ha mai provata seriamente e per conto proprio. Qui è inutile che si dica avesse qua avesse là: l´esperienza comunista non ha mai avuto l´opportunità di lavorare su questo piano, cioè il governare. L´aveva tentato Lenin all´inizio, dopo la rivoluzione, con la Nep: l´opzione era un po´ quella, cioè governare il capitalismo in Russia per superarlo. Secondo me quella era una grande strada. Poi, per quelle cose che dicevamo prima, per il fatto di rinchiudersi e rafforzarsi lì, è prevalsa l´altra opzione, quella di "conquistiamo il potere e da oggi per decreto dall´alto consideriamo il capitalismo abolito, finito", senza creare prima le condizioni del dopo, di un´altra forma sociale: quella è stata la forzatura staliniana, della collettivizzazione forzata, dell´espropriazione ecc. Invece lì bisognava gestire un lungo periodo di transizione, o almeno probabilmente, adesso con il senno del poi si può dire di tutto. E´ quello che poi credo avessero in mente anche i comunisti in Occidente, la doppiezza togliattiana era fondamentalmente questa: gestire una fase di conquista del governo e del potere, con tutti gli strumenti democratici del consenso ecc., poi aprire la seconda fase una volta al potere, cioè quella machiavelliana della gestione del potere in un certo senso, cambiando dal governo i meccanismi. Questi meccanismi non si cambiano dal basso, questo è il punto nel capitalismo. I movimenti non è che servano per abbattere il capitalismo, servono per conquistare posizioni di forza e di potere tali da cui tu puoi cominciare un´operazione di trasformazione dei meccanismi stessi. Quindi, le due cose io le vedo molto insieme. Naturalmente adesso poi le cose si sono complicate, non si pongono più in questi termini, a parte la decadenza delle forme di governo, hanno una loro insussistenza anche pratica. Anche quando si parla di sinistre al governo, bisogna dire che si tratta di governi di coalizione, di sinistre che per conquistare la maggioranza devono andare molto oltre le sinistre, stanno al governo sì ma non come sinistra bensì con intorno molto altro. Quelle sono esperienze decisamente minori che secondo me non fanno testo, non le prenderei nemmeno in considerazione. Le opzioni erano quelle altre. Però, questo mette in gioco l´enorme tema su cui si basa il sistema, che è quello della democrazia, della critica della democrazia, che apre un altro capitolo finora non aperto...

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