Relazione Introduttiva di Giacomo Schettini – segretario regionale Rifondazione

 

Le generazioni del nostro tempo e del prossimo futuro hanno la grande e terribile responsabilità di doversi misurare con questioni estreme: la salvaguardia della specie umana e della natura.

Per perseguire una tale finalità bisogna porre mano ad un grande sforzo ideale e pratico per mutare quel corso millenario della storia che un filosofo indiano ha definito “deviato” perché 5 o 6 mila anni orsono prese origini da predazioni, ratti, acquisizioni violente.

Esso è venuto producendo, soprattutto attraverso l’uso e l’irrompere della scienza e della tecnica non socialmente governati, effetti distruttivi ed autodistruttivi spesso irreversibili e sempre più insostenibili.

Questi, infatti, sono da iscrivere dentro un “sistema guerra” che produce e proietta nelle società  episodi sempre più incomprensibili per la loro violenza spesso gratuita, appunto mossa da una pulsione distruttiva: il fosforo a Falluja; le mitragliate di Ramadi, le torture; gli stupri nei parcheggi; le banlieues parigine, in cui la rabbia, pur avendo profonde motivazioni politiche, non assume forme politiche.

La tecnica ci ha dato l’automobile ma insieme l’avvelenamento dell’aria e il ritorno nelle città all’andatura dei tempi di Marco Polo.

La tecnica si è resa sempre più autonoma rispetto al destino dell’uomo. Sta assumendo sempre di più un carattere “trascendentale”. Si è operato un rovesciamento del rapporto tra mezzo e fine.

Non è in discussione la libertà della ricerca, ma non si può non vedere che la “illimitata capacità di raggiungere scopi”, che è propria alla scienza e alla tecnica, in presenza della illimitata possibilità di acquisizione privata dei risultati che esse raggiungono, provoca squilibri e lacerazioni. 

Deve quindi intervenire la politica a riportare la tecnica in un rapporto funzionale all’avanzamento umano e alla conservazione della natura, in cui abbia un ruolo creativo il lavoro, che deve essere restituito al suo carattere di tramite tra l’umano e il naturale.

L’interesse generale domanda quindi un mutamento profondo per uscire da un equilibrio a prospettiva catastrofica.

Questo è lo sfondo su cui si debbono muovere la grande politica e la grande cultura ma anche la pratica quotidiana, il cosiddetto possibile, che per la sinistra non dovrebbe essere mai inteso come una resa all’esistente, ma come la estrema frontiera di uno sforzo straordinario, come tensione verso l’utopia.

In questo quadro appare evidente che il cambiamento non è più o non è soltanto il frutto di scelte ideologiche, ma ha in sé elementi di necessità, vorrei dire, di natura strutturale.

Le classi dirigenti, per essere tali, cioè per guadagnarsi una funzione di guida, debbono assumere questo interesse generale come bussola del loro agire politico.

Classi dirigenti che coltivano o incitano a coltivare egoismi e particolarismi, mai come in questo nostro tempo, producono danni gravi. Questo discorso vale soprattutto nel Mezzogiorno e in Basilicata dove la formazione della borghesia si è venuta svolgendo a ridosso del clero, del feudo e delle rendite lasciando residui che ancora pesano nella vita politica.

Vi sono accadimentî che hanno una straordinaria capacità di svelare, o meglio, di svergognare.

In ottobre si sono verificati due fatti che colpiscono per la loro forza simbolica: il voto sulla cosiddetta devoluzione e l'assassinio del vicepresidente del Consiglio Regionale della Calabria Fortugno.

Le sfide e i rischi, prodotti dall’incerto e impreparato passaggio del Mezzogiorno dal rapporto con lo Stato nazionale a quello col mondo, sono squadernati come un presagio.

Il Mezzogiorno sta facendo i conti con i processi che vengono dalla Storia e dal mondo. Sta facendo i conti con la crisi del neo- liberismo. Da questa crisi non si esce automaticamente a sinistra. Sono in gioco almeno altri due sbocchi: uno è quello perseguito dalla destra che punta alla rottura del patto costituzionale uscito dalla Resistenza; l’altro è il tentativo di una stabilizzazione moderata perseguito dal neo-centrismo e in cui può essere assorbito anche il Partito Democratico di prossima costituzione.

