Pianeta carcere

 

Che cos’è dunque questo oscuro pianeta apparentemente così lontano, ma al contempo così straordinariamente vicino ad ognuno di noi? Questo spettro indefinito che aleggia sulla testa di chiunque? Questo sepolcro troppo spesso dimenticato in cui le persone vengono “private della libertà” al fine di “scontare una pena”, redimersi da una “colpa”, espiando il “fio del proprio reato”, per aver trasgredito qualche “norma penale”?

Questo luogo non-luogo, sempre più lontano dai centri abitati, spinto verso le periferie, affichè sia sempre meno visibile ai “cittadini per bene”, ma al contempo assolva lo scopo di incutere in tutti la paura, il terrore di finire in un “buco nero” tetro e cupo, al minimo sgarro alle leggi dei potenti. Un posto di cui assai poco si conosce, ma del quale si intuisce anche troppo facilmente l’aspetto segregativo, violento, persecutorio, aberrante. E del quale si comprende molto bene, e non solo livello inconscio, che non sono precisamente vere le favolette insinuate dai media o dalla fantasia popolare più distorta e reazionaria che si mangia e dorme gratis (in carcere si paga tutto, detenzione compresa), che si sta bene perché c’è perfino la televisione (questo è null’altro che un ennesimo strumento di tortura) e adesso si fa tranquillamente anche sesso (assolutamente falso!).

Iniziamo a sfatare un luogo comune: i mass media molto abilmente presentano il carcere come un’istituzione assolutamente necessaria, fisiologica a qualunque tipo di società, quasi naturale, e soprattutto come se questa fosse sempre esistita.

Il carcere, ovvero l’edificio che ospita una prigione o un penitenziario, è sconosciuto nell’antichità e nel medioevo, e vede la luce nella sua accezione moderna, ovvero nel senso di “stabilimento penale”, con l’avvento della rivoluzione industriale, che culminerà nella presa del potere assoluto da parte della borghesia, nella seconda metà del ‘700, e che trova la sua “consacrazione” nella rivoluzione francese.

In precedenza, il concetto di pena attraverso la privazione della libertà non esisteva. Il concetto punitivo dall’antichità al medioevo si fondava prioritariamente sulla categoria etico-giuridica del "taglione", forma di vendetta basata sul criterio di pareggiare i danni derivati dal “reato”.

La prigione, o meglio la detenzione, era solo un passaggio temporaneo nell’attesa dell’applicazione della pena reale, cioè la privazione nei riguardi del “colpevole” di quei beni riconosciuti universalmente come valori sociali: la vita, l’integrità fisica, il denaro.

La crudeltà e la spettacolarità assolvevano la funzione di deterrente nei confronti di coloro che intendevano trasgredire le regole imposte dal "signore" o dai potenti di turno.

In alcuni casi la pena veniva sanzionata secondo criteri più “umani”, in uso anche presso altre civiltà, soprattutto di origine tribale: l’allontanamento dalla comunità (temporaneo o definitivo) o il concetto di “compensazione” (il colpevole veniva costretto a compensare in qualche modo, ad esempio attraverso un lavoro di “utilità sociale”, il danno recato alla comunità o a individui).

Quindi il carcere moderno nasce con l’avvento della società a capitalismo diffuso, che si realizzò col processo che portò la borghesia (mercantile prima e capitalistica poi) al ruolo di classe dominante e, consequenzialmente, con la crescita a dismisura di quel fenomeno di masse di vagabondi, mendicanti e sradicati dalle campagne, nei confronti dei quali la borghesia, arrogante e spregiudicata, si pone da sempre il problema del controllo sociale e dell’imposizione dell’ideologia del lavoro coatto con i mezzi più terribili conosciuti dall’umanità.

Vale la pena ricordare che proprio fra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800 nascono quasi contemporaneamente fabbriche, banche, orologi e carceri.

Lo scopo primario del carcere dunque è quello di controllare la popolazione e fungere da deterrente a comportamenti non compatibili con gli standard borghesi dominanti. Sostanzialmente si potrebbe dire che serve essenzialmente a tenere mansueto quello che Marx chiamò “l’esercito industriale di riserva”, ovvero

a controllare quella massa di non occupati che per sopravvivere è costretta a trasformarsi in barboni, mendicanti, vagabondi, briganti, rapinatori, ecc. che vive di espedienti e che talvolta si politicizza, diventando una concreta minaccia “rivoluzionaria” al dominio borghese.

E qui veniamo a sfatare un secondo luogo comune che sfacciatamente ancora oggigiorno ci viene propinato dai media: il carcere serve a rieducare, a istruire, a “recuperare” ai valori della cosiddetta “società civile”. Niente di più falso. E’ evidente che il carcere non assolve minimamente neanche una di queste funzioni: serve a privare della libertà e a tenere sotto controllo (o sedare definitivamente) soggetti che altrimenti non sono compatibili col modello di sviluppo borghese, punto e basta.

Di più. Il carcere odierno come tutti sanno è una scuola di “criminalità”, ovvero chi vi entra per qualsiasi ragione ne uscirà (se ne uscirà) più violento e rabbioso, e senz’altro più esperto nel continuare a “delinquere”. Questo passaggio sarà tra l’altro quasi obbligatorio, perché per un individuo il fatto di essere stato carcerato, comporta inevitabilmente una serie di stigmatizzazioni sociali (difficoltà nel trovare un lavoro, perdita di quei pochi beni che possedeva prima della carcerazione, esclusione, emarginazione…).

Quindi il carcere moderno svolge anche la funzione di riprodurre se stesso all’infinito, ponendosi come una autentica fabbrica di soggetti incompatibili alla società e alle sue regole.

In ultima analisi un carcere esige altre nuove carceri, più polizia, più magistrati, più tribunali, più controllo, più allarme sociale, e via dicendo in una spirale perversa che si riproduce indefinitamente.

La retorica dei media funge da fabbrica del consenso, continuando a snocciolare concetti che si rincorrono in sequenza allucinante: criminalità, pericolo, emergenza, carcere, prigione, penitenziario, reato, colpa, pena, crimine, espiazione, colpevolezza, misure di sicurezza…

Il risvolto tragico di questa faccenda è che tutto ciò è originato da null’altro che dalla divisione in classi di questa società (ricchi e poveri, potenti e sottomessi, sfruttatori e sfruttati, oppressori ed oppressi) e dall’esigenza spietata della borghesia di continuare ad accumulare redditi, profitti e proprietà, da difendere con ogni mezzo da una massa sempre più vasta di disgraziati, poveracci e diseredati che preme alle sue porte.

Nell’ottica della rapacità capitalista e dalla sua brama di trarre profitto da ogni cosa va ad inserirsi il discorso dell’istituzione delle carceri private, proveniente dagli Stati Uniti, ma che si va rapidamente diffondendo in tutto il mondo, Europa compresa. Perché limitarsi a sorvegliare e punire, quando questo può diventare anche un lucrosissimo affare?

Oggiorno, con la popolazione carceraria che aumenta continuamente dato il progressivo immiserimento degli strati più deboli della società, ed a fronte delle sempre crescenti ondate di immigrazione, le prigioni, sia pubbliche che private, si stanno rivelando vere e proprie miniere di forza lavoro, con salariati che ricevono una paga irrisoria (che spesso non basta nemmeno a pagare il periodo di detenzione), e a cui è impedito di aderire ai sindacati o di godere dei più elementari diritti riconosciuti a ogni lavoratore.

Il lavoro forzato presentato come mezzo di rieducazione e reinserimento, oltre che, beninteso, di espiazione.

Ingiustizia che si aggiunge ad altra ingiustizia, miseria alla miseria, orrore all’orrore…

Atrocità e nefandezze presentate con assoluta naturalezza, come nulla fosse, per sopire ancor più la già narcotizzata coscienza della gente, impaurita e terrorizzata da “emergenze” e pericoli falsi o inesistenti.

Lascia davvero sgomenti il fatto che una società che diventa ogni giorno di più essa stessa un enorme carcere, abbia bisogno proprio delle galere come valvola di sfogo delle proprie frustrazioni e perversioni.

Il carcere, fabbrica di malattia ed emarginazione, morte, violenza e miseria, prepotenza e sottocultura oggi diventa anche terreno di sfruttamento selvaggio, oltre che di controllo perpetuo che si esplicita attraverso le cosiddette “misure alternative” (affidamenti in prova, “case di lavoro”…) e l’applicazione di nuove tecnologie di controllo: braccialetti elettronici, chips sottocutanei, controllo satellitare e quant’altro.

E’ urgente più che mai riaprire dal basso il discorso sul carcere in senso abolizionista.

Abolire il carcere non è un’utopia, è una necessità assoluta sulla strada di una società che si voglia minimamente dire “civile”.

Bisogna che ogni individuo si riappropri di tutto ciò che secoli di capitalismo, violenza di stato e narcosi mediatica gli hanno rubato: gioia di vivere e lottare, desiderio di libertà, rifiuto alla sottomissione.

Questo è il primo passo per avviarsi sulla strada dell’abolizione del carcere e verso una società che non abbia più bisogno di pene e punizioni per valutare l’operato degli individui, liberata per sempre dai fantasmi ossessivi che la perseguitano e alimentata della libertà di tutti, in assenza di discriminazioni e ingiustizie, di classi sociali, di mercificazione dell’esistente, di galere di ogni genere.

 

La redazione di "Polvere"