Comitato Politico Nazionale
Roma 25-26 Ottobre 2003

L'ennesima "strettoia" nei nostri rapporti con il centro-sinistra trova, ancora una volta, il corpo del partito in una condizione di non effettiva agibilità per attivare un necessario confronto aperto e pluralistico; un confronto sui modi e i tempi per inserire anche la non eludibile questione delle "alleanze" dentro un processo strategico di transizione, in grado di salvaguardare e avviare a realizzazione motivazioni e finalità fondanti del PRC.
In queste condizioni anche la manifesta intenzione del gruppo dirigente nazionale di intercettare gli orientamenti nel partito, massimamente in quanto realizzata rispetto ad opzioni già largamente predeterminate, rischia di risolversi in formale "sondaggio di umori" di organismi territoriali, già da tempo in debito di vitalità rispetto a confronto
interno e pieno raccordo con le realtà di base.
Nel merito il riaffacciarsi di "aperture di identificazione" con le nuove forme del panorama "ulivista" in costruzione rischia di svilire la nostra funzione a semplice ala di "maggiore radicalità", oltretutto in concorrenza con quell'amalgama imprecisato che va movimentando lo "spazio critico"rispetto ai democratici di sinistra.
E se vi si aggiungono le diluizioni già in corso rispetto alla forma partito e alle dimensioni organizzative e di lotta, non risulterebbe irrealistico per noi il rischio di rimanere invischiati in dimensioni di "non ritorno" per la nostra identità alternativa, per il carattere della "diversità comunista" e per la nostra stessa autonomia, finendo per
distorcere irrimediabilmente la nostra finalità alternativa in assetto "miglioristico" del sistema di sfruttamento.
Rischiano insomma di risultare aperture che avrebbero poco a che fare persino con l'obiettivo -assolutamente necessario, a patto si salvaguardare autonomia e identità strategica- di disporsi in modo da fare tutto quel che c'é da fare per contribuire a battere elettoralmente e politicamente le "destre" pericolose ed inquietanti che oggi gestiscono e devastano il paese.
E in tutto questo, di per sé, non ci aiuta nemmeno il contesto internazionale; lì dove sullo stesso movimento contro la guerra e, prima e insieme, su quello contro la globalizzazione capitalistica ha continuato a pesare negativamente, da un punto di vista di classe, l'ipoteca del limite discriminante di una battaglia per la pace e di una denuncia degli effetti devastanti dell'egemonia liberista che non giungono conseguentemente ad implicare l'alternativa al capitalismo.
Così che le grandi potenzialità della contestazione -a cui abbiamo contribuito direttamente e come positivo riferimento- rischiano di finire forzate e funzionali a manovre ristrutturative tutte interne al capitalismo stesso, oggi ancor più proteso all'esigenza di superare la non più rispondente leadership statunitense verso un nuovo riferimento egemonico, a cui affidare la gestione degli interessi liberisti nel mondo.
Anzi, dopo il conflitto iracheno e le nuove "turbolenze" mediorientali, è ancora più identificabile una doppia versione dell'eventuale "nuova" leadership mondiale: quella modernizzatrice e "correttiva" degli aspetti neoliberisti più impresentabili, nel contesto della quale il "clintonismo" s'é già evidenziato come riferimento su cui convergono altri partners europei e non solo; e quella "progressista" soprattutto europea e di
ispirazione socialdemocratica, tendente a compatibilizzare le spinte contestative con una gestione liberista "avanzata". In quest'ultimo caso gli stessi modelli produttivi e di sviluppo "più aperti", la permanenza di garanzie, diritti e agibilità, pur alleggerendo le condizioni generali di sfruttamento e di oppressione finirebbero innaturalmente, per i loro limiti non alternativi, per risultare elementi di rivitalizzazione del liberismo
stesso e non ne dubiterebbero, appunto, la continuità.
Ci sono sufficienti buone ragioni perché, già da tempo, al nostro interno e proprio sul terreno del rapporto con i movimenti e della più generale identità politica e programmatica, trovasse spazio un bilancio oggettivo circa coerenza e linearità del percorso rifondativo, da un lato, ed effettività di riferimento alternativo dall'altro.
Alla necessaria e, nonostante i limiti, assolta funzione di riferimento per lotte più avanzate, per il miglioramento delle condizioni generali e di agibilità, di vita e di lavoro dei ceti deboli, infatti, non ha corrisposto la concretizzazione di quel percorso della 'rifondazione comunista" -per molti versi problematicizzato assai presto- orientato a rilanciare, nell'attuale e più difficile terreno di lotta nazionale ed internazionale, il processo dell'alternativa di sistema al capitalismo.
Con il tempo, anzi, questa "problematicizzazione" è andata facendosi sempre più limitante la nostra originaria motivazione, con conseguenze pesanti sul terreno dell'azione e della proiezione esterna e, ancor prima, su quello della vita interna e dell'organizzazione di lotta.
Hanno preso sempre più corpo, così, tendenze a diluire identità e autonomia del partito, a minare e differire ad un futuro imprecisato la prospettiva strategica alternativa, quella comunista cioè. Di fatto abbiamo rimosso il necessario confronto concreto su strumenti, modi e tempi della transizione, finendo anzi per identificarci con i suoi limiti e con quelli obbligati del piano istituzionale, verticalizzare sempre più la vita del partito, formalizzare il pluralismo e diradare progressivamente, ad ogni livello, un effettivo confronto interno.
