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Adria dai Vescovi-Conti alla caduta deldominio estense

Cronologia (838-1514)

838- Scarsa la documentazione per questo periodo; tuttavia un documento dell’838 nomina alcune terre soggette all’imperatore: “ Comitatum Gavello, villa quae nuncupatur [detta] Rodigo… omnia constitutum in territorio adrianensis”. [F.A.Bocchi, Il Polesine]

920 – Il Vescovo di Adria Paolo Cattaneo chiede al papa Giovanni X la facoltà di costruire un castello ( castrum construere) nel “fundus o vicus Roda”[Rovigo]. Il permesso è concesso.

938- Il Marchese Almerico e la moglie  donano alla Chiesa di Adria alcuni beni posti nel territorio adriese: “… le isole Lago (Lagosanto), Loreo, Valana e Pomposa, le masse Corneto e Donore; la pieve Tamara; i fondi Carlo e Saletto; le pievi Rovina, Bagnolo…, inoltre Santa Maria in Basilice (Massa Superiore), Arquà, Gragnano, Borsea, Crispino, Gavello e la corte Roda”. [F.A. Bocchi, Il Polesine, p. 56] 

944 – Inizia, con la bolla di papa Martino II, il dominio del Vescovi-Conti adriesi sul Polesine. Il Papa dona ai Vescovi-Conti adriesi i seguenti beni: “… Ariano, Goro, tutta l’isola fra l’Adige e il Tartaro, Villa Marzana, il fondo Roda, Pontecchio, Lendinara fino all’Adige, Solesino e Tribano, Mardimago, Anguillara, Cavarzere, Cornacervina, Copparo, Ambrosio, San Donato, Guarda, Massa Campilio (Sant’Apollinare), Cavazzana… Né rechi sorpresa che il vescovo possedesse tanti beni anche nel Ferrarese, perché si ricordi che la rotta… di Ficarolo portò di là del Po tanti paesi che prima erano di qua”. [ F.A. Bocchi, Il Polesine, p. 56]

944-1054- In questi anni l’autorità dei Vescovi-Conti adriesi entra in crisi. L’indebolimento dell’autorità vescovile è dovuto al contemporaneo intervento nel Polesine di numerosi potentati veneti ed emiliano-romagnoli: gli Estensi di Ferrara, i Carraresi di Padova, i Veronesi, che si contendono il dominio del territorio. Intorno al 1020 comincia a diffondersi nelle varie diocesi il germe dell’eresia patarina, critica nei confronti del clero concubinario. Nel 1022 il papa Benedetto VIII e l’imperatore Enrico II indicono un concilio a Pavia per rimettere ordine nel clero.

1040- Ridolfo normanno dona al Monastero della Vangadizza alcune terre poste nel padovano e in Arquà, “pro mercede et remedio animae  Ugonis Marchionis”, ossia per l’anima del Marchese Ugo di Ferrara.[Muratori, Delle antichità estensi, in Modena, nella stamperia ducale, MDCCXVII pp. 95-96]

1066-1071- E’ vescovo di Adria Tutone, che cede la giurisdizione del monastero di S. Pietro in Maone alla diocesi di Ravenna, e Uberto. Intorno al 1069 l’abate di Pomposa Mainardo di Silvacandida, legato pontificio, opera per risolvere la spinosa questione dell’eresia patarina.

1077 – Arrigo IV, re di Germania e d’Italia, conferma il dominio del Polesine agli Estensi di Ferrara, nelle persone di Ugo e Folco, figli del Marchese Azzo. “ Concedimus omnes res, quae sunt in comitatu Gavelli, Rhodigum, … et quidquid pertinet ad ipsum comitatum. Abbatiam Bursedam, Abbadiam Vangaditiam”. [ da L.A. Muratori, Delle antichità estensi, in Modena, nella stamperia ducale, MDCCXVII, p. 40]

1097 – Donazione di cinquanta poderi al Monastero della Vangadizza da parte del Marchese Alberto Azzo II, figlio del Marchese Azzo I. [Muratori, p.81]

1100 (circa) – Il dominio dei Vescovi-Conti adriesi si restringe ulteriormente, riducendosi ai soli territori di Adria e di Ariano.

1100-1142 (’45) – I marchesi Estensi ottengono, attraverso investiture feudali da parte dello stesso Vescovo di Adria e acquisti di terre, un rafforzamento della loro presenza in Polesine, e un più solido dominio sullo stesso.

1142- Il Marchese Azzo III nel suo testamento ricorda i beni che possedeva in Polesine: da Lusia “usque ad Venetiam et usque ad plenum mare... Comitatus Rodigii et Gavelli et Adriani”. [Muratori, Tomo I, p. 330]

1145- Il Marchese Tancredi nel suo testamento trasmette ai figli le terre poste “ in comitatu Rhodigii, et Gavelli atque Adri”. [ Muratori, p. 332]

1152- Si verifica in Polesine un evento catastrofico, la Rotta di Ficarolo, che provoca una totale modificazione dell’assetto idrogeologico del territorio, con la distruzione di interi paesi e di vari monasteri. La rotta è detta anche “Rupta Sicardi”.