Questi due tentativi appaiono sbagliati e velleitari, perché la crisi del neo-liberismo e del blocco sociale e politico che lo sostiene rende sempre più evidente la necessità, non ideologica, di risposte alternative. 

Questo dato risulta sempre più dimostrato dalla condizione del Mezzogiorno e del Mediterraneo. Sono mutati tutti i termini della questione meridionale.

I processi di globalizzazione hanno cambiato la qualità delle contraddizioni, il loro oggetto: non soltanto dipendenze, dualismi, divari, ma separazioni, vere e proprie fratture e, se si guarda al rapporto tra il Nord e il Sud del mondo, le separazioni si fanno abissi. Ci sono dati che ne danno una rappresentazione sconvolgente: negli ultimi 20 anni la ricchezza in Europa è cresciuta dal 50 al 70% e però vi sono 50 milioni di poveri, 20 milioni di disoccupati e 5 milioni di senzatetto; in America il 96% della ricchezza aggiuntiva è andata al 10% della popolazione; in Germania sempre nello stesso periodo la ricchezza delle imprese è cresciuta del 90% e i salari solo del 6; in Italia l'economista Geminello Alvi rappresenta la perversione di queste dinamiche informando che la quota destinata ai salari, pari al 56,4% nel 1980, scende intorno al 2000 al 40,1% del PIL -una picchiata stimata in cifra assoluta di oltre 300.000 miliardi di lire- e di contro, la quota delle rendite e dei profitti sale dal 43,6% al 59,9%.

Gli ultimi rapporti ISTAT e molte indagini regionali, comprese quelle sulla Basilicata, documentano l'allarmante involuzione verso la povertà (in Basilicata 150.000 componenti di famiglie povere debbono vivere con 220 euro al mese). Sono gli esiti del decennio 80 che De Cecco definisce del "keynesismo delinquenziale" e del decennio 90 della "programmazione procedurista", insomma del riformismo all'italiana e "gestionale". La qualità nuova delle contraddizioni e il grado di logoramento cui il liberismo ha portato la democrazia hanno determinato una profonda crisi del riformismo. Infatti, l'idea originaria del riformismo si fondava sul presupposto che lo sviluppo della democrazia avrebbe messo in crisi il capitalismo, mentre, per ora, si è verificato il contrario.

Per un altro verso si è rotto quel rapporto virtuoso tra sviluppo e avanzamento civile che durava da secoli e si è prodotta una nuova contraddizione tra quantità della produzione e qualità delle relazioni con la natura, tra le persone, con il potere, con il lavoro.

Il Mezzogiorno, come ammonisce la metafora iniziale, rischia di regredire a luogo separato e imbarbarito dal dominio delle mafie. Come in ogni crisi, sono presenti anche occasioni: oggi più che nel passato è necessario elaborare e costruire un modello con forti elementi di originalità, non isolato ma in relazione con un'Europa e un Mediterraneo in cui operino politiche, culture, stili di vita fondati sull'autonomia, sulla pluralità e sull'uguaglianza come riferimento della libertà.

L'Europa, come è stato più volte avvertito, è a un bivio: o si riduce alla periferia orientale dell'Impero Atlantico o costruisce una sua funzione e un suo ruolo autonomi. Per perseguire quest'ultimo obiettivo si debbono far rivivere in forma nuova alcune peculiarità proprie alla tradizione del Vecchio Continente.

Troppo frettolosamente il crollo del 1989 fu interpretato come il trionfo della libertà assoluta e del capitalismo, il quale si sarebbe liberato, uscendone, persino della Storia per insediarsi finalmente nel destino del mondo e dell'umanità (Fukujama). Le cose non stavano così.

Il 1989 non segnò un trionfo del capitalismo o della libertà assoluta, ma il crollo di quella peculiarità della politica e della cultura più avanzate europee che consisteva nello sforzo di tenere insieme libertà ed uguaglianza per condizionare il capitalismo ed evitarne gli effetti devastanti. Si ebbero così le Costituzioni progressive, lo Stato sociale, i paesi non allineati e il socialismo reale, che, con i suoi passaggi ed esiti tragici e rovesciati e benché derivasse da motivazioni più estreme, Samir Amin comprende in quella peculiarità.

