Caro Franco, compagno dagli anni giovani, quante cose nuove da fare insieme
di Nichi Vendola
Caro Franco,
come faccio a dire di te, cavandomela con un rapido girotondo di parole? Come
faccio a contenerti nella misura rinsecchita di un articolo? Dire di te, di me,
di noi, di un pezzo di generazione che - nelle tempeste degli anni settanta del
secolo che si è appena schiantato sulle nostre spalle - impastò l’acqua della
vita con la farina della politica: come posso, senza che la memoria mi inganni o
che io la inganni? Senza cedere all’emozione, all’auto-indulgenza, alla
retorica: come posso? Non è facile guardarsi allo specchio, foss’anche per
vedere i segni del tempo che incidono i volti, né è agevole mettere a bilancio
il senso (e il dissenso) di un lungo cammino. Lungo più di trent’anni. Da quanto
siamo amici e compagni? Forse avevo ancora tutta l’adolescenza del quindicenne e
l’impudenza di parlare ad un congresso di partito contro il partito. E c’era
Giorgio Amendola, severo e monumentale, che presiedeva le assise. E tu che per
la prima volta mi venisti a conoscere. Quel giorno stesso diventasti la mia
bussola politica e la nostra amicizia cominciò a tessere la sua tela bella e
complicata. Per una intera comunità di giovanissimi sei stato un leader
autorevole e indiscusso, militando insieme sulla trincea scomoda della
“internità eretica” al Pci: per noi diventare comunisti fu subito fare i conti
con lo stalinismo, chiudere qualsivoglia linea di credito con il “socialismo
irreale” del mondo dei gulag e della cortina di ferro, dichiararci insofferenti
alle pesanti liturgie del “centralismo democratico”. Per noi il comunismo erano
i braccianti che occupavano il latifondo, gli studenti che rompevano l’angustia
classista del sapere accademico, le domande radicali di nuovi soggetti sociali
che spiazzavano le risposte precotte di tutte le nomenclature. Per noi il
comunismo era l’educazione al mondo, non l’indottrinamento del mondo. Fummo
anche faziosi, ovviamente, ma eravamo dentro le viscere di un Sud spaccato,
nella pancia levantina di una Puglia che aveva enclave robuste di sinistra
dentro una geografia politica largamente conservatrice e persino reazionaria. Su
quella frattura piangemmo il “nostro” morto, che fu anche la fine della nostra
adolescenza: finivano gli anni settanta e Bari aveva sparpagliati laboratori
dell’eversione neofascista, l’antifascismo fu anche una identità forte e
militante per un pezzo di proletariato e di sottoproletariato giovanile, Pino
Rauti girava l’Italia e il Mezzogiorno come pellegrino del verbo squadrista.
Uscirono da una sede del Msi, mazzieri con catene e coltelli, per colpire quei
nostri compagni che facevano sera nelle piazzette arabe di Bari vecchia.
Benedetto Petrone, con i suoi incandescenti diciotto anni, con il suo passo
claudicante e il suo bel viso mediterraneo, cercò scampo, inciampò, il suo petto
fu squarciato da un pugnale. Fu un lutto senza ripari, piangemmo la nostra età e
la nostra parte: ferite entrambe non solo dall’odio ideologico fascista ma anche
dall’odio sociale di chi stava giocando la partita dello svuotamento del centro
storico di Bari e non sopportava la resistenza di chi, con la chitarra e i
volantini, di quel quartiere brulicante di umanità voleva il risanamento e la
difesa. Ricordi, Franco, il tuo comizio in Piazza prefettura gremita di nostri
coetanei, ricordi la polizia che ci sparò addosso i candelotti lacrimogeni, e
poi la cantilena diffamatoria che cercava di insozzare, da subito, la memoria di
Benedetto?
Noi amammo molto Enrico Berlinguer, il suo stile, la sua moralità, ma non fummo
soffici nella nostra avversione al “compromesso storico” e a tutte le derive
politicistiche che, così pensavamo, rendevano il partito incapace di una
sintonia profonda con le domande di cambiamento delle giovani generazioni.