1170 – L’abate Isacco, del Monastero della Vangadizza, fa un’investitura di vari beni ad Alberto ed Obizzo Marchesi estensi. [Muratori, p.96]

1221- Federico II di Svevia, con editto imperiale, conferma ai marchesi Estensi di Ferrara l’investitura su Adria e Rovigo.

1285 – Il Polesine è teatro di scontri tra Padovani e Ferraresi.

1294 – L’imperatore  Rodolfo conferma l’investitura del Polesine agli Estensi. Essa viene riconfermata negli anni 1313, 1315, 1353 e 1450. I fondi sicuramente abitati nel territorio di Adria sono i seguenti: “ … Una vasta possessione da Suapio al mare. Il Publico [sic] di Fissura, verso Loreo, con omonimo canale. La Terra del Bosco, o Bosco de’ Pinà, presso Liparo. Le valli e canale di Curicchi. Le valli di Corbola, vicino ai fondi delle Papozze. Le valli delle Goresene, tra Curichi [sic] e i fondi di Villanova, sulle sponde del Canal Goresena… Canalnovo vien pure ricordato nel 1294, e potrebbe corrispondere all’odierno noto villaggio tra Villanova e Crespino, se non è poi il primo nome del luogo detto delle Bottrighe, come apparirebbe da qualche documento… Vengono poi nominate in quel tempo le Fratte…”. [ F.A. Bocchi, Trattato, p.292]

1309 – Nonostante il dominio estense, gli Adriesi stipulano con Venezia il “Pactum Adriae”. In questi anni la giurisdizione di Adria si spingeva dalle Valli Campio (Suapio) “usque ad mare”, e comprendeva Lama Sinistra, Bosco de Bragis (fra Papozze e Villanova), Bosco de Curtis, Bosco de Curiclis. [ J. Zennari, Il grande feudo dei Vescovi-Conti adriesi,  p. 223]

1371- Il Cardinal Anglico, passando per Adria, la descrive come una città letteralmente in dissoluzione e pressoché spopolata.

1481 – Tensioni in Polesine con gli Estensi, che pretendono il pagamento di gravosi dazi per il trasporto sui fiumi del sale.

1482 – Adria, a causa delle guerre tra Veneziani e Ferraresi, è in preda ad incendi e saccheggi. Adria chiede a Venezia il rinnovo del Patto.

1484 – Gabriele Venier, veneziano, è podestà di Adria. Con la Pace di Bagnolo Venezia acquista tutto il Polesine; ne resta fuori però Adria, che rimane agli Estensi.

1514- Il Polesine passa sotto il dominio incontrastato di Venezia.

Gli Eventi (838-1514)

La (presunta)  “potenza” dei Vescovi-Conti adriesi

   Mentre tra il IV e V secolo la straordinaria struttura viaria articolata dai Romani sembra mantenere una certa saldezza, si fanno però già sentire i primi segnali di una crisi che avrebbe dovuto comportare costanti controlli idraulici e interventi di bonifica, che purtroppo non furono attuati. Tutti i centri abitati, pressoché isolati, entrano in una fase di chiara decadenza. Anche Adria sembra ripiegare su se stessa e perde di importanza, tanto che lo stesso vescovo di Adria viene a dipendere da Ravenna.

    Una sicura ripresa della Chiesa adriese e del suo vescovo si registra a partire dal IX-X secolo. Ai vescovi adriesi sono delegati molti compiti, tra cui l’amministrazione della giustizia fra Adria e Rovigo. Nell’Alto Medioevo l’autorità vescovile è indiscussa e il vescovo è l’unico punto di riferimento della vita sociale e culturale sul territorio.

