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Aldo Finzi e il delitto Matteotti

"Totale parziale giugno"

 

   La presente indagine mette sotto i riflettori la figura  di Aldo Finzi, braccio destro di Mussolini fino al delitto Matteotti.

   Nel giugno del 1924, esattamente il 5 di giugno, il sottosegretario agli Interni Aldo Finzi tirava le somme di un "totale parziale giugno" su un quadernetto ove era solito annotare, mese per mese, il denaro con cui finanziava, attraverso i "fondi segreti" del Ministero, persone, enti e giornali fiancheggiatori del partito fascista, assurto da poco al potere. Finzi era indubbiamente molto preciso e pignolo nella sua contabilità, che tra l’altro non teneva su un registro ufficiale al Ministero, ma, molto cautamente, su un quaderno che fu poi scoperto tra le carte del suo archivio privato, fatto proprio in seguito da Renzo De Felice. (1) Perché Aldo Finzi, il 5 di giugno del fatale, per molti, anche per la sua stessa persona, 1924, avvertì l’esigenza di redigere un "totale parziale giugno", proprio nei primissimi giorni del mese? Fino al 5, egli annotò le normali uscite, che erano appunto assolutamente previste e che comparivano regolarmente nella contabilità: Acerbo, Rossi, Chiavolini. Poi il silenzio. Sembra che Finzi , espletata la normale prassi, attendesse qualcosa di particolarmente importante, forse un uso difforme  dei "fondi segreti" di cui era attento amministratore, per uno di quegli improvvisi "ordini del Presidente" che gli facevano spesso indirizzare determinate somme verso canali imprevedibili. (2)

Il 5 di giugno: cinque giorni prima del delitto Matteotti.

L’on. Aldo Finzi avrebbe concluso la sua spettacolosa carriera politica dopo qualche giorno (17 giugno) , dando le dimissioni da sottosegretario agli Interni, un incarico prestigioso, ambito, e che probabilmente molti gli invidiavano. Dopo il 10 giugno, la carriera dell’on. Aldo Finzi si concludeva, convulsamente, in un’atmosfera di sospetti, di menzogne e di ricatti.

   Finzi cadde pesantemente al suolo, lui, aereo aviatore, compagno di D'Annunzio nel volo su Vienna, sull’ "affaire" Matteotti, uno dei delitti politici più controversi e forse anche, almeno apparentemente, fra i peggio congegnati nella storia della criminalità politica. Si disse che Finzi vi era implicato, perché si erano visti scorrazzare per Roma membri dello squadrismo rodigino, e per via degli alterchi con Matteotti alla Camera durante la seduta del 30 maggio. A parte il fatto che altri, Teruzzi e Farinacci, avevano tenuto un linguaggio ben più aspro del suo, era comunque facile tirare le conclusioni, che naturalmente si tirarono. Finzi era in una posizione debole al Ministero: si disse che era immischiato in affari poco puliti, si scrisse che il Ministero da lui guidato era una bolgia, in cui entravano e uscivano le  figure più "illustri" dello squadrismo, Dumini in testa. Il fatto è che era vero, almeno per quanto riguardava Dumini. Finzi si difese a denti stretti; teneva al proprio onore e non voleva che il suo nome fosse minimamente associato al delitto Matteotti. Fu con quest’ottica di difesa a oltranza della propria onorabilità che egli ricattò Mussolini, facendogli balenare l’ipotesi della deflagrante pubblicazione di un suo "memoriale", con cui avrebbe fatto "saltare"   non solo Mussolini, ma tutto il fascismo. "Muoia Sansone, e con lui tutti i filistei": questa fu la rabbiosa reazione di Finzi di fronte a un "capo" che, anziché difenderlo a spada tratta, immemore dei suoi molti meriti, lo gettava a mare, facendolo dimettere in un frangente che implicava un’evidente ammissione di colpevolezza o almeno di sospetta complicità nel delitto Matteotti.   Per questo dava al Duce, perentoriamente, solo 48 ore per scagionarlo.(3) A parte che difficilmente si vede "come" Mussolini avrebbe mai potuto scagionarlo dal delitto se non ammettendo di sapere molte più cose di quanto fosse disposto ad ammettere su di esso, Finzi, nel corso delle successive indagini di polizia e degli interrogatori cui fu sottoposto, disse alcune verità e contemporaneamente qualche non lieve menzogna riguardo al delitto Matteotti. Disse una verità quando, premuto dagli eventi, ammise  di conoscere da tempo i sentimenti ostili di Mussolini nei confronti di Matteotti.(4) Sapeva che si sarebbe giunti a una resa dei conti, avendone intravisto a suo tempo precisi segnali. Disse una menzogna riguardo a Dumini, di cui invece conosceva l’effettiva attività al Ministero. Finzi redasse il "totale parziale" del mese di giugno perché certamente sapeva che parte dei "fondi segreti", e forse una parte consistente, sarebbe servita al pagamento di parecchia gente, che avrebbe a breve scadenza dovuto fare un qualcosa di molto importante. E una prima avvisaglia il sottosegretario dovette presagirla già alla fine di maggio, quando in due tranche ravvicinate egli elargì con i fondi segreti oltre 100.000 lire agli arditi attraverso la persona di Zaccherini.(5)  Finzi era dunque consapevole che a breve qualcosa sarebbe accaduto a Matteotti. Nella deposizione dei primi di giugno egli asserì che "una decina di giorni prima", ossia verso il 30 di maggio, aveva sentito Mussolini inveire contro Matteotti.(6) Sapeva del medesimo comportamento violento di Rossi, sapeva di Marinelli, sapeva probabilmente anche "chi" avrebbe dato una dura lezione a Matteotti. Quello che con certezza assoluta sapeva era che Matteotti sarebbe stato ammazzato, nonostante a marzo si fosse fatto "garante" agli occhi dei Polesani del rispetto delle garanzie costituzionali, dato che tutta la sua politica era nutrita di "sentimento costituzionale" ed era volta a "garantire la vita pacifica e civile" degli italiani. (7) Ed è immaginabile anche con la politica di Mussolini, impegnato, "fino a quel momento" a dar man forte ai "revisionisti" contro lo squadrismo.  In effetti, il delitto in sé sarebbe  andato a contrastare con il momento che il fascismo stava vivendo, e il modo con cui fu condotto potrebbe far pensare non tanto a un delitto premeditato, quanto a una tragica serie di eventi casuali e del tutto imprevisti. Ma su questo torneremo più avanti.  Salvemini, nella ricostruzione dei fatti, affermò che lo scopo di Dumini e dei suoi complici era quello di "uccidere" Matteotti e quindi di "abbandonarne" il corpo nella campagna romana. I sicari, nella ricostruzione datane da Salvemini, furono costretti a seppellirlo malamente in una fossa improvvisata, scavata con arnesi di fortuna, perché la macchina era tutta sporca di sangue, e volevano ritardarne il ritrovamento per avere il tempo necessario di pulire per bene l’auto, in modo da non lasciare tracce.(8)  Mussolini disse, con il sostegno di tutti gli "innocentisti", che solo un suo acerrimo nemico avrebbe potuto premeditare e mettere in atto un simile delitto, in quel particolare momento politico, dopo gli scontri violentissimi alla Camera del 30 maggio, dopo l’ulteriore battibecco, sempre alla Camera, con lo stesso Matteotti per via dell’amnistia ai disertori il 4 di giugno e dopo, infine, gli altrettanto duri e minacciosi accenni agli oppositori politici nell’assemblea stessa del 6 giugno. (9) Solo un suo mortale nemico avrebbe potuto pensare a un omicidio; un fiero nemico, ma anche,  come vedremo, una terribile e implacabile "necessità".

 

"Clandestinamente ma definitivamente".

 

 

 

    Vagliando le testimonianze dell'epoca,  particolarmente interessante fu  quella resa da Carlo Silvestri. Quando Finzi volle far circolare il suo memoriale, si rivolse a Schiff Giorgini, perché lo mettesse in contatto con Amendola. Questi ritenne opportuno farsi rappresentare da un intermediario, e scelse Silvestri.  Silvestri dunque si recò a casa di Finzi, e fu uno dei primi a sentire quanto questi aveva da dire. Dal resoconto di Silvestri, Finzi si espresse in questi termini: "...Il Finzi, continuando nelle sue dichiarazioni, mi disse che durante la discussione sull'indirizzo di risposta del discorso della Corona, Mussolini aveva ordinato ai capi della Ceka di far scomparire clandestinamente ma definitivamente i capi più in vista dell'opposizione, cominciando dall'on. Matteotti". (Corsivo mio)  (10)

   Le parole di Silvestri sono chiare: Mussolini aveva l'intenzione di far sparire "clandestinamente", ossia, di nascosto e senza far troppo chiasso gli avversari politici, e in modo "definitivo". Quindi, se ne arguisce che Finzi sapeva le reali intenzioni di Mussolini, anche se, sempre a sua detta,  non le condivideva. La sua sembrerebbe una complicità, per così dire, "indiretta", nel senso che, pur sapendo,  tacque, cercando, come vedremo, di costruirsi un alibi inattaccabile proprio per i giorni del delitto, intorno al 10 di giugno, come del resto fecero un po' tutti, da Rossi a  Marinelli. (11) Ma soffermiamoci ancora sui termini "clandestinamente" e "definitivamente". Intanto, a monte, occorre osservare che, guarda caso, il 4 giugno la questura di Roma, che aveva sempre negato il passaporto a Matteotti, lo concesse inaspettatamente; il visto era per l'Austria, dove si svolgeva in quel torno di tempo un congresso socialista.(12) Infatti, le prime "ricerche", dopo la scomparsa di Matteotti, vennero eseguite in quella direzione, con De Bono che chiedeva insistentemente alla frontiera "se, per caso", qualcuno avesse visto uscire Matteotti dai nostri confini. E' ovvio, dall'atteggiamento di De Bono, il tentativo di far passare presso l'opinione pubblica l'ipotesi che Matteotti fosse scomparso nel nulla, fuori d'Italia, allontanando così i sospetti di eventuali coinvolgimenti o responsabilità  di parte fascista.(13) Il piano, così come fu congegnato, avvalora ancor di più la testimonianza che Finzi rese a Silvestri riguardo alla "tecnica" voluta da Mussolini, ossia far sparire gli avversari "clandestinamente ma definitivamente". Renzo De Felice lanciò qualche ombra sulle testimonianze di Finzi, (14)     per cui resta  aperta la questione fondamentale: Mussolini dette davvero un ordine in questo senso?

   "C'è da dubitarne", griderebbero in molti, e infatti, ci erudisce Canali, la tesi "innocentista" trova grata accoglienza in un esercito di fedeli.(15) Mussolini, si dice, era troppo astuto per non sapere che persino le persone a lui più vicine potevano un giorno rivelarsi un pericoloso boomerang. Mussolini era il capo, ma egli  dava ordini se non in determinate circostanze non particolarmente compromettenti; in casi più seri il Duce dava semplicemente dei "suggerimenti", che tra l'altro erano per così dire "filtrati" dall'eminenza grigia di Mussolini, Cesare Rossi e dall' "uomo ombra", Giovanni Marinelli, sempre presente ma abilissimo nel defilarsi. Il Capo conosceva i suoi uomini, sapeva che Rossi e Marinelli erano persone molto  intelligenti, in grado di captare i suoi umori e quindi di concretizzarli nell'azione. Quando egli abbandonò Rossi al suo destino, questi si vendicò nel suo "Memoriale", accusandolo direttamente di tutte le violenze attuate dal fascismo contro uomini e cose avversi, mentre "l'uomo ombra" rimase opportunamente silenzioso. Non potendo contare su Marinelli, ascoltiamo Rossi, che al contrario era molto ciarliero. Rossi nei suoi memoriali parla sempre di "ordini" di Mussolini, ma in realtà le cose stanno diversamente, si sostiene dagli "innocentisti", da quanto egli vuol far credere.

    Mussolini, in effetti,  quando dava i supposti "ordini", aveva  atteggiamenti molto astuti, sia sotto il profilo comportamentale sia verbale, ossia nell'uso dei verbi, che egli coniugava spesso impersonalmente, alla terza persona singolare: "occorre", "bisogna", "è opportuno"; in pratica, egli non è mai perentorio e imperativo: "voglio!", "ordino!". Ciò avviene solo un paio di volte. Analizziamo il "Memoriale" che Rossi scrisse per Salvemini nel 1925. (16) Quando, per esempio, si trattò di decidere cosa fare degli avversari interni, se farli scappare oppure trattenerli in patria, mentre Rossi sosteneva "la tesi della concessione", il Presidente decise che " era più opportuno tenere detti signori sotto il controllo e l'imperio del nostro manganello". (17) Così, quando De Bono uscì con la sparata di "affogare il capitano Giulietti", Mussolini, consapevole che un suo assenso pubblico gli avrebbe sicuramente nuociuto, "lasciò cadere la proposta". (18) Così, allorché, secondo Rossi, Mussolini "ordinò" di bastonare Misuri, egli in realtà fece solo notare che " occorreva punirlo immediatamente e inesorabilmente". Poi, quando De Bono lo informò che Misuri intendeva pronunciare un altro discorso, Mussolini reagì con un " Ma questa volta bisogna ammazzarlo". (19) " Occorreva" e "bisogna", intanto, non si rivolgono a qualche interlocutore in particolare, e poi è evidente che il duce spera in un "interprete" dei suoi  suggerimenti, come quella volta che, dopo aver fatto l'incazzato per l'aggressione di Amendola, disse, però per telefono, strumento privato per eccellenza, che sarebbe andato a colazione "con maggior appetito". Il Capo era contento dei suoi uomini, però in un primo tempo non aveva scordato di far l'incazzato, il che significa implicitamente che l'ordine non l'aveva dato lui: il che contraddice Rossi, il quale afferma, un po' prima, che, secondo De Bono, era stato " il principale che [l'aveva] voluto".(20) Mussolini si sbilanciava un po' quando i suoi "ordini" riguardavano più le cose  che gli uomini, ai quali, tutt'al più, minacciava fucilazioni, pugnalate o spezzamenti di schiena. Ma si trattava di minacce, non di ordini. " Sono stato io, soltanto io, che ho dato l'ordine di sfasciare senza misericordia tutte le sedi del P.P. della provincia di Milano".(21) E ancora, racconta Rossi, "Il presidente del Consiglio iniziava la sua missione [con]...una notizia e un ordine. La notizia di avere ricevuto... l'incarico di comporre il nuovo ministero; l'ordine di procedere in giornata alla "scientifica" distruzione dell'edificio dell'Avanti...".(22) Quanto all'atteggiamento da tenersi nei riguardi dei "traditori", Mussolini non "ordinava" personalmente di bastonarli e di purgarli, ma osservava che " i fascisti avevano il dovere di trattare da traditori i traditori".(23) Si noti che il soggetto della proposizione è "i fascisti", non "Mussolini" o "io". Spesso Mussolini usava il telefono, strumento  "anonimo" e facilmente smentibile. "L'on. Mussolini mi dette telefonicamente l'ordine di far sabotare...".(24) Altro caso: Mussolini dava l'ordine direttamente a Rossi, ma non, ovviamente contro uomini in particolare: "... Mi dette l'ordine di organizzare una dimostrazione contro i deputati dell'opposizione".(25) Spessissimo Mussolini, più che ordini esprimeva un malcontento più o meno rabbioso, che Rossi interpretava  come un "ordine implicito", e a cui cercava in tutti i modi di ottemperare. Quindi, il Presidente gli esprime la sua "irritazione", il suo "nervosismo", sentimenti di fronte ai quali Rossi è come un bambino impaurito. Il Capo era irritatissimo contro Forni, "era fuori della grazia di Dio... Investì anche me... Impressionato dai richiami, l'assicurai che mi sarei messo d'accordo... che avrei mandato qualcuno".(26) Rossi è quindi un "interprete"  di Mussolini, di cui teme le sfuriate; per cui quando il Presidente lo abbandona, egli si sente  tradito, proclama a gran voce che Mussolini gli ha sempre dato ordini: è sorpreso, sconcertato e ferito e gli  si scaglia contro  accusandolo di tutto: " Io sorpreso, commosso e sdegnato per quanto mi capitava, feci pervenire all'on. Mussolini un biglietto in cui ricordavo, grosso modo, le sue responsabilità in materia di illegalismo e di istigazione, la mia assoluta innocenza...".(27) Il travisamento è evidentissimo nell'ultima espressione: Rossi non si ritiene neppure complice, è, addirittura, innocente! Quando Del Giudice gli chiede di chiarire riguardo a Matteotti, Rossi dichiara di non saper nulla in proposito. Possibile che uno, intrigato in tutto, non sappia niente intorno alla questione più importante e per la quale era stato tratto in arresto? Del Giudice non ci crede, così come non ci crede alcuno. (28) Rossi non parlava non tanto perché non sapesse, anzi, sapeva tutto perché, ancora una volta, era stato lui, insieme con Marinelli, a mettere in moto tutta la complessa macchina del delitto.  Rossi in effetti non poteva accusare Mussolini di aver dato l'ordine perché esso, come al solito nei momenti cruciali, non venne impartito in modo esplicito, ma con quella semiotica  verbale e comportamentale che  caratterizzava il Capo.   Di fatto Rossi non aggiunse mai nulla a quanto aveva detto nei suoi memoriali, nemmeno in quello preparato appositamente a Parigi per Salvemini, il quale, dopo averlo letto attentamente, concluse: "Posso senz'altro dire che quel memoriale non mi convinse che Rossi fosse stato estraneo al delitto Matteotti".(29) Mussolini sapeva che Rossi non gli avrebbe mai dato grattacapi più di tanto; mentre era molto preoccupato per il memoriale di Filippelli, che lo chiamava direttamente in causa. La cosa dovette angosciare le notti del Duce per molti anni, e la prova è data da un vero e proprio "lapsus freudiano" capitatogli alla fine negli anni '30, teste Galeazzo Ciano e i suoi Diari.  Il 12 febbraio, racconta Ciano, " il Duce accetta di partecipare al funerale del Papa indetto dalla Nunziatura per il 17 prossimo... In alcuni ambienti americani comincia a circolare la voce che il Camerlengo abbia in mano un documento scritto dal Papa. Il Duce vuole che Pignatti appuri la cosa e, se vera, cerchi di aver copia dello scritto, e ciò: ad evitare che venga fuori un secondo memoriale Filippelli!...".(30) In effetti, anche di fronte al Del Giudice Filippelli depose che Dumini gli aveva  confidato che "per incarico avuto da Mussolini...Giovanni Marinelli, il Putato e altri compagni, abbiamo atteso con l'automobile ferma sul Lungotevere Arnaldo da Brescia...Matteotti...".(31) A proposito di tale deposizione si disse poi che Del Giudice, causa la tarda età, avesse frainteso, per cui al posto di Mussolini andrebbe letto "Cesare Rossi". (32) Infatti, è evidente che la testimonianza di Filippelli era sì esiziale per Mussolini, ma a ben guardare, e alla luce di quanto abbiamo detto in precedenza, anche la testimonianza di Dumini e di conseguenza quella di Filippelli dipendono da un'unica fonte, ovvero Cesare Rossi, il quale aveva interpretato l'ira funesta di Mussolini contro Matteotti come un ordine, trasmettendolo come tale a Dumini e questi a Filippelli. Mussolini si preoccupò quindi di sigillare l'unico documento che lo poteva effettivamente mettere  in seria difficoltà,(33) dato che Rossi era "innocuo" e Finzi aveva detto "coram populo" che il suo tanto sbandierato memoriale non era mai esistito.(34) Mussolini quindi era sicuro di sé, sapeva di non essersi mai compromesso con "ordini" espliciti di tal genere, anche se il memoriale di Filippelli costituiva una spina nel fianco, in quanto fonte "di seconda mano", redatta da un uomo che aveva prestato fede alle parole di Dumini, mentore, ovviamente, Cesare Rossi. A poco a poco, anche Finzi si  sarebbe reso conto che non vi fosse stato "ordine" preciso di Mussolini, e nel 1926 confidò questa sua convinzione a Silvestri, proprio l'uomo cui nel '24 mostrò il suo memoriale. Canali non sembra dare credito al ripensamento di Finzi, e ha tutte le ragioni, ritenendolo inattendibile e dovuto a un uomo ormai vinto e che sperava, facendo circolare tali voci, di riconquistarsi un posto al sole. (35) Né Canali sembra dare credito alla testimonianza di Balbo, anch'egli convinto del fatto che Mussolini non diede l'ordine. Dello stesso avviso sarebbe stato anche Poggi. Finzi era giunto a determinate conclusioni "per sua intima convinzione", e in base a una sorta di "apertura" che Mussolini avrebbe voluto effettuare nei confronti dei socialisti; Balbo disse più o meno la stessa cosa, aggiungendo che Mussolini avrebbe potuto sacrificare per lo scopo persino la Milizia Volontaria. Poggi, secondo Canali, sarebbe incorso in una serie di errori di memoria che Silvestri avrebbe accettato senza alcuna verifica seria, in quanto convinto della veridicità del suo "teorema". Canali pedina Silvestri senza lasciargli scampo, dimostrando alla fine che la testimonianza di questi era inconsistente. (36) Che Poggi possa aver compiuto svarioni di memoria è possibile, anzi, dopo la disamina accurata di Canali, la cosa è certa. Canali nota che l'espressione fatidica di Mussolini ("Se vogliono i plotoni di esecuzione, invece della collaborazione, li avranno"), che in pratica confermerebbe le impressioni di Finzi e Balbo circa l'apertura di Mussolini ai socialisti, non c'era in effetti nella lettera di Poggi a Silvestri.(37) Effettivamente, che l'ipotesi di una "apertura" ai socialisti possa essere una forzatura per togliere ogni possibile sospetto da Mussolini è possibile, probabile, oserei dire certo. Tutto ciò è vero. Però, alla nota 5, Canali cita un passaggio di una lettera di Poggi a Silvestri in cui afferma di aver maturato la convinzione " che il vero mandante interessato alla soppressione di Matteotti era il gruppo finanziario-industriale creatore e finanziatore della organizzazione che faceva capo al Corriere italiano... " .(38) Se questa affermazione è vera, e Canali la  cita come tale, occorrerebbe rivalutare almeno questa testimonianza di Poggi, al di là degli svarioni di memoria, semplicemente perché Poggi, anche se non colpì il bersaglio, ci andò vicino. Infatti, dietro il "Corriere Italiano", dall'ottobre  del '23, non c'era più Finzi, ma v'erano alcune vecchie conoscenze, Cesare Rossi, Filippelli e Pippo Naldi, i quali ultimi due, a detta dello stesso Canali, erano i rappresentanti in Italia degli affari della Sinclair.(39)  Ed è probabile che all'idea di suggerire al "Corriere Italiano" l'ipotesi che dietro il delitto Matteotti ci fossero dei "fascisti polesani", idea che in pratica incastrò Finzi ancor di più, ci fosse, non dico il suggerimento, che non è provato, ma certo l' "imprimatur" non certo disinteressato di Marinelli, che lavorava in tandem con Rossi e che con la scomparsa di Finzi si apriva la strada ad un protagonismo senza rivali in Polesine: cosa che puntualmente si verificò.

   

 

L'America e gli Italiani

    

  Oddino Morgari fu uno dei pochi, all'epoca, che vide nel delitto Matteotti una matrice "finanziaria". E vide bene. La questione dei prestiti esteri non fu una, ma "la" problematica fondante della politica economica del governo Mussolini degli inizi. (40)