La rielaborazione, secondo forme e contenuti che vadano oltre le esperienze del passato, di quella peculiarità, forse è la strada, non l'unica ma la principale, per costruire un'Europa all'altezza delle sfide che vengono dal Sud dell'Europa e dal Mediterraneo.

Dopo circa cinque secoli il Mediterraneo torna ad essere il baricentro del rapporto tra il Nord e il Sud del mondo. Qui si sperimenta la guerra preventiva come forma della politica verso il Sud, cioè per difendere i privilegi del 20% della popolazione del pianeta che divora l'80% di ciò che si produce sulla terra a spese di tutti; qui si sta tentando una strategia geopolitica volta creare un grande Medioriente di 23 Paesi, come un cuneo tra Cina, India e l'insieme di Europa e Russia su cui si insedierebbe l'America, unica potenza imperiale, anche per controllare il 65% delle riserve petrolifere; qui si confrontano i fondamentalismi che piegano a loro funzioni democrazia e religione.

In questo mare e su queste rive, per l'importanza degli avvenimenti e per essere approdo e ponte tra Oriente e Occidente, si determineranno gran parte degli esiti che connoteranno la qualità dell'identità europea e degli equilibri mondiali.

Pensare il Mezzogiorno in questa dimensione e con queste implicazioni significa anche mettere in campo una forza materiale: la consapevolezza diffusa delle difficoltà e insieme delle potenzialità.

Le lotte e gli eventi significativi degli ultimi anni -Melfi, Scanzano, Rapolla, Acerra, le lotte dei braccianti siciliani, degli agricoltori, delle ragazze e dei ragazzi contro la legge Moratti, contro la mafia, la Bolkestein, la stessa elezione di Niki Vendola in Puglia e la conquista della quasi totalità delle Regioni meridionali- rivelano che forse si sta uscendo dall'eclissi dal lato giusto.

 Bisogna sapere e dire, anche e soprattutto all'Unione, che nessuno deve illudersi ed illudere di governare la crisi con l'ordinaria amministrazione e col rispetto dei parametri di Maastricht. Sarebbe grave se l'augurabile Governo dell’Unione venisse vissuto come una stagione di sconti.

La politica e la cultura, non solo meridionali, debbono mettere mano a una nuova dimensione del "pubblico", intesa sia come capacità di fornire lo spazio pubblico per la partecipazione e la produzione dei legami sociali nel tempo della separazione e della solitudine programmate, sia come intervento nella sfera economica e delle tutele sociali.

Vi è un pauroso deficit di beni comuni, dove per beni comuni bisogna intendere certamente l'acqua, l'aria, la terra, la luce, che, essendo parte "organica del corpo umano" (Marx), dovrebbero essere inalienabili come il patrimonio genetico e le bio-diversità, ma anche i servizi essenziali, sanità, scuola, trasporti, energia.

Si può risolvere la crisi dell'auto senza un piano della mobilità sul territorio nazionale ed europeo fondato sul trasporto pubblico e collegato ad un piano energetico informato al principio del risparmio e dell'uscita dalla dipendenza da fonti non rinnovabili? Si possono accogliere i flussi di uomini, di culture, di merci che verranno dalla Cina e dall'India senza ferrovie, porti, servizi di rete, sicurezza del territorio e dell'abitare?

I fondi per il ponte sullo Stretto dovrebbero essere dirottati a favore di queste finalità. Il Mezzogiorno e il Mediterraneo sono i luoghi in cui la precarietà la fa da padrona.

Questa è, a mio avviso, la questione cruciale.

