Casella di testo: DIRETTIVA BOLKESTEIN
L’Unione Europea mostra sempre più chiaramente il proprio vero volto e i criteri a cui si ispira il processo di integrazione. Siamo di fronte ad un’Europa di banchieri e di mercanti!
Per la verità già alla firma del trattato di Maastricht, da noi duramente contrastato, così come l’entusiastica adesione ad esso che ha caratterizzato i governi del centrosinistra( Ciampi, Dini, Prodi, D’Alema ), era chiaro quale sarebbe stata la strada percorsa e i pilastri sui quali costruire l’UE.
I criteri meramente economici e monetari di Maastricht invitavano i governanti europei a scaricare sulle classi popolari sacrifici feroci e insostenibili con la banalità con cui un contabile tiene i propri registri. Manca nell’accordo di Maastricht qualsiasi vincolo che faccia riferimento ai livelli di occupazione, alle condizioni di lavoro, allo stato sociale e in generale alla qualità della vita.
I padroni dell’Europa, con Ciampi in testa, che ancora oggi difendono a spada tratta questo modello di integrazione, che esultano alla striminzita vittoria del referendum per la ratifica della costituzione in Lussemburgo, che venerano l’Euro, rasentando l’idolatria, quale arma fondamentale per il rafforzamento del capitale europeo nei confronti di quello USA, dimostrano di avere maggiore interesse per ricchezza e moneta che per le sorti dell’uomo. Non si sono fermati neppure di fronte alla bocciatura della nuova Costituzione da parte dei popoli continuando nella distruzione dei valori di uguaglianza, solidarietà e fratellanza.
Cosicché , a distanza di pochi anni, l’Europa, presentata come la nuova Terra Promessa, luogo di pace, prosperità e ricchezza per tutti i suoi abitanti, si rivela oggi un’Europa reazionaria retrograda e guerrafondaia. Si stanno progressivamente cancellando tutte le conquiste sociali in materia di lavoro, sanità, istruzione, assistenza agli anziani. Invece di unificare i salari, è stata unificata la precarietà.
E’ evidente che tutto questo è stato possibile con il venir meno del ruolo del sindacato e di tutte le forze della sinistra che hanno rinunciato alla difesa degli interessi dei lavoratori e delle classi subalterne. 
In questo quadro si inserisce in perfetta continuità la direttiva relativa ai servizi del mercato interno nota come Bolkestein – dal nome del commissario europeo per la Concorrenza e il Mercato interno della uscente commissione Prodi – con cui la UE si appresta a dare il colpo di grazia  a quel che resta del cd. “modello sociale europeo”, già agonizzante dopo le privatizzazioni che si sono succedute e la continua messa in discussione dei diritti sociali e del lavoro. 
La direttiva Bolkestein, elaborata dopo la consultazione di ben 10000 imprese e nessun sindacato e/o organizzazione della società civile, si prefigge di imporre ai 25 stati membri le regole della concorrenza commerciale, senza alcun limite, in tutte le attività di servizio, secondo le direttrici del “processo di riforma economica avviato dal Consiglio europeo di Lisbona allo scopo di fare della UE, entro il 2010, l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo” come recita la relazione che accompagna la direttiva stessa.
Per raggiungere tale competitività e dinamicità, l’Europa deve, tra le altre cose, privatizzare i servizi sul mercato interno e soprattutto abbassarne i costi di produzione agendo sul costo del lavoro e sui salari, secondo la linea che ha sempre caratterizzato la politica economica europea.
L’ambito di applicazione della direttiva si estende al comparto dei servizi ed esclude le imprese che partecipano direttamente alla produzione di merci, ma va notato peraltro che la definizione che la direttiva dà di “servizi” è assai ambigua ed estensiva e quindi vi sono le premesse di radicali e gravi cambiamenti delle normative che regolano i rapporti di lavoro.
La direttiva intende abolire gli ostacoli che si frappongono a due libertà: la libertà di insediamento e la libertà di libera circolazione dei servizi.
Nel capitolo sulla libertà di stabilimento l’art. 14 specifica i requisiti nazionali che devono “semplicemente sparire”. Di conseguenza gli stati membri non avranno più in seguito il potere di prescrivere la forma legale dell’ insediamento.
L’art. 14 , inoltre, elimina anche l’obbligo di “fornire o condividere una garanzia finanziaria” o di sottoscrivere un’assicurazione per un fornitore di servizi o ente nel territorio dove si reca a svolgere la propria attività.
Ma il cuore della direttiva Bolkestein – e la sua eccezionale gravità – risiede nell’art. 16, relativo alla libertà di circolazione che inserisce il principio del paese d’origine. Secondo questo principio un fornitore di servizi è sottoposto esclusivamente alla legge del paese in cui ha sede l’impresa e non a quella in cui presta il servizio.
Siamo di fronte ad un nuovo pilastro nella costruzione di un’Europa dell’affare e del capitale. I padroni, che già guardavano all’Est europeo come una grande opportunità di sfruttamento della manodopera a basso costo, potranno ora allargare questo sfruttamento trasferendo anche solo la sede legale dell’impresa nei paesi a più debole protezione sociale e del lavoro. Nel contempo vi è una pressione fortissima sui paesi i cui standard sociali sono più alti, inducendoli ad attivare una competizione verso il basso.
I paesi in cui i servizi verranno erogati non potranno inoltre esercitare alcun tipo di controllo, l’art. 16 stabilisce infatti che “lo stato membro d’origine avrà la responsabilità di vigilare sul fornitore”, ma appare chiaro che lo stato d’origine non avrà né i mezzi, né l’interesse ad adempiere a tali compiti. Se già nei paesi europei industrialmente più sviluppati, oggi è molto difficile un serio controllo sull’applicazione delle leggi in materia di lavoro, di ambiente e contabile, possiamo immaginare quale potrà essere il livello di tale controllo quando la responsabilità passerà a paesi con una legislazione dalle maglie molto più larghe. 