    Si è dato avvio alla “cronologia” dall’838 D.C. perché questa data è della massima rilevanza per discutere intorno alla “potenza” dei Vescovi-Conti adriesi. Nell’anno 838 infatti, in un documento ampiamente studiato dalla critica storica sia locale sia nazionale, si menziona per la prima volta Rovigo, località indicata nella fonte  come “ Rodige”. Ma ancora più importante per il nostro assunto il documento del 920, nel quale si dava facoltà al vescovo di Adria, Paolo Cattaneo, di erigere in detta località un “castello”, ovvero, secondo la terminologia latina del tempo, un “castrum”.  La cosa in sé non avrebbe  niente di eccezionale, se intorno a tale documento non fosse nata una polemica campanilistica tra Rovigo e Adria, con Rovigo che avrebbe visto nella facoltà data al vescovo di fondare il “castrum Rodigii” anche una sua precisa volontà di trasferire la sede vescovile da Adria in quel luogo che le fonti indicano con diversi nomi, da “fundus Roda” a “Rodige”. F. A. Bocchi, giustamente, s’arrabbiò molto di fronte a tale pretesa di alcuni studiosi rodigini, e in particolar modo con il professor Luigi Guerra, il quale, dando una lettura ingannevole e molto campanilistica del documento del 920, affermava che tale concessione venne fatta da papa Giovanni X al vescovo di Adria perché l’aria di Adria era “insalubre”, e fu per questa ragione che il vescovo adriese avrebbe abbandonato la città, decidendo di “andare a vivere” nella più salubre “Curte Roda” o “fundus Roda” che dir si voglia. Ovviamente il Bocchi ebbe buon gioco nel dimostrare l’infondatezza di tale pretesa del Guerra, o di quella del Nicolio, peggio argomentata e infarcita di elementi leggendari risibili. Raccontava infatti il Nicolio che il Vescovo Paolo avrebbe fatto un sogno in cui gli era apparso S. Pietro, che gli avrebbe dato nelle mani “il pastorale fiorito di rose vermiglie, a significare la nuova destinazione”, Rovigo, appunto, “la città delle rose”. Ma è evidente che a sognare era il buon Nicolio, non l’ottimo vescovo Paolo. La realtà è naturalmente diversa. Il vescovo Paolo Cattaneo aveva agito semplicemente come tanti altri vescovi dell’Italia padana del tempo, i quali, di fronte al pericolo rappresentato dalle scorrerie degli Ungari aveva pensato di costruire un “castrum”, ovvero un luogo fortificato in una zona facilmente difendibile, in cui rifugiarsi in caso di pericolo e ne chiese facoltà, concessagli, al papa, senza pensare ad alcun trasferimento di sede.  Il documento del 920 è altresì interessante perché, a partire dal nome fantasioso con cui era indicata Rovigo da certuni studiosi rodigini (V. Nicolio), s’intessé tutta una sequenza di interpretazioni che hanno in sé abbastanza a che fare con la questione della “potenza” dei Vescovi-Conti adriesi. Intanto, è assolutamente da cassare l’immaginosa idea che fa derivare Rovigo da “rodon”, ovvero “rosa”, come voleva far passare il Nicolio, sulla scorta di Tito Vespasiano Strozzi (Visconte per i duchi di Ferrara a Rovigo) e di Ludovico Ariosto, per cui ne sarebbe scaturito il significato, fantastico, di “città delle rose”. Diciamo che a una possibile e più razionale verità s’era avvicinato abbastanza, a parer mio, F. A. Bocchi, che, scartando a priori anche l’ipotesi formulata dal Silvestri ( che faceva derivare il nome da un ipotetico Bonevigo o Buonvico ), osservava testualmente: “ … Qualunque sia la ragione che la corte Bonevigo sia stata appellata Rodige, è certo che Rodige è lo stesso che fondo Roda e Corte Roda, e che ne vennero con lievi alterazioni Rodico, Rodigio, Rhodigium, Rovigo”. F.A. Bocchi aveva probabilmente centrato il bersaglio. Infatti gli studi recenti di archeologia ipotizzano che la Corte Roda abbia origini longobarde. Presso i Longobardi, teste autorevole P. S. Leicht, i raggruppamenti rurali erano detti “Vici”, singolare “Vicus” (Vico). Ora, nelle lingue germaniche, rileva  Giovanni Cherubini, i nuclei abitati rurali erano detti berg, feld, reuth, ma anche Rode. Un qualsiasi vocabolario di tedesco (uso quello curato da P. Giovannelli e W. Frenzel [Signorelli 1972]), traduce la voce Rode[land] , con terreno dissodato. Pare evidente