   Nel giro di 10 giorni Matteotti aveva attaccato violentemente il governo: due volte alla camera, col discorso del 31 maggio e con quello del 5 di giugno sui disertori, e due volte su prestigiose riviste inglesi. Se gli attacchi "in casa" già di per sé furono mal digeriti da Mussolini, che già aveva messo in allerta Dumini per una stretta sorveglianza su Matteotti in modo da cogliere il momento propizio per farlo sparire "clandestinamente ma definitivamente", quello che non gli  poteva probabilmente perdonare era di averlo messo in crisi sulla stampa estera, che egli faceva attentamente curare dal suo sottosegretario. La cosa infatti dovette dare un fastidio enorme a Mussolini e anche allo stesso Finzi, il quale, sin dal '22, stanziava cifre  continue a Menegazzo, Parisi ecc. per contatti con la stampa estera, specie americana, in un contesto poi tanto più pregiudizievole per gli immediati interessi del governo, che si stava ponendo nell'ottica di chiedere consistenti prestiti.(41)  In effetti la politica economica del governo di Mussolini si stava orientando verso la richiesta massiccia di prestiti all'estero, anche con l'avvallo, sia pur cauto e fatto di ampie discussioni, degli stessi economisti, non ultimo Einaudi.(42) Insomma, il problema non era poi così semplice, e le puntuali e attentissime contro deduzioni di Matteotti sul bilancio dello Stato,  andavano a colpire, scientemente e chirurgicamente, il punto più delicato e sensibile su cui si fondava la stabilità del governo. Mussolini era consapevole che la questione dei prestiti americani, connessa a quella della stabilizzazione della lira, costituiva le basi del consolidamento del fascismo; senza questi due fattori tutto sarebbe crollato.(43)  La morte di Matteotti e il senso dei suoi attacchi alla politica economica di Mussolini devono essere valutati in tutta la loro estrema complessità,  resa ancora più intricata dal fatto che tale evento, a una analisi del contesto politico ed economico dei primi anni '20, difficilmente può essere inscritto dentro gli angusti confini nazionali, perché tangenzialmente andò a toccare uno dei punti più nevralgici della politica estera italiana, ossia i rapporti finanziari con gli Stati Uniti. Osserva Canali che in Italia gli studi sui rapporti tra fascismo e Stati Uniti sono sostanzialmente fermi a quelli di Migone, che partì dal prestito Morgan.(44) Sarebbe invece interessante approfondire cosa era successo prima, e sarebbe interessante sapere, insiste Canali, cosa si dissero " Mussolini e l'ambasciatore americano Child alla vigilia della marcia su Roma...".(45) Studi in questo senso sarebbero davvero i benvenuti. Ma, tutto sommato, quello che successe dopo spiega ampiamente ciò che accadde prima, e quello che probabilmente poté dire Child a Mussolini: ossia che gli Stati Uniti sarebbero stati ben lieti di attivare investimenti e prestiti considerevoli in Italia, ma in una condizione ben diversa da quella che vedeva Child nel 1922, con un'Italia sull'orlo della guerra civile, se il sovrano non avesse deciso altrimenti con l'incarico a Mussolini, che inopinatamente per tutti, nessuno escluso, si sarebbe rivelato un incarico a vita. Forse non abbiamo documenti certi, ma abbiamo di fronte l'analogia dei comportamenti. Quando l'ancor giovane imperialismo americano s'insediò nel Messico, non disdegnò rapporti con governi autoritari, purché fossero stabili e garantissero gli investimenti americani.(46) Non è quindi poi così difficile ipotizzare cosa volesse Child da Mussolini: un governo forte e stabile, comunque ben diverso dai governi liberali che avevano pericolosamente traballato sotto gli spintoni delle sinistre.  Abbiamo studi molto circostanziati sulla politica economica del governo Mussolini nei primi anni Venti, (47) ricchi di contributi di eccezionale spessore, dove si vede un Mussolini circondato da una folla di economisti, più o meno "indipendenti",  ma certamente in alcuni casi molto influenti sul Duce, a partire da De Stefani, il quale si augurava "il credito a valanghe"; (48) o un Einaudi, forse più cauto, ma non meno convinto dell'importanza per la nostra economia dei prestiti, soprattutto americani;(49) o ancora di uno Zuccoli.(50) Mussolini aveva rapporti a volte difficili con i suoi economisti, come con Rosboch, ad esempio,(51)  ma li ascoltava e li leggeva, specie quando il discorso, dai prestiti esteri si spostava a quello, collegato, della rivalutazione della lira, da cui dipendeva, a suo parere la stessa esistenza in vita del regime.   Appuntando  però un po' troppo la lente d'ingrandimento sulla figura di Mussolini, sulla faccenda poco chiara  della Sinclair, sulla corruzione in cui vennero coinvolti proprio su questo terreno uomini come Corbino, legato agli industriali "elettrici" in terra americana,(52)  si perde di vista il contesto dell'economia italiana di quegli anni, che, con il concorso e il dibattito fra gli economisti, portava avanti un progetto per il risanamento finanziario dell'Italia appena uscita dalla guerra. La politica economica che fu innescata  non fu cioè soltanto la risultante di mene sotterranee più o meno losche, ma il frutto di un ampio dibattito interno, che vide coinvolti economisti anche sganciati rispetto al regime, come Griziotti, tanto per fare un nome, che discutevano della necessità dei prestiti con argomentazioni tecniche che non possono essere qualificate come perfide e  succubi di un chissà qual disegno perverso. Griziotti, per esempio, era per una "politica di rivalutazione della lira... accompagnata da prestiti con l'estero e da una riforma tributaria...".(53) E poi, proprio a causa di certi "salvataggi" bancari, come quello ad esempio del Banco di Roma, si esagerò con la quantità di circolante, per cui "la circolazione di biglietti... era passata da 1.320 milioni dell'ottobre 1922 a 4.055 milioni dell'ottobre 1924".(54)  Di qui la necessità di iniettare nell'asfittico mercato italiano denaro fresco, in dollari, naturalmente, come del resto auspicavano anche uomini non tocchi di sospetto fascismo, come Luigi Sturzo, per esempio.(55) Che poi, dietro la spasmodica ricerca dei finanziamenti americani, vi potessero essere scenari poco chiari; che dietro vi potessero essere i tentativi di corruzione della più potente multinazionale americana, la Standard Oil, l'unica che, secondo Aquarone, avesse interessi mondiali;(56) che poi, attraverso la sua propaggine , la Sinclair, vi potessero essere pressioni per  facilitare  l'affermazione in Italia del monopolio statunitense contro la Ducth inglese, ai più alti vertici, fino ad arrivare allo  stesso Mussolini e al  fratello Arnaldo è  certo, dopo gli studi di Canali.(57)  Matteotti, inserendosi come un cuneo dentro il cuore dell'attività economica del regime, lo ferì a sangue, attirandosi addosso un odio implacabile da parte del Duce, il quale vide negli attacchi  del deputato socialista un elemento assolutamente distruttivo non solo del suo governo e della sua personale credibilità in campo internazionale, ma addirittura degli interessi dell'Italia "tout court": di qui le reiterate accuse a Matteotti, da parte della stampa fascista, e la necessità di interdire "gli eccessi dei giornali", per impedire, e il riferimento a Matteotti è palese, "la leggerezza con la quale si discutevano i nostri massimi problemi di politica generale [ingenerando] nei paesi esteri diffidenza e disistima ingiustificata...". (58)  L'articolo, sicuramente di mano di Arnaldo, tratta in modo asettico dell'assassinio di Matteotti ("Non riandiamo, per non rinverdire polemiche, agli eccessi dei giornali dopo il delitto Matteotti"), per insistere soprattutto sulla leggerezza con cui vengono trattati i problemi economici nazionali.  Erano questi, infatti, momenti febbrili per il governo: De Stefani stava puntando al "risanamento  del bilancio pubblico", "e gli incrementi delle entrate dovevano servire, secondo le indicazioni emerse dai discorsi del ministro delle Finanze... alla Camera il 4 aprile e il 2 giugno 1924, al fine di riacquistare la stabilità della moneta". Altri obiettivi: "consolidamento della riconversione dell'apparato produttivo", "aumento della produttività", "crescita delle esportazioni". In vista di tali obiettivi, "vennero combattute alcune forme di imposizione quali la nominatività dei titoli, l'imposta di successione nell'ambito del nucleo familiare, le gravi imposte straordinarie belliche: sul patrimonio, sui sovraprofitti, addizionali e altri contributi eccezionali, in un'opera tendente a favorire il risparmio e l'accumulazione del capitale. Tali propositi furono evidenziati più volte da De Stefani... [nell']ottobre del 1922e nei discorsi al Senato dell'8 dicembre 1923 e del 27 giugno 1924... Secondo il principio ribadito più volte e approvato anche dal Consiglio dei Ministri dell'8 ottobre 1922, si cercò di favorire l'afflusso di capitali stranieri verso l'industria privata, esentando dall'imposta gli interessi delle obbligazioni collocate all'estero...". (59)  Stabilità della lira, quiete sociale con la definitiva sconfitta del bolscevismo costituivano le condizioni "sine qua non" della fiducia degli investitori stranieri e americani in particolare. Infatti, già dai primissimi anni '20 la necessità di reperire prestiti sul ricco mercato americano aveva spinto esponenti autorevoli della Sme,  interessati all'elettrificazione italiana, a insediarsi "in loco", ossia negli Stati Uniti, per tastare un po' il terreno. Prima Maurizio Capuano e poi suo cognato Ferrari dall'America si studiavano di trovare i mezzi per convincere gli americani a effettuare prestiti ritenuti essenziali per un rapido avanzamento dell'industria elettrica in Italia.(60)  In una lettera dell'aprile del 1923,   Capuano  scriveva a Ferrari parole illuminanti a farci intendere l'ansia estrema che dominava la temperie del momento:"... Nella situazione attuale dei nostri affari ci vuole una fiducia cieca nelle persone e nelle cose che esponiamo per indurre quei banchieri a venirci incontro con centinaia di milioni...".(61)  E' evidente che quando Capuano poneva come elemento preliminare imprescindibile  per gli investimenti americani una loro "fiducia cieca nelle persone e nelle cose" italiane, si riferiva "in primis" al prestigio personale di Mussolini in campo internazionale, e "in secondis" al fatto che il fascismo riuscisse a imbrigliare definitivamente il "bolscevismo" italiano. Questo secondo aspetto non era secondario, proprio perché negli Stati Uniti, all'inizio degli anni '20 si era scatenata senza esclusione di colpi una vera e propria caccia al bolscevico, con retate, "internamenti" ed espulsioni di quanti erano accusati o solo sospettati di essere dei "rossi". Questa pagina di storia dell'America anni '20 è  poco nota, ma si potrebbero rilevare indubbie analogie con quanto stava succedendo in Italia, con l'unica differenza che mentre da noi agiva lo squadrismo, oltreoceano ci pensavano la polizia e i servizi antiterrorismo, con retate di "radicali" e "anarchici" che fecero epoca, e che trovarono larga risonanza sulla stampa. La crociata antibolscevica del senatore Palmer infiammò gli animi degli americani tra il 1919 e il 1920. Palmer diventò agli occhi dell'opinione pubblica un vero salvatore della patria, e in tal modo crebbero le sue possibilità di tentare la scalata alla Casa Bianca, in un momento in cui Wilson, malato e ormai stremato, non era più in grado di assolvere interamente al proprio ufficio. (62) Quale fiducia dunque potevano nutrire gli investitori americani verso un Mussolini che nel giro di una decina di giorni si era fatto seccamente smentire due volte in patria e due volte su riviste inglesi e proprio su una materia delicata come quella economica da uno dei capi carismatici del "bolscevismo" rivoluzionario italiano, ossia l'On. Giacomo Matteotti? Mussolini dimostrava all'opinione pubblica americana di non  riuscire a controllare l'attività dell'inviso e odiato bolscevismo. L'Italia, sin dai primi anni Venti, poté usufruire di prestiti sul mercato americano, però, e qui stava il grande problema, si trattava di prestiti a breve termine (short-term loans), di cui beneficiavano le banche commerciali. Ciò però di cui il mercato italiano aveva un disperato bisogno erano i prestiti a lungo termine (long-terms loans), ma qui le cose si complicavano terribilmente, sia perché gli americani subordinavano tali prestiti all'estinzione dei debiti di guerra sia perché essi puntavano solo su quei paesi che fossero in grado di assicurare una stabilità politica interna a prova di bomba. La finanza americana, quindi, sembra propensa a venire incontro all'Italia, ma per tutto il 1923-'24 i rappresentanti della Casa Morgan nicchiano, concedono qualcosina, ma Morgan asserisce di "aspettare momenti più opportuni" per i prestiti a lungo termine; per il momento l'Italia deve accontentarsi di prestiti a breve, oppure di linee di credito (credit-line), ma nulla di più. Infatti, fu soltanto un anno dopo il delitto Matteotti e il controllo assoluto del paese che si assistette all' "apertura di un credito di 50 milioni di dollari, concesso nel giugno del 1925 dalla Casa Morgan al Consorzio degli istituti italiani di emissione...". (63) Tale prestito fu salutato con deciso favore sia da Einaudi sia da De Stefani, per il quale il prestito "avrebbe attenuato le difficoltà in cui si dibatteva l'economia italiana il cui ritmo di crescita richiedeva il concorso di disponibilità finanziarie che il risparmio nazionale mostrava chiaramente di non essere in grado di offrire". (64) Tra l'altro la politica estera italiana di questi anni è tremendamente complicata anche dalla questione dell'occupazione della Ruhr. In questa vicenda la possibilità di mettersi in rotta di collisione con gli americani e con gli inglesi c'è, e costituisce un pericolo costante per il problema dei prestiti dagli Stati Uniti. Gli Stati Uniti si sa cosa vogliono per concedere prestiti: stabilità interna e politica estera chiara. Mussolini non poteva assicurare né l'una e né l'altra. Aveva dato il suo appoggio alla Francia per l'occupazione militare della Ruhr, e la cosa era invisa agli americani che non volevano uno strozzamento della Germania, e agli inglesi, che vedevano penalizzato il loro commercio internazionale dalla situazione di guerra creatasi nuovamente in Europa. Mussolini si muove in questo contesto estremamente pericoloso anche e soprattutto per la credibilità e la stabilità del governo in modo ambiguo e contraddittorio, scontentando alla fine un po' tutti, passando da un primo appoggio alla Francia a una successiva repulsa di esso e in un avvicinamento all'Inghilterra. Una politica estera defatigante, sempre sul filo del rasoio, mentre l'estero condiziona sempre più la stabilità politica del governo. (65) Così, mentre Mussolini è sottoposto, tra il '23 e il '24 a una tensione spasmodica in politica estera, all'interno Matteotti lo martella incessantemente proprio su quei temi finanziari che tanto stavano a cuore al regime. Gli attacchi vengono condotti, con scelta e tempismo inarrivabili, in sede internazionale, laddove cioè il terreno era più franoso per Mussolini, sullo "Statist", sull' " English Life": Matteotti aveva scelto il terreno di combattimento con un fiuto politico di prim'ordine, avendo compreso che era quello il luogo ove mettere in crisi il fascismo. Nel gennaio del 1924, Mussolini aveva dichiarato, molto improvvidamente, di fronte all'Istituto americano per i finanziamenti all'Italia, sorto in quel torno di tempo, che per i " foreign capitalist the doors are henceforth open. They naw have assurance of social calm in Italy and enjoi taxation privileges". (66) Così, mentre Mussolini si esponeva personalmente, mettendo in gioco il suo nome, si sottolinea questo elemento, perché la cosa per noi ha anche una rilevanza interpretativa; il suo nome e quello della famiglia, assicurando i capitalisti americani che "le porte erano aperte" per loro e che la "calma sociale" regnava in Italia, Matteotti, proprio da gennaio, dava il via al suo attacco, smentendo il Presidente del Consiglio su tutti i fronti. L'ipotesi di Renzo De Felice che la rabbia di Mussolini fosse nata solo dal 30 maggio, dopo il discorso di Matteotti teso a invalidare le elezioni non regge, così come non regge quella sostanzialmente assolutoria dello stesso De Felice, il quale, partendo appunto dall'idea che l'ira del Presidente fosse nata dopo il famoso discorso alla Camera, avesse avuto tutto sommato il tempo di sbollire fino al 10 di giugno, data dell'assassinio di Matteotti. 67) Il quale, invece, lavorò ai fianchi il regime per tutto il primo semestre del '24. Proprio nel gennaio del 1924 Matteotti attaccava De Stefani sul tanto decantato "riordinamento finanziario":

   " L'On. De Stefani ha allegramente telegrafato ai veneti di avere, in 13 mesi, risanato le finanze dello Stato. Noi gli poniamo due sole domande: ' E' vero o non è vero che se il 1922-'23 fosse caricato di quei 12 miliardi di spese straordinarie di guerra e di approvvigionamenti, che sono stati caricati sul 1921-'22, anche il 1922-'23, cioè il primo anno fascista, avrebbe avuto un disavanzo superiore ai 15 miliardi, come gli anni precedenti? Ed, in particolare, è vero o non è vero, che, se il carbone fosse costato nel 1922-'23 tante lire per tonnellata, quante ne costava nel 1921-'22, anche il 1922-'23, cioè il primo anno fascista, sarebbe stato più alto di tutti gli anni dopo la guerra?". 68)

    E nel febbraio-marzo del 1924, con alcuni articoli pubblicati sulla "Giustizia" di Milano, a proposito del mancato gettito fiscale dovuto alla riduzione d'imposta sulla tassa di successione, Matteotti osservava:

   " Fascisticamente, dice il ministro De Stefani. Cervelloticamente, diciamo noi, perché, al contrario, il programma fascista del 1920, stampato e firmato da Mussolini, Pasella e compagni, proponeva a grandi caratteri, ' una tassazione gravosa delle eredità', cioè ancor più gravosa di quella allora in vigore". 69)

    Nell'aprile del 1924, ecco il famoso attacco sullo "Statist": un articolo lunghissimo, e molto circostanziato, irto di cifre, che fu accolto in Italia con ira malcelata da gran parte della stampa:

   " Si afferma che il deficit del bilancio nell'anno finanziario 1921-'22 ammontò a circa 7000 milioni di lire italiane, mentre il deficit nel primo anno del governo fascista (1922-'23) sarebbe soltanto di 3000 milioni. In realtà il deficit dell'anno 1921-'22 fu di 15760 milioni, ma oltre 12500 si riferivano a spese straordinarie di guerra ed all'acquisto di approvvigionamenti ( cap. 64/71 per l'esercito, 95/96 per la marina, 164/240 per il tesoro), il cui pagamento e la cui registrazione erano state ritardate fino al 1922. Escluse queste spese, il deficit reale per l'anno 1921-'22 deve essere calcolato a non più di 3255 milioni. Fra questo deficit e quello dell'anno fascista ( in cui le spese di guerra erano tutte cessate ) vi è una differenza di soli 214 milioni: vale a dire un piccolissimo miglioramento. E' vero che le previsioni per il 1922-'23 erano per un deficit di 4000 milioni: ma il miglioramento di 3000 milioni fu il risultato del semplice fatto della dogana, che era stata erroneamente stimata a 250, invece che a 1208 milioni: ammontare che risultò effettivamente essere il giusto. Si trattò semplicemente di un errore e non di un miglioramento, perché nell'anno 1921-'22 le stesse entrate doganali furono di 1059 milioni contro un preventivo, ugualmente erroneo, di 151 milioni. E' perfettamente vero che ' tutti gli indici usuali sulle condizioni del paese mostrano un progresso costante in Italia', ma questo non ha assolutamente nulla a che vedere col fascismo, perché è il risultato di uno sviluppo che ha preso inizio diversi anni prima del regime fascista. Quando si dice, per esempio, che il governo di Mussolini ha diminuito le spese, si dice cosa non vera. La spesa per l'anno 1921-'22 fu di 28851 milioni, contro una spesa di 21000 milioni, e 20000 milioni negli anni 1922-'23 e 1923-'24: ma il primo di questi tre anni includeva - come abbiamo visto - delle spese eccezionali di guerra. Di è ridotto il numero dei ministeri, non le spese. Il numero degli impiegati militari e civili è stato ridotto da 115000 a 110000 (esclusi gli impiegati ferroviari): vale a dire di una proporzione quasi uguale a quella dell'ultimo anno del 'vecchio regime'. Le spese, peraltro, sono aumentate di altri 100 milioni; e nei dicasteri del signor Mussolini (esteri e interni) il numero degli impiegati è cresciuto di un migliaio. Soltanto nella amministrazione delle ferrovie si è avuta una grande riduzione degli impiegati, assunti in servizio durante e dopo la guerra, ma l'obiettivo principale di questa riduzione fu di liberarsi di impiegati non fascisti. Anzi, nel primo anno dell'amministrazione fascista, oltre 16000 impiegati ferroviari furono assunti in servizio permanente al posto di avventizi mandati via col pretesto della 'economia'. Il deficit nel bilancio ferroviario è stato effettivamente ridotto da 1258 milioni (nell'anno 1921-'22) a 906 milioni (1922-'23); ma è necessario aggiungere che se il costo del carbone fosse stato così alto come era durante il governo del signor Giolitti, il deficit ferroviario dei fascisti sarebbe stato alla cifra più alta che si sia mai raggiunta: vale a dire a più di 1400 milioni. La sola grande 'riforma' finanziaria del governo fascista è stata la soppressione della imposta di successione: e noi consideriamo essa sia stata un grave errore. ... In conclusione possiamo dire  che le condizioni finanziarie dell'Italia migliorano continuamente, ma non in conseguenza di alcuna riduzione di spesa effettuata dal governo fascista. Il miglioramento è il risultato delle misure fiscali prese dai precedenti governi, misure che accrebbero le entrate derivanti dalle imposte da 2050 milioni del 1923-'15 a 7400 nel 1919-'20 e a 12700 milioni nel 1021-'22. Questa cifra non è stata superata nel primo anno dell'era fascista 1922-'23. E' certo, tuttavia, che il peso di queste imposte ( le quali potranno dare all'Italia un bilancio senza deficit in pochi anni) è veramente molto grave... Le imposte sui consumi popolari formano quasi il 60 per cento delle entrate dello Stato, e le imposte indirette ammontano al 68 per cento delle entrate complessive. Il costo della vita cresce, mentre i salari sono diminuiti di circa il 15 e il 20 per cento. Tre quarti dell'Italia sono ancora poveri; hanno bisogno di lavoro per dare impiego alla crescente popolazione. Opprimendo il popolo, il fascismo può far credere agli osservatori stranieri che vi sia uno stato di quiete e di pace, ma esso non ha risolto nessuno dei problemi vitali della nostra vita economica e sociale. Il presente ritorno a uno stato di violenze e di inquietudine, eredità delle passate dominazioni straniere, impedirà certamente il sano sviluppo che le energie della nazione avrebbero altrimenti potuto conseguire". 70)

   Si noterà, dopo l'ampia disamina di carattere economico, che Matteotti si rivolge "agli osservatori stranieri", perché non credano all'apparente "stato di quiete", che è solo il frutto di uno "stato di violenze e di inquietudine", paragonabile a quello instaurato nel passato dalle "dominazioni straniere". Era la più recisa negazione delle parole con cui Mussolini si era rivolto ai capitalisti americani sin dal gennaio 1924, facendo loro balenare di fronte agli occhi un paese ove regnava "la calma sociale".

  "Il popolo d'Italia", con riferimento a "Il Corriere Italiano" di Rossi, che aveva ripreso a caldo l'articolo sullo "Statist" del 7 giugno e sfrondato tutto ciò che era possibile sfrondare, ossia quasi tutto, fece leggere al pubblico italiano solo l'ultima parte del pezzo, sapientemente corredata di ironici commenti. Questo articolo fu fatto recapitare alla redazione del "Corriere Italiano" tra il 6 e 7 di giugno, ossia nei giorni stessi della pubblicazione sullo "Statist". 71)  E  a portarlo al "Corriere" era stato un uomo, Giuseppe Rosati, sul libro paga di Finzi sin dal 1922, quando egli si era insediato al Ministero come sottosegretario. 72) L'articolo fu tenuto stranamente nel cassetto per quattro giorni, perché fu pubblicato solo l'11 di giugno, ossia il giorno successivo al delitto. Era il momento più opportuno: nessuno sapeva ancora perfettamente cosa fosse successo a Matteotti, e quello era il momento per screditarne la figura in previsione di ulteriori svolgimenti che sicuramente sarebbero accaduti. 73)

   Il sale inglese dell'On. Matteotti

   " Con questo titolo il "Corriere Italiano" pubblica la seguente nota: L'on. Matteotti, non contento di esercitare nell'aula della Camera dei Deputati la sua dialettica irritante, alimentato da una inarrivabile acidità di spirito, si diletta a sparlare dell'Italia e del Fascismo all'Estero. Per un deputato riformista che non si perita di riconoscere - bontà sua!- la realtà della nazione, il diramare per esempio in Inghilterra ( nella rivista 'The Statist') pensierini di questo genere è una cosa che consola. Un pezzetto a titolo di saggio:

   Tre quarti d'Italia sono poveri ed hanno bisogno di lavoro e di capitale per la popolazione in continuo aumento. Col tenere compressa la popolazione, il Fascismo può far credere agli osservatori stranieri che in Italia regna la pace e la tranquillità, ma esso non ha risolto alcuno dei problemi vitali della vita economica e sociale italiana. Il presente ritorno ad uno stato di violenza e di irrequietezza spirituale, eredità della passata dominazione di governi stranieri, impedirà certamente il raggiungimento di quel completo sviluppo che le energie della razza potrebbero altrimenti realizzare.

   E poi andate a dire che gli unitari non riconoscono la realtà concreta della Patria che sono l'antifascismo e l'antinazione". 74)

   A parte la nota, ovvia, che nulla delle considerazioni di politica economica appare nel "pezzetto a titolo di saggio", anche la traduzione risente di un tentativo di smussare i concetti più acuti di Matteotti; così l'inquietudine sociale, legata alle violenze, diventa una generica irrequietezza spirituale, mentre le "energie della nazione" si traducono nelle più fasciste "energie della razza". Più sopra l' oppressione cui è sottoposto il popolo, si trasforma in una più blanda compressione.

   E ancora, nel luglio del 1924, a ulteriore riprova che l'articolo dello "Statist" aveva colpito in pieno il bersaglio, la rivista nazionalista "La Vita italiana", commentava:

   " Per edificazione dei lettori, diamo qui la traduzione letterale di un articolo comparso il 7 giugno 1924 sul giornale finanziario e commerciale inglese The Statist. Esso è dovuto alla penna di un uomo la cui fine è degna di compianto, ma le cui attitudini di fronte alla Patria è bene stabilire, perché non si continui impunemente a mescolare il suo nome a quello della terra dove nacque e che egli diffamò". 75)

   La cadenza degli interventi di Matteotti contro il fascismo fu implacabile: più di uno al mese a partire da gennaio 1924. Uno in parlamento contro De Stefani, due sulla "Giustizia" di Milano, sempre contro De Stefani tra febbraio e Marzo, 76) uno sullo "Statist" il 7 giugno , uno alla Camera sulle elezioni di aprile il 30 maggio, uno sui disertori il 4 giugno e infine l'ultimo sull' " English Life" di luglio, postumo, ma scritto dopo il 16 maggio, quando fu resa nota la convenzione del governo con la Sinclair Oil. (77)  Certamente, fra quelli più "brucianti" e ovviamente destabilizzanti per un governo all'affannosa ricerca di prestiti esteri vanno annoverati gli interventi polemici in sede internazionale. E che fossero gli articoli apparsi sulla stampa estera quelli ritenuti più lesivi, lo si evince dalle reazioni della Stampa fascista, prima sul "Corriere Italiano" di Rossi e poi, "post mortem", un commento del 15 luglio 1924 su "La Vita italiana".

   Di qui si può comprendere come l'ira di Mussolini, nel giugno del 1924, in assenza di controlli parlamentari e in uno stato, come diceva Luigi Sturzo, di "ubriacatura", 78) rompesse gli argini e si facesse sempre più incontrollata nei confronti di un uomo che lo stava letteralmente rovinando  sulla scena internazionale, mandando per aria l'immagine di solida stabilità che egli si era andata via via costruendo e che era essenziale nel creare un clima di fiducia presso gli investitori stranieri. Che l'ira furibonda del Duce si riversasse poi come un fiume in piena sui più diretti collaboratori e sull'impressionabile Cesarino Rossi è scontato.   Riguardo alla difesa strenua di Finzi nel negare ogni complicità nel delitto Matteotti, si può dire che, in effetti, non vi fu  un suo assenso al delitto, ma un "fiancheggiamento" dei propositi di Mussolini, attraverso una campagna denigratoria senza esclusione di colpi nei confronti di Matteotti condotta sul suo giornale, il "Corriere del Polesine", parallelamente al "Corriere Italiano", che però non era più suo, ma ormai nelle mani di Cesare Rossi. Al  tempo stesso cercava di defilarsi in tutti i modi e c'è il dato, rimarchevole, che  il 9 di giugno lasciando Roma,  fece pubblicare un articolo sul "Corriere del Polesine" secondo il quale il giorno 10 sarebbe arrivato in Polesine, a Badia, dove infatti giunse con la moglie, e il prefetto Moroni, intrattenendosi tutta la notte con  i notabili del luogo arrivati in massa a rendergli ossequio. Finzi si stava costruendo un alibi perfetto: nessuno poteva dire che egli era a Roma il giorno del delitto, e soprattutto, quando ripartì, si diresse non a Roma, ma prese la strada di Milano. (79) Tanta accortezza fu comunque inutile, come inutile il fatto che il suo assenso fosse stato per così dire puramente "formale" e non di sostanza, com'era del resto tutta formale e non di sostanza la pretesa legalità fascista. In effetti Finzi non approvò mai, e lo disse chiaramente, i metodi di Mussolini. Egli fu, alla stregua di Bottai, un "normalizzatore". Tutta la sua visione politica dall'avvento al potere del fascismo e oltre fu volta alla "normalizzazione", in senso liberale, del Paese. In una intervista lunga e articolata resa sul "Corriere del Polesine" la dice lunga sul suo modo di vedere le cose. 80) In effetti occorre considerare che Aldo Finzi era un alto-borgese,  un uomo che aveva ricevuto un'educazione elitaria. Figlio di grossi proprietari terrieri, che possedevano mulini fino ad Adria, non aveva disdegnato, a suo tempo, l'uso della violenza e della rivoltella, 81) ma  nel fascismo aveva visto essenzialmente lo strumento per una resa dei conti con i "bolscevichi". Il fascismo aveva ristabilito i "giusti" rapporti sociali, che erano stati incrinati, specie nelle campagne, dallo strapotere dei "rossi". Con l'avvento al potere del fascismo, i "giusti" equilibri sociali erano stati dunque ripristinati per Finzi, che ora richiedeva il ritorno alla "normalità" liberale di stampo classico.

"Noi non siamo più fascisti, ma i depositari dell'ordine", disse un giorno Finzi all'inviato dell' "Observer". (82)  L'animo fascista di Finzi era, in fondo, "liberale", e come molti liberali era diventato fascista di fronte all'impotenza del liberalismo nei confronti delle sinistre. I liberali erano riusciti durante la Grande Guerra a controllare il mondo operaio e contadino attraverso la "Mobilitazione industriale" e, dal febbraio del 1918, con la "mobilitazione agraria", anche i contadini, imponendo al mondo del lavoro una gabbia cui solo la fine della guerra pose fine. Vi fu quindi un tempo in cui il "sistema liberale" riuscì a controllare "in toto" il mondo del lavoro "con insopportabili sistemi polizieschi" attivati nelle fabbriche "mobilitate", ove avevano poteri pressoché assoluti gli ufficiali che le dirigevano, e che prevedevano la sospensione del diritto di sciopero, la fine di "ogni attività politica di base", norme disciplinari severissime, che contemplavano "pene durissime", per l'assenza ingiustificata o il rifiuto di obbedienza. Maggiori e più severe ancora, ai limiti del ricatto e della vessazione vera e propria, erano le pene comminate ai "militari operai comandati... assegnati a lavorare in stabilimenti ausiliari [ove] lavoravano vestiti in uniforme, dormivano in caserma e il loro salario veniva versato ai reparti". Nelle fabbriche  "... il controllo disciplinare fu affidato a ufficiali [che] oltre a deferire i colpevoli ai tribunali militari, avevano il compito di infliggere sanzioni... Nei limiti delle norme generali emanate, agli ufficiali fu lasciata larga libertà nella decisione dei reati da punire e delle pene da infliggere". Agli ufficiali inoltre spettavano altre competenze, tra le quali, assolutamente arbitrarie, la concessione delle licenze, il controllo delle assenze per malattia, il licenziamento, il rinvio al fronte degli "elementi più perniciosi". (83) Che cosa significò dunque la Mobilitazione industriale? La risposta è ovvia: l'assoluto restauro del potere padronale nelle fabbriche. Quando, dopo la guerra, finirono le leggi marziali cui le fabbriche furono sottoposte, il mondo del lavoro riprese nelle sue mani l'iniziativa, e allora si assistette al "biennio rosso", alle migliaia di ore di sciopero nelle città e nelle campagne. La lotta politica allora divenne aspra, e l'agrario come l'industriale si trovò sguarnito ed esposto su tutti i fronti. Da un lato i "bolscevichi" che strappavano migliorie, occupavano Comuni, e dall'altro uno Stato Liberale impotente, al governo sì, per "trascinamento" annoso, ma privo di effettivo potere, perché "inconsistente" e senza radicamenti sociali di massa nel Paese,  proprio perché inesistente sia come partito sia come Stato, "disarmato" di fronte alle forze di Sinistra. Uno stato liberale che era stato abilissimo nel manovrare le forze parlamentari, ad amalgamare partiti anche contrapposti attraverso i giochi delle "Commissioni", i cui membri ruotavano vorticosamente, e che alla fine, non solo creavano una stasi nei lavori, ma spodestavano "de facto" l'Aula parlamentare, dopo un iter confuso e labirintico, facendo infine  capo "esclusivamente" al governo. (84) Ma lo Stato liberale dal 1919 si trovò anche in questo settore in evidente difficoltà di manovra: il famoso "trasformismo", la così detta "area of good feeling" alla Depretis, cominciava a perdere colpi: " con l'introduzione della proporzionale, si verificò un vero e proprio rivolgimento del meccanismo parlamentare: il nuovo regolamento impose l'organizzazione dei deputati in gruppi parlamentari omogenei e stabili", regolari nel funzionamento, ideologicamente e programmaticamente definiti. (85) Il governo non riusciva più a trovare consenso, anzi v'era "aperto dissenso, sulla politica economica e doganale, sulla politica estera, sui problemi di partecipazione e via dicendo". (86) I liberali, di fronte ai nuovi partiti di massa, contro cui sono impotenti, cercano solo adesso di "costruirsi un tetto". Prima si cercò, per influire sul governo, di costruire un partito "agrario", poi uno "industriale", infine di superare le divisioni laceranti e settoriali per tentare di riprendere il dominio sociale. 87)

Fu il fascismo il nuovo "tetto" sotto il quale riparò il dilacerato partito liberale. Infatti è dal seno delle classi sociali  liberali della piccola e media borghesia che venne l'urto più efficace contro il "bolscevismo". Furono le migliaia di ufficiali smobilitati a costituire il nerbo dello squadrismo. Questo è un fenomeno ampiamente assodato dalla storiografia, a partire da Salvemini, che ne diede un quadro suggestivo e condivisibile. 88) E non si tratta però di "suggestioni" più o meno fantasiose, ma di riscontri storici difficilmente confutabili. Negli anni 1920-'21, di fronte al progressivo ingrossarsi del movimento fascista, i dirigenti del Consiglio regionale toscano della gioventù cattolica promossero un'indagine davvero molto interessante. Attraverso un questionario spedito alle varie Diocesi, il Consiglio regionale cercava di fare il punto sul fenomeno. (89) Ai punti n° 6 e 7 del questionario, si chiedeva: " Che cosa ne pensano le persone più autorevoli di parte nostra?"; "Che cosa ne pensano i giovani e in particolare gli studenti?". Arrivarono risposte davvero illuminanti. La Federazione giovanile cattolica di Livorno, al punto 7, rispose: " Vedono nel fascismo il partito liberale sotto altra forma". 90) E quella di Lucca, sul punto 6: "Le nostre persone più autorevoli considerano i fascisti come gente asservita al vecchio partito liberale massonico". (91) Ancora più intrigante la risposta del Segretario della Giunta diocesana di Siena, il quale  dà una interpretazione molto articolata,  che Salvemini avrebbe sottoscritto in pieno.

