Guerre americane
DOVE VOLANO I LIBERATORS
Maurizio Matteuzzi  

Afghanistan 2001? Iraq 2003? Nulla di nuovo sotto il sole (e le bombe). Cambia il nome, il contenitore teorico: dalla Sicurezza nazionale alla Guerra preventiva della Strategy for the New American Century. La sostanza resta la stessa.
Il 4 luglio del 1776, il giorno della dichiarazione di indipendenza americana, le 13 colonie inglesi del Nord America occupavano 835.0000 chilometri quadrati. Come hanno potuto arrivare ai 9. 363. 488 chilometri quadrati di adesso?
La Louisiana fu comprata dalla Francia nel 1803, la Florida dalla Spagna nel 1819, l'Alaska dalla Russia nel 1867. Porto Rico fu annesso nel 1898, nel 1900 le isole Hawai furono dichiarate territorio degli Stati Uniti (e nel '59 divennero lo Stato numero 50 dell'Unione), nel 1901 toccò alla Baia di Guantanamo a Cuba, nel 1903 fu la volta della striscia di terra di 1432 km quadrati in cui undici anni dopo sarebbe stato inaugurato il canale interoceanico di Panama.
Ma, oltre che sui territori indiani a ovest delle Montagne rocciose (The Wild West), era sul Messico che i giovani e aggressivi Stati Uniti d'America avevano messo gli occhi. Il paese già così lontano da Dio e già troppo vicino agli Stati Uniti conquistò l'indipendenza dalla Spagna il 28 settembre 1821. Nel 1823 il presidente James Monroe enunciò la famosa parola d'ordine dell'«America agli americani» ma fin dal 1812 una carta dell'America del Nord includeva i territori messicani che poi, dopo la messinscena della fatua indipendenza del Texas (1836) e la guerra preventiva di aggressione al Messico (1846), sarebbero divenuti tutti parte integrante degli Stati Uniti. Con il trattato di Guadalupe Hidalgo del 1848, i gringos strapparono al Messico oltre la metà del suo territorio, più o meno due milioni e mezzo di chilometri quadrati. Che da allora furono Texas, California, Arizona, New Messico, Nevada, Utah e parte dello Wyoming.
Quello era solo l'inizio. Gli Stati Uniti d'America hanno nel loro patrimonio genetico, al di là dell'infinità delle meraviglie reali e presunte che ci raccontano e ci impongono, il Dna dell'imperialismo e del colonialismo. E della guerra. «Malefatte croniche o un'impotenza che minacci la società civile possono richiedere in ultima analisi l'intervento di una nazione progredita. L'America può essere costretta, nei casi più flagranti, a esercitare i poteri di una polizia internazionale»: potrebbero essere parole di Gorge W. Bush ma sono quelle di Teddy Roosevelt e risalgono al 1904. «Signor presidente, non permetta che una grande impresa come questa sia offuscata dalla legalità»: potrebbe essere il segretario alla Giustizia John Ashcroft che parla a proposito della gloriosa `guerra al terrorismo' ma fu il segretario alla giustizia Philander Knox a pronunciarle nel 1908, in occasione di uno dei tanti interventi dei marines a Panama (quello del 1989 è stato il nono).
Un professore di geografia dell'università del Wisconsin, Zoltan Grossman, ha pubblicato uno studio in cui elenca minuziosamente la «lista parziale» degli interventi militari statunitensi dal 1890 al 2001, «da Wounded Knee all'Afghanistan». Più di 130. Dal massacro, nel 1890, di 300 pellerossa Lakota nel Sud Dakota, ai massacri del 2001 di migliaia di Talebani e civili in Afghanistan. Facendo più e più volte il giro del mondo: dall'Argentina (1890) a Haiti (1891), dalle Hawai (1893) al Nicaragua (1894), dalla Cina (1894-1895) alla Corea (1894-1896), dalle Filippine (1898) a Cuba (1898), da Porto Rico (1898) a Guam (1898), da Samoa (1899) all'Honduras (1903), da Santo Domingo (1903) al Messico (1916), dalla Russia (1918-1922, «per contrastare i bolscevichi») alla Jugoslavia (1919, «in favore dell'Italia contro i serbi in Dalmazia»), dal Guatemala (1920) alla Turchia (1922), dal Salvador (1932) all'Iran (1946), dall'Uruguay (1947) alla Grecia (1947-1949), dalla Corea (1950-1953) all'Iran (1953, colpo di Stato contro Mossadeq in favore dello scià Reza Pahlevi) e al Guatemala (1954, golpe contro il governo Arbenz), dal Libano (1958) al Vietnam (1960-1975), da Cuba (1961, sbarco alla Baia dei Porci) al Laos (1962), dall'Indonesia (1965, colpo di Stato contro Sukarno) a Santo Domingo (1965, golpe contro Juan Bosch), dalla Cambogia (1969-1975) al Cile (golpe di Pinochet), dall'Angola (1976-1992, in appoggio a Savimbi e al Sudafrica) al Nicaragua (1981-1990, con i contras per stroncare il governo sandinista), dal Libano (1982-1984) a Grenada (1983, contro il governo Bishop e i cubani), dall'Iran (1987, a sostegno dell'Iraq di Saddam) a Panama (1989, l'operazione Giusta Causa per andare a prendere Noriega), dall'Iraq (1990, l'operazione Desert Storm contro Saddam) alla Somalia (1992-1994, l'operazione `umanitaria' Restore Hope), dalla Jugoslavia (1992-1994, blocco della Nato sulla Serbia) alla Bosnia (1993-1995), da Haiti (1994-1996, per riportare in carica il presidente Aristide tre anni dopo il golpe militare da loro stessi fomentato) alla Croazia (1995, bombardamenti sulla Krajina serba), dallo Zaire (1996, marines in missione `umanitaria' nei campi profughi Hutu) alla Liberia (1997), dal Sudan (1998, attacco missilistico su una fabbrica farmaceutica presa per una fabbrica di gas nervino) alla Jugoslavia (1999, bombardamento della Serbia e `liberazione' del Kosovo), fino all'Afghanistan (ottobre 2001, dopo l'attacco alle Torri Gemelle di New York). «E la storia continua», conclude lo studio del professor Grossman (1).