che, in epoca longobarda, Rovigo era detto Rodevico, o Rodavico, ossia villaggio [vico] che sorgeva su un terreno dissodato [ Rode]. E’ ovvio che il nome venne successivamente “volgarizzato”: facile intuire la caduta della d, e il rapido passaggio di c a g, dando così vita al più semplice e “volgare” Ro[d]-vig[c]o=Rovigo, anticamente ulteriormente semplificato in Rod[v]ige, con caduta della v, difficile alla pronuncia dopo la d. Ma che c’entra il “Castrum Rodige” con la “potenza” dei Vescovi-Conti adriesi? C’entra nel senso che qualche studioso si è chiesto come aveva fatto un povero “vescovo di campagna” a trovare i soldi per costruire addirittura un castello nella solitaria “ Curte Roda”. Anche qui gli studiosi, specie locali, si sono dati da fare per trovare la quadratura del cerchio. Osservo preliminarmente che uno dei più validi, Jacopo Zennari, lo risolse in due modi complementari: da un lato riportando tutta una messe di documenti che testimoniavano la “potenza” economica su cui potevano contare i Vescovi-Conti adriesi (vastissimi territori in tutto il Polesine fino al mare ( V. sopra la Cronologia), dall’altro appoggiandosi a fonti documentarie date per certe, come la donazione fatta “dalla contessa Franca… vedova del Marchese Almerico”. Il documento di donazione fu redatto “actum”, “felicemente” nel 954 nel castello di Rovigo “ Castrum Rodigii feliciter”. Si fa notare che a 32 anni dalla data della concessione di Giovanni X al Vescovo Cattaneo, il castello di Rovigo era bello che fatto, tanto è vero che la città viene nominata nel documento come “castrum”. Dunque, la costruzione del “castrum” l’aveva in pratica finanziata il buon Almerico, attraverso la moglie. In realtà non v’era bisogno di scomodare né mirabolanti ricchezze fondiarie vescovili né donazioni copiose per dimostrare che il Vescovo di Adria poteva permettersi il lusso di costruire un “Castrum” in quel di “Roda”. I più recenti studi di castellologia dimostrano due cose molto importanti. Primo, che nessun castello “in muratura e pietra” della Valle Padana è stato costruito, se non in casi rarissimi ( e il castello di Rovigo non è citato tra queste rarità), prima del 1200; e tale datazione, scrive F. Menant, è ormai un fatto “acquisito da tutti i medievisti”. Secondo: quando i documenti medievali, e sono tantissimi per i Vescovi-Conti padani e di altre zone, parlano di “castrum”, che normalmente traduciamo con il termine “castello”, non si riferiscono a castelli con torri maestose come siamo oggi abituati a vederli, ma a cosa molto diversa.    In realtà il “castrum” della “Curte Roda”, come altri “castra” dello stesso periodo, erano fatti secondo il modello dei “castra” romani, ovvero si trattava di zone militari fortificate mediante un terrapieno circondato da una fitta palizzata e da un fossato. “Una fortezza della pianura del Po, rileva ancora Menant, nei secoli X-XI, non ha mura ma si compone soltanto di un vasto fossato; la terra battuta forma un terrapieno centrale o un rialzo di terra sovrastato da una palizzata…”. Il legno era tra l’altro il materiale più a portata di mano; più difficile pensare fossero stati trasportati da zone lontane materiali in pietra attraverso le paludi adriane fino alla “Curte Roda”. Infatti, nella “Guida di Rovigo” a cura di Camillo Semenzato, riguardo alle torri rimaste del castello, si fa notare semplicemente che non si sa quando esse siano state costruite, e che gli studi archeologici messi in atto possono soltanto attestare la presenza di un vasto terrapieno e di resti lignei. Quanto poi alla presunta ricchezza dei Vescovi-Conti adriesi, è pur vero che i documenti affermano il possesso della Sede Vescovile di numerosissimi “fondi” in ogni località del Polesine (V. Cronologia), ma è altrettanto vero che si trattava di terreni strappati con fatica alla palude, oasi in uno sterminato oceano di acque, con rese agricole bassissime e sempre soggette agli eventi catastrofici di quell’antico ambiente padano. In conclusione, i Vescovi-Conti adriesi non potevano permettersi il lusso di un “castrum” in pietra, ma una buona palizzata protettiva per sé stessi e per i propri uomini sì.