"Gli studenti - disse -  in genere sono tutti fascisti, perché [ecco la motivazione]il loro corpo è costituito dal gruppo giovanile liberale, oppure ex combattenti mutilati e invalidi di guerra. I nostri studenti giocano a biliardo, si fa delle accademie dello sport e nient'altro. Voi vedete i frutti e i bei risultati di questa bella (!) Siena Cattolica". 92)

Un po' prima il nostro bravo segretario diede anche una risposta altrettanto interessante al quesito n°  5 (Che cosa ne pensa la popolazione?), certo un po' raffazzonata sintatticamente, ma centrata nei contenuti:" La popolazione, la parte migliore li guarda con simpatia perché sono battaglieri, franchi e sono riusciti a far dormire i focosi bolscevichi della Casa del Popolo (Casa socialista)". 93) Tutti i segretari delle varie Federazioni toscane dettero la medesima risposta. Colle Val d'Elsa: "Comprendono il movimento fascista come reazione alla violenza socialista". Lucca: "I giovani anche non fascisti e particolarmente gli studenti simpatizzano e approvano il fascismo". Federazione di Siena: " I nostri sono contrari apertamente, gli altri studenti "tutti" fascisti". Volterra: "Si ritiene per il momento un elemento necessario punitivo". Montepulciano: " In questa diocesi non esiste un movimento fascista, però si apprendono con letizia le gesta del fascismo... per la grande avversione che qui è maturata contro il socialismo". (94) "Far dormire i focosi socialisti": questa fu l'arma vincente del fascismo delle origini. Finita l'epoca d'oro delle "mobilitazioni", il liberalismo mostrò infatti tutti i suoi limiti di partito e di partito al governo.  Il partito liberale era un'astrazione ormai, né era mai riuscito a costruirsi una base di massa. Come potevano i liberali, espressione della grande proprietà e dell'industria, negazione stessa del partito di massa, , controllare l'attività dei grandi partiti di massa?  Occorreva che dal cuore profondo dell'"inesistente" partito liberale partisse una forza capace di creare, anche in tempo di pace, la stessa struttura della mobilitazione agraria e industriale. Questa "emanazione" del partito liberale fu il fascismo. Infatti quasi tutte le leve del fascismo venivano dalle classi liberali, soprattutto dagli studenti che vedevano il pericolo rosso montante, Quando un'indagine condotta in Toscana  dal Consiglio regionale chiese alla Federazione di Livorno chi fossero i fascisti, il segretario, lo abbiamo visto, rispose che erano i liberali sotto altra forma. Una volta vinto il nemico bolscevico, il liberalismo classico, mentore Giolitti e sostanzialmente affine la Corona, intendeva disfarsi della sua creatura, ma trovò l'ostacolo insormontabile nel suo capo, che lo fece sopravvivere oltre certe speranze, non facendolo rientrare nell'alveo del liberalismo "classico", perché  ormai sorpassato dai tempi. Creatosi una base di massa, come i grandi partiti di sinistra, il fascismo fagocitò freudianamente il "padre", rafforzando il proprio potere grazie alla propaganda e  usando quelle strutture create dal liberalismo, scuola, e, soprattutto la stampa che furono gli elementi fondamentali del suo perpetuarsi per oltre un ventennio. Non per nulla quasi il 100% dei "fondi segreti" di Finzi se ne andavano per accattivarsi il sostegno dei quotidiani italiani.

   La giubilazione di Finzi fu dovuta  a diverse concause.  Il delitto Matteotti fece deflagrare una situazione che comunque sarebbe prima o dopo scoppiata, sotto il segno di    una "questione morale". Finzi occupava una posizione di rilievo al governo, e questo già di per sé era un'insidia. Già Dosi nel '23 lo aveva avvertito che qualcuno mirava alla sua carica (Terzaghi), tanto più che nello stesso anno Mussolini l'aveva nominato commissario per la nascente aviazione. (95) Finzi si era sovraesposto anche in questo ambiente, dove si vociferava di suoi sotterranei contatti con l'industria per le commesse allo stato. Del resto sappiamo dalle lettere scoperte nel suo archivio privato che egli aveva contatti costanti con gli industriali per le sovvenzioni al suo "Corriere". (96) Si disse anche che aveva lanciato l'idea delle case da gioco, accusa che egli rigettò dalle pagine del "Corriere del Polesine", chiamando in causa lo stesso Mussolini; 97) si fece notare che frequentava  gente equivoca al Ministero dell'Interno, che era diventato un "caos". Il 16 giugno il "Giornale d'Italia" uscì con un articolo esiziale per Finzi, ritenuto responsabile dell'atmosfera corrotta che si respirava al Viminale. (98) Successivamente Federzoni (quanto disinteressatamente?) attaccò a sua volta il Ministero dell'Interno con parole pressoché uguali a quelle del "Giornale d'Italia".  " A sentire il nazionalista Federzoni... Finzi aveva con De Bono e Cesare Rossi una Troika spregiudicata e possente, installata dentro la baraonda del Viminale...". (99) Mussolini, il giorno dopo l'articolo del "Giornale d'Italia", ma soprattutto, come vedremo, per altre e più cogenti ragioni  fece dare le dimissioni a Finzi, dimostrando all'opinione pubblica di voler fare opera di pulizia al Ministero dell'Interno, estromettendo quanti erano nell'occhio del ciclone perché colpiti dalla "questione morale" sollevata sia dalla stampa liberale sia da certi ambienti del "primo" fascismo, da uomini come Forni o Rocca, tanto per fare due esempi di rilievo. Altra concausa non marginale, e  stupisce che un uomo come Finzi non si fosse accorto per tempo del veleno che conteneva la proposta, fu l'aver dato il proprio assenso alla pubblicazione  sul "Corriere Italiano" di un articolo in cui si parlava di squadristi rodigini visti a Roma nell'imminenza del delitto Matteotti. La cosa dovette essergli stata presentata in un modo "accettabile": ossia, alcuni squadristi di Rovigo erano giunti a Roma per "punire" il loro conterraneo che si era macchiato del delitto di "lesa italianità". Ma come ha fatto ben notare Salvemini, la cosa si trasformò un una sorta di" boomerang" per Finzi, dato che tutti si ricordarono che egli era polesano, alla stregua di Matteotti. 100) I suoi rapporti con Dumini, quelli con Filippelli, direttore del "Corriere Italiano" e "prestatore" dell'automobile allo stesso Dumini per il delitto, gli alterchi alla Camera con Matteotti, le sue origini polesane, le accuse di corruzione furono il miscuglio esplosivo che fecero saltare Finzi, permettendo a Casalini, riconosciuto "ras" del Polesine dopo Finzi, un rimescolamento delle carte non solo a livello centrale, ma anche nel Polesine. (101)

   In effetti Finzi si "urbanizzò" un po' troppo, dimenticando le proprie radici.  Il fascismo infatti si radicò nella valle del Po, in quella Bassa Padana che era il regno della grande proprietà, il regno degli "agrari", che fino almeno al 1895 avevano avuto nelle loro mani le sorti dell'Italia, dall'alto di uno Stato che ne era la piena e assoluta espressione. Poi, a poco a poco, tale dominio iniziò a declinare, specie durante l'età giolittiana, con l'insorgenza dell'industria nazionale. Gli agrari si erano ben presto resi conto che il loro potere al centro stava vacillando sempre più, a favore del moderno industrialismo, che Giolitti corroborava e rafforzava. I segnali di un conflitto sempre meno latente tra Stato e agrari erano sempre più potenti. Le continue lamentele degli agrari verso uno Stato che ormai guardava essenzialmente verso l'industria erano la spia di un' insofferenza montante. 102) Già nel 1909 il "Bollettino federale agrario" inaugurava l'uso di un lessico che  sarebbe diventato patrimonio comune dopo la Grande Guerra: " trincea" e "fascio". Gli agrari si preparavano quindi a opporre una strenua resistenza contro lo Stato liberale: "... I detentori del capitale così accerchiati stanno ancora a bisticciarsi tra loro? esitano ancora a unirsi in un fascio stretto e forte?...L'egoismo sarà l'unica forza che li salverà quand'essi sbarrati bene gli occhi sulle trincee che li accerchiano vedranno che bisogna lanciar presto e fortemente il gesto liberatore. Gli istrumenti della liberazione sono pronti - Associazioni, Federazioni locali, Federazione centrale e Mutua scioperi -: non c'è che da valersene fortemente e alacremente. L'egoismo insegnerà i modi della solidarietà..." (Corsivi miei). 103) La nomina di Aldo Finzi a Sottosegretario agli Interni fu non solo un chiaro riconoscimento di Mussolini  all'uomo  che l'aveva aiutato nelle prime battaglie, ma anche una soddisfazione alle grandi forze agrarie che avevano di fatto portato il fascismo al potere.  Ma Finzi si allontanò dalle proprie radici: divenne un "uomo della città", sempre più integrato nel mondo degli  affari, degli interessi bancari legati all'industria e, proprio perciò, sempre più lontano dallo spirito di quei "ras" padani che avevano fatto vincere il fascismo. Forni, ras di stampo antico,  accusò più volte il Primo Ministero Mussolini di essere ormai nelle mani di "altri tipi di fascisti", per cui, scriveva Forni, "C'è qualcosa che non funziona a Roma... Bazzicano nei corridoi e nelle anticanere dei ministeri troppi intriganti, trafficanti, negoziatori". 104) In effetti, non si ha l'impressione che Finzi, pur impegnandosi per il Polesine,  abbia fatto altrettanto  sul versante degli interessi degli agrari, e proprio nel momento in cui si stava producendo, sin dal 1921, il tentativo di creare da parte della Federazione italiana dei Consorzi agrari la "Banca nazionale dell'agricoltura", che secondo l'obiettivo dei promotori dell'iniziativa avrebbe dovuto vivere " per l'agricoltura, niente altro che per l'agricoltura". (105) Essa però dovette scontrarsi con il sistema bancario legato agli interessi industriali, troppo potente per la recente istituzione, che ne segnò la fine. Finzi era uno degli esponenti di maggior spicco della Banca Commerciale, come le altre banche miste, sfavorevole "a che la circolazione [fosse] messa a disposizione dell'agricoltura". 106) Il fatto che De Stefani si lamentasse con Mussolini che al Ministero dell'Interno si remasse contro la politica economica del Ministero delle Finanze, con attacchi quotidiani e furibondi della stampa controllata da Finzi  e a favore di interessi bancari quali la Commerciale aveva un fondo di assoluta verità. De Stefani era contro i favori e i privilegi che il regime accordava "ai gruppi industriali e bancari dominanti" e avrebbe invece voluto canalizzare molte risorse verso il credito agricolo. De Stefani, dopo la sua defenestrazione, si sbottonò largamente su tale argomento, con parole di fuoco: "... Fino a quando - disse - soltanto il dieci per cento dei depositi amministrati dagli istituti di credito prenderà la via degli investimenti agrari e fondiari, noi rimarremo quasi soli con la nostra tecnica agraria nel cervello... Eppure dagli agricoltori italiani proviene circa il cinquanta per cento, la metà dei depositi gestiti dagli istituti. La differenza... è una disponibilità di ricchezza guadagnata dagli agricoltori che gli istituti di credito non ridistribuiscono tra gli agricoltori stessi. Gli otto decimi dei depositi a risparmio provenienti da essi se ne vanno in prestiti pubblici e a potenziare le industrie della città... L'agricoltore paga e muore, gli altri, qualche volta, non pagano e vivono... Mentre l'agricoltore insolvente, anche nel periodo delle sue difficoltà, lo si chiama sempre agricoltore, gli altri si spersonalizzano; l'interesse dell'industriale diventa quello dell'industria. Lui vi si nasconde dentro, e così e dei banchieri per cui il loro problema diventa un problema di credito nazionale e quindi di pubblico interesse". 107) Quando Finzi cadde, e le sue collusioni con l'industria e il sistema bancario vennero a galla,  la sua rovinosa "debacle"  aprì la strada a uno dei più potenti agrari polesani, ossia Casalini, che in effetti occupò cariche di rilievo anche a livello centrale.  Il nuovo Ministro dell'Interno fu Federzoni, che tutto sommato doveva soddisfare gli agrari molto più di Finzi, dato che Federzoni era stato uno di quelli che già nel 1916 si era schierato per la difesa dei loro interessi. 108)  Gli eventi successivi, fatti di aspri contrasti in Polesine tra Casalini e Finzi, tornato nel suo "feudo" a Badia, testimoniano di una lotta intestina che alla fine vide emergere Marinelli, che riuscì a far impallidire anche l'immagine non certo di secondo piano di Casalini.

 

    Dicevano i nostri maggiori che, quando si alza un gran polverone, in genere "volano soltanto gli stracci".  Il delitto Matteotti sollevò quindi un grande polverone, e gli stracci volarono: Finzi, De Bono, Cesarino Rossi, Marinelli, Fasciolo. E' ben vero che Mussolini trattò tutti costoro come stracci, ma è altrettanto vero che questa persone non erano affatto degli stracci: erano le figure più potenti del nascente regime dopo il Capo! Tutto l'entourage di Mussolini, tranne Acerbo, venne spazzato via dal turbine sollevato dal delitto Matteotti.

    "Hic Rhodus, hic salta".  Finzi non riuscì a saltare il fosso e vi cadde pesantemente dentro. De Stefani, nel luglio del 1923, scriveva a Mussolini, rassegnando il proprio mandato. Fra le varie motivazioni portate dal Ministro delle Finanze, una colpisce: l'insopportabile avversione alla sua politica che veniva dal Ministero dell'Interno, quindi da S.E. Aldo Finzi. De Stefani era stato messo sull'avviso da Maffeo Pantaleoni, che tra le altre cose gli aveva scritto: "... Sa il Presidente queste cose? Non vede Egli che il giornale [ Corriere Italiano] è fatto per sabotare Lui e Lei? ...". 109) Mussolini se n'era certamente accorto... solo che non era ancora giunto all'orizzonte un motivo abbastanza serio per far fuori il suo Sottosegretario, vecchio amico di tante battaglie. L'occasione si presentò circa un anno dopo, quando dalle nubilose Isole Britanniche, ove Matteotti aveva soggiornato per qualche tempo, soffiò un forte vento di tempesta, che offuscò i già non limpidi cieli italici. In verità i prestiti americani furono veramente mortiferi per Finzi.  Gli investimenti statunitensi furono presenti in Italia già prima dell'avvento del fascismo. Dai primi anni Venti tali prestiti venivano effettuati attraverso le banche miste, le quali a loro volta finanziavano gli industriali. Osserva Tattara che in forza di ciò gli industriali dipendevano totalmente dalle banche miste, in uno stato di totale sudditanza rispetto ad esse. De Stefani, oltre a lamentare il fatto che Finzi era "al soldo della Commerciale", chiedeva a Mussolini di chiarirgli anche la posizione del "Corriere Italiano", che gli sparava sempre contro e dietro il quale c'era, almeno fino all'ottobre del '23, S.E. Aldo Finzi. (110) Questi, come uomo della Commerciale, possedeva un enorme potere di interdizione nei confronti di alcuni industriali, che potevano, attraverso la Commerciale, essere messi letteralmente in crisi per l'assenza di prestiti. Ciò sarebbe potuto accadere qualora essi non fossero stati disposti a pagare adeguate "tangenti" che Finzi richiedeva, specie agli industriali liguri, per il mantenimento del "suo" giornale "Il Corriere Italiano". 111)

   Ma, in che senso, il Ministero dell'Interno, e le banche connesse, specie la Commerciale, "remavano contro" la politica economica del Ministero De Stefani? In fondo, l'abbiamo già visto,  Finzi era stato sostenitore degli investimenti americani, impegnandosi in prima persona; ma, al di là di un'interdizione evidente contro la politica agricola del Ministro, c'erano anche, e sarebbe meglio dire "soprattutto", altre e più cogenti ragioni. In effetti, per Mussolini e il governo si trattava di uscire da una sorta di vicolo cieco, da una situazione in cui le banche  commerciali o miste gestivano l'intera economia italiana. Per Mussolini e per De Stefani era necessario eliminare il filtro delle banche miste, per permettere che i prestiti fossero erogati direttamente sia alle aziende sia al governo italiano. Per ottenere un simile risultato, occorreva dare ai mercati americani la sensazione che il fascismo forse in grado di dominare interamente la politica interna del Paese, cosa che i continui attacchi di Matteotti mettevano costantemente in crisi. In più, sul versante bancario, Toepliz, responsabile primo della Banca Commerciale, si opponeva recisamente che i prestiti americani arrivassero al governo o peggio direttamente alle imprese, saltando il filtro delle banche. A. B. Cudebec, che era esponente di spicco delle banche svizzere, attraverso le quali passavano gli investimenti americani in Italia, così sintetizzava a Capuano le ragioni di certe resistenze: " ...M. Toepliz ne semblait pas d'avis à ce que les emprunts soient directement effectués par les banquiers Americains aux Sociétés de force électriques en Italie pouvant etre liées à la Banca Commerciale..." ( Toepliz non è del parere che i prestiti siano effettuati direttamente dai banchieri americani alle società elettriche in Italia legate alla Banca Commerciale ).112) Capuano, legato certo alla Commerciale, ma espressione di quel "management" che voleva sganciarsi da quella pesante tutela della Commerciale, "soffriva" delle stesse limitazioni del governo italiano in quegli anni. Un'ulteriore riprova della "sofferenza" dello Stato si ha con la successiva creazione  dell'IRI, e qualcuno, maliziosamente, sussurrò che l'Ente venne creato apposta per distruggere il predominio e la dittatura della Commerciale nell'economia nazionale. 113)

 

   Ecco dove stava la debolezza di Finzi: egli era un uomo della Commerciale, era risaputo. In fondo, e a ben guardare, le ragioni ultime della fine sincrona di Finzi e di Matteotti furono le stesse: l'uno per aver attaccato il regime dall'esterno, cercando di provocarne il collasso in sede internazionale; l'altro per aver "minato" dall'interno la politica economica del nascente regime, essendo, dentro il governo, la "longa manus" della Commerciale, che con Toepliz non solo si opponeva ai prestiti "senza" il filtro delle banche, ma che addirittura, successivamente, si mise in competizione con il governo e con Mussolini per la concessione della ricerca delle risorse energetiche, che il Duce voleva comunque dare alla Sinclair, anche squalificata sul piano morale dopo gli scandali in America, mentre la Commerciale voleva fosse data alla Saper, società che rappresentava la potente Standard Oil, che si era messa in affari direttamente con Toepliz e la Commerciale. 114) Quando, dopo il ritorno di Matteotti dall'Inghilterra, si cominciò a mormorare che egli nascondeva nel cappello una sgradita sorpresa e che all'apertura della Camera avrebbe fatto un discorso molto forte sui petroli e le case da gioco, con i nomi di coloro che vi erano direttamente coinvolti, qualcosa dovette scattare in determinati ambienti. Case da gioco e petroli voleva dire Finzi, ma sin dove si sarebbe potuto spingere Matteotti, sin dove sarebbe arrivato? C'era una cosa che Mussolini sapeva, più degli altri e meglio di tutti: nella questione dei petroli e delle case da gioco non c'era intrigato solo Finzi, ma anche una persona a lui molto vicina: il fratello Arnaldo. Questi, scrive Canali, "aveva legami con la finanza americana" ed  "era anche intrigato nelle bische, faccende legate indissolubilmente al nome di Finzi... Ma successivamente Finzi finì per disinteressarsene...". 115) Mussolini dunque sapeva  che in siffatti affari c'era  la presenza di suo fratello Arnaldo. Quindi, nell'assoluta incertezza circa i nomi che Matteotti avrebbe potuto fare, occorreva sfruttare la  sospensione dei lavori della Camera per risolvere il problema  prima del giorno 11 di giugno. Il 10 costituiva il "D-day" oltre il quale difficilmente si poteva andare. Quello era il giorno. E in più si calcò la mano su Finzi al punto di farne l'unico sostenitore del teorema relativo alle case da gioco, "giocando" così la di lui reputazione presso l'opinione pubblica. Finzi se ne accorse immediatamente, e il giorno 18 giugno 1924, attraverso il "Corriere del Polesine", disse una verità accusatoria, questa sì inoppugnabile, in cui rendeva a Mussolini e al  fratello Arnaldo pan per focaccia. L'attacco contro Mussolini fu diretto e senza sfumature:

   [ Quanto all'accusa sulle case da gioco] - afferma Finzi -... debbo dichiarare una buona volta... che la regolamentazione della legge sul gioco, le pratiche ad essa inerenti e la presentazione al Consiglio dei Ministri sono avvenute esclusivamente a opera dell'on.  Mussolini." 116)

   Difficilmente Mussolini avrebbe permesso che il fratello fosse coinvolto in un tale scandalo, e non soltanto per ragioni affettive, che pure c'erano, ed erano forti e tenaci, ma anche per una semplice considerazione "politica": ossia che, ad appena due anni dalla presa del potere, il fascismo era Mussolini. Se il nome suo o di qualcuno della famiglia fosse stato coinvolto in un delitto, sarebbe stata la rovina assoluta e totale del regime. Tutti i funzionari di carriera al Ministero degli Esteri, a cominciare da Avezzana, si erano accorti del mutamento profondo della politica estera italiana all'avvento del fascismo, politica legata al "prestigio" e alla piena consapevolezza che l'Italia fascista aveva di fronte a sé l'intricato problema della Ruhr, ove Mussolini avrebbe dovuto dare il meglio di sé senza scontentare eccessivamente né l'Inghilterra né gli Stati Uniti, paesi creditori di più del 60% dei debiti di guerra nostrani, decisamente contrari a un'azione armata, con possibile partecipazione italiana, in suolo tedesco. In un simile contesto internazionale, il controllo dei giornali che mettevano in difficoltà il governo poiché adombravano atteggiamenti ostili dell'Italia al progetto francese d'invasione della Ruhr era vitale per i buoni rapporti italo-francesi. Una spia dell'interesse di Mussolini a interdire qualsiasi intervento teso a metterlo in difficoltà con la Francia sta una sua nota a Charles Roux, in cui si assicurava che egli " avrebbe preso misure atte ad impedire la pubblicazione di articoli falsi e tendenziosi", anche perché egli aveva un disperato bisogno di prendere tempo con la Francia di cui suppose a ragione un mutamento di governo e quindi di prospettive per l'Italia, cosa che avvenne proprio alle elezioni francesi del maggio 1924, mese e anno fatidici, che videro la vittoria delle sinistre. Quindi, se l'attenzione per la stampa interna era massima, altrettanto si può dire per certe bordate che, ancor più esiziali, potevano venire dall'estero. 117) 

    Infatti, se ad appena 76 ore dal delitto, il giorno 13 giugno, il "Nuovo Paese" di Bazzi già pubblicava la notizia secondo cui sembrava che " l'on. Matteotti dovesse pronunziare alla Camera... un discorso di critica alla Convenzione Sinclair"; e già dal giorno successivo, 14 giugno, negli ambienti romani si diceva che Mussolini tenesse fra le mani documenti relativi a Finzi sui petroli e le case da gioco, è evidente che Mussolini era da più giorni sul chi vive. L'articolo sullo "Statist", già di per sé lesivo del prestigio della politica economica del governo, era del 7 giugno, ed  era ampiamente noto. Matteotti poi, tornando a fine aprile dall'Inghilterra e fermandosi un paio di giorni a Parigi, aveva notato di essere stato pedinato da Albino Volpi.118)  Mussolini era quindi in possesso di indizi estremamente preoccupanti: i suoi canali informativi non potevano non sapere che la rivista "English Life", dopo aver pubblicato un suo articolo   su Machiavelli, aveva richiesto a Matteotti un commento, che vi fu, e fu l'ultimo, poi pubblicato postumo, e che conteneva una critica feroce a molti uomini di governo. A Londra, informa Canali, v'era un "collaudato sistema informativo...[che] conduceva direttamente all'ufficio di Rossi...".  A detta di Canali l'articolo era stato redatto a maggio, esattamente il 16 maggio. Tutto fa credere che i "collaudati" canali informativi sapessero dalla metà di maggio dei contenuti dell'articolo, molto minacciosi. 119)

    Allora, Supponiamo solo per un momento che Mussolini  sospettasse che il nome di Arnaldo potesse esser fatto in un'aula del Parlamento.   Tra l'altro, si sa per certo Arnaldo aveva le mani in pasta in diversi affari, italiani e, diciamo così, "americani", e, comunque, Arnaldo, in Italia,  era l' innominabile.120) Ora, supponiamo che Mussolini temesse, non a torto, che, tra i tanti nomi, Matteotti avesse avuto l'intenzione di  nominare l'innominabile. Che ne sarebbe stato del fascismo, di Mussolini, dei Mussolini? Sarebbe stato lo scacco matto, uno scacco terribile, che avrebbe letteralmente travolto il fascismo, il Duce e, anche, la famiglia, l'amato fratello Arnaldo. Ergo, l'omicidio fu certamente premeditato, accuratamente predisposto prima che potessero insorgere problemi interni altrimenti irrisolvibili e irrevocabili. In un passo di una lettera a D'Annunzio dopo il delitto, Mussolini , scrisse:

 Tu capisci che io non MOLLO a nessun costo, nemmeno a costo di sangue, quando si tratta di stabilire se io sia o no mandante in assassinio!!! 121)

    La frase termina con ben tre punti esclamativi, e in mezzo, un verbo, non mollo, ben evidenziato.  C'è in queste parole una ostinazione cieca a negare sempre e tutto, e ad interdire la possibilità sempre e comunque, anche "a costo di sangue" (proprio o altrui non importava), che il nome dei Mussolini fosse coinvolto in "mandante in assassinio". Era la stessa feroce ostinazione di Finzi che, più che di se stesso, si preoccupava dei riflessi che sarebbero riverberati sulla famiglia. Ascoltiamo ancora Mussolini : " Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello... a me la colpa! Se il fascismo è stata un'associazione a delinquere ...a me la responsabilità...". C'è un "io" pervasivo, enorme, che copre tutto, che si assume tutte le responsabilità, quasi a stornare dalla mente di tutti qualunque altra possibile responsabilità: quell'io assume su di sé ogni colpa, ogni fardello. 122)

     De Felice afferma che, dopo le elezioni dell'aprile del '24, Mussolini aveva telegrafato a tutti i prefetti perché controllassero le violenze dei "dirigenti fascisti", a ogni costo. Eppure, nonostante gli ordini perentori che sembravano  non ammettere repliche, perché un errore tale poteva "condurre stranieri a giudizi erronei su fascismo e governo", 123) qualcosa di gigantesco, di enorme avvenne: fu fatta violenza omicida non contro un uomo qualsiasi dell'opposizione, ma addirittura contro il prestigioso capo dei Socialisti Unitari.

   Fu Dumini, in quel testamento che egli fece custodire gelosamente negli Stati Uniti, nel Texas, a dirci una parola chiave. Dumini, un uomo astuto, e ce ne voleva di astuzia per tener testa per tanti anni a Mussolini, facendosi anche elargire somme ingenti per quei tempi. Dumini, che morì ricco, con quattro o cinque appartamenti e villette sparsi qua e là, ci dice quali furono le ragioni profonde che portarono il Duce a rompere con tutte le tattiche politiche di cui era Maestro indiscusso, tattiche dalle quali, secondo De Felice, era impossibile il Duce avesse derogato,  derivando anche da ciò la convinzione della sua innocenza.

 "... La necessità di sopprimere Matteotti- rivela Dumini- era rafforzata dalla voce che circolava che egli fosse venuto in possesso delle prove di certi imbrogli nei quali si mescolavano... un certo affare di petrolio, di borsa e di cambi in cui sembrava essere implicato perfino il fratello del capo del governo...". 124)

  Nel delitto Matteotti si ragiona solo per indizi. Lo stesso libro di Canali è un "monumento indiziario". Canali ha accumulato tutto ciò che era umanamente possibile, e tuttavia, anche quelle scoperte "inedite" che sembrerebbero "prove", in realtà sono soltanto indizi. Come per esempio i bigliettini delle udienze che Canali ha recuperato, e che si rifanno alla circostanza "sospetta", certo, del fatto che Filippelli fu ricevuto nell'ufficio di Mussolini la mattina stessa del delitto alle ore 11.30; oppure, l'altro, per cui lo stesso Filippelli fu ricevuto il giorno dopo il delitto da Finzi, 125) in verità non costituiscono "prove", perché ci manca il dato fondamentale, ossia "cosa" si sono effettivamente detti.  Salvemini, dal canto suo, costruì il "monumento" di tutti i tentativi contemporanei e successivi di superare l'impasse e di arrivare, facendo parlare in un certo modo le fonti, alla soluzione: ossia accusare Mussolini di aver "dato l'ordine". Il risultato è stato solo uno alla fine: l'emersione di una "irritazione" malcelata, che è la spia di una insoddisfazione critica, della consapevolezza che c'è costantemente qualcosa che non quadra nella tesi accusatoria "ad personam". E se a distanza di tanti anni siamo ancora a questo punto, significa che  occorre prendere atto del fatto che il delitto fu frutto non di una sola persona, ma di una decisione "collettiva" nell'ambito della Ceka, cosa che è sempre stata negata dai collaboratori di Mussolini.