Essa è la forma di organizzazione della produzione e della vita che è subentrata e si è combinata con il fordismo. Se così è bisogna affrontare il tema con grande rigore, perché si tratta di una forma di produzione capitalistica storicamente determinata. Occorre ricorrere a strumenti di analisi interdisciplinari; non basta valutare che tipo di economia sta producendo, ma, seguendo il metodo di Gramsci, bisogna pensare il tipo umano che la precarietà sta elaborando, il suo rapporto col sesso e tra i sessi, il tempo, la natura, la politica e soprattutto il lavoro. Questo, non solo ha perduto, già da tempo, la funzione di tramite tra umano e naturale, ma ha contribuito in modo decisivo al mutamento qualitativo dell'alienazione.

La logica della separazione, propria al capitalismo, nel tempo della precarietà non opera soltanto una scissione tra il lavoratore e il suo prodotto, ma tra l'uomo e la sua capacità di progettare la sua vita. Non si verifica soltanto il dominio della cosa sull'uomo, la riduzione dell'uomo a merce, ma una riduzione dell'uomo a cosa usa e getta, a scoria: mercificazione e scorificazione si cumulano. Io credo che tutto questo c'entri col trionfo del narcisismo, col consumo di presente, con il dimenarsi tra arrembaggio e abulia, tra aggressività e depressione, con il ramingare per "sentieri interrotti" di tanti giovani.

Come nell'alienazione del passato, anche in questa del presente permangono residui di soggettività su cui far leva per produrre e auto-produrre consapevolezza critica. L'obiettivo del salario sociale si colloca in questo quadro.

Intorno alla precarietà si sta strutturando un blocco sociale e di potere e il nostro partito sta lavorando per costituire una soggettività politica adeguata al tempo della precarietà.

La sinistra alternativa come sezione della Sinistra Europea, che è l’asse portante del nostro programma politico, vuole rispondere a questa esigenza.

I partiti di massa della fine dell’800 e del 900 si sono formati a ridosso della rivoluzione industriale  e del fordismo. I processi di precarizzazione hanno determinato mutamenti nella composizione della società e della sua morfologia. Si sono determinate frammentazioni, scomposizioni, formazioni di nuove figure sociali che formano un arcipelago a cui bisogna sforzarsi di conferire forma e risultati.

La sinistra alternativa vuole rispondere a questa ineludibile esigenza, pena la dispersione di potenzialità straordinarie. In questo soggetto politico il partito vuole stare con la sua identità ma in relazione con i movimenti, altre forme di organizzazione sociale, singole personalità che si sono compromesse con il movimento e nelle primarie. Insomma non si vuole ripetere la produzione di un partito che incolla soltanto pezzi di ceto politico.

Questo soggetto politico si deve misurare con impegni cruciali per contrastare la guerra e il terrorismo, il neoliberismo e provvedimenti perversi come la Bolkestein, che vorrebbe diffondere forme servili e ghettizzate del lavoro.

Le primarie hanno rappresentato un momento di partecipazione, di chiarificazione e insieme di spinta unitaria. Hanno costituito uno spazio pubblico in cui si sono riconosciuti e che hanno vivificato milioni di persone. Le critiche che ne hanno fatto una base o un incoraggiamento di una deviazione leaderistiche appaiono sganciate dal contesto politico italiano e quindi ne banalizzano la natura. Esse sono servite a mettere in rapporto i partiti con il loro popolo e in secondo luogo, e per quanto ci riguarda in primo luogo, a conferire presenza e legittimazione a una sinistra alternativa e al bisogno di politiche alternative che altrimenti sarebbero rimaste nell’ombra, con il risultato di avere una rappresentanza e una rappresentazione soltanto delle opzioni moderate dell’Unione.

Crediamo giusto che questa legittimazione debba essere fatta pesare nei rapporti presso le istituzioni democratiche -Regione, Province e Comuni- senza boria ma anche senza subalternità.

Chi non ha capito questa motivazione dentro il partito ha fatto male. Noi abbiamo ottenuto in Basilicata un risultato soddisfacente sia per la quantità (circa il 13%), sia per la legittimazione a stare dentro una maggioranza con la nostra identità.

In Basilicata la esclusione del Partito della Rifondazione Comunista dalla Giunta Regionale, dopo un risultato elettorale anch’esso di tutto rispetto, è stato un errore di cui si sentono le conseguenze, perché la compagine governativa si è privata di una forza che rappresenta in modo più coerente le fasce sociali più deboli e i loro bisogni, oltre che una cultura e una pratica fondata sulla riforma della politica e della società.

La riapertura di una nuova fase nei rapporti dell’Unione si impone per superare questa anomalia. Questo nuovo corso non può essere caratterizzato da scambi di potere o di sotto potere.

Il PRC propone che si apra un confronto, dentro la Vertenza Basilicata, soprattutto su alcune questioni:

-la elaborazione di un piano contro la precarietà, su cui si facciano convergere tutte le disponibilità finanziarie, per mettere in campo azioni attive per la formazione, l’occupazione,  i servizi, ecc.. Occorre accelerare i tempi per l’entrata in vigore della legge sul reddito di Cittadinanza Solidale. Trasferendo in Basilicata i dati della SVIMEZ  circa 280 mila giovani dai 14 ai 34 anni sono in cerca di una prospettiva e ogni anno da 2 a 3 mila prendono la via del nord;

-riforma del sistema di potere e di gestione: riduzione degli enti (ASL, Consorzi di Bonifica, Comunità Montane ecc.) e loro sganciamento dal sistema clientelare. In questo quadro deve essere attivata la partecipazione degli utenti e degli operatori, sia nella fase di formulazione dei programmi, sia nella fase di controllo sociale sulla loro attuazione. Bisogna rendere oggettive le nomine e introdurre la chiamata numerica nelle assunzioni.

-piano energetico fondato sul risparmio, sul solare, sull’eolico, sul foto-voltaico e sull’idro-elettrico, sulle biomasse e su un uso razionale del gas metano, anche nei trasporti;

-piano della mobilità regionale fondato sul modello campano della metropolitana regionale senza escludere l’incremento della costruzione di strade necessarie;

-piano dei rifiuti fondato sulla raccolta differenziata, sul riciclaggio, disincentivando il sorgere di inceneritori che già hanno una presenza e un peso soverchiante nella nostra regione;

-piano sanitario che porti prevenzione e cura ad un livello elevato e diffuso;

-Piano per la sicurezza dell’abitare

-Così pure, è giusto non lasciare in sospeso le questioni relative all’attività estrattiva senza un chiarimento e senza i conseguenti provvedimenti che riguardino anche il ruolo degli enti e delle società interessate a questa attività, e ai rapporti con la Regione, tutti elementi  che sono stati oggetto di indagine di un apposita commissione regionale.

-bisogna rimuovere gli effetti prodotti nella nostra regione dalla legge Moratti che comunque deve essere abrogata insieme alle altre leggi nazionali (legge 30, legge  Bossi Fini, Legge Fini sulle droghe, ecc).

Noi vogliamo stare nella maggioranza e contribuire al governo di questa regione con la nostra identità e considerando il governo non come un fine ultimo ma come un terreno più avanzato di confronto, al fine di dare risposte adeguate, e quindi di sinistra, ai problemi che attanagliano questa regione. Forse, sia detto senza superbia, la presenza del PRC può anche frenare l’insorgere dei tradizionali vizi della borghesia lucana di cui abbiamo parlato e il tentativo di conquistare legittimazione da parte delle classi dirigenti attraverso pratiche particolaristiche e clientelari che potrebbero certamente sollecitare e ottenere consensi, ma in cambio produrrebbero una colonizzazione della società che, proprio per questo, risulterebbe più esposta ad altre forme di dipendenza.

Ma La Basilicata fa i conti con la formazione di una classe dirigente di più recente origine frutto di processi non conclusi e che forse prendono origine dal terremoto del 1980 di cui è ricorso il venticinquesimo anniversario pochi giorni fa.

 Il terremoto dell’80, come tutti i terremoti, non ha prodotto soltanto distruzioni, che sono state tante e tragiche, ma anche nuovi assetti sociali e di potere, particolari modi di sentire, stili di vita, consuetudini familiari e interpersonali.