Le istituzioni locali e nazionali, gli ispettorati del lavoro e la stessa magistratura non potranno fare nulla anche di fronte ai più pesanti soprusi perpetrati nei confronti dei lavoratori. 
La norma ostacola pure la riscossione dei contributi dell’assicurazione contro gli infortuni.
Il principio del paese d’origine è dunque un metodo di liberalizzazione estrema perché estende il livello minimo dei salari e degli standard normativi. Anche se la direttiva prevede una serie di deroghe al principio del paese d’origine, esse riguardano le aree già liberalizzate o aree strategiche che i singoli stati membri vogliono mantenere sotto controllo senza che questo potrà rappresentare un vantaggio per i lavoratori di quei comparti, che saranno comunque interessati da un effetto di trascinamento verso il basso dei salari.
La scelta che gli organismi comunitari di direzione politica è quella di sempre: assecondare la riorganizzazione del capitalismo europeo producendo un sistema di leggi che rendano competitiva la merce più importante del processo produttivo: la forza lavoro.
In questa direzione è andata la direttiva sull’orario di lavoro di recente approvazione , recante modifica alla precedente direttiva 2003/88.
Con questa proposta la Commissione punta sostanzialmente a tre obbiettivi:
-         rafforzare le condizioni di disapplicazione, anche individuale (opting out) della durata massima di 48 ore dell’orario di lavoro settimanale che può così arrivare fino a 65.
-         permettere agli stati membri di allungare il periodo di riferimento per il calcolo della media dell’orario settimanale da 4 a 12 mesi.
-         modificare la definizione di tempo di lavoro per i “servizi di guardia”, introducendo la nozione di periodo inattivo da non calcolare come orario di lavoro.
In altri termini questa direttiva consentirà uno sfruttamento ancora più efficace e sfrenato della forza lavoro, in quanto invece di proporre la riduzione dell’orario di lavoro si va nella direzione opposta, aumentando l’orario di lavoro settimanale. Inoltre, adottando un periodo di riferimento di 12 mesi, si consente ai padroni, quando le esigenze produttive lo richiedano, di mantenere i lavoratori in servizio ben oltre le 48 ore ed alle condizioni più favorevoli, e al contrario di mandarli a casa quando il lavoro scarseggia. 
Va considerato inoltre, che, in questi anni di perdita violenta del potere di acquisto dei salari, i lavoratori hanno visto nello straordinario, utilizzato in maniera massiccia ed oltre i limiti della legalità dalle imprese, uno sciagurato rifugio per riadeguare i propri stipendi al costo della vita, per cui l’orario di 40 ore settimanali è stato già di fatto superato e la nuova direttiva europea aggrava la situazione, consentendo di considerare come lavoro ordinario anche quello eccedente le 40 ore e superando paradossalmente da destra lo straordinario.
 Sono evidenti gli effetti disastrosi di tale proposta sulle condizioni dei lavoratori che verrebbero ridotti alla stregua di una macchina da accendere e spegnere a seconda delle necessità.
 Tutto ciò in palese contrasto con il fine dichiarato nella relazione che accompagna la direttiva , di garantire maggiore protezione della salute dei lavoratori e rendere più compatibili vita professionale e familiare. Sembrano invece molto più sinceri i propositi di dare maggiore flessibilità alle imprese per meglio affrontare le fluttuazioni della domanda.
La proposta è stata emendata dal Parlamento europeo che torna così alla Commissione, senza che però  il testo votato dal Parlamento abbia valore vincolante per quest’ ultima. Si evidenzia così sempre di più un indebolimento della partecipazione democratica in seno alle istituzioni europee. Tra l’altro gli emendamenti, votati dalle forze di centrosinistra, non mettono in discussione l’impianto della direttiva limitandosi ad osservazioni e piccoli aggiustamenti.
 Le organizzazioni sindacali, che hanno accolto con soddisfazione questi emendamenti, dimostrano ancora una volta di affrontare i problemi dell’integrazione europea con la stessa impostazione dei governanti, accettando ed adeguandosi alle regole della concorrenza selvaggia, senza porre, al contrario, la questione centrale: lavorare meno, lavorare tutti, unificando le tutele, rispondendo alla crisi del capitale europeo con il rilancio della ricerca in tutti i settori industriali e scientifici.
A questo attacco sempre più feroce e determinato che il capitale porta ai diritti delle classi lavoratrici, bisogna dare una risposta di forza uguale e contraria. E’ necessario ottenere una normativa che sancisca il principio di uguaglianza per tutti i lavoratori dell’Unione Europea per cui venga riconosciuta la parità di salario, parametrata ai livelli più alti, a parità di lavoro, e vengano osservate a livello europeo le legislazioni di protezione sociale e del lavoro più avanzate. Vanno inoltre rivendicati l’adozione di un sistema di recupero automatico dell’inflazione, la riduzione generalizzata dell’ orario di lavoro senza il trucco dell’annualizzazione, l’abolizione dello straordinario, un salario sociale unico (80% del salario),l’assistenza sociale agli anziani. Sono questi i punti fondanti della proposta che va portata nei luoghi di lavoro e sul territorio per dar vita ad un grande movimento internazionale dei lavoratori, partendo da quelli europei, per rigettare la Costituzione europea e tutte le direttive in materia di lavoro, per opporsi e battere l’Europa dei padroni.
 
 
 
Contributo della
Area programmatica 
Progetto Comunista