    E' certo che  molte e importanti testimonianze riportano alla figura di Mussolini, il quale, però, con il suo "dannunziano" non mollo!!!, negò sempre, recisamente, di essere stato "mandante in assassinio". In effetti, al di là dei "riscontri"  delle fonti a nostra disposizione, esiste ancora, e nonostante tutto, un margine di incertezza, soprattutto perché le fonti che accusano Mussolini (Finzi, Cesarino Rossi, Filippelli, lo stesso Dumini) sono per un verso inquinate, e per un altro, stiracchiate qua e là in modo da far loro dire determinate cose.  Per quanto concerne Finzi, qualunque innocentista, e De Felice l'ha fatto, potrebbe osservare che, in fondo, la sua potrebbe essere stata la vendetta personale di un uomo che si era visto tradito dal capo, e che pertanto aveva scaricato tutto su di lui per pura e semplice sete di vendetta.   La stessa cosa si può dire per Rossi, l'eminenza grigia che aveva servito il Duce e che poi era stato buttato via come uno straccio. Filippelli è fonte doppiamente inquinata, perché deriva per la maggior parte dallo stesso Rossi, e per quanto riguarda l'incontro con Mussolini alle ore 11.30 del 10 giugno, 126) registrato da Canali, noi non possediamo altro che un bigliettino in cui il duce fissava un'udienza allo stesso Filippelli: non sappiamo cosa si siano detti, e se questo qualcosa aveva o non aveva a che fare con il delitto. Quanto a Dumini, egli asserì solo che nell'affare c'era intrigato "perfino il fratello del Capo del Governo", ma non disse che Mussolini dette ordine di ammazzare Matteotti, anzi, tale ordine egli lo ricevette, per sua stessa ammissione, dalla Ceka, o meglio dal "quadrunvirato sorto in seno al partito", costituito, com'è noto, da Marinelli, Rossi, Forges-Davanzati, Melchiori. Tutte fonti inquinate,  comunque inattendibili su tutto? No. Tutte le fonti citate, tranne quella di Dumini, hanno un minimo comune denominatore: affermano la sola responsabilità di Mussolini su tutto; negano ogni responsabilità personale degli autori dei rispettivi memoriali. Per il resto, i confronti dimostrano che, fatte salve le responsabilità personali, i fatti narrati sono gli stessi. Per esempio, quando si tratta di rivelare l'esistenza della Ceka, pur tra mille giri di parole, Rossi e Finzi ne affermano la realtà . Quando si parla del "Dumini in Francia", Rossi e Finzi dicono tutti e due le stesse cose: l'unica cosa che tacciono ambedue è che Dumini mandava a entrambi i rapporti di quello che combinava in Francia. Insomma, Rossi e Finzi dicono le medesime verità, ma tacciono su se stessi. Perché dunque si tratta di fonti per alcuni aspetti inattendibili? Perché, semplicemente, "scaricano" tutta la responsabilità delle decisioni su Mussolini, quasi loro due non esistessero, fossero delle mere ombre. Ma non era così. Questi due personaggi avevano una loro autonomia: Finzi, per esempio, era Sottosegretario agli Interni, ma in pratica era come se fosse il Ministro. Rossi conosceva nella sua posizione più cose di quante ne conoscesse Mussolini. Finzi, Rossi, Acerbo, De Bono andavano tutti i giorni da Mussolini, "al quotidiano rapporto" per fargli sapere quanto accadeva in Italia. 127) Inutile osservare che loro sapevano le cose addirittura "prima" del Duce. E allora? E' pensabile che personaggi investiti di una simile autonomia   non "consigliassero" mai e poi mai il Duce circa i comportamenti da tenersi nelle più svariate circostanze?  Ad esempio, quando De Bono avrebbe voluto annegare Giulietti, Rossi, "il buono", interviene chiedendogli se stesse scherzando. Mussolini accetta il consiglio, e "fa cadere la cosa": ciò significa che Mussolini ascoltava i propri collaboratori. (128) Altro esempio. Dopo il 30 maggio Rossi afferma che l'ira del capo raggiunse l'acme, ma non dice, anzi nega, che anch'egli ebbe parole di fuoco contro Matteotti, che avrebbe voluto far fuori a colpi di rivoltella. Eppure Rossi fu sentito inveire e minacciare da diverse persone, da Maratea come da Silvestri. (129) Comunque, e questo è un dato di fatto verificabile da chiunque, pur tendendo a scaricare tutto sulle spalle di Mussolini, né Rossi né Finzi in effetti lo indicano senza ambiguità come mandante.  Salvemini tende invece a far dire alle sue fonti cose che esse non affermano esplicitamente. Prendiamo Rossi. Nel memoriale  dell'11 febbraio 1925, egli parla di "favoreggiamento" del Duce, non di "ordine" secco. Arrivato a   Matteotti, non dice una sola parola seria sull'argomento. Inizia il paragrafo 35 in modo promettente e poi sposta il discorso sugli eventi successivi: " L'iniziato favoreggiamento in occasione del delitto Matteotti ed il suo vario contegno. Il contegno del presidente di fronte al delitto Matteotti si può dividere in vari tempi: 1) La sera di mercoledì 11 giugno...,ecc.". A parte che Rossi non dice una sola parola circa il "prima", egli parla soltanto di un iniziale "favoreggiamento" da parte di Mussolini. Ma favoreggiamento non significa "ordine" perentorio. E poi, favoreggiamento verso chi?  Chi ha avuto l'idea? Non si sa. (130)   

   Salvemini  tagliò corto e sentenziò: "... Questi sono i fatti. Pure ci sono ancora molte persone le quali sostengono che coloro i quali accusano Mussolini lo vanno calunniando". (131)

  

 Restiamo allora ai fatti  e ascoltiamo quanto disse Finzi secondo la versione datane da Silvestri:

"... Finzi attribuiva la soppressione dell'on. Matteotti ad una organizzazione segreta sorta in seno al partito... denominata Ceka... L'organo doveva rimanere alle dirette dipendenze del presidente...". (132)

   Finzi quindi attribuisce, come Dumini, la morte di Matteotti al quadrunvirato che costituiva la Ceka, che "dipendeva" da Mussolini: però, anche in questo caso Finzi non dice che alla Ceka arrivò l'ordine perentorio del Capo di uccidere Matteotti, perché egli si limita a dire che la Ceka "era alle dirette dipendenze" del Duce, e non dice nulla di più.

   Nell'unico caso in cui Salvemini avrebbe potuto avere ragione, è costretto a emendare la fonte, perché, accettandola così, l'avrebbe di fatto esposta alla inattendibilità anche su altri fronti. Riportando un passo della deposizione di Filippelli a Del Giudice salta fuori proprio il nome di Mussolini: " Oggi - dice Filippelli richiamando la confidenza fattagli da Dumini - per incarico avuto da Mussolini...Giovanni Marinelli, il Putato ed altri compagni, abbiamo atteso, ecc.".  Salvemini annota :

"... Deve essere occorso un errore nella copiatura o nella stampa del testo. Questo deve esser detto ' per incarico avuto da Cesarino Rossi e da Giovanni Marinelli". Nel suo memoriale Filippelli aveva fatto i due nomi e non quello di Mussolini...". (133)

   Quindi, neppure in questo caso, che avrebbe potuto in qualche modo coinvolgere "direttamente" Mussolini, è possibile l'accettazione dell'enunciato, che risulta errato e dovuto, come si disse, più che a un errore di copiatura, a uno "svarione" senile di Del Giudice, che aveva scritto il suo lavoro pressoché novantenne. Da tutto ciò emerge la chiara difficoltà a individuare riscontri certi su una responsabilità "diretta" del Duce "in assassinio", in un qualsiasi omicidio, che non si è mai riusciti a provare; oppure, ci si è riusciti solo forzando la lettera delle fonti, facendo loro dire, all'ingrosso, quanto il critico voleva che esse dicessero. Così, anche in quelle situazioni che all'apparenza sembrerebbero trasparenti, il risultato non è altrettanto chiaro, come invece pare a Salvemini. Nel caso della bastonatura di Amendola, Salvemini riporta la testimonianza di una lettera di Vico Perrone del 29 giugno 1924, in cui Perrone afferma: ."..Dato il nome dell'on. Amendola, la cosa mi impressionò; ma di persona potei accertarmi che pure S.E. Mussolini voleva che così si facesse. Seguirono dei colloqui con S.E. il generale De Bono, il quale dispose tassativamente che l'on. Amendola fosse soltanto bastonato...". (Corsivo di Salvemini). (134) Salvemini sottolinea il passo che "dimostrerebbe" la diretta responsabilità di Mussolini. Ma in effetti dimostra altre cose. Come dice Vico Perrone, "pure" il Duce "voleva che così si facesse". Ciò significa che c'erano anche "altri" che volevano la stessa cosa. E in più, l' "ordine" non venne da Mussolini, bensì da De Bono. Fu De Bono, non Mussolini, "che dispose tassativamente che l'on. Amendola fosse soltanto bastonato". L'ordine poi rifletteva una discussione precedente, perché magari qualcuno dei collaboratori prospettò l'ipotesi che Amendola potesse anche essere ammazzato, e poi si giunse alla conclusione che fosse "soltanto" bastonato. Che le decisioni fossero "collettive" lo dimostra poi la stessa accusa di Giunta, il quale affermò sì di aver "preso ordini" direttamente da Mussolini per la bastonatura di Forni, ma aggiungendo altre cose: "... Presi ordini dal Presidente del Consiglio e duce del Fascismo....". Se la cosa si fermasse qui i dubbi non sarebbero più tali, e potremmo affermare di trovarci di fronte a una fonte  finalmente chiara. E lo è, ma entro certi confini.  Ma leggiamo tutto il passo:

   " Presi ordini dal Presidente del Consiglio e duce del Fascismo, su concorde parere (corsivo mio) del direttorio nazionale...",(135) che era costituito Da Rossi, Marinelli, Forges-Davanzati e Melchiori. Nella sua ansia dimostrativo-cumulativa, Salvemini propone le più coinvolgenti testimonianze,  quelle insomma che intrigherebbero meglio Mussolini. Ma anche nel seguente caso si dimostrano , è vero, alcuni fatti, ma anche la scadente pertinenza della fonte stessa riguardo ad altri. Intanto le decisioni Mussolini le prendeva "su concorde parere" dei suoi uomini, e non da solo. Secondo: è vero che v'è la testimonianza di un "ordine diretto" del Duce.  Ma non di un ordine di omicidio.

Non viene minimamente scalfita con questa, apparentemente importante, fonte accusatoria lo zoccolo duro di Mussolini, costituito dal "Non mollo, quando si tratta di essere accusato di mandante in assassinio". Terzo, la fonte è solo "cumulativa" e non  pertinente al delitto, e dimostra semplicemente che Mussolini faceva manganellare i suoi avversari politici. Ciò non costituisce novità.

   Eppure, a ben guardare, esistono alcune fonti, molto importanti, che potrebbero dare, se convalidate, la certezza di un  "ordine" di Mussolini.  Secondo quanto asserisce Silvestri, Finzi gli aveva confidato che "...Mussolini aveva ordinato ai capi della Ceka di far scomparire clandestinamente ma definitivamente i capi più in vista dell'opposizione, cominciando dall'on. Matteotti...".( Corsivo mio).   Dal sottosuolo, compaiono poi tre o quattro personaggi che, a suo tempo, citarono il nome di Mussolini. Gli "interpreti" del "verbo" di Mussolini erano infatti due, Rossi e Marinelli. Quest'ultimo emerge  attraverso varie testimonianze.  " Fu lui [=Marinelli]- racconta Dumini- che mi disse che Mussolini voleva che Matteotti fosse tolto di mezzo" (Corsivo mio). 136) E Filippelli asserì che la sera del 12 giugno "...Marinelli si mostrò seccatissimo del contegno del Presidente, dicendomi che quando c'è da dare ordini li dà ed insiste, quando poi si determina una situazione difficile si tira indietro".( Corsivo mio)137 Rossi dal canto suo racconta che Marinelli, il giorno dopo il delitto, gli avrebbe confessato che "... era il Presidente che continuava a insistere. Il giovedì (5 giugno) mi rimproverò di nuovo perché non si era fatto nulla".(138) Dumini rincara la dose, affermando che egli agì " ...per incarico di Cesarino Rossi e di Giovanni Marinelli". Ma Filippelli, nell'interrogatorio del 26 luglio 1924, cambia versione, affermando che Rossi e Marinelli escludevano "... di aver dato mandato a Dumini di uccidere Matteotti, dicendo che non avrebbero mai sognato simili pazzie...". (139) Certo che i sogni folli sembrerebbero aver posseduto una certa concretezza, perché tutti si diedero da fare per crearsi un alibi per il giorno del delitto. Finzi il 9 svolta l'angolo e torna a Badia, Rossi si fa vedere in giro con Naldi, mentre Marinelli si eclissa e va per due tre giorni a Milano, e tanto per essere sicuro di essere notato, rilascia, tra l' 8 e il 10 giugno 1924, una bella intervista al "Popolo d'Italia" su un tema che è una mezza confessione, quello delle "responsabilità" dei vertici del fascismo: "... L'esercito fascista rimarrà spiritualmente sempre pronto... per rispondere fulmineamente ad ogni ordine d'azione che potesse giungere dal Duce e dalle responsabili gerarchie del partito". (140) Con il che, chiosa Salvemini, Marinelli confessa implicitamente che ordini importanti potevano venire sia dal Duce sia dalle "responsabili gerarchie del partito", (141) espressione che tradotta significava "ordini" di Rossi, suoi, di Finzi, De Bono, Giunta, ecc. Salvemini sembrerebbe ripiegare su una responsabilità collettiva, riconoscendo che "ordini importanti potevano venire sia dal Duce sia dalle responsabili gerarchie del partito". Perché Salvemini, ansioso di inchiodare Mussolini a una responsabilità "diretta", cambia strada, ripiegando sulla "colpa collettiva"?

  Semplicemente perché, intanto,  quella di Finzi non è "fonte diretta": non è Finzi che parla. E' Silvestri che riporta le parole di Finzi. Quanto a Rossi, già abbiamo visto che egli vedeva "ordini" ovunque; e Marinelli poi, insieme con Rossi, ritrattò tutto, "escludendo" di aver mai detto "simili pazzie". Insomma, e Salvemini se ne rende perfettamente conto, ci si trova di fronte a un vero e proprio ginepraio, in cui i pochi barlumi di verità vengono sommersi in un oceano di menzogne inestricabili: quelle di Rossi e Marinelli sono fonti oltremodo "tendenziose", il cui unico scopo è quello di lavarsi le mani di tutto. Se Marinelli s'è in qualche modo salvato è perché, in quel bailamme, si poteva sostenere tutto e il contrario di tutto, sicuri che nessuno sarebbe mai riuscito a trovare il bandolo della matassa. C'è infine la testimonianza di Dumini, che tra le tante è la più attendibile: a Dumini si può anche credere. C'è però il dato oggettivo che Dumini non udì con le proprie orecchie l'ordine del Duce; è Marinelli che afferma che Mussolini avrebbe detto  che Matteotti "andava tolto di mezzo".

Veniamo a concludere. Salvemini disse che erano ben cinque ad affermare che Mussolini dette l'ordine: Rossi, Marinelli, Filippelli, Dumini e Finzi. Salvemini ragionò  da filologo e concluse: se cinque "testimoni" affermano tutti la stessa circostanza, allora la cosa deve essere per forza vera. Infatti Salvemini scrive: "... Dumini, Filippelli, Rossi, De Bono e Finzi  parlano in occasioni diverse... Dato il loro calibro morale..., ciascuno da solo non avrebbe gran peso (corsivo mio). Presi insieme, la loro concordanza fornisce una prova inconfutabile" (corsivi miei). (142) 

   L'analisi filologica di Salvemini è solo apparentemente corretta. Il suo è stato essenzialmente un lavoro "cumulativo" e non "qualitativo". Ripeto che tutte le fonti collazionate da Salvemini sono inattendibili e tendenziose, dato il momento storico in cui vennero redatte. Sono tutte tendenziose perché più nessuno fra i "testimoni" credeva che il fascismo sarebbe sopravvissuto al terremoto provocato dal delitto Matteotti. A sinistra ormai tutti, da Turati alla Kuliscioff, si aspettavano da un momento all'altro il tracollo. A destra, teste De Felice, molti fascisti cominciarono a buttar per strada il gagliardetto: la "debacle" nelle file del partito era sotto gli occhi di tutti, e Mussolini stesso riconosceva che la sala delle udienze era pressoché vuota. Lasciando stare per il momento Finzi e Dumini, gli altri, da Rossi a Marinelli a Filippelli avevano di fronte un solo modello: Pilato. Tutti quanti cercavano di sfuggire alle proprie responsabilità e buttavano tutto sulle spalle di Mussolini. Dumini, già l'abbiamo detto, dipende da Marinelli, che gli fece credere che l'ordine di "togliere di mezzo" venisse da Mussolini; però era Marinelli a dirlo. E veniamo a Finzi. Veramente, Salvemini disse "Finzi", ma in tutta onestà avrebbe dovuto dire "Silvestri": è Silvestri che parla "a nome di Finzi", perché Finzi, pur avendo scritto il famoso memoriale, quando si accorse che Mussolini aveva superato la bufera, negò persino di averlo non dico redatto, ma nemmeno pensato, facendo scrivere sul "Corriere del Polesine" che era pronto a sfidare quaranta milioni di italiani a portargli sul tavolo una sola copia di detto memoriale. Però era inutile negare, perché Finzi, nel momento di maggiore furore rabbioso, informò lui stesso il "Corriere del Polesine" di essere in possesso del memoriale. Il giornale, che dipendeva da Finzi per i fondi mensili, non poteva pubblicare che quello che Finzi voleva, e infatti uscì sabato 21 giugno 1924 con un articolo estremamente preciso e circostanziato sul memoriale:

   "...L'on. Finzi, si assicura, avrebbe già pronto un memoriale contenente la sua difesa. Questo memoriale sarebbe diviso in tre parti. Nella prima sosterrebbe la perfetta coerenza della sua condotta politica; nella seconda verrebbe a provare [la sua estraneità] a qualsiasi intromissione in affari; nella terza la dimostrazione della sua assoluta ignoranza... alla tragedia Matteotti."

   Mussolini, quando al momento delle dimissioni di Finzi, gli assicurò che i di lui "meriti" sarebbero stati ricordati, diceva, come al solito, la verità: e infatti lo rovinò, perché il ricatto era evidente, com'era altrettanto evidente che il Duce aveva l'assoluto bisogno della rovina del suo ex Sottosegretario agli Interni per salvare se stesso e anche il fratello Arnaldo, suo "ambasciatore" nella faccenda delle case da gioco. Mussolini disse a Finzi per due volte che si sarebbe ricordato dei suoi meriti: una volta al momento delle dimissioni( " I servizi che tu hai reso... non saranno dimenticati) e un'altra a casa propria, in via Rasella ( "Fra 48 ore - egli disse - avrai la soddisfazione che meriti").

  

   Salvemini però, nonostante affermasse di avere finalmente la prova "inconfutabile" della colpevolezza personale di Mussolini, si deve essere accorto che qualcosa non quadrava, e che, per dirla con Montale, il conto dei dadi non tornava. Evidentemente irritato e  consapevole, in fondo, che le cose stanno nei termini che ho enunciato sopra, con una "boutade" che è un po' la spia di una rabbia impotente, osservò alla fine che se anche vi fosse stata "... una confessione piena, scritta e firmata da Mussolini in persona, ci sarebbe sempre [stato] qualcuno dotato di buona indole pronto a vedere in un tale documento non la prova del delitto, ma quella dell'eroismo del Duce...". (143)

    E' così:  come non si può provare che Mussolini "non dette l'ordine", non si può provare nemmeno il contrario, cioè che  "dette l'ordine".

 

   Tutto ciò che nasceva dentro il fascismo,  promanava dalla sua volontà: la Ceka non sarebbe nata se Mussolini non l'avesse voluta. Gli uomini che gli stavano intorno li volle lui e solamente lui. Finzi lo volle lui. Fu lui che volle Finzi come sottosegretario: era il Finzi che gli era stato seduto accanto, in treno, mentre da Milano andava a Roma, il giorno fatidico della "Marcia", nel 1922. Cesarino Rossi lo volle lui accanto a sé, perché Cesarino era, come ebbe a dire, "intelligente",  l'amico per tutte le stagioni, e ne conosceva appieno le qualità. Dumini lo volle lui, perché gli sembrava "il più adatto" a certi compiti. Quelli che Mussolini non volle vicino, non ci furono. Nessuno dei "quadrunviri" della Marcia su Roma è nel suo governo, fra quelle "cinque o sei persone - disse - che ogni giorno vengono da me al quotidiano rapporto". Lo stesso De Bono non lo volle  vicino a sé, e infatti lo decentrò, e ne fece, con discorno di questi, il semplice capo della polizia. De Vecchi non lo volle, e finì in Somalia, a fare il governatore. Balbo non lo volle, e gli lasciò altri spazi di competenza, ma non vicino a lui. Bianchi fu l'unico che gli rimase vicino dei "quadrunviri" della Marcia su Roma, ma Bianchi "serviva" a Mussolini per compiti delicati e specifici,  alla Direzione del Pnf.

   Quando Mussolini si assunse ogni responsabilità sul delitto,  non si prese sulle spalle "solo" la responsabilità "morale", ma anche quella "storica" e "politica" di quanto era successo.  Non mi trova però consenziente Salvemini, quando, commentando il discorso di Mussolini, volle tentare di vedervi in esso la "prova provata" del fatto che questi era "mandante in assassinio". Mussolini non disse mai: "Io fui il mandante". 

   E' antipatico non riuscire a prendere una posizione ben definita, ma la neutralità, nel caso specifico, è d'obbligo. Non si riesce, infatti, nonostante le più svariate strategie messe in atto, a superare  la soglia del sospetto, e dell'indizio, specialmente quando si vuole andare a colpire solo  un bersaglio, cioè Mussolini.  

   Salvemini prova in tutti i modi a "caricare" le parole del Duce del significato che lui voleva vi fosse. Per Salvemini, insomma, la prova "provata" e certa sarebbe da ricercare nella "confessione" implicita nel discorso del 3 gennaio, quando il Duce affermò:" ...Io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto". Ma in effetti, neppure in questo caso, Mussolini disse: " Io sono il mandante  del delitto Matteotti". Egli assumeva sulle spalle responsabilità "generiche", non specifiche in rapporto a Matteotti: responsabilità politiche, perché era lui che aveva condotto il fascismo al potere; morali, perché tutti sapevano che la "rivoluzione" fascista richiedeva purtroppo le sue vittime; storiche, perché, è ovvio, storicamente il fascismo è stata una sua creatura, fin dalla fondazione dei fasci di combattimento. Responsabilità quindi generiche non specifiche.  

   La realtà storica è una sola: Mussolini non ammise mai, né in pubblico  né per via epistolare di essere stato il "mandante" del delitto, anzi, lo negò sempre recisamente. Non v'è  nel discorso del 3 gennaio la prova dell' "ordine" certo e inequivocabile di uccidere Matteotti, ma solo dell'assunzione della grave responsabilità di un evento che "promanava" dalla volontà del Duce, ma che poi si perdeva nei meandri della Ceka, ove "altri" avrebbero potuto in realtà concretizzare tale proposito per compiacere il capo. Allo stato attuale delle nostre conoscenze documentarie, ritengo che la neutralità sia ancora la strategia migliore, almeno per quanto riguarda la questione delle responsabilità "uniche" di Mussolini. Passo oltre la neutralità invece affermando con assoluta certezza, perché qui le fonti sono concordi, la responsabilità "collettiva", la responsabilità di coloro cioè che facevano parte del "direttorio" della Ceka: Rossi, Marinelli, Forges-Davanzati e Melchiori: tutti alle "dirette dipendenze", come disse Finzi, di Mussolini. Erano loro che, insieme con Mussolini, prendevano le decisioni più gravi e importanti. E ciò è stato costretto ad ammetterlo, sia pure a denti stretti e "en passant", lo stesso Salvemini, che pure le tentò tutte pur di arrivare alla conclusione che la colpa era del solo Mussolini. Ora, è evidente che, anche se una colpa viene divisa in tre o quattro o cinque, non per questo diventa meno grave. 

  

Autopsia di un "delitto perfetto"

 

 

 Sul delitto la battaglia tra innocentisti e colpevolisti non si è mai sopita, anzi. Orlando, innocentista, propenderebbe per la non premeditazione;144) troppi errori da parte di Dumini, che dimostrò un'impreparazione indecorosa a una simile bisogna, non portandosi dietro neppure un badile per scavare una fossa, tanto è vero che essa fu fatta con arnesi di fortuna in dotazione all'automobile. Certo,  tanta imperizia in chi si accingerebbe a compiere un delitto lascia per lo meno sconcertatati. A meno che il piano fosse un altro. In effetti qualcuno suggerì l'ipotesi che l'idea di Dumini non fosse quella di seppellire Matteotti dopo averlo ucciso, ma quella di gettarne il cadavere nel lago di Vico. Infatti, la macchina dei sicari fu vista gironzolare da quelle parti. Ci sono la catena e i lucchetti che, si dice, vennero poi trovati nell'abitacolo dell'automobile e sarebbero potuti servire non, come ritiene Orlando, per una sceneggiata beffarda nei confronti di Matteotti, ma semplicemente ad assicurare il cadavere a un qualche peso, oltre quello della catena, in modo da farlo rapidamente e "clandestinamente" sparire nel più breve tempo possibile. Però, anche la faccenda della catena è dubbia, in quanto Salvemini fece notare che essa fu trovata nell'appartamento di Dumini, e non in macchina. (145) Comunque, al di là del fatto specifico, anziché una catena si potevano facilmente trovare in loco  dei pesi per far affondare rapidamente un cadavere nelle acque.  Perché Dumini non fece sparire il cadavere di Matteotti nel Lago di Vico? Probabilmente c'era troppa gente in giro, e le possibilità di essere notati piuttosto elevate: da tenere in considerazione che si era in giugno. Eppure vi sono alcuni indizi che fanno pensare fosse  questo il piano iniziale. Dumini in persona ci erudisce circa il modo di far "sparire" le persone proprio attraverso la corrispondenza con Aldo Finzi. Ascoltiamolo: "  Il comunista MANDELLI, l'informatore mio, ideatore dell'agguato ai fascisti di Francesville fu pugnalato nella notte del 19 di settembre e il suo cadavere gettato nella Senna all'altezza del campo di aviazione di Boulogne...". (146)   Dumini quindi aveva un suo "modus operandi"; solo che, al contrario dell'assassinio di Mandelli, che fu ammazzato "di notte", nel caso di Matteotti le cose si complicarono perché, appunto, i componenti la banda agirono in pieno giorno, col timore costante di essere notati.  Dumini pertanto optò per un improvvisato seppellimento nell'ombrosa oscurità del bosco della Quartarella.

   La questione della "tecnica" con cui venne effettuato il delitto non è  di poco momento, e vale la pena di soffermarcisi  attentamente, perché dalla supposta "imperizia" dei sicari ne derivarono inferenze politiche importantissime. La più interessante delle quali è quella per cui, dalla impreparazione dei sicari, ne scaturirebbe la conclusione, che si è tratta, che il delitto fosse preterintenzionale, e che Mussolini avrebbe ordinato una semplice "bastonatura" di Matteotti, e che infine Dumini e i suoi uomini sarebbero gli effettivi responsabili della morte "accidentale" del deputato socialista.

    Analizzando le cose, si possono intanto fermare alcuni punti. Il primo è che né Dumini,  uomo pur astutissimo e abituato a muoversi negli ambienti più torbidi, né gli altri complici erano degli "esperti". Erano dei semplici "picchiatori", che potevano soddisfare pienamente solo la prima delle richieste di Mussolini, ossia il "definitivamente". Per Dumini e la sua banda non c'erano problemi in questo senso: ammazzare un uomo di botte o a coltellate era per loro cosa semplicissima. Il problema nasceva quando si doveva soddisfare la seconda delle richieste del Capo, ovvero far sparire il corpo di Matteotti "clandestinamente". In questo settore Dumini e compagni erano  inadeguati, sia sotto il profilo dell'esperienza personale sia per i tempi stretti in cui si trovarono ad agire.  La banda era costituita di "arditi",  gente abituata all'attacco frontale, al massacro del nemico, ma non a un'azione, diciamo così, "scientifica", fatta cioè non solo di violenza ma anche d'ingegno strategico volto all'occultamento del misfatto. Era tutta gente che agiva, e aveva sempre agito, alla luce del sole, con attacchi "diurni", in mezzo alla strada. Si ricordi, ad esempio, l'azione contro Amendola, condotta in pieno giorno a Roma, lungo un corso affollato di gente. Si ricordi il ferimento di Forni, bastonato a sangue in una affollatissima stazione. Insomma, la banda Dumini era costituita di meri "assaltatori", che non si ponevano neppure lontanamente il problema di occultare il loro operato. Dumini stesso, il "capo" della Ceka, non aveva  esperienze tali  che andassero oltre l'aggressione dell'avversario. L'apertura dell'archivio privato Perrone-Compagni  ci mostra addirittura un Dumini ventisettenne che, a Firenze, partecipava agli assalti fascisti più come "magazziniere" o "portarobe"  che altro. Al nome "Dumini", in preparazione dell'attacco a Prato, si legge: " Sarebbe assai gradito si occupasse di provvedere nel modo più economico possibile i seguenti materiali: 1 tromba, 5 barattoli pieni di pasta, 5 pennelli, 5 scalette di legno per attaccare i manifesti, 500 manifesti-postulati, 500 manifesti vari, 2 martelli pesanti con lungo manico per rompere i macchinari, 4 pali pesanti per sfondare porte. Gradirei avere l'assicurazione che per venerdì sera tutto sarà pronto...".147) Le stesse fole secondo le quali si fosse fatto le ossa con i gangsters americani a Chicago si sono rivelate, appunto, delle semplici fole, in quanto un rapporto segreto dell'OSS [ Office of strategic Services. Si tratta del servizio segreto americano prima della CIA (Central Intelligence agency)] dice che " quando si trasferì in Italia non era che un bambino!". (Canali) Orlando stesso (p. 10) definisce Dumini " un bullo di periferia". Volpi era un violento, uno che t'ammazzava un uomo senza pensarci due volte.   Gli altri erano della stessa tacca. In conclusione, né Dumini né altri del gruppo erano in grado di stabilire una strategia che andasse molto oltre l'aggressione dell'avversario.

   Secondo punto. Date le premesse, è difficile pensare che la "Ceka" riuscisse a far sparire facilmente il cadavere di Matteotti, "clandestinamente" come da richiesta del Capo. Intanto Dumini, per quello che sappiamo, dovette aspettare il rilascio del passaporto a Matteotti prima di poter agire, e per poter onorare in pieno la seconda pretesa del Duce, ossia il "clandestinamente". Il passaporto venne rilasciato dalla questura di Roma il 4 giugno, e Dumini fu avvertito solo il 7, con l'ordine di far sparire Matteotti entro il giorno 10,  prima che comunque andasse alla Camera. Si ha un bel parlare di "improvvisazione". Tutto si sarebbe potuto svolgere secondo le aspettative di Dumini se Matteotti, avuto il passaporto, se ne fosse andato a Vienna  per l'apertura del congresso socialista, prevista per il 5 giugno. 148- Lì, è certo, Dumini gli avrebbe fatto fare la fine del comunista Mandelli, durante la sua missione in Francia del '23, pugnalato e fatto sparire "clandestinamente" nella Senna. Matteotti invece se ne stette a casa, rendendo tutto molto più difficile.     

   Dumini doveva non solo risolvere la questione Matteotti entro il 10,  ma anche esibire una congruente strategia di occultamento. Era difficile anche per un "team" preparato, figuriamoci per l'artigianale "Ceka". Il cammino verso il delitto era "ab ovo" irto di spine, soprattutto perché Dumini non aveva in mano l'iniziativa e anzi doveva "aspettare". Aspettare che Matteotti si facesse vedere lungo il viale Arnaldo da Brescia, e il rischio di farsi notare era altissimo, come puntualmente si verificò, perché qualcuno prese addirittura la targa dell'automobile. (149) A quanto ci dice Canali, la questione della porta daziaria non fu trattata adeguatamente, e quindi Dumini, pur avendo preparato preventivamente una "fossa di calce viva" per Matteotti, non fu in grado di usufruirne. Di fronte a deviazioni di sì difficile soluzione rispetto al programma, Dumini "fuse", e non essendo in grado di pianificare un'azione  soddisfacente,   badò solo al primo corno del problema, quello cioè di ammazzare Matteotti, e per il resto, semplicemente, improvvisò. Il suo gironzolare in macchina per ore  senza una meta  testimonia che Dumini non sapeva che pesci pigliare e che il seppellimento in un luogo boscoso, e soprattutto a portata di mano, gli parve la soluzione più sbrigativa.

   L'improvvisazione sembrerebbe pertanto dominare la scena. Si dice, a sostegno della tesi dell'improvvisazione, che magari Dumini non avrebbe pensato di ammazzare subito Matteotti, che si divincola, crea problemi di "contenimento" a uomini abituati all'azione repentina, nervosi e non pronti psicologicamente a "resistenze" particolari  da parte delle loro vittime. La cosa creerebbe complicazioni. Qualcuno, più nervoso degli altri, avrebbe perso la pazienza e pugnalato Matteotti in macchina, senza pensare che il sangue della vittima si sarebbe sparso dappertutto. La macchina infatti diventa un semenzaio di "prove". Sangue, tappezzeria rovinata e macchiata, un cadavere che non si bene come far sparire: un putiferio. Ma c'è lì il bosco della Quartarella: Dumini vi si infila, fa scavare una fossa con quello che riesce a trovare in macchina. La buca è stretta, poco profonda, la fretta tanta: si costringe il cadavere nel buco, gli si fa violenza perché entri. Poi Dumini agisce nell'unico modo con cui  poteva agire: torna indietro per mettere a posto l'auto ,  facendosi dare una mano da Filippelli, che infatti la fa portare in una carrozzeria, dicendo che l'auto aveva subito un incidente. Tutto a posto. Senonché, l'auto era stata notata da qualcuno, che aveva preso il numero di targa, alcuni ragazzini hanno visto tutto: un disastro.

   Ciò dimostrerebbe un'indecorosa impreparazione: ergo, il delitto non fu premeditato. 

   Ma, come si è detto, questa è solo la seconda parte del dramma. La prima, quella importantissima, ossia l'eliminazione fisica di Matteotti, fu portata a termine secondo consegna, e subito!  Tra le due "consegne", quella prioritaria era la prima, non la seconda. La prima costituiva il "porro unum et necessarium", e questa fu espletata. Solo la seconda parte fu raffazzonata, ma in effetti era molto difficile che Dumini e compagni potessero fare di più. In conclusione, la supposta impreparazione della banda riguardò solo il secondo problema, il "clandestinamente", e non dimostra nient'altro che essa era strutturalmente impreparata a un  compito tanto complesso, superiore alle possibilità dei suoi componenti.  Quando Mussolini disse le famose parole, nel discorso del 3 gennaio, riguardo alla Ceka,: "... Ora i gesti di questa sedicente Ceka sono stati sempre inintelligenti, incomposti, stupidi...",(Corsivo mio) si riferiva solo e soltanto ai "gesti", ovvero ai "comportamenti", e non all'effettiva efficacia di essi, che furono al contrario sempre "efficaci" e raggiunsero sempre, anche se comunque, l'obiettivo. Quando il Duce, tra un'imprecazione e l'altra, osservava che "sarebbe stato sufficiente pisciare sulla targa" per non farsi identificare, rimproverava Dumini di insipienza strategica, non di inefficacia rispetto al compito primario, che comunque fu raggiunto. Quindi, la teoria che l'impreparazione e l'improvvisazione dimostrerebbero la non preterintenzionalità del delitto non sta affatto in piedi, perché improvvisazione e impreparazione riguardarono solo il problema dell'occultamento e non sono probatori del fatto che Dumini non avesse ricevuto l'ordine di uccidere Matteotti.  Insomma, i problemi che Mussolini o chi per lui impose a Dumini di risolvere erano due. Con il primo, gli si chiese di far sparire "definitivamente" Matteotti, e la cosa riuscì in pieno.  Con il secondo, di farlo sparire "clandestinamente", senza tanto baccano, e il risultato fu nullo. Ora, dal fatto che Dumini aveva errato nella seconda consegna, si sono tratte conclusioni non conformi neppure alla logica comune. E' come se si fosse affermato:

  " Poiché Dumini non riuscì nell'intento di nascondere adeguatamente il cadavere, allora Mussolini, o chi per lui, non diede alcun ordine preciso". Ragionamento palesemente assurdo. Ma è proprio questo che è successo. Sentiamo Orlando:

    " ...Personalmente - scrive Orlando -, data la notoria spregiudicatezza del duce, propenderei per [il]...mandato ad uccidere, ma, per obiettività, non posso fare a meno di considerare che sono proprio le caratteristiche del delitto che portano a dubitare della premeditazione... Il tutto, insomma, sta a dimostrare che l'omicidio  era avvenuto contro ogni previsione, e dunque, per logica, dovrebbe portare ad escludere un ordine in tale senso". 150)Corsivi miei) In effetti, è proprio la logica che dovrebbe impedirci di fare "salti" troppo incongrui.

Ancora lungo le vie infinite del caso: il Viale Arnaldo da Brescia 

 

    Chissà se a Matteotti, prima di morire, fu detto chi lo voleva morto. In fondo, che gusto c'è a prendersi vendetta su un uomo senza fargli capire, "in limine", a chi doveva la sua fine. Chissà se Dumini, che non era affatto al volante, ma dietro, o al fianco di Malacria, autista "abilissimo" fatto venire da Milano,  mentre l'auto sfrecciava verso la via Flaminia,  fornì sadicamente alla sua vittima quell'indizio che la Storia, a mo' di Sfinge, ci ha sempre posto dinanzi agli occhi: il fatto cioè che egli era stato rapito e sarebbe stato "giustiziato" non in un punto qualunque dell'Urbe, ma in Via Arnaldo da Brescia.

   Ci attesta Renzo De Felice che Alessandro Mussolini, il socialista anarchico padre di Benito e Arnaldo, battezzò i suoi figli con i nomi a lui più cari di rivoluzionari e ribelli. Per Benito pensò a Benito Juarez (eroe nazionale messicano, 1806-1872) e per il suo secondogenito, Arnaldo, ricorse, guarda caso, ad Arnaldo da Brescia. 151)

  

 "Arnaldo da Brescia" fu  nome  fatale a Matteotti. In assenza, per parafrasare Salvemini, di improbabili documenti firmati, guardiano ai fatti.

   Alcuni innocentisti, a sostegno della casualità del delitto, affermarono che quel giorno la Camera era chiusa, e che Matteotti uscì in gilet e senza cappello, "cosa che per i canoni estetici del tempo era inammissibile", a segnale che egli voleva fare una semplice passeggiata lungo via Arnaldo da Brescia, in quanto "aveva percepito il misterioso richiamo della morte". 152) Ipotesi molto suggestiva.

   Peccato che Canali  la smonti: non di una passeggiata per diporto si trattava. Matteotti si stava recando al lavoro, "perché stava preparando alla biblioteca della Camera l'intervento sul bilancio provvisorio", 153) e prese proprio via Arnaldo da Brescia, anziché il tram n° 15, come solitamente faceva. 

 Dumini, nel processo di Chieti, negò recisamente che via Arnaldo da Brescia fosse stata il luogo prescelto per il rapimento. 

 "-Presidente -

 Dite dunque che il rapimento non fu premeditato?

Dumini -

Non fu premeditato, neppure per quel giorno. La mia intenzione era sorvegliarlo, tanto è vero che mi ero disposto sul lungotevere perché sapevo che egli non vi passava mai o quasi, una volta su venti. Faceva la strada che porta in via Flaminia, dove prendeva il tram 15 che lo portava al centro...".(Corsivo mio) (154)

   E' proprio questo deciso  diniego che ci dovrebbe indurre a pensare l'esatto opposto. Dumini era un uomo molto furbo, e lo ha sempre dimostrato. Se infatti Matteotti passava sì e no una volta su venti per il Viale Arnaldo da Brescia, vien proprio da pensare che fu un caso ben strano che egli transitasse per diporto proprio di lì il giorno prima dell'importante discorso che egli doveva tenere alla camera, e per il quale, secondo Canali (pp. 79-80), " c'era comunque molta attesa". Si potrebbe sospettare, con ottime ragioni, che il caso fosse stato aiutato, e non di poco.

   E se  Matteotti si fosse dovuto incontrare con qualcuno sul lungotevere? E se vi fosse stato attirato  con una trappola? Il viale Arnaldo da Brescia portava in centro, ma dalle foto d'epoca risulta essere un viale  che si prestava pochissimo alle passeggiate "in pieno giorno", specie in una giornata molto calda, com'era quel 10 di giugno, ma moltissimo per le manovre di un'automobile. Largo e spazioso, permetteva a un autista "abilissimo", come l'aveva voluto Dumini, di muoversi con la massima agilità. Quando si volle accreditare il "complotto internazionale" di matrice sovietica, Mussolini disse all'ambasciatore inglese Fletcher, che accolse l'ipotesi sghignazzando incredulo,  che bisognava valutare molto attentamente la posizione del "Russo" Thierschwald. Disse, con il suo solito linguaggio ammiccante: "Non si deve essere troppo sicuri che non abbia alcuna importanza la figura di questo russo". (155) Ed era vero. Thierschwald era uno dei pochissimi, se non l'unico in quella temperie storica,  che poteva attirare Matteotti in una trappola mortale. Il "Russo", un ragazzo, poco più che ventenne, si era fatto vedere spesso in Casa Matteotti,  addirittura era entrato nelle sue simpatie, ,e, pur sospettandolo di doppio giochismo, non gli aveva negato la sua confidenza. Thierschwald dal canto suo "inseguiva" letteralmente Matteotti: a casa,  alla Camera, dentro la stessa biblioteca della Camera, o addirittura presso gli amici, facendosi sorprendere a chiedere un colloquio con Modigliani, andandolo a trovare nel suo studio di avvocato per "importanti rivelazioni" (Canali, pp. 312-313). Thierschwald insomma stava forse preparando il terreno per attirare Matteotti non in un punto qualunque di Roma, ma in via Arnaldo da Brescia. Fu visto molte volte intorno alla casa di Matteotti il 5 e poi il 7 e infine alla vigilia del delitto, il 9 di giugno (Canali, p. 321). Era sempre con le tasche imbottite di bigliettini; erano certo le note che riguardavano orari e abitudini di Matteotti, ma forse erano anche i messaggi che gli servivano per incuriosire Matteotti, per attirare la sua attenzione, per trascinarlo lungo una via particolare, per una "passeggiata" sul lungotevere in modo da fargli alcune rivelazioni che lo riguardavano "personalmente". Matteotti uscì senza cappello quel giorno, in gilet, senza cioè quei segni di riconoscimento che lo qualificavano come l'on. Matteotti, per incontrarsi ufficiosamente lungo la strada con "qualcuno", per scambiare quattro chiacchiere con un tizio poco raccomandabile, e non certo degno della "compagnia" di un deputato del suo calibro. Sembra quasi che Matteotti, prima di uscire di casa, abbia voluto quasi mimetizzarsi, togliendosi le "insegne" che lo qualificavano, uscendo anonimamente prima di arrivare alla biblioteca della Camera per concludere il suo discorso. Ecco perché Matteotti non prese il tram n° 15, quella strada che prendeva 19 volte su venti lungo una via nota e battuta, con gente che lo conosceva: perché quel giorno doveva avere un colloquio anonimo, in un'anonima e assolata via di Roma, in un'ora anonima della giornata, con un uomo in compagnia del quale  non desiderava farsi vedere. E infine, come mai Thierschwald fu visto da alcuni testimoni sgattaiolare via a piedi, "anonimamente", dopo l'attacco di Dumini?( Canali, p. 321) Che ci faceva lì se non per ricoprire il ruolo per cui era stato assoldato, fare cioè lo specchietto per le allodole? Thierschwald è stato uno dei personaggi più "emarginati" fra i protagonisti del delitto. Thierschwald fu emarginato dallo stesso Dumini, il quale asserì che l'austriaco fu ingaggiato per "una sorveglianza saltuaria"; 156) ma fu emarginato anche in modo macroscopico dal più grande studioso del fascismo, ossia da Renzo De Felice, che in un libro di 800 pagine, tale è il suo "Mussolini il fascista", dedicato in parte al delitto, lo cita una sola volta, e in un contesto del tutto anonimo, "intruppandolo", e  quasi nascondendolo alla vista. Ecco il passo:

"Autori dell'aggressione furono Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo, Augusto Malacria, e, forse, Filippo Panzeri. Tutti costoro, insieme ad Aldo Putato e Otto Thierschwald, facevano parte di una squadra agli ordini del Dumini...". 157)

Stop. De Felice non aggiunge altro.

   E' difficile credere che uno studioso del calibro di De Felice, analitico fino alla mania, abbia così facilmente glissato sul "Russo", che pure fu al centro di un' importante campagna di stampa di parte fascista, che ne volle fare l'artefice di una sorta di "complotto internazionale"? De Felice è stato il più autorevole sostenitore della teoria del delitto "casuale" e della sola "responsabilità morale" di Mussolini: andare a indagare troppo su un personaggio come Thierschwald avrebbe in parte potuto smontare la sua articolatissima tesi. Invece di andare a scomodare il "caso" o il "destino", come è stato fatto abbondantemente, occorrerebbe, come ipotesi di lavoro da verificare con maggiore acribia di quanto io possa fare, indagare ulteriormente sulla figura del Russo, che, per i suoi agganci con Matteotti, per la simpatia mista a tolleranza che seppe ispirare al deputato polesano, fu quasi di certo l'uomo   che servì a Dumini per attirare la vittima lungo l'unica strada che avrebbe permesso all'automobile guidata da Malacria di fare tutte le manovre necessarie, senza eccessivi ostacoli. E Thierschwald era lì, sul posto, il giorno del delitto, e poi fu visto allontanarsi in tutta fretta, sparendo così in quell'anonimato, in quella "marginalità", in quel limbo dal quale sarebbe ora di sottrarlo, e dal quale Canali lo ha effettivamente sottratto. Ma perché mai, una volta raggiunta Milano insieme con Putato, gli si cambiarono i connotati? Perché fargli tagliare i capelli e la barba se era un uomo che non contava nulla? Più logico pensare che Thierschwald avesse ricoperto un ruolo importantissimo in tutta la vicenda. Egli fu visto attorno alla casa di Matteotti alla stessa vigilia del delitto, il 9 di giugno e, a quanto si dice, era uno con le tasche sempre piene di fogliettini, di "messaggi", da evidentemente far pur pervenire a qualcuno. Egli, rileva acutamente Salvemini, pur non avendo partecipato al delitto, "studiando le abitudini di Matteotti, aveva partecipato alla preparazione del ratto".  Del resto Thierschwald solleticò la curiosità di Matteotti con improvvise apparizioni, intrufolandosi addirittura in casa sua e lasciando diversi bigliettini  del seguente tenore: "Matteotti! Ditemi per favore quando posso incontrarvi". Nessuno oggi, allo stato delle nostre conoscenze, potrebbe dire se un qualche messaggio non fosse stato fatto scivolare nella cassetta della posta o sotto la porta della casa di Matteotti, richiedendo un colloquio, magari breve, per il giorno 10, lungo l'anonimo e assolato lungotevere Arnaldo da Brescia. Nessuno lo potrebbe dire, ma nessuno è in grado di escluderlo a priori. Se però Thierschwald fosse riuscito ad "agganciare" Matteotti lungo quella via,  Dumini avrebbe potuto ottemperare a due imperativi categorici: agire rapidamente e, soprattutto, obbedire alla ragione "simbolica" del Capo, che voleva il suo nemico su quella strada per fargli capire "per chi" egli era stato condannato a morte.   Alcuni testimoni, scrive Canali, "... riferirono che, quando Matteotti giunse sul lungotevere, l'auto con i rapitori era già ferma ad attenderlo all'angolo tra via degli Scialoja e lungotevere Arnaldo da Brescia". Dall'angolo di via degli Scialoja era inoltre possibile "controllare il portone dell'abitazione di Matteotti". Per Matteotti non c'era scampo.   

   L'ipotesi della trappola, una trappola però "carica" di importanti valori simbolici, indiziaria, certo, è però molto più credibile di considerazioni come quelle di Orlando che seguono, che vorrebbero attribuire tutto al "caso" e al "destino": "... Egli aveva percepito il misterioso richiamo della morte e non voleva mancare all'appuntamento. Il modo con il quale un individuo va incontro alla propria morte è terrifico ed affascinante nello stesso tempo, poiché si esplicita attraverso un irresistibile impulso di andare a cercarla nel luogo più recondito...".  Il  tutto è fatto precedere da inesattezze abbondantemente cassate da Canali,  come quella che, non tenendo conto che Matteotti stava preparando un discorso alla biblioteca della Camera, fa passare l'idea che egli "aveva deciso di uscire senza alcuna ragione apparente", e proprio mentre " il Parlamento era chiuso". Il Parlamento era chiuso, ma non la biblioteca. (158)

 Invece, più pragmaticamente, si registrno due fatti.

  Primo: che via Arnaldo da Brescia fu fatale a Matteotti.

  Secondo: che Mussolini non credeva punto al caso, ed è logico, stavolta sì che è logico, pensare ci credesse ancora di meno quando si trattava di "casi" estremamente importanti,  "vitali".  Dumini, l'astuto,  aveva detto una verità enorme, potente, come tutto fu grande e potente in quell'ormai lontano e tragico fatto di sangue.  Nei "Colloqui"  Ludwig chiese al Duce se credesse al caso. La risposta è utile per capire se dietro v'era un uomo che credeva nella casualità, perché tutto in quel delitto sembrò a molti dettato dal caso.  Mai dobbiamo dimenticare  invece che dietro c'era un uomo, Mussolini, che non credeva assolutamente al caso, che aveva una fortissima intelligenza "simbolica", e infine che credeva sì nel destino, ma che non disdegnava di dargli ogni tanto una spintarella per indirizzarlo dove voleva. Mussolini non perdette mai, osservò Ludwig, " il senso dell'azione simbolica". " Comprendo dunque bene, chiesi ancora, che Ella intende le sue azioni in modo simbolico?...". "Senza il simbolo - rispose Mussolini- la vita sarebbe casuale, indifferenziata". "Ma quello che non capisco - insisteva Ludwig - è come un fatalista possa superare il contrasto derivante dalla sua attività". E Mussolini: " Si deve con la volontà reagire contro il fatalismo. La volontà deve preparare il terreno sul quale il destino si deve sviluppare". 159)  Forse Mussolini non avrebbe voluto arrivare a tanto, ma, per le ragioni testé dette,  vi fu costretto dalla, per lui, assoluta, ineludibile necessità di proteggere il fratello, in un primo tempo, e la sua memoria poi. Un'ira violentissima, lacerante, e le testimonianze lo confermano, prese possesso dell'animo del Capo, che in uno scatto di impudente onnipotenza volle "simbolicamente" firmare il delitto, lasciando intendere "per aenigmitate" (forse alla sua stessa vittima? forse, sarcasticamente irridente, al mondo intero?)  attraverso il "dove" (Via Arnaldo da Brescia),  per "chi" Giacomo Matteotti moriva: per il "fragile" Arnaldo che, agli occhi di Benito, non avrebbe neppure saputo difendersi.

    " Non crede", osservò Ludwig nei suoi "Colloqui con Mussolini", " alla potenza magica di un nome? Non è strano che suo padre, un fabbro ferraio, abbia dato ai suoi due figli due nomi, che sono stati portati nella storia da due ribelli?". " A mio fratello non è servito molto, rispose Mussolini. Non aveva la passione di quell'Arnaldo di cui portava il nome. E' difficile diventare rivoluzionari. Rivoluzionari si nasce".  (160)

 

   Ergo, era Benito che doveva pensare al fratello, in tutto. E i fatti successivi dimostrarono a Mussolini che i suoi timori riguardo alle rivelazioni di Matteotti erano più che fondati. Il "Daily Herald", il 26 luglio 1924, usciva con un articolo clamoroso, in cui si "precisava che la Sinclair Oil, per ottenere il monopolio dell'esplorazione aveva dovuto sborsare trenta milioni di lire ad Arnaldo e ad uomini politici, dei quali il giornale inglese faceva i nomi dei soli Rosboch e Finzi...". E infatti Rosboch e Finzi erano già stati in vari momenti  liquidati.    "Un'alta personalità liberale" avrebbe detto che " a Roma era sulla bocca di tutti... che l'on. Mussolini possedesse documenti... che si riferivano a prove contro il Finzi sugli affari compiuti per i petroli...". Per Finzi fu impossibile uscire da questo tunnel, in quanto, a suo tempo, fu " attivo protagonista della prima fase delle trattative Sinclair-governo", presentandosi con Caetani a De Stefani, esercitando nella trattativa " un ruolo... assai più grande di quanto non si fosse fino ad ora pensato".161) Mussolini quindi "incastrò" Finzi su fatti ed eventi impossibili a smentirsi. Non sappiamo bene chi abbia potuto  aver passato simili notizie al "Daily Herald", ma  ci fu quasi sicuramente lo zampino della società inglese Anglo Persian, avversaria della Sinclair e tenacissima avversaria della Standard Oil americana.  L'articolo di Anonimo fu quanto di peggio potesse accadere in quel momento al governo Mussolini, perché andava a colpire non solo alcuni uomini ma la stessa esistenza del regime.  Rosboch era  stato uno stretto collaboratore di De Stefani, e colpendo lui si intendeva  colpire, sia pure di riflesso, anche il Ministro delle Finanze, il quale, pur non essendo un acceso sostenitore della Sinclair, non vedeva con sfavore l'accordo. Finzi, dal canto suo, non solo a suo tempo aveva appoggiato la Sinclair, ma, come abbiamo visto, a livello personale era legato  anche con la Banca Commerciale, molto interessata alla questione del finanziamento alla ricerca petrolifera in Italia e alleata alla Standard Oil attraverso la Sipar. Sull' "English Life" venne colpito, dai fulmini dell'Anonimo, oltre a Rosboch e a Finzi, un terzo personaggio, che non era uno qualunque, ma il fratello del Duce. Mentre i primi due potevano essere sacrificati sull'altare della "questione morale", che Mussolini perseguì tenacemente proprio per dimostrare al mondo la sua buona volontà di fare un bel repulisti nel partito, il terzo, come si diceva, non lo si poteva toccare. Non c'è che dire: l' "Anonimo inglese" aveva sparato a zero, sperando  un qualcosa di più di una semplice epurazione. Un attacco del genere, portato dentro la famiglia del Duce, a soli due anni dalla Marcia su Roma, quando tutto è ancora estremamente fluido, implicava un desiderio esplicito della fine del fascismo. La posta in gioco per l'Anglo Persian era altissima: la conquista monopolistica del mercato italiano. Un affare  colossale che non escludeva certamente la fine stessa di un governo. C'è altresì da scommettere che quelli dell'Anglo Persian fossero gli stessi che a suo tempo avevano informato Matteotti sulla Sinclair durante il  viaggio a Londra, perché erano gli unici veramente informati e interessati a bloccare l'affare, anche a costo della fine del regime di Mussolini. Gli unici che lo potevano aver pedinato con estremo interesse, sin da quando Caetani da Washington avvertiva De Stefani nel marzo del 1923 che gli americani erano disponibili ai famosi prestiti; e sin da quando Lamont, amico personale di Stringher, governatore della Banca d'Italia, aveva detto di essere pronto a un incontro con lui in Italia per definire bene il tema. Lamont infatti ha un incontro con De Stefani e Mussolini, riferendo che Morgan era disponibile a intervenire al momento opportuno. Quando poi scoppia lo scandalo Sinclair e Mussolini intraprende anche contatti con l'Anglo Persian, la tensione sembra diminuire. Ma La Standard Oil, che è dietro la Sinclair, non demorde, si allea con La Banca Commerciale, dà vita alla Sipar: di qui di nuovo il pericolo che l'affare americano vada in porto lo stesso, con grave perdita dell'Anglo Persian. Poi Mussolini porta avanti la Convenzione, che viene approvata. C'è prima l'attacco postumo di Matteotti sull'"English Life" e poi, visto che non succede nulla, un secondo attacco, ancora più devastante, che coinvolge Arnaldo, il fratello del Duce. Mussolini intuisce il pericolo: insieme con Nava, che ha sostituito De Stefani alle Finanze, pur portando avanti l'affare con la Sinclair fino a novembre,  lo fa arenare in Commissione. Si vocifera che dietro la fine dell'accordo "ci siano gli inglesi". Gli inglesi in effetti sono convinti che gli americani siano disposti a tutto pur di colpire i loro interessi in Italia: i laburisti inglesi, dal canto loro, fecero di tutto per attirare l'attenzione di Matteotti sull'affare Sinclair, "e sulle manovre che in Italia stava conducendo la loro concorrente". Né si deve scordare che il "The Daily Herald" era "organo ufficiale del Labour/Tuc". E il 19 giugno, a qualche giorno dal delitto, Pellizzi, corrispondente del "Popolo d'Italia", telegrafava da Londra: "... Giornali americani odierni recano corrispondenze da Roma in cui si fa risalire caso Matteotti a scandalo petroli e illecite attività agenti ditta Sinclair. Dicesi Matteotti durante visita a Londra scorso aprile ottenesse documenti compromettenti per vari capi fascisti". 162) Mussolini aveva intuito in pieno tutta la pericolosità di quell'intervento che Matteotti voleva fare alla Camera il giorno 11 di giugno. L'Inghilterra e il Foreign Office, ovviamente, negarono recisamente di avere avuto a che fare con la questione dei petroli. In seguito però l'Italia comprò petrolio  dall'Anglo Persian e gli inglesi sembrarono molto soddisfatti della cosa. (Canali) L'attacco dell' Anonimo ebbe le sue dure conseguenze. Rosboch era gia stato liquidato a marzo del 1923. Citare Finzi  non aveva però  significato  colpire solo un nemico, bensì due. Ad un tempo si eliminano sotto pesanti accuse di corruzione non solo Finzi, ma anche si rafforzava il sospetto del governo contro  la Commerciale, che aveva tramato sul petrolio, alleata della Standard Oil. Finzi, noto biscazziere e intrigato in tutto, dalle bische ai petroli, dai residuati bellici agli interessi della Commerciale , diventava in toto il capro espiatorio "naturale" di tutto l'affare. Arnaldo fu coperto da una cortina fumogena da cui rimase fuori Finzi, che pagò per tutti. Ancora una volta Mussolini disse la verità quando informò Finzi di essere costretto a chiedergli le dimissioni  non per il delitto Matteotti, ma per altre ragioni che non c'entravano niente con il fatto, a cui anzi lo riteneva "estraneo".  Il delitto c'entrava, in effetti, ma il  vero obiettivo era quello di creare  un falso ma molto credibile bersaglio,  che permettesse  a Mussolini di proteggere il fratello, facendo così di Finzi l' "agnello" (si fa per dire) sacrificale di tutta quella tragica vicenda che fu il delitto Matteotti. Mussolini volle definire il delitto  nei "Colloqui" con Emil Ludwig, uno dei tanti omicidi "misteriosi". Un giorno Ludwig chiese: "... Ha potuto generalmente nascondere più cose agli uomini che non gli uomini a Lei?...". Mussolini rispose enigmatico: "... Rimane sempre un x. Questo è il cono d'ombra". 163)

 

     Mussolini era oratore facondo e scrittore di vaglia. Era comunque un uomo che sapeva pesare le parole. "La potenza della parola", confessò a Emil Ludwig, " ha un valore inestimabile per chi governa. Occorre solo variarla continuamente"  (Corsivo mio). La parola, dunque, era per il Duce strumento privilegiato, ma, l'uomo di governo doveva saperla "variare", manipolare opportunamente. Seguiremo molto attentamente gli esercizi linguistici di Mussolini, perché potrebbero portarci altri indizi molto utili e interessanti circa la sua visione delle cose, specie su quello che ci interessa, ovvero il delitto Matteotti.  Il 7 di agosto 1924 Mussolini tenne un lunghissimo discorso, la cui importanza però non sta tanto nel testo definitivo, quanto nelle "varianti" primigenie che egli espunse per non  esporsi  troppo. Le "varianti d'autore" ci sono state conservate da Renzo De Felice, con un lavoro meritorio e del quale non lo si ringrazierà mai abbastanza. Si tratta, nella redazione definitiva, di un discorso tutto sommato non compromettente, perché il Duce vi aveva lavorato sopra di lima e di forbice, tagliando periodi piuttosto lunghi, smussando gli aggettivi, cambiando i verbi. Ma le varianti primitive, gettate sulla pagina con notevole veemenza, rendono il discorso molto potente, da assimilarsi quasi a un vero e proprio sfogo, dopo le lunghe e spossanti giornate seguite al delitto. Da notare che Mussolini non chiama neppure per nome Matteotti, ma, con una sorta di malcelato, rancoroso e freddo distacco, lo definisce "quel signore", poi corretto in " quel deputato".

[Del discorso si danno alcuni passi: in corsivo le frasi della prima versione, poi espunte. Fra parentesi quadre il testo definitivo].

" Voi non avete [avete appena] toccato un argomento: quello più delicato veramente: la tragedia del giugno. [Ebbene, io ho vissuto quelle giornate tutte in un diario che è impresso profondamente nel mio spirito...]. La Camera approva. C'è una distensione di nervi in tutta Italia. [Per la prima volta all'indomani, mi prendo una giornata di riposo]. Credevo che tutte le cose andassero secondo i piani... Voi credete veramente che l'emozione profonda che c'è stata sia dipesa soltanto dalla scomparsa di quel signore [quel deputato]? Niente affatto [No]". 164)

   Mussolini sente l'urgenza di intervenire su una questione  sulla quale gli oratori precedenti non si erano soffermati. Le cose sembravano andar bene: finalmente poteva permettersi una giornata di riposo, ma poi gli capita tra i piedi la "scomparsa di quel signore". Ora cerca di spiegare le ragioni dell'accanimento degli avversari contro di lui. A monte c'è il fatto che nel delitto vengono coinvolti uomini vicini a lui.

    "... Gli uomini che ho dovuto colpire erano assai [abbastanza] vicini a me e [ questo ha determinato in tutta l'opinione pubblica questa domanda: sapeva o non sapeva? Prima di tutto osservo che è difficilissimo conoscere gli uomini. E' inutile che io vi dica che quegli uomini li vedevo fugacemente e non avevo dimestichezza quotidiana con loro].

    Mussolini cerca di prendere le distanze dai suoi uomini: che erano non assai, ma abbastanza vicini a lui; e poi li vedeva fugacemente, non certo ogni giorno. Di qui dunque era nato il tormentone degli avversari politici: il duce sapeva o non sapeva? 

    Mussolini mentiva.   Infatti, Finzi, Rossi, Marinelli, Acerbo, De Bono andavano nel suo ufficio tutti i giorni. Nel discorso tenuto all'Assemblea del P.N.F. il 28 gennaio del 1924 Mussolini disse testuali parole: "... Quelli che sarebbero i cattivi consiglieri del buon tiranno sono cinque o sei persone che vengono da me tutte le mattine, al quotidiano rapporto, per farmi conoscere tutto quanto succede in Italia... Sono i collaboratori più diretti della mia fatica quotidiana e che specialmente spartiscono con me il pane salato della diretta responsabilità del governo fascista...". (Corsivi miei) 165)

    I suoi nemici lo vogliono incastrare, "non sperano altro".

   " Essi vogliono [sperano] che attraverso l'istruttoria arrivi qualche cosa per cui sia possibile mettere in giuoco il Capo del Governo, [e sperare di poter determinare una situazione politica  delicatissima].

   I suoi nemici, argomenta Mussolini, sperano dunque, anzi "vogliono" che salti fuori  "qualche cosa" che permetta loro di inchiodarlo. Qui il duce è chiaro: agli avversari non importa che  sia implicato personalmente, l'importante è che emerga "qualche cosa": che cosa? Una cosa qualsiasi, purché "metta in gioco il Capo del Governo", e determini una crisi.

   Benito quindi teme che accada "qualche cosa" che lo metta in seria difficoltà. Egli è un uomo che sa valutare le circostanze, anche le più remote.   E' per questo che  quattro giorni dopo il fatidico 10 giugno fa delle ricerche in Inghilterra per sapere tutto degli spostamenti di Matteotti.

   A quattro giorni dalla scomparsa di Matteotti, Mussolini spedisce  all'ambasciata italiana a Londra un telegramma, nel quale chiede chiarimenti su :

    ...Epoca e durata recente soggiorno Matteotti a Londra, quali contatti ebbe e per quali scopi, se accostò anche elementi del governo. (166)

   Ecco, da lì, dalla "Perfida Albione", effettivamente, poteva arrivare quel "qualche cosa" che gli poteva togliere il sonno. E infatti a luglio arrivò, postumo, un bell'articolo di "Anonimo" in cui si facevano non solo i nomi di Finzi e Rosboch, già debitamente epurati, ma anche quello del fratello Arnaldo. Quel "qualche cosa", comunque, non ebbe la benché minima risonanza in Italia, e l'innominabile non venne infatti nominato.

     La crisi tanto attesa  non ci fu. Il governo reagì energicamente. Ma perché gli avversari non si rendevano conto che il fascismo aveva vinto? Perché non prendevano atto di questo dato di fatto e non iniziavano a collaborare? 

   Noi, dice Mussolini, abbiamo porto  "... un ramoscello d'ulivo. In fondo noi diciamo a questi pessimi italiani: perché volere negare la realtà, perché non rendervi conto... perché non accettare la collaborazione...[e accettare la disciplina e la concordia nazionale...?]. Se i nostri antagonisti -continua Mussolini-  non vorranno capire, allora i fascisti dovranno far uso [della forza, ossia che vinca chi è il più forte, allora non possiamo rifiutarci a questa necessità che è una questione di vita o di morte, di essere o non essere].

   Gli antifascisti dunque, con gran dispiacere del Duce, sono avvertiti: o accettano il fatto compiuto, oppure si verrà al sangue, perché per il fascismo è questione amletica: essere o non essere, esistere o no. No!, esclama ancora Mussolini, non è questione di crudeltà; il fascismo non è  [feroce, ma soltanto capace di quella necessaria crudeltà, la crudeltà del chirurgo].

   Ho sottolineato nel testo in corsivo i termini "necessità" e "necessaria" perché essi sono consustanziali al pensiero del Duce, che si definì un fatalista,  non un fatalista esangue, ma uno che sa crearsi una via di fuga, che sa quasi precostituirsi il proprio destino.

   Allora, osservò Ludwig, se lei è un fatalista, " sarà anche guidato e forse anche tormentato da presentimenti. - Tutte e due le cose... nell'estate già sento l'autunno e avverto in anticipo anche le minacce... Recentemente - esclama Ludwig- ho letto qui a Roma, sopra una parete, un motto che mi ha impressionato: Oltre il destino. - Sono parole di un uomo - egli chiese - che ha già sfidato una volta il destino?-. - Senza dubbio dissi io, e pronunciai il nome di un famoso aeronauta. - Questo non è il mio motto disse Mussolini. Nessuno può osare di sfidare due volte il destino. Del resto, ognuno muore come- secondo il suo carattere- deve morire". 167)

 

    Il culmine dell'abilità "variantistica" Mussolini lo raggiunse in un particolare momento della sua esistenza, quando disse quella frase famosa che fu ripresa da tutti gli "innocentisti" come una prova della buona fede del Duce, in quanto da essa promanava una forza di verità indiscutibile.  Sono d'accordo, Mussolini diceva la verità:

   "... Solo un mio nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualche cosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto...". (Corsivo mio)

    La frase è perfetta. Ma perché Mussolini non usò il verbo a lui caro, il verbo prìncipe che "indica l'azione" ( al principio, confessò a Ludwig, non v'era la parola, "al principio era l'azione"[p. 208]), cioè il tanto amato e abusato, caro verbo "fare"? Perché Mussolini non disse: "Solo un mio nemico... poteva fare questo delitto"?

    Eppure il Duce conosceva benissimo il valore del verbo "fare". Il 3 aprile del 1909 egli scrisse un articolo dedicato alla "Voce", dicendo fra le altre cose:

   " Nelle pagine del "Leonardo", si faceva ( ho usato di proposito il verbo "fare") della filosofia...". (Corsivi miei) 168)

   Mussolini non usò "fare" scientemente,  perché altrimenti ne sarebbe uscita un'affermazione non solo meno potente, ma falsa.  Esperto "variantista", conosceva bene i sottilissimi confini che dividono il verbo "fare" dal suo quasi parente  "effettuare". Infatti "effettuare" non è univoco come "fare", presenta delle sfumature, e s'avvicina a indicare l'azione, al "fare" in senso stretto, solo in alcuni ed esclusivi casi, molto particolari, come c'insegnano i dizionari. In tutti gli altri casi il ventaglio è aperto a soluzioni che dovettero veramente soddis-fare il Duce. "Effettuare" significa anche "Inverare", "rendere possibile". Rileggiamo la frase:

   "... Solo un mio nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualche cosa di diabolico, poteva "inverare", "rendere possibile" [=effettuare] questo delitto".

     Mussolini non aveva alcun nemico che gli potesse "fare" lo sgradito "regalo" di buttargli, come lui disse, "un cadavere tra le gambe"; mentre ne aveva uno, sicuro e super collaudato, che glielo poteva "effettuare", ossia "rendere possibile", "inverare", e quest'unico nemico era lo stesso Matteotti.  Ecco dove sta la forza di verità delle parole di Mussolini.

   In pratica, chi era quel suo nemico che passava notti insonni a complottare e, con il suo protervo comportamento, aveva reso possibile il delitto se non Matteotti stesso? Amici e avversari riconoscevano tutti che le caratteristiche di Matteotti erano appunto queste: inimicizia totale con il fascismo; notti insonni passate a pensare a come sconfiggerlo. Queste doti, le doti del "suo" implacabile nemico, erano le doti di Matteotti. Nella sua deposizione al processo di Chieti, Cassinelli, socialista e amico di Matteotti, così depose: "...Matteotti... era l'oppositore più efficace e più tenace, l'uomo che non cedeva mai perché non aveva riposo... Il grande scomparso era di esile aspetto, ma di una tenacia quotidiana incoercibile...". (Corsivo mio) E Quilici, fascista, così deponeva allo stesso processo di Chieti: "... Era l'avversario più irreconciliabile, più accanito, più tremendo del fascismo...". 169)

  E infine sentiamo anche l'opinione autorevole di Dumini, che Matteotti l'ammazzò, e che in pratica ci rivela chi era l'unico, vero e grande nemico del Duce, che passava le notti insonni a tramare contro di lui. Dumini disse:

" Matteotti era il vero  e unico  avversario del fascismo". (Corsivo mio) (170)

      L'abilità variantistica di Mussolini non si esaurì nell' esempio citato sopra. Nello stesso discorso appena analizzato, Mussolini aggiungeva qualcos'altro. Riprendiamo tutto il passo:

   " ...Solo un mio nemico che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto che oggi ci percuote d'orrore e che prima di essere orribile è di una umiliante bestialità".

   Tutto bene. Ma ben tre giornali, usciti il 4 giugno 1924, "Il Messaggero", "Il Giornale d'Italia" e "Il Corriere della Sera", nonché i verbali della Camera, al posto di "umiliante bestialità", riportano le primigenie parole di Mussolini, il quale definì il delitto di una desolante stupidità. (171) Insomma Dumini aveva dimostrato di essere, nel "clandestinamente", un perfetto idiota agli occhi del Duce, che, però, con la sua solita "intelligenza variantistica", aveva intuito l'estrema compromissorietà del sintagma, che opportunamente fu variato da "desolante stupidità" nel più sicuro "umiliante bestialità".

   

   "...Come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, non dico solo di far commettere un delitto, ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell'avversario che io stimavo perché aveva una certa "cranerie", un certo coraggio, che rassomigliavano qualche volta al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi?".  (Corsivo mio)

   Spavalderia, ostinatezza, coraggio: erano le doti che rendevano "affini" Matteotti e Mussolini. Il discorso del Duce possiede, al solito, una forza di verità indiscutibile, grande. Ma, come al solito, va letto in filigrana.

   E' vero che Mussolini non avrebbe mai e poi mai fatto nemmeno uno "sfregio" al suo ardito avversario. Tranne in un caso, però. Qualora, lo dice lui stesso, non fosse stato colpito da morbosa follia.     Matteotti si fece così pericoloso, così mortalmente esiziale per il fascismo, per Arnaldo, per Benito stesso, che quest'ultimo fu colto  da un'incontrollabile "morbosa follia", da un'arrabbiatura così parossistica da farlo straripare: tutte le testimonianze ci dicono di ripetuti, reiterati e tremendi scoppi d'ira, che terrorizzavano persino coloro che erano abituati alle sfuriate del Duce:

   " Che fa Dumini? Si fa le seghe?".

   E quando fu scoperto il numero di targa:

   "...Porca ...- disse- bastava avessero pisciato sulla targa...".

   Il Duce era stato dunque colto da "morbosa follia"? "Morboso" è  termine medico, che indica l' "agitazione che incita al delitto", spiega lo Zingarelli. Al solito Mussolini, "variando" le parole, scegliendole accuratamente, diceva alla fine quello che voleva effettivamente dire: ossia la verità. Ecco perché i suoi discorsi possiedono una forza prorompente, vera, "credibile".

   La posta in gioco con il delitto fu così grande che Mussolini perdonò e "ripescò" solo e soltanto coloro che tennero le labbra ermeticamente sigillate. Il caso di Marinelli è emblematico. Gli altri, quelli che, come  Finzi e Rossi, credettero vicino il tracollo di Mussolini e parlarono, fecero il suo nome, furono dichiarati eretici, e su di loro calò il sipario. Per loro, la scena del fascismo non ebbe più né riflettori né luci. E quanto a Finzi, egli fu  consapevole del delitto, e lo testimonia, al di là di ogni dubbio, la sua precipitosa "fuga" in Polesine alla vigilia del delitto, accompagnata dalla grancassa del  "Corriere del Polesine", per crearsi un solido alibi.

  

 

 

 

L' "Ignoranza socratica" di Aldo Finzi

 

 

    "Quando tornerà il re -disse Aldo Finzi- ...gli esporrò come stanno le cose, e penserà lui a reintegrarmi nella mia dignità". E ancora: " Il fascismo può chiedermi tutto, anche la vita, ma non l'onore".  (Salvemini, p. 229)

   E infine, concluse, " Io sono assolutamente ignaro del delitto". (Salvemini, p. 230)

   E' proprio qui, in questa supposta "ignoranza", che sta la menzogna.  Finzi,  come Mussolini,  sapeva giocare molto bene con le parole. Ciò che fa la differenza, anche nel suo caso, sono le parole. Infatti, scrivendo al fratello Gino, egli asserì che era in grado di dimostrare la propria innocenza, per cui sarebbe stato

   "... scagionato interamente da ogni sospetto di partecipazione al fatto della sparizione dell'On. Matteotti". (Corsivo mio) (Salvemini, p. 277)

   Finzi non aveva "partecipato" al delitto, questo è certo, tanto è vero che  era in Polesine durante lo svolgimento dei fatti, ma che ne fosse  informato, questo sì che si poteva e si può dire.  Infatti, allorché Mussolini, nel discorso del 3 gennaio, proferiva la famosa frase, riguardo alla Ceka:

   " Si è detto che io avrei fondato una Ceka. Dove? Quando? In qual modo. Nessuno potrebbe dirlo". (Corsivo mio)

    In verità Finzi "poteva dirlo", in quanto informato sui fatti, e lo disse, esattamente a Silvestri, il quale, addirittura prese nota "delle sue conversazioni con Finzi". Silvestri, nella sua deposizione del 30 settembre del 1924, dichiarò che "... egli [=Finzi] attribuiva la soppressione dell'On. Matteotti a una organizzazione segreta sorta in seno al partito e accanto al governo che egli denominava Ceka,...[nata] per volere di Mussolini nella seduta di costituzione di un comitato segretissimo di Salute Pubblica, tenutosi il 10 gennaio 1924, con l'intervento, oltre che del Presidente, di Giunta, De Bono, Forges-Davanzati, Cesare Rossi e Filippelli". 172)

   E anche Filippelli, che tolse letteralmente i sonni al Duce, "poteva dirlo", e lo disse nel suo memoriale del 14 giugno, ove dichiarò che Dumini "... gli aveva confidato di appartenere a un 'organismo speciale' sorto in seno al quadrunvirato del partito e diretto da Rossi e Marinelli, [e che] Rossi e Marinelli avevano ammesso l'esistenza di un 'ufficio di polizia segreta', che era stato caldeggiato anche da Giunta, con la motivazione che 'il partito aveva bisogno di una sua Ceka per proteggere il regime e compiere le sue vendette'...". Anche la testimonianza di Dumini scagiona Finzi di un delitto che era nato in seno alla Ceka, la quale era formata, come afferma Dumini, di un "quadrunvirato", composto da quattro persone: Rossi, Marinelli, Forges- Davanzati e Melchiori. (Appunti inediti di Rossi, in Salvemini, p. 278)

 

   Tuttavia Finzi, pur non avendo partecipato "direttamente" al delitto, fu  perfettamente al corrente dei fatti, né poteva negare di sapere molto bene la funzione di Dumini.   Ancor prima della fondazione "ufficiale" della Ceka, che operava anche prima del 10 gennaio, Finzi collaborò gomito a gomito con Dumini e Cesare Rossi.  Infatti, quando Dumini fece la famosa spedizione in Francia nel settembre del 1923, mandava i suoi rapporti in "duplice copia": una la spediva a Cesare Rossi, e un'altra a Finzi, nel cui archivio privato è stata appunto trovata, accanto al quaderno dei "fondi segreti", una lettera che è la fotocopia esatta di quella rinvenuta nell'ufficio di Rossi al momento dell'arresto. Nella lettera a Finzi si legge:

   " ...Il disastro più completo è rappresentato dal Bonservizi, il quale, con il suo catastrofismo, ha determinato nell'animo dei suoi gregari un vero e proprio terrore...". 173)

Leggiamo ora la lettera spedita  dallo stesso Dumini a Cesarino Rossi:

"... Il disastro più completo è rappresentato dal Bonservizi, il quale con il suo catastrofismo ha determinato nell'animo dei suoi gregari un vero e proprio terrore...".   174)

   Inoltre le lettere spedite a Finzi da Dumini iniziavano con un bellissimo "Mio caro amico", "Caro amico", e si concludevano con "un abbraccio fraterno", "Ti abbraccio fraternamente" e "Conserva le mie lettere". Non c'è che dire: per essere uno che stava sullo stomaco a S. E. Aldo Finzi, il Dumini se ne prendeva di libertà con il potente Sottosegretario agli Interni di Mussolini! La spiegazione del fatto che Dumini informasse contemporaneamente Rossi e Finzi sta in questo:  che ambedue erano i suoi referenti diretti. Finzi perché lo finanziava con i fondi segreti del Ministero degli Interni; Rossi perché, con Marinelli, era a capo della Ceka. Infatti, Finzi rivelò a Silvestri che il "Comitato a quattro" o quadrumvirato "deliberò di dare una regolare organizzazione alla Ceka, mettendoci a capo Cesare Rossi e Marinelli". (Salvemini, p.276)

    Nel suo "Quaderno dei fondi segreti", in data 5 settembre 1923 si legge:" Al comm. Bastianini  per servizio Francia -Volpi, Dumini. L. 10.000".  175) E Rossi conferma: " In seguito all'uccisione del fascista Geri a Parigi, il Presidente d'accordo con l'on. Bastianini, segretario dei fasci all'estero, fece partire il Dumini con altri, tra i quali Putato e Volpi, con l'incarico di dare una lezione agli emigrati antifascisti"  Nel suo "Memoriale" dell'11 febbraio 1925, aggiunge "... che la somma per le spese di detta spedizione non fu da me fornita.". Infatti, la fornì Finzi,  esattamente in due "tranche" di diecimila lire.  La cosa è confermata  da Dumini:

" I fondi per quelle mie gite in Francia li ebbi da S.E. Finzi nella complessiva somma di lire 10.000 in due volte". (176)

Ciò che risalta dalle testimonianze citate è il fatto che Silvestri non raccontava storie quando diceva che Finzi aveva consegnato i soldi a Bastianini: infatti la transazione trova riscontro inoppugnabile nel quaderno dei fondi segreti. E tale riscontro significa anche un'altra cosa importante: che Finzi rivelava cose vere a Silvestri.  Ha un bel dire Renzo De Felice che la testimonianza di Finzi è "infida".

   De Felice getta quest'ombra su Finzi con l'inserimento di un'abile citazione tra parentesi di un passo di Salvemini. Secondo Salvemini, asserisce De Felice, le affermazioni di Finzi

"... vanno prese tutte con cautela, dato che egli viene colto ripetutamente in flagrante menzogna...". (177)

   La citazione è incompleta, perché Salvemini, continuando, specifica meglio il suo pensiero.

  Ecco la citazione completa:

   "... Si può osservare che le osservazioni di Finzi vanno prese tutte con cautela, dato che egli viene colto ripetutamente in flagrante menzogna... Tuttavia non tutto quanto Finzi dice è menzogna... E quindi possiamo credergli quando afferma che Rossi e Marinelli dicono: a) che Mussolini ai primi di giugno si era infuriato almeno due volte contro Matteotti e lamentava la mancanza di spirito combattivo nelle file fasciste; b) che in seguito a queste critiche Marinelli si era convinto che a Matteotti dovesse essere resa difficile l'esistenza...".  (Corsivi miei) (178)

   Inutile dire che l'autorevole parere di De Felice ha alimentato, creando ulteriore confusione, le tesi "innocentiste" o comunque "dubbiose", che egli stesso avalla con la sua riconosciuta autorevolezza di studioso "prìncipe" del fascismo. In realtà Silvestri aveva di fronte a sé un uomo, Aldo Finzi, che si stava pressoché sbottonando su tutto e che gli raccontava la verità.

   Riprendiamo ancora il passo relativo alla Ceka:

 

   "...Della Ceka - rivelava Finzi a Silvestri - prima e dopo il 10 gennaio 1924 furono effettuate le imprese Amendola, Nitti, Forni, nonché quella di Dumini a Parigi... Il Finzi ricordava gli organizzatori delle imprese di violenza che più suscitarono clamore, e sarebbero stati per Misuri Italo Balbo, per Amendola De Bono, Per Forni Giunta e Rossi, per Nitti Polverelli ed Igliori...". 179)

   Ebbene, Dumini, capo della Ceka, nei documenti "americani" riprodotti nel libro per vari versi discutibile di Peter Tompkins, dice esattamente la stessa cosa:

"A questo punto mi accorgo di aver sempre parlato dell'affare Matteotti e di aver sorvolato completamente sugli altri processi minori che facevano conto ma, per alcuni dei quali era stato regolarmente spiccato mandato di cattura. 1) Devastazione del Villino Nitti (Roma); 2) rapimento dell'on. Mazzolani e purga (Roma); 3) bastonatura del fascista dissidente Forni (Milano), 4) bastonatura dell'on. Misuri (Roma); 5) bastonatura dell'on. Amendola (Roma); 6) uccisione del vinaio Giannini (Roma); uccisione di Don Minzoni (Ferrara); aggressione al sen. Albertino Bergamini (Roma)...". 180)

   Per di più De Felice, almeno in apparenza, sembra non intendere interamente il valore dell'espressione "rendere difficile l'esistenza", che però Salvemini aveva spiegato molto bene, rinviando il lettore, che avesse voluto conoscere il vero significato di "questa formula tecnica" a pag. 191 del suo libro.  Nello specifico, si riferiva a Gobetti, e al desiderio di Mussolini di "rendere difficile la vita [a] questo insulso oppositore governo e fascismo". Poi Salvemini spiega che "... le frasi rendere la vita difficile, rendere la vita impossibile, sono formule tecniche del linguaggio fascista, per indicare che un oppositore deve trovarsi esposto a ogni sorta di violenza, non escluso l'assassinio".

   Finzi, insomma, disse la verità a Silvestri. E diceva la verità, una verità ovviamente molto interpolata, anche quando affermava la sua mancata "partecipazione" fisica al delitto, che in effetti non vi fu, mentre scientemente e volutamente mentiva quando sbandierava la sua "ignoranza" sui fatti, che non vi fu.

   In sé lo svolgimento degli eventi fu molto ingarbugliato, ma una disposizione attenta dei dati a nostra disposizione può portarci fuori dal guado. Finzi non fu  "ignaro":  fu, invece, un tacito, ansioso spettatore, interessatissimo spettatore del delitto. Infatti, se c'era una persona che fosse pressoché certa di essere "citato" da Matteotti, questa era Aldo Finzi. Molti potevano dubitare ed essere incerti; nessuno in verità poteva essere più certo di lui.

    Un'informazione di polizia, riprodotta da De Felice, affermava chiaramente  che "... il rappresentante di Toepliz e la Commerciale al Governo non è altri che Aldo Finzi...". 181) Questo è un dato importante su cui riflettere.

   Chi intuì la verità sin dagli inizi fu probabilmente Pennetta, capo dell'Ufficio di polizia giudiziaria, il quale giunse alle seguenti conclusioni:

    "... Gli esecutori materiali e i loro mandanti immediatamente si prefissero la vendetta politica; altri invece avrebbero approfittato per la difesa di interessi particolari... ed avrebbero prestato il loro aiuto senza scoprire gli scopi che cercavano perseguire e fingendo anzi amicamente di aiutarli unicamente nella loro vendetta politica...". (Corsivi miei) 182)

   C'erano dunque persone, secondo Pennetta, che "fingendo" di voler aiutare i mandanti e gli esecutori, tiravano invece solo al proprio interesse. Tra questi apparentemente "disinteressati" protagonisti c'era Filippelli.

   "... Non interessi speciali politici da tutelare aveva... il Filippelli, continuava Pennetta, egli temeva soltanto che l'on. Matteotti, coi documenti dei quali era in possesso, avesse potuto attaccare l'attività non chiara del Filippelli stesso in combinazioni finanziarie...".

   E noi sappiamo infatti che Naldi e Filippelli erano in Italia "gli agenti della Sinclair" (Canali, p. 497), alla quale spillavano svariati milioni in cambio di una posizione "neutra" del loro giornale, ossia "Il Corriere Italiano". Ma c'è di più. Infatti Pennetta aggiunge:

    "... La società Sinclair chiese lo sfruttamento di tutti i bacini petroliferi d'Italia. Avendo tale richiesta incontrato gravi opposizioni la Sinclair finse di accontentarsi delle regioni Sicilia ed Emilia e per il resto concorsero la Società Nafta di Genova e la società Saper per le altre regioni. Apparentemente le due società erano in concorrenza con la Sinclair, mentre in effetti le stesse sarebbero state d'accordo con la Sinclair medesima...".

   Non era proprio del tutto così, nel senso che, nella ricostruzione di Canali, alla Sinclair, squalificata in patria per scandali, si era sostituita la stessa Standard Oil, che si era alleata con la Banca Commerciale dando vita alla Saper. Comunque, e questo è il dato importante, dietro la Saper c'era la Commerciale, di cui Finzi era un esponente di spicco. Infatti, anche del Giudice disse chiaramente che correvano voci che dietro il delitto vi fossero interessi anche della Commerciale (Canali, p. 291). Ecco spiegato il motivo dell'interesse sia di Filippelli sia di Finzi, i quali, senza sporcarsi quasi le mani, assistettero interessati alle manovre di Dumini. Filippelli si espose di più, procurando la famosa Lancia;  Finzi molto di meno:  il fatto che Dumini parcheggiasse l'auto nel piazzale del  Ministero degli Interni la notte prima del delitto significa in realtà molto poco. In fondo, si potrebbe dire, Finzi era il Sottosegretario agli Interni e non il guardiano del parcheggio del Ministero stesso. Sembra un po' la risposta di Caino, ma in effetti, più o meno, le cose stanno così.

   Finzi, in conclusione, rimase pressoché "estraneo" al delitto, e quindi quando si vide intrigato in tutto e per tutto andò su tutte le furie. Lo si ribadisce: Finzi fu estraneo al delitto, ma è indubbio che non solo fu attento spettatore dei fatti attraverso Filippelli, ma qualcosa guadagnava anche lui dalla sparizione di Matteotti, e senza minimamente sporcarsi le mani: massimo risultato col minimo sforzo.  

     Canali è riuscito a recuperare un paio di bigliettini delle udienze dai quali risulta che Filippelli si recò da Finzi, al Ministero, mercoledì 12 giugno 1924, e fu da questi ricevuto. 183) Che ci andava a fare Filippelli alle ore 11 di giovedì 12 giugno nell'ufficio di S.E. Aldo Finzi? Filippelli, anche se il "Corriere Italiano" era passato nelle mani di Rossi, non aveva mai dismesso gli antichi rapporti di sudditanza con il potente Sottosegretario agli Interni di Mussolini, e probabilmente gli andò semplicemente a dire che tutto era compiuto. Che motivo poteva avere Filippelli di precipitarsi, due giorni dopo il delitto, proprio da Finzi se non quello di informare il   "capo"? Filippelli  era praticamente l'informatore del Sottosegretario (Canali, p. 228) , che, ovviamente molto attento a tutta la questione Matteotti, per lui molto pericolosa per le rivelazioni che ne potevano scaturire, aveva "piacere" di essere informato sull'evoluzione degli eventi, e tempestivamente. Infatti, una nota "riservatissima" della polizia inviata a De Bono il 14 giugno 1924, asseriva che Filippelli avrebbe addirittura "concorso" alla soppressione di Matteotti soprattutto "...volendo rendere un servizio a S.E. Finzi...". (184) Non sappiamo se tale "servizio" fosse stato richiesto, ma dalla ostinata protesta d'innocenza di Finzi, è probabile che egli fosse, almeno sotto  l'aspetto "formale", inattaccabile, e che avesse lasciato fare a Filippelli senza chiedere nulla circa le tecniche predisposte.  Comunque Filippelli, oltre che di Finzi, era anche un informatore di De Bono, e anzi affermò di avere avvertito De Bono e Finzi già martedì 11.  (185) 

   Quindi, sia De Bono sia Finzi furono immediatamente messi al corrente di come si erano svolti i fatti del rapimento grazie proprio a Filippelli. Quando però Filippelli, nonostante le assicurazioni in senso contrario di De Bono venne arrestato, ebbe paura, e si coperse le spalle  con un memoriale. "... Sinora, disse, ho agito d'accordo con il Viminale, ma stamani non mi è riuscito di mettermi in contatto né con De Bono né con Finzi... Con quella gente non c'è da scherzare. Possono anche sbarazzarsi di me, per togliere di mezzo una persona che gli può dar noia...". (186) La paura di Filippelli era quella, appunto, che De Bono e Finzi volessero tagliare con la sua morte l'unico canale che li legava, attraverso la sua persona, al delitto.  Finzi quindi non volle opporsi  ai progetti della Ceka, anche se, attraverso Filippelli, volle però essere  scrupolosamente informato, sin dalle primissime ore dei giorni successivi al suo ritorno a Roma. Perché, in fondo, era uno di coloro che "sicuramente" avrebbe tratto un vantaggio certo dal fatto che Matteotti fosse stato messo a tacere. Filippelli dal canto suo era altrettanto sicuro di fare un piacere a sua Eccellenza, come ne era certo  Dumini, che non poteva aver dimenticato che Finzi era l'uomo, anzi, il "caro amico" a cui, dalla Francia, aveva inviato"un abbraccio fraterno" ogni qualvolta chiudeva le sue lettere. E ne era talmente certo che, quando si sentì all'inizio abbandonato da tutti, si rivolse con toni scopertamente minacciosi proprio a Finzi, sostituendo, ai saluti "fraterni", il più distaccato e sussiegoso Eccellenza: "... Io non sono affatto disposto a lasciarmi sacrificare in questo modo... Ella, Eccellenza,  dovrebbe avvertire di questo il Presidente...".  E un po' prima, Dumini aveva detto, in tono scopertamente ricattatorio: "... Ella si ricorderà certamente dei vari viaggi da me fatti, con alcuni compagni, ed a quale scopo in Francia... I documenti sono  presso un mio amico e non vorrei che ne facesse uso...". 187)

     Finzi non aveva bisogno di questa lettera tarda del luglio 1924 per capire che Dumini in carcere era un pericolo per lui, come lo era del resto lo stesso Filippelli.    Filippelli, l'uomo che scomparve nel "nulla", ha lasciato dietro di sé alcune tracce , labili fin che si vuole, ma ancora visibili, non della  partecipazione (fisica) di Finzi al delitto, che non vi fu, ma di un notevole interesse del sottosegretario per quel delitto.

   Insomma, Finzi è a posto solo sotto il profilo "formale",  ma è indubbia la sua diretta responsabilità, morale, politica, storica,   che egli negò sempre,  non in nome della verità, ma dell' "onore" della famiglia, virtù esaltata dall'assoluto terrore dello "scandalo", che sarebbe stato devastante, e Finzi lo sapeva bene, soprattutto  per la sua famiglia. Un sentimento il suo che diventava ancor più angosciante perché Finzi sapeva di non aver fatto assolutamente nulla contro Matteotti se non assistere, da spettatore diciamo pure interessato, ma anche impotente, gliene diamo atto, a una fine a cui non si sarebbe potuto opporre, neppure se l'avesse fortemente voluto. Ma quel che è certo è che Finzi non fu "ignaro" del delitto.

Nessuno, nell'entourage di Mussolini fu "ignaro". Margherita Sarfatti, parafrasando Mussolini, in un articolo su "Gerarchia", diede una risposta non equivoca a tutti i camerati che si erano chiamati fuori perché "ignari":

   "... Il sequestro Matteotti con le sue conseguenze apparteneva moralmente, politicamente, storicamente al fascismo. Inutile e stupida è la ricerca dei colpevoli e degli ignari, al momento del fatto specifico...". (188)

   E' vero, la Sarfatti aveva ragione! Nessuno nell'entourage di Mussolini fu ignaro.  Nell'articolo del gennaio 1926 su "Gerarchia" la Sarfatti in pratica parafrasò il discorso di Mussolini del 3 gennaio, e in più aggiunse anche qualcosa, un aggettivo, ignaro, che era una risposta esplicita a Finzi, che si era espresso proprio in questi termini. Attraverso Margherita Sarfatti Mussolini rispondeva alla supposta "ignoranza socratica" di   Finzi , che aveva chiuso i  conti dei "Fondi segreti" proprio il 5 giugno, perché in quel giorno  attorno a lui stavano accadendo cose di cui un uomo nella sua posizione  poteva  solo accorgersi.

   E con ciò concludo, ancora una volta con qualche indizio.

   Il 5 di giugno era un giovedì. Ma non era un giovedì qualunque. Era il giorno, per esempio, in cui Matteotti non doveva essere in Italia, ma in Austria, dove si apriva proprio il giorno 5 il congresso socialista. La questura di Roma era stata autorizzata a rilasciare il passaporto per l'Austria già dal 4 (Canali, p. 207). Il 5 giugno dunque, Matteotti, invece di essere in procinto di partire per l' Austria, era a Roma, alla Camera, ad accusare per l'ultima volta il governo di falso in bilancio (Canali, p. 78).

    De Bono dichiarò che fu di giovedì 5 giugno che " Marinelli si recò da Mussolini a chiedergli se veramente desiderava di avere una Ceka". E fu quel giovedì che Mussolini rimproverò Marinelli di non avere ancora combinato niente con Matteotti.  Il 5 di giugno non è quindi solo il giorno in cui Finzi chiude la contabilità: è anche il giorno in cui l'austriaco Thierschald, detto "il Russo", il basista di Dumini, comincia gli appostamenti presso la casa di Matteotti a Roma, facendosi notare persino dalla moglie di Matteotti (Canali, p. 314).  Giovedì 5 è anche il giorno in cui Filippelli, uomo di Finzi, è ricevuto in udienza privata da Mussolini alle ore 11.30, e il 6 è il giorno in cui Filippelli trova la Lancia che sarebbe servita al "rapimento" (Canali, p. 319) . Lo stesso 5 di giugno, o il giorno dopo, il 6, De Michelis ritira il passaporto di Matteotti con il visto per l'Austria (Canali, p. 314). Lo stesso giorno 6 giugno Filippelli, servo fedele di S.E. Aldo Finzi, "prestato" a Mussolini per la bisogna, ritira dall'autorimessa la Lancia che servirà per il rapimento, che, guarda caso, Dumini parcheggerà proprio al Ministero degli Interni, "prestatogli", e nessuno se ne meravigliò, perché il Cavalier Dumini "era di casa" al Ministero, ove comandava il sodale e "fraterno amico" Aldo Finzi. Giovedì 5 è  il giorno successivo allo scontro avvenuto alla Camera tra Mussolini e Matteotti sulla questione dei disertori (Canali, p. 217). Giovedì 5 giugno, infine, uscì un articolo estremamente minaccioso del "Corriere del Polesine", in cui si ricordavano a Matteotti le violenze socialiste del 1919, quando, da "dietro le siepi" sbucavano "feroci sicari" che uccidevano "eroici giovanetti" fascisti (V. Appendice). Il "Corriere del Polesine" era uno di quei giornali che Finzi sovvenzionò con i "fondi segreti" sin dal 1922: era l'espressione della sua volontà. Le larvate minacce a Matteotti dimostrano che Finzi fu perfettamente al corrente di quello che si stava preparando. 

   Mentre il 5 di giugno segnava dunque per Matteotti il "redde rationem",   Finzi chiudeva la contabilità del suo Ministero, per sempre.

  

  

  

 Enzo Sardellaro

   

  

 

 

 

 

 

APPENDICE

 

 La Carriera di Aldo Finzi (e divagazioni su Matteotti) attraverso le annate 1920, 1922 e 1924 del Corriere del Polesine

      Venerdì 6 febbraio 1920

Alla Camera. Discussione sulla politica estera

 -  Sem Benelli deplora che il compromesso formulato dal Presidente del Consiglio se accettato dagli alleati rappresenti il più fiero colpo al Patto di Londra...

La requisitoria di Federzoni contro il governo

- Constatato ... intanto l'atteggiamento troppo remissivo dell'Italia... insiste sulla necessità assoluta di avere sulla sponda adriatica sicuri confini... Constata che il governo ha consentito a rendere esecutivo il Trattato di Versailles soltanto per deferenza verso l'Inghilterra e la Francia.

-Nitti (scattando)- Voi esigevate la discussione dei trattati. Che credevate dunque di discuterli e non approvarli?

- Federzoni - Con questo atto avete voluto di dar prova di lealtà verso gli alleati e avete fatto benissimo.

- Matteotti- Malissimo.

-Federzoni- ...Il governo... ne risponderà di fronte alla storia.

-Matteotti- Fra quelli che si congratulano non ce n'è uno che abbia fatto la guerra.

-Lanza di Trabia- Eccone uno, sono io!

- Lei sì, ma gli altri?

- Lanza di Trabia- Pensi bene prima di parlare.

Mercoledì 11 agosto 1920 ( pag. 2)

Cronaca cittadina

Matteottiana

   Togliamo dal "Giornale d'Italia". L'on. Matteotti che, come abbiamo detto più volte, parla troppo e su troppe cose, in una delle ultime sedute fu anche intemperante. Ma ebbe il fatto suo. Nella sua irruenza da ragazzo prodigio, presuntuoso e noioso, se la prese con l'on. De Nicola. Ma il Presidente della Camera gli rispose con un tono tale e con parole così acerbe che lo misero immediatamente a posto... L'On. Matteotti si deve convincere a prendere il suo posto... Lo strafare è assai più insopportabile del non far nulla... L'On. Matteotti è un buon diavolo... ha dei quattrini; una bella automobile e gioielli splendenti (troppi gioielli) ed abiti eleganti... Noi crediamo che si emenderà...

   Noi invece che crediamo di conoscerlo meglio non abbiamo la speranza del "Giornale d'Italia", ben sapendo che se Matteotti ha voluto essere socialista e deputato, l'ha fatto appunto per vizio congenito ( e perciò incurabile) di voler mettersi in vista.

 

   Mercoledì 9 agosto 1922 (pag. 1)

 

" Il quarto anniversario della spedizione su Vienna, un telegramma di Gabriele D’Annunzio all’on. Finzi…Gabriele D’Annunzio ha diretto da Gardone al deputato fascista onorevole Aldo Finzi, che gli fu compagno in quell’impresa, il seguente telegramma: Deputato Aldo Finzi. Montecitorio. Roma.

Domani cade il quarto anniversario del nostro lungo volo. In quel mattino tremendo il nostro vero condottiero fu lo spirito di sacrificio. Ogni parola oggi deve essere esatta; ogni atto deve essere meditato, ogni errore deve essere evitato. Ricordati della orazione concisa sotto la tettoia di San Pelaggio. "Doneo ad mortem". Gabriele D’Annunzio" .

...A questo telegramma il "Corriere della Sera" fa seguire il presente commento... D'Annunzio parla ora per parabole e sentenze, ma il significato è chiaro: alla vigilia della ripresa del Parlamento, nel momento in cui ai fascisti si attribuisce non si sa bene quale progetto fantastico, D'Annunzio gli[sic] ammonisce che devono evitare ogni errore... e il massimo errore sarebbe quello di precipitare il paese in una formidabile crisi...

 

Giovedì 10 agosto 1922 (pag.1)

La riapertura della Camera e le dichiarazioni dell'On. Facta

Tumultuoso finale di seduta (pag.2)

 

...Spropositi dell'On. Repossi. Repossi comunista rileva che tutti i gruppi parlamentari si dibattono sul dubbio e ne è la prova quanto è accaduto durante la crisi... durante l'ultimo sciopero.

Giunta- Eravate imboscati!

Torre- Eravate nel trincerone di Montecitorio.

Repossi- Noi assumiamo tutta la responsabilità dello sciopero, ma riteniamo...che siamo in piena crisi di regime.

Finzi (fascista)- Non lo speri.

Repossi- Il partito popolare ha una organizzazione politica come il fascismo...Afferma che lo sciopero generale è riuscito perfettamente. Le masse però dovevano agire con le armi.

Misuri (Nazionalista)- Ma questa è apologia di reato.

Finzi, Ciano Giunta ed altri fascisti- Basta, basta, non deve parlar più, è apologia di reato.

Si formano vari capannelli...Vediamo l'On. Finzi avvicinarsi al banco dove siedono i popolari e urlare: Quando si bestemmia in quel modo tutta la Camera dovrebbe uscire.

La ripresa della seduta. La sospensione della seduta dura già da un'ora...Facta chiede la parola per far delle dichiarazioni, ma il Presidente gli dice:- Le faccio osservare che l'onorevole Repossi ha la parola e non posso togliergliela per nessuna ragione...

Giunta- La dignità nazionale è al di sopra dei regolamenti!

I fascisti tumultuano, l'On. De Nicola scampanella violentissimamente, mentre l'On. Finzi urla:- Non si parla più!

Giovedì 14 settembre 1922 (pag. 3)

L'on. Matteotti bandito dai fascisti di Varazze

   L'On. Matteotti si trova con la sua famiglia ed un bambino, da un mese circa, nella nostra città per i bagni. Una commissione di fascisti si è presentata oggi da lui e, pur convenendo nella impossibilità di una partenza immediata della signora e del bambino, imponevano all'On. Matteotti di lasciare in giornata Varazze, sotto minaccia di provvedimenti a suo carico. L'On. Matteotti denunciò la violenza alle autorità, ma ritenne opportuno, per evitare a sé e ai suoi gravi conseguenze, di lasciare subito Varazze, partendo per Milano.

Lunedì 30 ottobre 1922 (pag. 1)

Mussolini parte per Roma

Ieri sera, alle ore 20.30 con il diretto per Roma via Sarzana, è partito per Roma l'on. Benito Mussolini, accompagnato dall'on. Finzi.

 

Martedì 7 novembre 1922 (pag. 1)

La ricostruzione fascista nel pensiero di S.E. On. Finzi

Roma, 6 novembre 1922 (Intervista del nostro inviato speciale)

" Avvicinare per una intervista il giovane Sottesegretario agli Interni on. Finzi non è la cosa più facile...Trattandosi però di un redattore del "corriere del Polesine" l'on. Finzi fa uno strappo. Il più caratteristico di questi giovani timonieri è senza dubbio l'on. Finzi, uno dei più dinamici dirigenti del Partito Fascista e uno dei più valorosi soldati della nostra guerra. Amico intimo di Gabriele D'Annunzio e di Benito Mussolini, il nostro deputato poco più che trentenne...è stato messo dalla volontà dei capi in un posto estremamente delicato.

Rivoluzione legale non Colpo di Stato

- Non ti pare, Eccellenza, che il Colpo di Stato fascista sia stato sproporzionato ai risultati ottenuti?

-Intendo dire subito...che per conto mio il colpo di Stato non è esistito. Normalmente un colpo di Stato in qualunque nazione avvenga è sempre per mutamento di un regime, il mutamento delle vigenti istituzioni e la trasformazione della assemblea elettorale. Io riconosco che invece in Italia il fascismo ha avuto anche il meraviglioso merito ... di arrivare a trasformare le consuetudini della sfera politica...con un'opera di pressione e non di battaglia. In nessuna nazione si può parlare di colpo di Stato quando l'esercito e le istituzioni vengono rispettate...Qualcosa di anormaleè certamente avvenuto ma non di illegale...dovremmo dire che è stata una rivoluzione legalitaria.

- Verso quali mete si orienteranno le tue energie?...

- C'è tutto un nuovo indirizzo, tutta un'opera di revisione dei quadri statali, tutto un fervore di giovanile attività...Bisogna ricostruire dopo aver battagliato durante anni interi per la demolizione dello spaventoso edificio [del] socialismo...Il mio fine è unico, quelllo di ottenere nel miglior modo e nel minor tempo, il ristabilimento di una vera pacificazione degli animi, che potrà concedere all'italia...di ritrovare nella tranquillità...quelle sorgenti di benessere che patendo dalla sicurezza finanziaria dello Stato vanno a portare il loro flusso su tutte le categorie di cittadini...

Lo squadrismo

- Il tuo pensiero sull'avvenire dello squadrismo?

- Ho la persuasione che lo squadrismo non si debba eliminare. Si ridurrà opportunamente e gradualmente...Dovremo disciplinarlo e indirizzarlo ad altre mete e credo di non errare prevedendo che parte dello squadrismo dovrà formare un reparto regolarmente militarizzato, un corpo sociale che potrebbe essere di guardia nazionale o base della nazione armata... agile e potente da impiegarsi a rafforzamento dell'esercito per la difesa della legge.

- E il problema sindacale?

- Come compito politico il nostro partito svolgerà la sua attività a proteggere e ad assecondare tutte quelle formazioni sindacali che attraverso a concetti varii di carattere economico e produttivo sieno [sic] però sempre contenuti nei limiti e nel rispetto della nazione.

Istruzione

Alla istruzione - continua brillantemente l'on. Finzi - il fascismo non darà solo parole...La scelta del Ministro attuale segna chiaramente la strada che vogliamo battere, "la strada della competenza". Un altro dei nostri compiti...è quello della propaganda per l'educazione fisica e per tutte quelle forme di sport che ringiovaniscano la razza e allettano lo spirito.

Impressioni estere

Alla Russia [che sembrava] dovesse allargarsi per inghiottire l'Occidente, l'Italia da sola vi à opposta una diga potente, incrollabile, il "fascismo"...       

Pino Bellinetti

 

Lunedì 13 novembre 1922 (pag. 1)

[ Articolo con fotografia in alto a destra, con Finzi su un aereo]

Il mio ricordo lontano, una folata di giovinezza sul turbine della corsa e un nome gridato nell'entusiasmo della folla: Finzi, Finzi. Era il tempo della sua popolarità sportiva, quando ardito centauro divorava le strade con prototipi di fughe pazze e di inseguimenti fantastici. Non so se frequentasse, allora, il futuro uomo politico, con assiduità le scuole. Certo la sua aristocratica figura spiccava sempre nei ritrovi sportivi, nei balli... La intelligenza di Aldo Finzi si manifestava aperta e impetuosa... Nel Polesine Aldo Finzi ebbe ed ha una sua legione di ammiratori in tutti i campi, in tutti i partiti... Aldo Finzi è una delle espressioni più fantasticamente pure che questa tumultuosa  battaglia abbia espresso. E' un pioniere..., nello sport, nella politica. Ed è un fascinatore con l'azione e con la parola. Guardatelo nella follia zingaresca dei suoi voli e delle sue corse. Uditelo nella nervosa oratoria dei suoi discorsi... Scrivere di Aldo Finzi non è un'impresa facile. Con il poeta glorioso fu a Vienna. Volo d'aquila. Volo romano. Volo fascista. E' uno dei primi fascisti. Nel maggio del '19, il suo revolver spara con dolore ma decisamente sulla massa avvinazzata d'odio e di ribellione. Nel novembre fa il propagandista, non con le parole, ma con le prime squadre. Mussolini lo tiene caro. D'Annunzio lo vuole a Fiume. La possente energia di Aldo Finzi si prodiga in mille maniere. Intanto il Finzi dilaga. Si fa largo nella storia a colpi di fucile. Il nostro Polesine, con pochi ardimentosi, tiene duro all'infuriare della marea bolscevica. E quando fu necessario affermare legalmente la nostra forza ad Aldo Finzi si chiese il nome per la resistenza. E lui rispose: "Sta bene!". Da quel giorno la sua carriera fu... un volo. Oggi è Sottosegretario al Ministero degli Interni. L'ho visto appena insediato nel suo ufficio. Mi ha stretto forte la mano e i suoi occhi hanno saettato lontano uno sguardo di gioia e di promesse.

Lunedì 18 settembre 1922 (pag. 1)

Come l'on. Matteotti lasciò Varazze

E' stato annunciato che l'on. Giacomo Matteotti aveva dovuto lasciare Varazze in seguito ad invito dei fascisti locali. Dall'inchiesta compiuta da un funzionario recatosi per ordine superiore a Varazza risulta che l'on. Matteotti fu realmente diffidato dai fascisti di Varazze a lasciare senza altro la città. Alle ore 18 l'on. Matteotti accompagnato dagli stessi fascisti partiva per Milano.

[Il discorso di Matteotti alla Camera nella cronaca del "Corriere del Polesine"]

Sabato 31 maggio 1924 ( pag. 1 )

L'On. Matteotti provoca gravissimi incidenti alla Camera

   Il Presidente legge la lista dei candidati della maggioranza che la Giunta delle elezioni propone per la convalida alla Camera.

Farinacci - La Giunta ha esaminato tutti i reclami e li ha trovati privi di fondamento. Quindi una sospensiva è inutile perché la Giunta ha già deliberato.

Si respinge la sospensiva.

Presidente - Pongo ai voti la proposta di sospensione dell'on. Presutti.

Matteotti -   Chiedo l'appello nominale. ( la Destra insorge ad alta voce e protesta: "ma questo è ostruzionismo, non provochi!")

Matteotti - E' un nostro diritto. ( La   Destra rumoreggia )

Presidente - Pongo ai voti la proposta Presutti.

( La votano solo i socialisti)

Voci - Quattro gatti.

Presidente - Non è approvata.

Presutti - Propongo allora che la Camera rinvii alla Giunta la lista delle convalidazioni.

Gravi incidenti

Matteotti - (Continua urlato dalla Destra)- Io vorrei pregare i colleghi in causa di astenersi.

Grandi - Chi rimarrebbe allora?

Matteotti - Abbiamo una dichiarazione che garantisce che le elezioni hanno un valore relativo ed il governo ha dichiarato che si manterrebbe al potere anche con la forza.

( Mussolini fa cenni affermativi col capo e la maggioranza applaude)

Matteotti - Vi dico e confermo che nessun elettore è stato libero di esprimere la sua volontà e che qualsiasi cittadino italiano...

Voci - Tu non sei italiano!

Matteotti - Finora siamo tutti italiani. Nessun cittadino italiano ha potuto approvare la politica fascista.

Lanfranconi - Approva le chiacchiere dei socialisti.

Matteotti - Esiste una milizia armata... ( La Destra scoppia in un grande applauso ed in invettive)

Presidente - (Scampanella)

Igliori e Banelli - Ma la finisca di fare il provocatore!

Voci - Eroe delle guardie rosse; apologista dei disertori.

Matteotti continua a parlare della Milizia fra clamori altissimi.

Vella - Avete fatto votare anche i balilla!

Matteotti - Ci sono poi migliaia di fatti che hanno intaccato l'essenza delle elezioni.

Bastianini - L'Italia non è il Messico!

Bottai - Non bisogna assistere a queste chiacchiere!

Il Presidente continua a scampanellare.

Matteotti - Sciogliete il Parlamento.

Voci - Voi rimarrete disoccupato.

Matteotti ricorda l'episodio del notaio sequestrato perché raccoglieva le firme per le liste avversarie.

Voci-Aroldo di Crollalanza- Ella dice cose inesistenti.

Matteotti, passando in rassegna fatti avvenuti in tutta Italia, provoca nuove proteste dalla Destra e dal Centro. I deputati delle singole regioni nominate si agitano e investono l'oratore.

Teruzzi - Ella ha sempre parlato liberamente.

Matteotti - Domando ad un uomo che è al governo se mai un fascista ha parlato in contraddittorio con me.

Finzi - C'è Michele Bianchi.

Bianchi - Sì, a Badia Polesine.

Piccinato - Voi parlaste liberamente, ora mentite.

Matteotti - Fu alla fine di un comizio.

L'aria è satura di elettricità.

Matteotti - L'On. Amendola non poté tenere la sua conferenza.

Piccinato - Paura, paura!

Matteotti - Sì, molti candidati socialisti non potevano risiedere nei loro paesi. Mando un saluto alla memoria di Piccinini, che fu ucciso durante la lotta.

Voci - Speculatori!

Farinacci fa un segno ai suoi colleghi che si decidano ad accogliere ormai in silenzio le dichiarazioni dell'on. Matteotti.

Matteotti continua fra un silenzio di tomba, che contrasta stranamente col tumulto di poco prima. La maggioranza dà l'impressione di un pallone di gaz [sic] che sia per scoppiare; di tanto in tanto si fa qualche fuga di gaz... di parole subito represse dall'on. Buttafuochi, che ha assunto le funzioni di questore.

Ciarlantini - Ma le pubblichi queste cose!

Matteotti - Lo farò quando le tipografie non saranno più assalite.

Rossi-Passavanti (Medaglia d'Oro) - Protesto e me ne vado per la mia dignità di soldato!

Matteotti - Giovani di vent'anni hanno votato per vechi di sessanta.

Torre Edoardo ( Con la mano alzata a minaccia) - Ma la finisca! Basta! Basta!

Si riprende il clamore.

Matteotti - Chiediamo l'annullamento in blocco delle elezioni.

La maggioranza applaude freneticamente fra risate clamorose.

Matteotti - Aiutateci ad osservare la legge.

Voce - Conservatore milionario!

Matteotti - Fatelo! Il popolo italiano vuole la libertà. Ha saputo in regime di libertà modificare i suoi errori.

Bianchi - Abbandonando i socialisti!

Matteotti conclude con un inno alla libertà (applausi a Sinistra). L'on. Turati si alza e va a stringere la mano all'on. Matteotti.

Voce - Voranoff, Voranoff!

Il vibrato discorso dell'On. Giunta

Giunta - Onorevoli colleghi... le parole dell'On. Matteotti hanno suscitato giuste ire... Noi non dobbiamo prestarci al giuoco di quella masnada di uomini che da Amendola a Matt...

Scoppia un tumulto infernale. I Deputati si precipitano nell'emiciclo. Avviene uno scontro. Il pugilato si fa generale. Alla lotta partecipano tutti i deputati. Gli onorevoli Amendola e Bencivegna distribuiscono e ricevono numerosi pugni e bastonate. Il Presidente sospende la seduta e scampanella furiosamente. Si ordina lo sgombero della tribuna. Il momento è veramente grave. Il clamore dell'Aula è al massimo diapason. L'On. Giunta resta impassibile al suo posto.

Lussu - On. Giunta, lei deve ritirare le sue parole!

Giunta - Esagerato!

I tumulti continuano e il Presidente non si decide a riaprire la seduta. Numerosi deputati sono intorno all'On. Giolitti, fra cui Balbo e Soleri, commentando gli avvenimenti. L'On. Mussolini resta impassibile al suo banco.

Si riprende la seduta

Giunta - Non ritiro nulla di quello che ho detto...Noi... abbiamo dato agli avversari la massima libertà perché non abbiamo il culto della violenza, essendo noi sicuri in anticipo del consenso delle masse.

Giunta accenna quindi alle benemerenze dell'On. Mussolini e grande ovazione scoppia nell'Aula. " Quando - dice - un uomo del suo temperamento vuol lasciar parlare gli avversari occorre che questi non abusino  della nostra longanimità. L'On. Matteotti, che fu campione della violenza nel periodo più grave del disfattismo italiano, deve rendersi conto di questa realtà e di questa necessità. Non siamo disposti a tollerare che si continui nella diffamazione delle nuove opere".

Applausi a Destra.

Voci -  Chiusura!

La chiusura è approvata.

L'Appello nominale

Alle ore 18.20 il Presidente comunica l'esito della votazione sulla proposta Matteotti per il rinvio degli atti alla Giunta. Presenti 384. Per l'accettazione, 56. Per il "no", 285. Astenuti, 62.

 

 

Lunedì 2 giugno 1924

Seguitiamo a documentare le menzogne di Giacomo Matteotti

" Noi ci sentiamo autorizzati a difenderci dai fascisti e dai carabinieri. E parleranno medici e becchini".

   Così il Segretario dei Socialisti Unitari on. Giacomo Matteotti incitava alla violenza scrivendo sul suo giornale "La Lotta" durante la battaglia elettorale del 1919.

Giovedì 5 giugno 1924

Le smentite di Giacomo Matteotti

Il segretario degli Unitari vuol rifarsi la sua dignità... legalitaria. Parole e fatti. Non si distrugge il passato, on. Matteotti! A chi le responsabilità delle prime violenze? Il giudizio inappellabile della coscienza popolare.

Spettabile Redazione del "Corriere del Polesine" [lettera di G. Matteotti]

" Non ho quasi mai l'onore di leggere codesto giornale. Un amico mi manda il numero di lunedì 2 giugno, nel quale a caratteri di scatola, si attribuisce a me personalmente la seguente frase: " E noi ci sentiamo autorizzati a difenderci dai fascisti e dai carabinieri. E parleranno medici e becchini".

   Smentisco nettamente che io abbia mai pronunciata o scritta una frase simile, di schietto stile mussoliniano, ante e post bellico. E se codesta spett. bile Direzione non rettificherà l'errore, vedrò se io debba querelare la falsa asserzione. Nello stesso numero del "Corriere del Polesine", un signore conferma la smentita che gli onorevoli M. Bianchi e Finzi  hanno tentato di fare alla Camera alla mia asserzione che 'nessun avversario potrebbe dire di non avere potuto parlare in contradditorio con me nel 1919'.

    Prego codesta Redazione di rileggere il n° 270 del "Corriere del Polesine" del 13 novembre del 1919, dal quale risulta che nel comizio di Badia Polesine, parlarono 4 oratori del Blocco Nazionale. Solo a "comizio finito" parlai io, che del resto ero arrivato a Badia solo "alla fine" del comizio stesso e che ebbi negata la parola in contraddittorio."

[Commento del "Corriere del Polesine"]

    La suscettibilità dell'on. Matteotti è davvero sintomatica. Il segretario dei Socialisti Unitari da un po' di tempo a questa parte sta cercando la linea, lo stile, la misura insomma...quasi volesse preopararsi l'alibi del suo passato di sovversivo. I tentativi del deputato polesano sono però destinati a fallire clamorosamente, perché la situazione creata in Polesine dai bolscevichi capitanati da Matteotti, negli anni che seguirono la conclusione della pace, è ancora ben ricordata dai nostri conprovinciali...

    Che importa se sotto la frase " noi ci sentiamo autorizzati...,ecc." non si legge la firma di Giacomo Matteotti, quando tutti sanno che il settimanale socialista "La Lotta" era l'organo del milionario di Fratta Polesine? Voi affermate di non avere mai pronunciata o scritta una frase simile a quella che vi imputiamo? Sta bene. Possiamo darvi atto di questo, ma perché non avete smentito o per lo meno tentato di scindere le responsabilità col vostro giornale, che in pompa magna pubblicava quelle categoriche minacce?

E' ben misera la vostra trovata, perché noi invece vediamo fotografate in pieno, in quelle poche e ...suggestive parole, la viltà e la slealtà dei capi socialisti.

"... Parleranno medici e becchini...". Sì on. Matteotti, hanno parlato, purtroppo, ed hanno detto che lungo le siepi... sulle strade deserte si sono raccolti cadaveri di giovanetti eroici, caduti a tradimento, per mano di feroci sicari... Anche i socialisti ebbero i loro morti, ma erano umili lavoratori, poveri uomini inconsci del sacrificio che il fanatismo spingeva... verso un destino tragico.

   Voi però, on. Matteotti, " tocco non foste" dalle battaglie, ché gli ozi di Roma preferiste alle avventure sanguinose della politica.

   Oggi smentite e minacciate querela.

   Accettiamo. Dirà il tribunale quale terribile responsabilità i vostri scritti non firmati abbiano addossato alla vostra coscienza.

Giovedì 5 giugno 1924

La seduta alla Camera dei Deputati

Mussolini risponde a Matteotti

Mussolini (presidente del Consiglio), rilevando alcune interruzioni dell'on. Matteotti su taluni atteggiamenti che avrebbe assunto il "Popolo d'Italia", dichiara di rivendicare la piena responsabilità di tali atteggiamenti. Teme però che l'on. Matteotti abbia inteso giuocargli un brutto tiro, riferendosi ai discorsi violentissimi che egli pronunciò in più occasioni contro l'amnistia dei disertori, discorsi nei quali egli andò al di là di certi limiti  che oggi per debito di coscienza non potrebbe mantenere...(Vivissimi applausi)

 

Lunedì 9 giugno 1924 (pag.3)

S.E. Aldo Finzi a Badia

    In forma privatissima ieri sera verso le 22 arrivava a Badia Polesine S.E. l'on. Aldo Finzi accompagnato dalla sua gentile signora e dal Capo di Gabinetto Comm. Moroni. A Villa Finzi...si recarono le più spiccate personalità di Badia... S.E. Finzi si intrattenne in conversazione animata con tutti fino a notte inoltrata. Questa mattina è ripartito per Milano, salutato da entusiastici applausi dalla folla dei suoi concittadini.

Venerdì 13 giugno 1924 (pag. 1)

Per la scomparsa di Matteotti

- Roma- 12. Presidenza del Presidente Rocco.

Mussolini- ...Credo che la Camera sia ansiosa di sapere notizie dell'on. Matteotti, scomparso nel pomeriggio di martedì improvvisamente, in circostanze misterioe ditempo e di luogo non precisate, tali da legittimare l'ipotesi di un delitto che, se compiuto, accenderebbe di sdegno e commozione il governo e il Parlamento...Io ho impartito ordini tassativi per intensificare le indagini a Roma e fuori, specie nei posti di frontiera. La polizia è sulle tracce di elementi sospetti. Nulla si trascurerà per l'identificazione e l'arresto  dei responsabili e non lascieremo nulla di intentato perché essi vengano assicurati alla giustizia. ( Impressione. Musolini siede, fra il silenzio profondo dell'Aula)

Rocco- ...Credo di interpretare il pensiero e il desiderio della Camera formando l'augurio che l'on. Matteotti sia al più presto restituito alla famiglia e al Parlamento. (Applausi al centro e a destra)

Gonzales- Comunque a Roma, sede del Parlamento, a Camera aperta, un deputato di opposizione ha potuto essere aggredito...Le parole del Presidente della Camera...e quelle del Presidente del Consiglio...non sono state quelle che noi attenevamo: hanno sapore di ordinaria amministrazione. A nome dei colleghi del Gruppo unitario...denuncio alla Camera e al Paese il fatto atroce e senza precedenti (Impressione)

Chiesa (Tra il silenzio generale)- Parli il Presidente, parli il Capo del Governo!

L'on. Mussolini resta immobile con le braccia conserte.

Chiesa - Tace! E' complice!

La frase suscita una immediata reazione a destra e al centro. L'on. Bottai che siede sulla prima poltrona al banco delle Commissioni, getta con sdegno la poltrona attraverso l'Emiciclo e si avvia verso la Sinistra. E' il segnale per l'inizio di un tumultuoso incidente.

I deputati di destra e del centro in piedi urlano: Speculatori! Speculatori!

Dal Banco del Governo si urla. Il Ministro Ciano e gli on. Acerbo e Finzi gridano cose incomprensibili...

Lunedì 16 giugno 1924

Ultimissime. Le dimissioni di S. E. l'on. Aldo Finzi e dell'on. Rossi (pag.1)

L'on. Aldo  Finzi ha inviato la seguente lettera al Presidente del Consiglio

   Caro Presidente, mi risulta che ieri in una adunanza della opposizione si sia fatto il mio nome in relazione sia pure indiretta all'orrendo delitto che io più di qualsiasi condanno, reputandolo orribile, vilissimo e inutile. Acciocché io possa avere ogni ampia possibilità di individuare i miei nemici che da troppo tempo con calunnie e denigrazioni tentano inutilmente di intaccare la mia onorabilità... Ti prego di esimermi dalle cariche che ricopro...

Il Presidente del Consiglio. Caro Finzi... accolgo il tuo desiderio, ma ora i tuoi avversari di tutte le specie hanno l'assoluto obbligo morale  di uscire... dall'ombra. I servizi che tu hai reso non saranno dimenticati.

Martedì 17 giugno 1924

Un lungo colloquio di Mussolini con l'on. Aldo Finzi

   Questa sera, dopo il Consiglio dei Ministri, S.E. l'on. Benito Mussolini aveva nella sua abitazione di via Rasella un colloquio con l'on. Aldo Finzi, colloquio durato oltre un'ora e mezza.

 

Mercoledì 18 giugno 1924

Lettera di Aldo Finzi al "Corriere del Polesine"

   Nella mia qualità di deputato e di combattente decorato... esigo che il Comitato della Maggioranza parlamentare precisi subito in base a quali accuse abbia ritenuto necessario considerarmi incompatibile nelle cariche che occupavo e in questo senso volle citare la decisione del Presidente del Consiglio, secondo il Presidente stesso ebbe ad affermarmi ieri in casa sua. ..."Guardiamoci negli occhi - disse l'on. Finzi concludendo -. Se si tratta di darti prova del mio spirito di sacrificio, perché ci sia qualcuno che sia il cireneo di questa atroce situazione, io sono disposto a sacrificarmi, ma per non più di 48 ore. Fra 48 ore o io avrò la mia riabilitazione nel modo più completo e più clamoroso o io riprenderò la mia libertà d'azione". L'on. Finzi ha raccontato ai suoi amici che l'on. Mussolini in quel momento non sapeva nascondere la sua emozione. - Fra 48 ore - egli disse - avrai la soddisfazione e la riparazione che meriti".

Al "Giornale d'Italia"

   [Si dice che]...io ho avuto se non altro il torto di permettere che nei miei corridoi e nei miei uffici si annidasse quella che poi risulta un'associazione a delinquere e nutrita con il denaro del Ministero dell'Interno, "gente che egli [=Finzi] lasciava vivere e agire al Viminale"...Dovete considerare la delicata situazione del momento...

    [Quanto poi all'accusa sulle case da gioco] ...debbo dichiarare una buona volta... che la regolamentazione della legge sul gioco, le pratiche a essa inerenti e la presentazione al Consiglio dei Ministri sono avvenute esclusivamente a opera all'on. Mussolini".

Venerdì 20 giugno 1924

Le polemiche sul "caso" Finzi

...Siamo informati che domani sarà recapitata al Presidente del Consiglio una lettera in cui l'on. Finzi chiederà che sia nominata una Commissione d'inchiesta.

Sabato 21 giugno 1924

...L'on. Finzi, si assicura, avrebbe già pronto un memoriale contenente la sua difesa. Questo memoriale sarebbe diviso in tre parti. Nella prima sosterrebbe la perfetta coerenza della sua condotta politica; nella seconda verrebbe a provare [la sua estraneità] a qualsiasi intromissione in affari; nella terza la dimostrazione della sua assoluta ignoranza... alla tragedia Matteotti.

Sabato 2 agosto 1924

La tragedia Matteotti. Nel regno di fantasiose supposizioni

...Le indagini dell'ex deputato[ Zaniboni] porterebbero a queste conclusioni: l'on. Matteotti fu ucciso nell'automobile per strangolamento. Uno degli aggressori, che si sarebbe pentito, avrebbe tentato di difendere la vittima, ma sarebbe stato pugnalato... Il "Popolo" che è appunto il giornale che ospita preferibilmente la prosa dell'on. Zaniboni, pubblica questa sera un estratto che sarebbe un memoriale dell'on. Aldo Finzi, destinato a rimanere segreto - dice - per timore della stessa Ceka. Ora l'on. Aldi Finzi invia questa sera all'on. Farinacci la seguente lettera:

   " Caro Farinacci. Leggo su alcuni giornali... e segnatamente sul "Popolo" del 30 e 31 u.s. che esiste un mio memoriale qualificato "testamento", nel quale esplicitamente sarebbero formulate accuse che... mirerebbero a far risalire a personalità del governo la responsabilità per il delitto Matteotti. In questo lungo periodo di amarezze ho imparato a mie spese che è vano illudersi di avere giustizia dalla buona fede degli avversari. Ti prego quindi di voler pubblicare semplicemente che invito uno solo dei 40 milioni di cittadini...a voler produrre un esemplare del mio ormai leggendario memoriale.  A tutte le altre diffamazioni provvederemo poi con calma. Sono sempre in attesa di accuse precise e circostanziate, che mi consentano di aggiungere un'azione giudiziaria a quella già iniziata a carico della "Tribuna". Grazie dell'ospitalità. Saluti fascisti e cordiali. Aldo Finzi.

Aldo Finzi e il Polesine

Articoli sparsi dal "Corriere del Polesine" 

 

Lunedì 21 agosto 1922 (pag. 3)

Le elezioni amministrative popolari e socialiste

...Dopo le elezioni amministrative del 1920... i vittoriosi di allora... si diedero alla più sfacciata spogliazione degli averi altrui. Vennero le elezioni politiche, ed ebbero il risultato che facilmente si prevedeva... Ma i socialisti gridarono alla violenza e cercarono con l'inganno di infirmare il responso delle urne, lasciando credere ai pochi seguaci che essi erano ancora dominatori delle urne... Sorretti dai popolari consumarono la più gran ingiustizia eliminando dalla Camera l'On. Piccinato. Per dissipare l'equivoco creato dal diabolico artificio era necessario indire i comizi amministrativi. L'equivoco era fonte di dissidi, di rappresaglie, di violenze. Togliere l'equivoco significava eliminare eliminare le rappresaglie e le violenze. Ma Matteotti non desiderava questo, ed il governo... cedette alla intemperanza verbale ed alla pervicacia matteottiane e non permise le elezioni, lasciando così perdurare l'equivoco e credere che in Polesine non fosse quella tranquillità che potesse garantire la libertà di voto.

Falsi piagnistei (pag. 3)

...Solo "La Lotta" grida che le gravi condizioni del Polesine impediscano di esercitare il diritto elettorale e per dare una parvenza di prova alle sue affermazioni fornisce un elenco di caporioni socialisti che al primo sorgere del fascismo sono fuggiti per ignoti lidi... Ed invoca il ritorno degli On. Galloni e Matteotti,...i vostri Matteotti, i vostri Galloni, i vostri Belluco sono assenti perché sanno di aver tradito la causa del proletariato...

 

Lunedì 4 settembre 1922 (pag.2)

Trecenta nel trionfo del Tricolore celebra i suoi morti per la patria

I Discorsi (pag.2)

   La banda intona l'inno di Garibaldi e [si]...cede la parola al giovane e battagliero nostro deputato On. Aldo Finzi. I fascisti lanciano il saluto alla voce, mentre la folla acclama al campione di italianità, al compagno di Mussolini, al fedele di D'Annunzio.  L'On. Finzi con fedelissima improvvisazione a nome dei combattenti tutti porta il saluto della devozione e della riconoscenza imperitura verso i fratelli che non son più ma aleggiano con i loro spiriti e godono... che non vano fu il sacrificio, il generoso gettito del più bel dono della natura umana: la vita. Ricorda ai fascisti le belle imprese per ridare all'Italia la coscienza di se stessa, dopo aver debellate le orde barbariche infatuate di un falso miraggio orientale e disposte ad assassinare la nazione, pur di trapiantare in Italia un fallito sistema sociale... Unanimi applausi coronano il discorso pronunciato con calore ed entusiasmo mentre le note di "Giovinezza Giovinezza" salutano il rappresentante del fascismo polesano. Tielle.

 

19 ottobre 1922 (pag.3)

La vittoria fascista del Polesine e un'intervista con l'on. Aldo Finzi

"Il Popolo d'Italia" ha chiesto all'on. Aldo Finzi le sue impressioni sulla nuova situazione polesana.

- Le mie impressioni? Eccole... Il Polesine, che già era completamente, monoliticamente fascista, dai giorni della vittoria politica che invano gli avversari rossi e neri tentarono in tutti i modi ...  di diminuire, attendeva proprio con la calma e la serenità dei forti di dare la prova squisitamente legale della sua italianissima volontà. Non sono bastate, a diminuire la fede fascista della popolazione polesana, né le angherie dei vari prefetti... con la solidarietà ibrida dei Matteotti e degli Alessio, né la tremenda ingiustizia... che aveva defenestrato il collega Piccinato... Oggi è la giornata del nostro trionfo e della nostra festa maggiore! Noi la dedichiamo al fascismo italiano e al nostro Duce.

 

La famiglia

Lunedì 4 dicembre 1922 (pag.3)

Maneo. Il grandioso banchetto di 500 invitati

 

Pocanzi ho avuto la fortuna e l'onore di porgere ufficialmente a S.E. l'on. Aldo Finzi il saluto del Comune;ora qui intendo parlare non più al Sottosegretario di Stato, ma ad Aldo Finzi, cittadino al cittadino, fascista al fascista, amico all'amico. La prodigiosa ascensione di Aldo Finzi nelle alte regioni della politica è argomento di consolazione infinita e di immenso orgoglio per noi che lo conoscemmo fanciullo, che lo vedemmo crescere, che lo applaudimmo pel suo valore in guerra, che lo ammiriamo ora assurto ai sommi fastigi del potere. Mi permetta però Aldo Finzi che io assuma verso di Lui un linguaggio confidenziale... Ad Aldo Finzi... incombe una ben grave responsabilità non tanto per l'ufficio assunto, quanto per il nome che egli porta... Io fui sempre... studioso alquanto della storia del nostro Risorgimento... Rievocando le figure degli eroi e dei martiri, mi apparve luminosa quella di Giuseppe Finzi, zio di Aldo qui presente, cospiratore e patriota che nelle carceri austriache fu sublime esempio di energia morale e di sacrificio, quando in quei tormentosi processi che culminarono nelle forche di Belfiore, Egli sostenne eroicamente il tormento degli interrogatori e la viltà di un delatore. Quel delatore non nomino perché ha duramente, ancora da vivo, espiato il terribile fallo. Giuseppe Finzi fu grande quando cospirò contro l'Austria; fu più grande ancora quando sostenne con insolente e superba fierezza gli interrogatori dei processanti austriaci e ne disfidava le forche; m fu sublime, fu inarrivabile allorquando, ... il delatore fu eletto deputato al Parlamento; e Giuseppe Finzi, deputato egli pure, superbamente fiero, nobilmente sdegnoso, uscì immediatamente dal Parlamento dove entrava la spia, perché il delatore impunetario [sic] e la vittima di lui non potevano stare insieme nel Consesso medesimo. Aldo Finzi non dimenticherà certamente l'esempio luminoso... Aldo Finzi, che al seguito del Poeta soldato, volò alto nei cieli in servizio alla Patria, in servizio della stessa Patria volerà alto nella politica... Signori, ad Aldo Finzi io mando ancora... un nuovo e fervido saluto...

Giovedì 7 dicembre 1922 (pag.2)

Gino Finzi Commendatore

...Gino Finzi, con Sovrano "motu proprio" è stato insignito della Croce di Commendatore. Noi apprendiamo la notizia con immenso piacere, poiché Gino Finzi, valoroso fascista ed audace industriale, à tutti i requisiti necessari a giustificare la ricompensa ricevuta. Il fratello del Sottosegretario agli Interni... à esplicato tutte le sue attività creando fasci e dirigendo operazioni nell'azione contro il bolscevismo.

 

Il Sottosegretario

 

Martedì 14 novembre 1922 (pag. 1)

La rigorosa esecuzione della legge

Il sottosegretario agli Interni on. Finzi, intervistato dal corrispondente romano dell' "Observer" ha dichiarato che il governo è deciso ad applicare la legge dello Stato. Il fascismo era un fenomeno irregolare ma necessario, a cagione della debolezza del governo. "Ora che siamo al potere - ha continuato l'on. Finzi -, non siamo più fascisti, ma esecutori della legge. Ho già ordinato l'arresto di più di un centinaio di fascisti. I prefetti ora non solo ricevono ordini precisi, ma sanno che sono fortemente appoggiati dal governo. Tre ore dopo che ho diramato un ordine, telefono per sapere se è eseguito. Siamo in grado di fare quello che i governi precedenti erano incapaci di fare...

 

Venerdì 17 novembre 1922

Aldo Finzi contro le raccomandazioni

Roma. Il Sottosegretario di Stato all'Interno on. Finzi ha testé diramato ai prefetti la seguente circolare: " Nel breve tempo dacché reggo il Sottosegretariato per l'Interno ho avuto occasione che funzionari ed agenti dipendenti al centro e alla periferia, raccomandano aspirazioni personali e reclami a persone politiche e ad altre ritenute influenti perché se ne facciano portavoce presso il Governo. Poiché tale umiliante abitudine sta ad indicare sfiducia nell'ordinario funzionamento dell'Amministrazione, che io mi propongo al contrario di vigilare con ogni accuratezza... è mia ferma intenzione di provvedere disciplinarmente contro chiunque facesse uso di tali procedimenti che offendono la dignità dell'Ufficio.

Mercoledì, 29 novembre 1922 (pag.1)

Una circolare di S.E. l'on. Finzi contro il gioco d'azzardo

L'on. Finzi ha diretto ai Prefetti una circolare telegrafica con la quale, in attesa dei provvedimenti che il governo potrà prendere riguardo alle case da giuoco, ricorda che intanto debbono avere pieno vigore le leggi attuali e dispone che siano colpiti rigorosamente tanto le case da giuoco quanto i giocatori. I funzionari che trascureranno di adempiere in questo campo il loro dovere, saranno severamente puniti.

Rovigo. Venerdì 24 novembre 1922 (pag.2)

L'on. Finzi, lo sport e la trasformazione dello squadrismo

La "Gazzetta dello Sport" pubblica un'intervista col Sottosegretario agli Intrni on. Finzi sul programma sportivo del Governo. Finzi ha detto che lo sport contribuisce alla messa in valore della nazione perché migliora fisicamente e moralmente la razza... Solo colla diffusione del culto per lo sport ci si può avviare alla nazione armata. Inoltre lo sport costituirà un elemento trasformatore e integratore dello squadrismo. L'on. Finzi si è così espresso: " La trasformazione delle "squadre" fasciste si effettuerà. La mia opinione è che esse, accanto a nuclei politici costituiranno gruppi sportivi coltivanti ogni forma di educazione fisica"..., ed in ciò egli vede un elemento prezioso di successo verso quella pacificazione che è nel desiderio di tutti e della inflessibilità del governo... Le vittorie sportive costituiranno una magnifica propaganda di italianità.

Martedì 5 dicembre 1922

Echi della festa fascista di domenica

Tra la più viva attenzione s'alza a parlare S.E. l'on. Aldo Finzi...Il suo viso giovanile è, come sempre, sorridente... uno spirito, una mente pronti alla lotta e ai travagli della politica, maturati tra il rombo e i motori, il sibilo dei colpi di una mitragliatrice, il volo delle aquile, le altezze sconfinate... " Noi, arrivati al potere... per merito e per volontà del Sovrano, ci siamo trovati di fronte a un problema nuovo, grave e serio: da camicie nere a uomini di Stato. Quando c'è stato posto il problema abbiamo guardato negli occhi il Duce e non abbiamo titubato: abbiamo accettato... La consegna è rigida... Bisogna arrivare al pareggio del Bilancio a qualsiasi costo e per ottenerlo bisognerà ridurre le spese e soprattutto le ragioni di esse... Bisogna riuscire a far comprendere all'estero come ovunque vi sia terra da dissodare e lavoro da produrre, là dovranno avere uguali diritti i lavoratori italiani che alla causa dell'Intesa ànno dato sangue, sacrifici, vite che valevano tanto quanto quelle dei soldati di altre nazioni. Bisognerà fare in modo che i nostri lavoratori non siano più i morti di fame che girano il mondo in cerca di fortuna... Gli italiani andranno all'estero come un tempo i mercanti veneziani e gli agricoltori portanti la buona semente della civiltà di Roma... Il governo spera di poter a giorni annunciare di aver risolto il problema delle bonifiche". S'intrattiene a parlare ... della mancanza di case, proclamando la assoluta necessità che i lavoratori abbiano, oltre il pane, anche le case e trattando dei lavori pubblici annuncia come spera di poter assicurare lavoro per tutto l'inverno. Viene poi a parlare del fascismo e della sua violenza, affermando come esso fosse, anche quando non era apparentemente legale, la forza giuridica dello Stato ed esalta l'atto di S.M. il Re, che à fatto in modo che il fascismo potesse realmente prendere il suo posto di forza legale e giuridica della nazione... Chiarisce come dopo la guerra si siano trovate di fronte due forme, due sistemi, due idee, due uomini: Mussolini e Lenin. Mussolini à vinto e col fascismo italiano à posto una formidabile diga dietro la quale ci passano tranquilli tutti i popoli che sono al nostro Occidente. Il poderoso discorso è stato interrotto da applausi scroscianti e da scoppi d'entusiasmo. Umberto Klinger.

Venerdì 10 novembre 1922

   

L'interessamento di S.E. Finzi per il problema edilizio

Roma. Questa mattina S. E. l'on. Aldo Finzi ha ricevuto l'avv. G. Giolo, presidente della Federazione Nazionale delle Cooperative per le case popolari ed economiche... L'avv. Giolo espone la situazione penosa in cui versano moltissime cooperative. S.E. l'on. Finzi assicurò che il problema delle case popolari è argomento che forma oggetto di accurati studi... S.E. l'on. Finzi si intrattenne a parlare delle condizioni speciali della nostra Provincia, assicurando che per il Polesine verranno presi speciali provvedimenti e promettendo tutto il massimo interessamento.

Lunedì 13 novembre 1922

S.E. l'on. Aldo Finzi per i lavori di bonifica

Per il vivo interessamento di S.E. l'on. Finzi il governo à stipulato un contratto con il sig. Sullam di L. 1.600.000 da impiegarsi nei lavori di bonifica del Basso Polesine. Costatiamo con piacere come le gravi cure della politica nazionale non distolgano il giovane parlamentare dal pensare ai bisogni della nostra Provincia e all'assoluto problema della disoccupazione.

Sabato 16 dicembre 1922

Il programma dei lavori pubblici per il Polesine votato dal Consiglio dei Ministri

Come un anno fa, una commissione di tecnici, visitava l'Alto e il Basso Polesine per studiare il modo di far intervenire lo Stato nell'opera di riordino e di bonifica del territorio... Dopo il colpo di stato fascista, durante una simpatica e cordiale adunata promossa in onore di S.E. Aldo Finzi,... [S.E.] strappava i generali applausi promettendo che entro una settimana il problema sarebbe stato risolto... Le elargizioni governative comprendono tutto un vasto piano di ordinamento... A S. E. Aldo Finzi vanno in questo momento i sensi di gratitudine di tutte le popolazioni polesane...

Le opere deliberate

Cap. 110 - Sussidi concessi a sette Comuni per opere stradali e opere idrauliche. L. 630.000

Cap. 182 - Rialzo e sistemazione argine sinistro del Po. L. 405.000. Costruzione antipetto e sottobanco a sinistra argine sinistro    del Po: L. 220.000. Prolungamento a valle della scogliera a difesa argine sinistro del Po, in località Frodo Bucella: L. 155.000. Sistemazione argine sinistro del Po, località San Antonio: L. 118.000. Rialzo e ingrosso argine sinistro del Po di Venezia: L. 545.000. Id. id. id. a sinistra del Po: L. 190.000. Rimonta e sistemazione della difesa frontale a sinistra del Po di Tolle e Froldo Canella: L. 125.000. Lusia: L. 100.000. Volta Palazzina Boara Superiore: L. 283.000. Boara Pisani: L. 189.000. Pettorazza: L. 150.000. Drizzano: L. 150.000. Capitello: L. 70.000. Canalbianco-Paganin: L. 72.000. Po di Gnocca: L. 672.000. San Giovanni: L. 363.000. Chioppa Polesine: L. 49.000. Po di Venezia: L. 500.000.

Opere di navigazione

Canale di Loreo: L. 84.000. Villadose-Ceregnano: L. 232.000.

Bonifiche

Polesana a destra di Canalbianco: L. 9. 512.242.54. Contributo annuo: L.96.207. S. Giustina (spesa presunta) L. 29.108.373.98 ; contributo annuo L. 264.500. Bresega (spesa prevista: 10.500.000), contributo annuo L. 126.000. Stellà S. Apollinare, 3.400.000 (spesa presunta); contributo annuo L. 73.000.

In corso di studio

Alto e Medio Polesine di Rovigo ( Contributo L. 17.500.000). Cà Settis, 2.000.000. Isola Donzella, 10.000.000. Rosolina, 1.000.000.

Per la ricostruzione economica

S. E. l'on. Finzi Sottosegretario di stato agli Interni ha ricevuto ieri una commissione... vivamente interessandosi di un vasto progetto di ricostruzione economica del Polesine: quale la bonifica idraulica in località Donzella e di Levante, la bonifica agraria nell'isola di Ariano e l'industrializzazione dei prodotti agricoli con speciale riferimento alla lavorazione della canapa... S.E. Finzi ha avuto parole di lode per la bella iniziativa che ... potrà portare sensibili vantaggi a numerose masse di lavoratori, diminuendo notevolmente la disoccupazione.

 I  giorni dopo il delitto

( Fra  48 ore - egli (Mussolini) disse - avrai la soddisfazione e la riparazione che meriti)

Lunedì 16 giugno 1924                      

L'On. A. Finzi ha inviato la seguente lettera al Pres. del Consiglio.

   Caro Presidente, mi risulta che ieri in una adunanza della opposizione si sia fatto il mio nome in relazione sia pure indiretta all'orrendo delitto che io più di qualsiasi altro condanno, reputandolo orribile, vilissimo e inutile. Acciocché io possa avere ogni ampia possibilità di individuare i miei nemici che da troppo tempo con calunnie e denigrazioni tentano inutilmente di intaccare la mia onorabilità... Ti prego di esimermi dalla carica che ricopro.

Il Presidente del Consiglio. Caro Finzi... Accolgo il tuo desiderio, ma ora i tuoi avversari di tutte le specie hanno l'assoluto obbligo morale di uscire ... dall'ombra ( I servizi che tu hai reso... non saranno dimenticati).

Martedì 17 giugno 1924

Un lungo colloquio di Mussolini con l'On. A. Finzi

Questa sera, dopo il Consiglio dei Ministri, S.E. l'On. Benito Mussolini aveva nella sua abitazione di Via Rasella un colloquio con l'On. A. Finzi, colloquio durato oltre un'ora e mezza.

Martedì 27 giugno 1924

Un telegramma di S.E. A. Finzi: " Ricevo numerosi telegrammi di fiducia e silidarietà dai miei elettori. Porgo loro la mia gratitudine... e li assicuro che fra poco quando luce sarà fatta essi sapranno come il loro rappresentante sia sempre rimasto degno della fiducia conferitagli.

Mercoledì 18 giugno 1924

Una lettera di Finzi

Nella mia qualità di deputato e di combattente decorato... esigo che il Comitato della Maggioranza parlamentare precisi subito in base a quali accuse abbia ritenuto necessario considerarmi incompatibile nelle cariche che occupavo e in questo senso volle citare la decisione del Presidente del Consiglio, secondo quanto il Presidente stesso ebbe ad affermarmi ieri sera in casa sua.

Al "Giornale d'Italia":

[Si dice che]... ho avuto se non altro il torto di permettere che nei miei corridoi si annidasse quella che poi risulta un'associazione a delinquere e nutrita anche con il denaro del Ministero dell'Interno... gente che [egli] lasciava vivere e agire al Viminale ... [ Si deve però considerare]... la delicata situazione del momento... [ Quanto poi alle case da gioco] ... Debbo dichiarare una buona volta ... che la regolamentazione della legge sul gioco, le pratiche ad essa inerenti e la presentazione al Consiglio dei Ministri sono avvenute esclusivamente a opera dell'On. Mussolini.

Venerdì 20 giugno 1924

Le polemiche sul "caso" Finzi

... Siamo informati che domani sarà recapitata al Presidente del Consiglio una lettera in cui l'On. Finzi chiederà che sia nominata una Commissione d'Inchiesta ... Guardiamoci negli occhi, disse l'On. Finzi concludendo. Se si tratta di darti prova del mio spirito di sacrificio, perché ci sia qualcuno che sia il cireneo di questa atroce situazione, io sono disposto a sacrificarmi, ma per non più di 48 ore. Fra 48 ore o io avrò la mia riabilitazione nel modo più completo e più clamoroso o io riprenderò la mia libertà d'azione.

   L'On. Finzi ha raccontato ai suoi amici che l'On. Mussolini in quel momento non sapeva nascondere la sua emozione:

   " Fra 48 ore - egli disse - avrai la soddisfazione e la riparazione che meriti".

 

 

 

Note

1) Il quaderno di A. Finzi è stato pubblicato integralmente da A. Staderini, Una fonte per lo studio della utilizzazione dei "Fondi segreti": la contabilità di Aldo Finzi (1922-1924), in Storia Contemporanea, Bologna, Il Mulino, ottobre 1979, nn. 4-5, pp. 787-804.

(2) Per gli "ordini del Presidente", cfr. ivi, 2 dic. 1922 [p. 789], 15 febbr. 1923 [p. 792], 4 luglio 1923 [p. 795], 24 luglio 1923 [p. 795], 7 ottobre 1923 [p. 797], 7 dic. 1923 [p. 799], 14 febb. 1924 [ p. 801], 28 marzo 1924 [p. 802], 8 aprile 1924 (ordine telefonico) [p. 803]

3) G. Salvemini, Scritti sul fascismo, a c. di R. Vivarelli, Milano, Feltrinelli, 1961, vol. I, p. 272.

(4) G. SAlvemini, op. cit., I, p. 276.

5) Cfr. A. Staderini, art. cit., 31 maggio 1924 [p. 804]

6) G. Salvemini, op. cit., I, p. 216.

(7) Cfr. "Corriere del Polesine", lunedì 10 marzo 1924 (pp. 2-3). L'opera del governo e la futura politica fascista esaminate da S.E. Aldo Finzi. In questa intervista Finzi assicurava i lettori del "sentimento costituzionale da parte del Fascismo", della sua tensione a "garantire la vita pacifica e civile" degli italiani. Di tutto ciò, concludeva Finzi rivolto ai lettori polesani, " fo garante come vostro figlio e come deputato di questo Polesine".

8) Cfr. G. Salvemini, I, op. cit., p. 218.

9) R. De Felice, Mussolini il fascista (1921-1925), Torino, Einaudi, 1995, p.628.

(10) Cfr. G. Salvemini, I, op. cit. p. 276.

11) Cfr. "Appendice". "Corriere del Polesine", lunedì 9 giugno 1924.

(12) Cfr. G. Salvemini, op. cit., I, p. 207.

(13) Cfr. G. Salvemini, op. cit., I, p. 220.

14) