Detenuto e malato di tumore. Una storia sbagliata
Ristretto a Regina Coeli, senza casa, vaga da un ospedale all’altro di Roma per mancanza di strutture d’accoglienza idonee a fornirgli le cure di cui ha bisogno

 

«Una vicenda paradossale che dovrebbe farci vergognare». E’ quella vissuta sulla pelle di Massimo Biondi, un detenuto di 49 anni del carcere Regina Coeli di Roma. A sollevarla dall’oblio che attanaglia tematiche sociali in un Paese spesso volto all’effimero e all’astrattismo, ci pensa Angiolo Marroni, Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti del Lazio.

Malato di tumore, Massimo era uscito dal carcere per gli arresti domiciliari ma, a volte, il fattore domicilio diventa un problema grande quanto il fatto di trovarsi nella condizione di detenzione. Senza casa, era stato ospitato per cinque mesi in una Casa famiglia convenzionata con la Provincia di Roma. Le condizioni di salute però, con il fluire del tempo, deteriorano tanto da non poter più essere ospitato dalla struttura d’accoglienza. Di qui nasce un calvario che lo vede vagare, da ormai tre mesi, da un ospedale all’altro della capitale. Prima al Policlinico Gemelli, poi allo Spallanzani dove ancor oggi è ricoverato. L’ospedale, quindi, come costrizione per mancanza d’alternative strutturali o domiciliari. Un ambiente non proprio famigliare.

La pena che Massimo deve scontare è stata sospesa per motivi di salute, ma la Camera di Consiglio che deve ratificare la decisione è stata rinviata: l’uomo non ha una casa e non può usufruire delle poche strutture convenzionate che hanno finalità sociali e di reinserimento socio-lavorativo. Si aspetta la decisione del Tribunale di Sorveglianza. Il garante Marroni denuncia questa situazione «Per la burocrazia Biondi ha difficoltà ad essere assistito perché non ha l’aids, dunque non può essere ospitato nelle case d’accoglienza, e non è un anziano da Rsa. E’ solo un adulto malato». Le strutture non sono attrezzate per le cure di cui Massimo avrebbe bisogno. Cure che, dopo l’arresto, hanno registrato la sospensione del trattamento chemioterapeutico. La storia di Massimo s’infittisce con il sommarsi di altre gravi problematiche: la sua unica fonte di reddito (la pensione) da due anni è sospesa per una causa in corso con l’ente previdenziale. In buona sostanza le sue necessità possono essere soddisfatte solo dall’aiuto di terzi, volontari o amici che siano. La casa è una chimera, figuriamoci. «Nel caso specifico - spiega Marroni - ci siamo adoperati per far uscire Biondi dal carcere e farlo ricoverare in una struttura d’accoglienza, ma non abbiamo il potere di dargli una casa. Abbiamo coinvolto in questa storia Comune di Roma e Assessorato regionale alla sanità». Sulla questione interviene Vittorio Antonini, presidente dell’associazione penitenziaria Papillon Rebibbia: «E’ assurdo il fatto che persone che combattono contro malattie platealmente incompatibili con la detenzione debbano sottoporsi a particolari gogne
sia per ottenere la liberazione sia per ottenere un luogo che possa ospitarli in misura alternativa». Una vicenda che rappresenta la punta dell’iceberg di una mancanza politica in materia sociale. «Questo caso - continua Antonini - richiama alla responsabilità sia le direzioni delle carceri e i magistrati di sorveglianza, sia la coscienza di quegli enti locali che molte volte si vantano pubblicamente di interventi a favore dei detenuti ed ex detenuti con operazioni che, nella sostanza, sono pura e semplice propaganda più o meno elettorale». Occorre più attenzione verso il carcere e le drammaticità di cui quotidianamente è teatro. Insufficienze strutturali e burocratismi appesantiscono i problemi di Massimo e di tanti altri uomini. Angiolo Marroni avverte: «Anche i detenuti hanno diritto di vivere con dignità la malattia. Non si può aspettare che siano le condizioni di salute di quest’uomo a risolvere il problema».