  In più si deve considerare che nei primi tre secoli dopo il Mille il potere vescovile è affiancato, o per meglio dire, contrastato, in città dal dominio civile e militare degli ufficiali dipendenti dai marchesi estensi, i quali, già all’inizio del 1300 affermano, con molte incertezze, la loro egemonia non soltanto su Adria, ma anche su Rovigo sino a Loreo e Cavarzere. Il dominio estense su Adria e sul Polesine fu comunque estremamente precario e tormentato da una sequenza impressionante di acquisizioni ( investiture imperiali ad Alberto Azzo II nel 1077 e nel 1221 ad Azzo VII, che acquisiva anche Adria), vendite più o meno lecite (Francesco d’Este vendette nel 1331 ai Padovani Rovigo, Lendinara e Badia), perdite inopinate di territori (invasione nel 1390 dei Carraresi, cessione del Polesine ai Veneziani perché gli Estensi non avevano onorato un debito di 50.000 ducati con la Serenissima), nuova riconquista del territorio nel 1404 con Nicolò III e lascito di Adria e Rovigo da parte di Lionello a Borso nel 1441. Infine, perdita definitiva del Polesine, tranne Adria, nel 1482 a favore dei Veneziani.

    Nonostante il dominio estense, e anzi, proprio a causa di esso, gli Adriesi, sottoposti, oltre che a una precarietà politica insostenibile, anche e soprattutto a una fiscalità fortissima e assolutamente pervasiva, guardavano con particolare favore ai Veneziani, dimostrando chiaramente di preferire il dominio veneto a quello ferrarese. Tale fiduciosa speranza era tuttavia mal riposta, come vedremo in seguito, allorché tratteremo del dominio veneto su Adria. Tale “favore” si concretizzò comunque nel 1309 con la stipula tra Adria e Venezia del noto “Pactum Adriae”, che prevedeva reciproca protezione e libero commercio fra le due città. In più Venezia, al contrario di Ferrara, si impegnava ( a parole) al rispetto delle libere istituzioni locali e dell’autonomia delle strutture amministrative preesistenti, basate sugli statuti locali. Le ragioni per le quali Adria sperava in un “buon governo” veneziano, alternativo a quello ferrarese, ce lo spieghiamo benissimo se consideriamo la fiscalità cui era soggetta la città. Nell’Archivio Antico di Adria è conservato un manoscritto di F. A. Bocchi, che registra in modo capillare la tassazione estense sul territorio adriese. Si tratta di un “codice cartaceo”, spiega F.A. Bocchi, “ copiato intorno alla metà del secolo XVI”, e che si riferisce ai “dazii” cui erano soggetti il Polesine e Adria intorno al 1318, in pieno dominio estense. Stralciamo dal manoscritto alcuni esempi significativi.   Riguardo alla vendita del lino: “ I venditori di lino di qualunque specie… paghino agli ufficiali o conduttori del dazio undeci denari parvorum [piccoli] per ogni lira…”. Per le “bestie grosse”: “ Chiunque dona o permuta un quadrupede paghi undeci soldi parvorum per ogni lira del prezzo o della stima di esso…”. Per il frumento: “ Chi cede, dona o permuta frumento, melica, legumi, semi di lino od altre biade, paghi undeci denari parvorum per ogni lira del prezzo o della stima…”. E ancora: “… Chiunque ammazza bestie per venderle nelle terre di Rovigo, Lendinara, Badia e loro borghi paghi per ogni capo bovino un soldo marchesano; per ogni pecorino… denari sei. Per ogni capo agnonum et capretorum  [agnelli e capretti] denari tre c.s. (come sopra) e ciò pro scanatura ipsorum bestiarum…[macellazione dei predetti animali]”. Concludo con i carri e le carrette: “ … In ogni parte del Polesine, chiunque ha carri e carrette et versura (aratri) paghi in principio dell’anno per ogni anno quattordici soldi marchesani; per ogni carretta sette; per ogni versuro, chi non ha carri o carrette, quattordici c.s., pena a chi ricusa quaranta soldi parvorum”. E così via per oltre 40 pagine, nelle quali è prevista la tassazione praticamente di tutto: galline, caproni e pollastri, lane e canapa; aglio,  carbone e  pietre; frutta, miele e cere;  vini di qualsiasi tipo ( Malvasìa, Tribiani, moschatelli); orzo avena, segala, melica e legumi; cacio fresco e dolce; seta e manifatture. E non ho citato nemmeno un quarto di quanto era soggetto a tassazione.

   Adria, comunque, non riuscì per tutto il 1400 a legarsi saldamente a Venezia. Infatti, anche dopo la Pace di Bagnolo, che vide passare tutto il Polesine nelle mani dei Veneziani, essa, insieme con Corbola, rimase sotto il dominio estense, che si fece ancor più intransigente nei confronti dell’autonomia della città, che si vide privata persino nel cosiddetto “Arengo”, ovvero, nel “Maggior Consiglio”, di qualsiasi potere decisionale, che viene esercitato da “persone care al governo del Duca”.

    Infatti, intorno al 1240 gli Estensi erano già Signori di Ferrara e proprio a partire dal Duecento avevano iniziato a nominare una serie di officiali, con svariate mansioni, regolate dagli statuti cittadini e che prescrivevano la durata degli incarichi nonché i requisiti delle persone che erano chiamate a esercitarli. Nel corso del Tre e del Quattrocento gli Estensi si erano progressivamente insignoriti di altre città e province. Nelle città e terre a essi soggette, gli Estensi inviavano, persino nelle podestarie rurali più piccole e misere, un notaio e un podestà con diritti di  giurisdizione piuttosto ampi.

   Per tutte codeste attività gli ufficiali erano stipendiati, e lo stipendio variava a seconda dell’importanza delle località. Ad Adria, per esempio, nel 1457 e nel 1507, secondo la documentazione in nostro possesso, il Visconte e il notaio percepivano rispettivamente 12 e 4 lire. Ad Ariano il Capitano era pagato con 7 lire, mentre a Rovigo il Visconte percepiva intorno alle 20 lire. Il Capitano di Rovigo, poiché aveva anche l’onere del controllo militare della regione, percepiva sino a 40 lire. La spesa per la Camera Ducale non sembra in effetti eccessiva; infatti gli stipendi degli “officiali” sembrerebbero piuttosto miseri, se però si prendono singolarmente gli ufficiali delle varie località. La somma si faceva invece cospicua se consideriamo al contrario il numero piuttosto elevato degli “officiali”. Ferrara dunque manteneva nel territorio adriese “officiali” al passo di Polesella, al passo di Corbola Superiore e a quello di Corbola inferiore; al passo di Curicchi. Un “castaldo di Corbole dalla parte di Ariano” e un altro castaldo “dalla parte di Adria”; uno anche a Villanova Marchesana e a Papozze, con relativi notai, e un notaio ad Ariano: e ciò considerando soltanto il territorio adriese, senza aggiungere alla lista il Camerlengo, i notai e gli “officiali” dipendenti da Rovigo. I salari degli ufficiali, si è detto, sono solo apparentemente miseri, ma essi, scrive G. Folin, che ha studiato a fondo la questione, costituivano solo una quota minima degli introiti dell’officiale, “il quale disponeva di sportule ed emolumenti vari che compensavano le spese sostenute per acquistare l’officio e che anzi potevano essere fonte di enormi guadagni.”