Dopo il terremoto del 1783 Mario Pagano parlava dei “frenetici accoppiamenti” che si verificavano sotto le tende e l’abate Galiani notava l’incremento delle nascite e di altre “stravaganze” di quei tempi. Ma la cosa più rilevante fu il tentativo di formare una borghesia produttiva attraverso l’esproprio ai danni del clero e dei feudatari e le concessioni ad imprenditori agricoli da parte dei Borboni. Dopo il 1895 incominciò la serie delle leggi speciali che concentravano il potere di decisione, acceleravano procedure, creavano discrezionalità a favore degli apparati politici e burocratici. Anche dopo il terremoto dell’80 si è ripetuta questa pratica ed è emersa una nuova classe politica prodotta dalla gestione delle varie leggi a partire dalla L. 219. Non sono state ancora ben scandagliate le conseguenze sociali e politiche di questo fenomeno. Quel che è certo è che una classe dirigente si definisce e si connota per la capacità di progettare e agire l’interesse generale. Questo è fondativo della legittimazione a dirigere. In Basilicata ho l’impressione che ancora troppo prevalgano interessi particolari.

Il PRC partecipa nelle giunte delle province di Matera e di Potenza e nelle giunte delle città di Potenza e Matera. Nella città di Matera si è aperta già da qualche tempo una verifica in seguito alle dimissioni dell’Assessore Michele Morelli, causate da un evidente difficoltà di rapporti tra l’amministrazione e la società materana: si è percepito uno scarto tra la forte crisi economica e sociale (Barilla, salotti, ecc) e l’immobilismo dell’amministrazione. In seguito alla nostra iniziativa del 18 novembre si è aperto un confronto serrato. Nel corso della verifica, soprattutto ad opera del sindaco, si è introdotta una turbativa dovuta alla concessione della cittadinanza onoraria al capo della polizia De Gennaro. Come è noto, il dottor De Gennaro è stato protagonista delle dure repressioni prima di Napoli e poi di Genova dove è stato ammazzato Carlo Giuliani. Si voleva riaffermare una stagione di rapporti tra istituzioni e nuove generazioni fondati sulla repressione. La cittadinanza onoraria portava e porta un segno opposto a quello che noi riteniamo debba avere il rapporto tra un municipio e le nuove generazioni e i movimenti. Ci auguriamo che la verifica in corso possa procedere seriamente avendo come punto di confronto anche la petizione promossa dal PRC per revocare la cittadinanza al Dottor De Gennaro.

L’episodio è tanto più significativo e simbolico in quanto Genova rappresenta il luogo simbolo fondativo del rapporto tra il PRC e i Movimenti che è la peculiarità del nostro partito.

In un intervista resa da Fukujama poco tempo fa, il filosofo americano, facendo autocritica, affermava che la sua espressione, riferita al 1989, “fine della storia” avrebbe richiesto un punto interrogativo: io sono convinto che quel punto interrogativo non l’abbia messo Fukujama ma l’abbia messo i movimenti. E’ grazie ai movimenti se il presente può essere rivissuto come storia.

Anche a Potenza si sono verificati episodi che destano sconcerto e che vanno chiariti: si sono levate multe micidiali a carico di un venditore ambulante in Piazza Prefettura, 5 mila Euro.

Il nostro partito deve compiere lo sforzo di diventare punto di riferimento soprattutto delle nuove generazioni. Bisogna dire che questa buona intenzione spesso viene smentita da un modo di essere, soprattutto al suo interno, che non è molto attraente: la divisione rigida in correnti e un dibattito spesso svolto all’insegna di idee fisse, invece che di idee forza, rappresentano un limite che ognuno per la sua parte deve fare lo sforzo di superare.

Le giovani e i giovani debbono essere portati alla direzione del partito e non solo, ma per quanto sta in noi debbono rappresentarlo anche nelle assemblee elettive. La prova più immediata da sostenere è costituita dalle elezioni prossime che debbono essere affrontate e vissute come un occasione in cui il rapporto con la società deve servire non soltanto a prendere voti, che è cosa importantissima, ma anche e soprattutto a costruire consenso intorno ai suoi programmi e alle sue idee e alle sue lotte per la pace e per l’alternativa di società. Noi siamo fiduciosi di conquistare anche in Basilicata la rappresentanza nel Parlamento Italiano. Noi vogliamo partecipare anche dalla Basilicata alla vittoria dell’Unione e alla sconfitta di Berlusconi e del Berlusconismo.

Anche per questo siamo impegnati a sostenere la lotta dei metalmeccanici per chiudere la vertenza e per vincere la resistenza padronale, prima di Natale.

Anche in questo caso si tratta di restituire al lavoro il valore e il ruolo che purtroppo con le leggi sulla flessibilità gli sono stati sottratto.

Abbiamo bisogno di rafforzare il rapporto tra il partito e i lavoratori e le lavoratrici della SATA di Melfi a partire da quello con il circolo aziendale. Si avverte il bisogno di rielaborare i contenuti e l’iniziativa per attivare un sistema di relazioni positivo tra la fabbrica e il territorio, che spesso ha subìto i contraccolpi di visioni economicistiche e separate e di un deficit di comunicazione.

Le difficoltà si sono ripercosse negativamente anche nella formazione della lista regionale.

Tra gli accadimenti degli ultimi mesi si sono distinti quelli relativi alle violenze sulle donne: la crisi del patriarcato che esercitava il dominio nell’ambito familiare rispunta sottoforma di violenza nella sfera del mercato, dello sfruttamento, della riduzione in schiavitù. Le conquiste raggiunte dal movimento femminile e femminista, che non possono regredire, sono contrastate su diversi terreni: su quello del lavoro innanzitutto dove le donne, perdendo occupazione e addirittura rinunziando a chiederla, abbassano la soglia della loro autonomia contrattuale; su quello della libertà, anche a causa della diffusa aggressività di cui abbiamo parlato; infine, su quello dell’autodeterminazione, di padronanza di se e del corpo. Su quest’ultimo terreno sono particolarmente evidenti le insidie contro la L. 194 messe in atto da una parte del mondo cattolico e delle gerarchie ecclesiastiche soprattutto dopo il referendum sulla procreazione medicalmente assistita.

E qui viene in campo la questione della laicità. Questa, volendola leggere con la chiave del pensiero della differenza, è costituita dalla capacità di riconoscere e comunicare tra diversità. Questi valori bisogna far valere senza contrapporre ad un attacco clericale una risposta anticlericale, senza grossolanità. Non possiamo tacere però di fronte ad alcune iniziative dense di implicazioni regressive. L’affermazione del papa secondo cui “il diritto promana da Dio” merita una risposta. Se il diritto promana da dio, viene sottratto a quella dialettica che fa della norma un punto terminale di spinte culturali, sociali e politiche che si collocano nello spazio che sta tra i bisogni e le istituzioni, tra i desideri e, appunto, la norma, i cui confini debbono essere continuamente assediati dai processi storico-politici proprio per poter raggiungere aggiustamenti del sistema delle norme alla realtà. Se il diritto viene riferito ad una costituzione divina, si pietrifica e tutto al più viene posto nella disponibilità di chi parla ex cattedra.

L’agenda politica è sempre più confusa circa i soggetti che la formulano: una volta è la Lega, un’altra Vespa, un’altra Ruini, un’altra ancora la ‘ndrangheta; bisogna restituirla ai luoghi deputati a definirla: l’assemblea elettiva in cui siedono i rappresentanti del popolo, della sovranità popolare.

Così pure dove operano alleanze bisogna evitare che si verifichino situazioni di gerarchie interne in ordine alla formazione dell’agenda politica.  Voglio dire che non sono tollerabili pratiche in cui operino contraenti di serie A ed altri visti in funzione ancillare. Comunque non bisogna ripetere in scala minore il vecchio rito del lamento e dell’accattonaggio meridionale. Occorre costruirsi e costruire legittimazioni in rapporto con le donne e gli uomini, con i loro bisogni,con le loro aspirazioni.

BRECHT in alcuni celebri versi diceva che

“noi che volemmo edificare la gentilezza sulla terra non potemmo essere gentili”

Credo che avesse torto.

Noi che vogliamo edificare la gentilezza sulla terra dobbiamo essere gentili. Perciò dobbiamo lavorare per dare i giovani alla politica e la politica ai giovani; per dare le donne alla politica e la politica alle donne.