Che continui è sicuro. È continuata con la guerra preventiva del 20 marzo all'Iraq di Saddam Hussein e con l'attiva partecipazione al breve golpe dell'11 aprile 2002 contro il presidente Hugo Chávez in Venezuela, e continuerà ancora. «La guerra dei Trent'anni», hanno detto George Bush e il suo stormo di superfalchi neo-conservatives. «La quarta guerra mondiale», ha scritto l'ex capo della Cia James Woolsley. A che servirebbero, se no, i 380 miliardi di dollari che il presidente Bush ha chiesto e ottenuto dal Congresso per il bilancio di quest'anno del Pentagono? Perché mai l'iper-potenza americana toccherebbe il 35% delle spese militari mondiali, il 50% di quelle per la ricerca e lo sviluppo bellico e il 60% del mercato degli armamenti?
La «lista parziale» elaborata dal professor Grossman è niente se confrontata con quella di Gore Vidal, scrittore statunitense famoso e critico caustico della politica imperiale del suo paese. In un saggio scritto a caldo sull'onda emotiva dell'11 settembre 2001, Vidal afferma che dalla fine della seconda guerra mondiale, come americani «siamo stati impegnati in quella che il grande storico Charles A. Beard ha definito una guerra perpetua per la pace perpetua… Ogni mese c'è un nuovo, orribile nemico da attaccare prima che ci distrugga» (2), per poi passare a elencare una a una le «operazioni» completate o ancora in corso. «Il numero di interventi militari contro altri paesi senza essere stati provocati ammonta a oltre 250 dal '47-48». E conclude che «in queste svariate centinaia di guerre contro il comunismo, il terrorismo, il narcotraffico e a volte contro niente di speciale, fra Pearl Harbour e martedì 11 settembre 2001, siamo sempre stati noi a sferrare il primo colpo» (3). Vidal è estremo come sempre. Ma non è il solo. Nel suo libro ospita anche alcuni brani («che agli americani non è consentito leggere») di un articolo scritto dopo l'11 settembre per «The Nation» da Arno J. Mayer, professore emerito di storia all'Università di Princeton e sopravvissuto ai lager nazisti, che però la rivista liberal aveva rifiutato (è stato poi pubblicato su «Le Monde»): «A conti fatti - dice il professore Mayer - dal 1947 gli Stati Uniti sono stati l'avanguardia e il principale esecutore del terrore preventivo di Stato […]. Oltre ai consueti colpi di Stato durante la guerra fredda, operati in competizione con l'Unione Sovietica, Washington ha fatto ricorso all'assassinio politico, a squadroni della morte e a riprovevoli paladini della libertà (fra i quali bin Laden). Ha orchestrato l'assassinio di Lumumba e di Allende; ha provato a fare lo stesso con Castro, Gheddafi e Saddam Hussein; ha posto il proprio veto contro qualunque sforzo di mettere un freno non solo alle violazioni di accordi internazionali e risoluzioni Onu da parte di Israele, ma anche al terrore preventivo che questo Stato ha esercitato.» (4) Gli Stati Uniti di Bush hanno attaccato l'Afghanistan per stanare Osama bin Laden e il mullah Omar ma finora non li hanno presi. Hanno attaccato l'Iraq per stanare Saddam Hussein ma finora non l'hanno trovato. Hanno facilmente vinto le guerre ma hanno distrutto i paesi e seminato tanto odio, specie nell'Islam e in generale fra «i dannati della terra» che il mondo è oggi assai meno sicuro rispetto alla minaccia terrorista, mentre sembra incombere quello scontro di civiltà che si diceva di voler evitare a ogni costo. E l'antiamericanismo dilaga non solo nel Terzo mondo, in Medio Oriente, in America latina. «How we got to be so hated?», si chiede sarcasticamente Gore Vidal. Già, come sono riusciti a farsi odiare tanto?