   Un manoscritto della Biblioteca Ariostea di Ferrara del XVIII secolo raccoglie, a partire dal 1304, tutta una serie di documenti che rimandano a liti e a controversie giuridiche tra  i duchi di Ferrara e i nobili veneziani Quirini, tra gli stessi duchi e i canonici di Adria e tra questi ultimi con i frati certosini o altri per le solite questioni di confini, pertinenze, decime, ecc.  Nel giugno del 1461 il duca Borso, con una cerimonia imponente per presenza di notabili e di funzionari laici ed ecclesiastici, dopo una solenne messa officiata dal vescovo di Forlì, donava ai certosini di Ferrara, a titolo dotale e perpetuo, una congrua serie di petie di terra poste nel "districtus" di Ferrara: si trattava di appezzamenti abbastanza vasti di terre arative, vineate, prative e boschive situate in terre di bonifica tra Rovigo e Adria, lungo l'asse che da Crespino, attraverso Villanova Marchesana e Papozze, porta fino a Corbola.  Riprendiamo qui brevemente il discorso intorno alle bonifiche estensi, avendo a che fare con il Duca Borso, il cui simbolo gentilizio era il paraduro [palizzata lungo gli argini] per ricostruire, sulla base degli elementi che esso ci fornisce, un mondo perduto, il mondo di quei laboratores che si trovarono a sudare sulle terre che il duca donò ai certosini di Ferrara. Dicevamo poc'anzi che è difficile parlare di Borso senza accennare alla sua “ideologia” della bonifica, anche perché, senza tale supporto, non si comprenderebbe neppure il senso della sua donazione. Come si è detto, la signoria estense era molto disomogenea per territorio e il controllo del contado era estremamente difficile. Le necessità annonarie però erano talmente pressanti da costringere i duchi d'Este a concessioni feudali, a permute o a donazioni che indubbiamente mettevano in crisi il potere di controllo ducale, che spessissimo doveva scendere a patti con gli stessi beneficiari delle terre, con grave danno del patrimonio familiare. Le necessità annonarie di Ferrara, come dicevamo, costringevano però i duchi a correre il rischio, e la messa a coltura di nuove terre, attraverso la concessione di esse a monasteri dediti alle bonifiche, era costume consuetudinario in varie parti d'Italia, e il duca Borso lo inaugurò con tutti i crismi anche per la sua casata. Proseguita poi la lotta contro l'incolto in maniera massiccia dai suoi successori (si pensi alla bonifica della selva di Crespino compiuta da Alfonso II), il fenomeno divenne talmente imponente da far diventare Ferrara un vero e proprio Principato idraulico, per usare un'azzeccata espressione di Carlo Poni. Non altro che un'accorta politica territoriale e annonaria fu però quella che spinse il duca Borso alla donazione ai padri certosini nel 1461. Sotto il linguaggio paludato, fortemente solenne e giuridico di essa, si cela il vero intento di Borso, “nei cui occhi si trasfonde Dio Stesso”. Sta di fatto che, a parte l'indubbia ammirazione di Borso per l'ordine certosino, manifestato sin dalla giovinezza, a un certo punto si dice che il duca pose, all'atto della donazione, “umanissimamente  le sue mani in quelle dei padri certosini”. E' quindi evidente che Borso infeudava i suoi beni nella transpadana ferrarese, ben conscio che il suo potere sul districtus non avrebbe subito almeno per il momento, diminuzioni di alcun tipo. Stabiliti i reali contorni politici della donazione, veniamo ora alla parte che ci interessa più da vicino. La donazione è invero estremamente meticolosa e precisa nell'indicare varie petie di terra, ovvero fondi rustici, che in tutto sono circa una sessantina. Ma ciò che è interessante rilevare è che essa riporta i nomi di varie campagne, che a tutt'oggi, per gran parte, sono stati mantenuti, e che costituiscono una fonte toponomastica di prim'ordine per conoscere l'origine “idraulica” e “paludistica” delle nostre terre. Buono è anche il documento sotto il profilo antropologico, in quanto vengono menzionati i nomi di tre proprietari di Adria. Inoltre esso enumera moltissime “case” contadine, indicandone i materiali con cui erano costruite. Inizieremo la nostra indagine con l'individuazione di alcuni fondi rustici adriesi, donati alla Certosa di Ferrara, in permuta di altri.  Il documento in questione è redatto in latino. Esso viene presentato in traduzione:   

 

 

Gastaldaria di Villanova Marchesana, proprietà del predetto Duca, divisa, come è detto sotto, in dieci possessioni con cortili, dal Signore di cui un tempo era gastalderia e di cui alcuna parte si trova nel distretto di Ferrara e altra parte nella Diocesi e nel Distretto di Adria. In primis un cortile padronale, con una casa murata, con coppi, ma plana e con un'altra casa murata, cupata et solarata.

                                                  

 

Item  un cortile con casa grande, di quattro case di canna, con corte, aia, orto e forno; terreno aratorio di sette moggi e di tre staia circa, vineato per due miglia, prativo, di tre giornate di lavoro circa, da legna per una certa quantità, accanto alle pezze descritte; ci si collega alla "rotta grande" attraverso un canale navigabile detto La Golesena: Paolo de Amati [ si collega alla rotta] attraverso la Goresena e Cristoforo Pavano attraverso la stessa Goresena.

 

 

Item un cortile casamentivo, di quattro case di canna, con corte, ecc. E questa possessione è posta nella diocesi e nel distretto di Adria, e sopra vi abita come lavoratore Cristoforo Crepaldi.