In queste condizioni e in questo contesto torna l'ennesima "svolta" del partito; e puntualmente il discorso torna ad avvitarsi sul falso e, per così come posto, semplicistico dualismo "governo/opposizione". Un dualismo che, peraltro, non aiuta a conseguire la necessaria consapevolezza circa il fatto che l'istituzionalità -pur restando ovviamente, a livello nazionale e nei territori, necessario terreno di presenza, spazio per salvaguardare le agibilità democratiche e operare per difendere gli interessi dei ceti
deboli e risultare riferimento per le lotte delle masse- é ormai sempre più terreno funzionale ad esigenze proprie della ristrutturazione capitalistica e, dunque, come tale, permeato da compatibilità indirizzate ad escludere ogni reale possibilità di potervi far passare un processo di transizione alternativa.
Anzitutto, perciò, va ribadita l'assoluta impraticabilità, a livello nazionale, di un nostro coinvolgimento in governi nei quali la piena agibilità democratica ad ogni livello e le esigenze effettive di tutti i ceti deboli non trovino riscontro concreto e centralità determinante. Tanto più oggi, nel contesto di un centro-sinistra, nel quale il "modernismo" è ormai predominante e relega sempre di più persino il "progressismo" a qualcosa di prossimo al residuale; e a maggior ragione dopo gli atti concreti dell'attuale maggioranza di governo che ha operato, freddamente e su preciso mandato dei "poteri forti", per far arretrare la situazione generale e le condizioni di vita e di lavoro a livelli tali che un'eventuale alternanza "progressista", al di là dei suoi stessi limiti programmatici, si ritrovi a dover gestire un "'recupero" al di sotto delle
precedenti conquiste.
In ogni caso, al di fuori di qualsiasi intesa organica pre-elettorale, solo l'acquisizione di risultati elettorali della coalizione e del partito che consegnassero complessivamente alla sinistra il peso necessario per conseguenziare i propri indirizzi programmatici ci potrebbe vedere nella condizione di valutare anche la possibilità di una nostra corresponsabilizzazione esterna, a patto di non contraddire gli elementi di fondo e l'autonomia della nostra identità programmatica e strategica. In caso contrario, il nostro posto è all'opposizione, per operare in direzione di un duplice obiettivo: da un lato l'intransigente riferimento istituzionale per tutti i ceti deboli e per l'agibilità democratica, nella consapevolezza dei limiti oggettivi entro i quali l'istituzionalità risulta ancora permeabile, perché nelle lotte di massa avanzi la "coscienza dell'opposizione", come salto di piano della strategia di lotta; dall'altro sostegno attivo ad un processo che, attraverso le lotte e l'autorganizzazione alla base della società, affianchi all'autodifesa dalla pressione liberista la sperimentazione e la costruzione diretta di indirizzi alternativi alla società capitalistica, quale modo più rispondente a ché l'alternativa stessa si conformi risposta ai bisogni reali della gente.
In questo modo la lotta delle masse non risulterebbe limitata a contestare gli indirizzi padronali e/o a limitare i loro obiettivi, magari nella prospettiva di una gestione del potere solo un poco più rispondente alle esigenze dei ceti deboli, ma si farebbe lotta politica e vertenziale nella realizzazione diretta di indirizzi alternativi; indirizzi, peraltro, utili nel contempo a promuovere -anche come pressione dal basso rispetto ad una prospettica gestione avanzata dell'istituzionale- contesti di transizione caratterizzati da elementi programmatici discriminanti e verificabili.
Per questo -ma anche per arrestare il più possibile il processo di progressiva omologazione dei territori al piano di avanzata blindatura dell'istituzionale- a livello delle Amministrazioni territoriali non va sottovalutata, invece, la possibilità di intese qualificanti e verificabili con altre forze che, ovviamente, si richiamino effettivamente agli interessi dei ceti deboli.
Nel processo di riavvio della costruzione dell'alternativa dal basso, il partito deve risultare stimolo, strumento di collegamento, sostegno e garanzia per le necessarie agibilità, perché si possa giungere a motivare in senso alternativo il coinvolgimento delle masse nel vivo della realtà di vita e dei posti di lavoro, perché la loro implicazione si qualifichi, sempre più concretamente, come reale spazio di confronto, di ricerca e di verifica per orientare, lungo indirizzi alternativi a quelli imposti dalla
società dei padroni, questioni e temi prioritari per l'alternativa stessa, primi fra tutti il potere, la proprietà, gli indirizzi di produzione e il consumo. Perché risulti efficace il nostro contributo in questa azione di controtendenza dal basso, però, resta, come sempre, discriminante e pregiudiziale il nodo di fondo del partito. Anzitutto tenuta, rafforzamento e autonomia; e contestualmente radicamento nel paese reale e nei posti di lavoro, effettivo confronto pluralistico e reale dimensione aperta a ché risulti strumento pienamente agibile per una militanza attiva e riferimento credibile per i soggetti e gli interessi alternativi.
                                                                                                   Pasquale D'Angelo

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