Una risposta la dà un altro ostinato bastian contrario del panorama politico-intellettuale americano (e questo è uno dei segnali forti e buoni che vengono dal `Grande paese'), Noam Chomsky, forse ripetitivo nelle sue analisi critiche della politica Usa ma rigorosamente implacabile. Cosa né è dei paesi liberati dai regimi comunisti, terroristi, corrotti, narcotrafficanti, eccetera, e riportati a forza alla democrazia? «Prendiamo Grenada: - dice Chomsky (5) - in seguito alla sua liberazione del 1983 (quella che Jeane Kirkpatrick, rappresentante americana all'Onu, definì un'invasione «di carattere preventivo») l'isola diventò il maggior destinatario (pro capite) di aiuti Usa (dopo Israele, che è un caso a parte). L'Amministrazione Reagan volle che diventasse una vetrina del capitalismo.» In realtà, oltre ai «livelli record di alcolismo e tossicodipendenza», «l'invasione ha prodotto qualcosa di positivo», scrive Ron Suskind in un articolo apparso sulla prima pagina del «Wall Street Journal» con il titolo: Resa sicura dai marines, Grenada adesso è un paradiso per le banche off-shore. Quel che conta è che per gli Usa, con 118 banche off-shore, una per ogni 64 abitanti, la capitale di Grenada «è diventata la Casablanca dei Carabi, un rifugio sicuro per il riciclaggio di denaro, l'evasione fiscale e varie truffe finanziarie». Avvocati, ragionieri e alcuni uomini d'affari se la passano bene, come, senza dubbio, i banchieri stranieri, i riciclatori di denaro e i signori della droga, al sicuro dalle grinfie della tanto reclamizzata `guerra alla droga'».
Grenada è un esempio troppo piccolo e marginale? Forse. Ma non c'è un paese che in questo mezzo secolo abbia visto l'arrivo dei marines o della Cia - o di entrambi - che se la passi bene. Non quelli dell'America Centrale dove i movimenti di liberazione degli anni `80 sono stati spazzati via dal reaganismo; non quelli dell'America Latina (con l'unica e molto parziale eccezione del Cile), a cominciare dal Brasile, dove il giorno del marzo '64 in cui i generali, con il sostegno Usa, rovesciarono João Goulart, l'ambasciatore americano telegrafò a Washington che il golpe era «una grande vittoria per il mondo libero», per finire alla Colombia sempre più spesso citata come «il prossimo Vietnam»; non nelle Filippine o in Indonesia, dove dopo il sanguinoso golpe del '65 che, con la fattiva partecipazione Usa, rovesciò Sukarno e installò Suharto, il prestigioso columnist del «New York Times» James Reston scrisse un articolo intitolato Un raggio di sole sull'Asia; non fra i regimi arabi del Medio Oriente, sempre più instabili e vassalli, né tanto meno in Libano, dove i marines intervennero nel '58 a sostegno del falangista cristiano Camille Chamoun; non nel Congo dove nel '61 fu l'ambasciatore americano Hayes Timberlake a organizzare (insieme ai belgi) l'assassinio di Patrice Lumumba (6) e non in Somalia dove nel `92 i marines non portarono alcuna speranza e nel '94 se ne dovettero andare in fretta (Black Hawk Down), lasciandosi dietro un paese ancor più alla deriva; non nei Balcani e ancor meno in Kosovo dove alla pulizia etnica anti-albanese dei serbi si è sostituita quella anti-serba degli albanesi. Per non parlare dell'Afghanistan e dell'Iraq, dove gli esiti dell'Enduring Freedom e dell'Iraqi Freedom sono sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono vederli, nonostante i generosi sforzi della maggior parte dei media.
Sembra un paradosso ma non lo è: mai come ora nella storia la presenza militare degli Stati Uniti è stata così massiccia e globale, eppure mai come ora l'egemonia americana è così contrastata e il mondo così a rischio. Nonostante una guerra dopo l'altra l'`asse del male' anziché accorciarsi si allunga sempre più. Iran, Corea del Nord, ora la Siria, poi Cuba, Libia… La lista d'attesa è fitta. E, come accadeva nel 1812 per il Messico, negli Stati Uniti circolano anche carte in cui l'Amazzonia non fa più parte del Brasile e la Patagonia dell'Argentina.


note:
1  Zoltan Grossman, A Century of Us Military Interventions from Wounded Knee to Afghanistan,
2  Gore Vidal, La fine della libertà. Verso un nuovo totalitarismo?, Fazi Editore, p. 25.
3  Gore Vidal, op.cit., p.32.
4  Gore Vidal, op.cit., p. 8.
5  Noam Chomsky, Anno 501, la conquista continua, Gamberetti Editore, p.115.
6  Angelo Coloni, Breve storia delle aggressioni americane, Bertani editore, p. 247.


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