E ricordi l’ingresso nella nostra comunità amicale di persone e temi che poco
alla volta cambiarono, arricchirono, la nostra sensibilità? Ricordi Anna Clelia
e il suo cancro, la sua bellezza magnetica e il suo dolore trasmutato in
intelligenza femminista? E i nostri maestri e maestre, Arcangelo e Imma e
Pasquale e Beppe e Franco, e poi i nostri fratelli maggiori, e tutti i nomi di
quella rubrica del cuore che fu anche un gruppo dirigente comunista? Lo so che
ricordi tutto, molto meglio di me. Anche quando sono partito a Roma per fare il
mio anno di “servizio civile” all’Arci, non ci siamo mai persi di vista. Infatti
ci siamo subito riuniti nell’esperienza della segreteria nazionale della Fgci
guidata da Pietro Folena. Io ricordo soprattutto che avevamo sempre fame, che ci
pagavano poco e con ritardo, che condividevamo quella casa all’estrema periferia
capitolina dove ogni sera riuscivamo a fare una cena cucinando i residui delle
già magre cene precedenti. Ma eravamo così innamorati della vita, innamorati dei
nostri amori, sempre in prima linea in ogni battaglia politica. Poi le strade si
separarono per qualche anno: tu nel partito, funzionario della federazione
barese, io al settimanale ideologico del partito, cioè “Rinascita”. Fu Occhetto,
con la svolta della Bolognina, a farci ricreare il vecchio sodalizio. Il giorno
che cominciò la fine del Pci ci siamo scambiati mille giuramenti al telefono:
che non ci saremmo stati, che il Pci bisognava cambiarlo tutto ma non ucciderlo,
che quella mutazione genetica avrebbe privato le classi sociali subalterne (e io
dicevo anche “gli scugnizzi”) di un punto fermo delle loro lotte e speranze. Io
fui tra i fondatori di una partito che nasce con un parto difficile e con tutte
le doglie della nostalgia ideologica, del reducismo, del minoritarismo politico.
Rifondazione era il nome di una necessaria allusione, ma copriva anche una
cattiva illusione: che si potesse resuscitare un morto. Il Pci era morto. Ci è
voluto molto tempo perché Rifondazione fosse consapevole (e persino orgogliosa)
di essere una cosa “nuova”. Perché i tempi sono cambiati e noi non possiamo
avere paura del cambiamento. Fausto ci ha fatti crescere in questa discontinuità
vitale fino a mettere nella nonviolenza il punto di rifondazione di un nuovo
comunismo. E tu hai mantenuto il tuo sguardo sulle cose reali, caro amico mio,
senza mai acconciarti a mettere le braghe alla storia. Hai camminato molto. E
abbiamo anche molto litigato. Certo ricordi che nel conflitto tra noi, a
proposito della nascita del governo Dini, ci siamo inseguiti polemicamente con
una durezza estrema ma anche con una civiltà culturale che ha reso intatta la
sfera dell’amicizia. Abbiamo ancora molte cose da fare. Ciascuno nel suo ruolo.
Per esempio aiutare noi stessi a liberarci dall’iconografia militare di una
politica che si nutre (talvolta non solo simbolicamente) della carne del nemico.
Dobbiamo aiutare il mondo a disimparare l’odio, a destrutturare ogni tipo di
fondamentalismo, a dissodare la terra da ogni veleno di intolleranza. Dobbiamo
sgomberare i nostri cuori dalle macerie di una storia che ha nella guerra il
proprio paradigma. Tu ora avrai una responsabilità grande. Io ti sarò vicino,
amico e compagno di tutta la mia vita: e insieme a una nuova meravigliosa
generazione di comunisti, insieme a Fausto, dovremo imparare a cercare le
domande giuste per risposte di libertà.
Tratto da Liberazione del 9 maggio 2006