 

 

 Item un cortile casamentivo di quattro case di canna, con una casetta da forno, con corte, aia, pozzo, orto e forno.

 

Item una pezza di terra aratoria di tre moggi e due staia circa, detta La Pezza de Casa

 

Item una pezza di terra aratoria di un moggio, staia due circa, detta El Maso

 

Item una pezza di terra chiamata La Fassina, aratoria, di tre moggi e tre staia circa, vicino al pezzo di terra chiamato La Pezza de casa.

 

Item una pezza di terra aratoria di un moggio e dieci staia circa, chiamata La Ferrarina, vicino alla sopraddetta pezza, chiamata La Fassina, vicina a un'altra pezza chiamata La pezza de Casa.

 

Item un cortile casamentivo di due case di canne,  con corte, aia, orto e forno, posto nel detto fondo di Villanova. etc.

 

Item un cortile casamentivo, di quattro case di canna, con corte, etc.

 

Item  un cortile casamentivo di tre case di canna, con  corte, aia, etc.

 

 

Item una pezza di terra prativa fra gli argini, di tre giornate di lavoro circa, ivi detta Li Dossi dentro dali arzeni.

  

Item un cortile casamentivo, di quattro case di canna, con corte, aia, orto, forno e pozzo, aratorio di dodici moggi e diciassette staia circa.

 

Item una pezza di terra aratoria, di venti staia circa, ivi detta Li dossi dentro da li argini, accanto agli argini dei dossi di Cuorcrevà, uniti ecc.

 

Item un cortile casamentivo, di quattro case di canna, con corte, ecc. E questa possessione è posta nella diocesi e nel distretto di Adria, e sopra vi abita come lavoratore Cristoforo Crepaldi.

 

Item una pezza di terra aratoria, di un moggio e sedici staia circa, prativa, di quattro giornate di lavoro circa, ivi detta Li Dossi.

 

Item un cortile casamentivo, con tre case di canna, con corte, ecc.

 

Item una casa grande, con quattro case di canna, con corte, aia, ecc.

Nota. 20 stara corrispondono circa a 2 ha; e 10 moggia a circa 20 ha.

 

 

   Tra le varie e più importanti incombenze dei podestà locali ( per Adria il Visconte) oltre alla soprintendenza degli argini e delle bonifiche, v’era il controllo dell’ordine pubblico e, se era possibile, del contrabbando, delle strade principali, della presenza di eventuali passaggi di eserciti sul territorio, della quantità e qualità dei raccolti, costituendo così essi la longa manus del duca di Ferrara a livello locale. I podestà erano tenuti inoltre a una fitta corrispondenza con la Cancelleria ducale, che, adottando lo stesso stile della Repubblica di Venezia con i suoi “Rettori”, voleva essere informata di tutto quanto accadeva nel territorio.

   In particolare i Visconti dovevano controllare accuratamente le denunce dei beni privati, punendo gli evasori con la confisca. L’ordine pubblico era controllato sia con pesanti taglie messe sulle teste dei briganti sia con punizioni severe, che andavano dal taglio della mano e alla successiva esecuzione per i rei di omicidio alla fustigazione pubblica, “coram populo” per i colpevoli di furto. Pene minori, ma sempre disonoranti, erano poi previste per bestemmiatori e spergiuri, condannati rispettivamente a tre immersioni in acqua e alla berlina.  Non soltanto i Duchi di Ferrara tenevano moltissimo a essere informati su ogni aspetto della vita sociale del territorio adriese, ma rispondevano per via epistolare ai loro visconti, capitani, podestà e gastaldi, impartendo ordini ben precisi per far fronte a certi problemi. Nello stesso manoscritto poc’anzi citato sono registrate sette-otto lettere dei Duchi in questo senso. Ne riporto qualcuna a mo’ d’esempio. La più antica è del marchese Azzo, del 1304. Interessante anche quella del Duca Borso ai Quirini, del 1471.

 

                                           Lettera del Marchese Azzo[1]/

      al Podestà delle Papozze./

                       Azzo per Dio grazia d’Este, e d’Ancona/

Marchese, della città de Ferrara, de Modena/

e de Arezo (sic) Sig.[no].r generale, al Podestà   nostro/

delle Papozze, salutem. Comettemo a tì qual=/

mente respondi, e faci rispondere alli Nobili/

de Quirini, de meleghe, et altri frutti delle terre/

poste nel fondo delle Papozze intromesse, et /

sequestrate apresso de te a requisition de Pietro/

Notario dei Grossi, non obstante dicta seque= /

stratione, et intromissione, et non obstante /

la tenuta tolta per dicto Pietro, la qual te= /

nuta cassammo.  Salvo ogni nostra ragione/

se trovessemo avere in ipse terre./      Dat[um] in Ferrara adì XI Agosto dell’anno del S.1304

                                                           

                    Lettera del Duca Borso a M.[esse]r Pietro Quirini.

 

           Sp[ectabi]lis et Amice noster direct[issi]me.  Avemo riceùta la vostra/

           lettera, et rispondémovi, che se fareti avere ricorso /

        alli nostri generali factori, lori vi faran fare el mandato/

           secondo usanza per el mandar fuori li vostri ricolti, per= /

           ché cusì a quelli abbiamo commesso. Alla parte de /

           Mercadello el ni fa intendere che lo ha molto bene /

           obedito le nostre comissione, et che l’ha consegnate /

           le biade, et solam[en]te ritenute le semente./

           Da Consandolo a 8 de Feb.[ra]ro 1471.

 

 

 

                       Lettera del M[arche]se Nicolò1 al Podestà di Crespino       

1440/

 

                       Carissime noster. Noi avémo determinato al tutto, che siano/

Observate ad unguem a questi Nobili de Cà Quirini/

Veneziani le soi2 imunità (sic), et exemptione, e pertanto/

volémo, e comandémoti che alli soi, che abitano in le/

Papozze tu non li die gravezza alcuna per la rata del/

tuo salario, anzi volémo, che tu non li molesti per/

tal cagion in cosa alcuna se hai cara la gratia nostra/.

 

   Il territorio adriese, dunque, sotto il dominio estense, è un’area in cui si registrano profonde tensioni interne, parcellizzato com’era tra una miriade  di pretendenti: vescovado, canonici di Adria, Estensi e feudatari veneziani. Tale “vuoto di potere” effettivo comportò per Adria e il Polesine un’ instabilità politica che sarebbe alla fine sfociata in conflitti sanguinosi e sostanzialmente disastrosi per l’intera area polesana e per gli abitanti in particolare, che temevano per la propria vita e per i propri averi. (V. Cronologia, 1482). Infatti, a pochissimi anni dall’effettivo passaggio di Adria ai Veneziani, non tutti ad Adria erano poi effettivamente convinti circa la bontà del dominio veneto. Ne abbiamo una spia eloquente  in un testimone d’eccezione, Ludovico Ariosto. Questi era nel 1509 governatore della Garfagnana, e in quell’anno scriveva al Duca di Ferrara di aver ricevuto “alcune lettere di alcuni che abitano Adria”, che si mostravano preoccupati delle mire veneziane sulla città, tese, a parer loro, non tanto al “buon governo” di Adria, ma “per robarli e farne preda”. Secondo questi cittadini adriesi, quindi, i Veneziani miravano più al saccheggio che a una stabile conquista. E ne erano talmente convinti che molti, per “salvare le persone” avevano cominciato a pensare a un rapido trasferimento, comprando “case in Ferrara” (L. Ariosto, Lettere, I, 1509). 

                                                          

                                                                                                 Enzo sardellaro

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

 

 

 

Si dà qui una breve bibliografia di riferimento:

 

Per i Vescovi-Conti adriesi, cfr. J. Zennari, Il grande feudo dei Conti Vescovi adriesi dalle origini alla decadenza, pp. 18-21. Per i documenti relativi al permesso di costruzione del “castrum Rodige” e per la polemica di F.A. Bocchi con il Professor Luigi Guerra, cfr. F. A. Bocchi, Della sede episcopale di Adria veneta, Adria, 1859, in particolare le pp. 4-7. Per Rovigo, citata nei documenti a partire dall’838, oltre alla storiografia locale, primo F.A.Bocchi, cfr. anche V. Fumagalli, Terra e società nell’Italia padana, Torino, Einaudi, 1976, p. 97, nota 7. Per il “sogno” del vescovo Paolo narrato dal Nicolio, cfr. C. Semenzato, Guida di Rovigo, Vicenza, Neri Pozza, 1966, p. 15.   Per i problemi storiografici riguardanti la costruzione dei castelli nel IX-X secolo, cfr. F. Menant, Castelli nel Medioevo, in Studi Storici, 1985, n.2, pp. 437-442. Per la struttura del governo estense nei domini, cfr. G. Folin, Note sugli officiali negli stati estensi (sec.XV-XVI), in Gli officiali negli stati italiani del ‘400, in Annali della Scuola Normale superiore di Pisa, s. IV, I, 1977, pp. 99-154. Per le informazioni tratte dai manoscritti del Bocchi e dell’Ariostea, si rimanda alle più ampie sillogi in via di preparazione e di prossima pubblicazione nel  sito Web di E. Sardellaro: http://digilander.iol.it/studipolesani. Per le bonifiche estensi in Polesine, cfr. B. Rigobello, Consorzi e retratti nel Polesine in età estense e veneziana, in Uomini, Terra e acque, Rovigo, Minelliana, 1990, pp. 103-119.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

[1]Si tratta di Azzo VIII (m. nel 1308). Nella lettera Azzo ingiunge al suo podestà di Papozze la restituzione di “meleghe” e “altri frutti” sequestrati a suo tempo dal notaio Pietro dei Grossi ai nobili Quirini. Sulla presenza dei nobili veneziani Quirini a Papozze, cfr. L. Lazzarini, Possessi e feudi veneziani nel ferrarese, Roma, 1958.

1 Niccolò III (m. nel 1441) impone al podestà di Crespino di rispettare “ad unguem”, in pieno, le esenzioni e le immunità di cui godono i Quirini a Papozze, e inoltre gli ordina di non molestarli in futuro.

2 Soi=sue (loro)


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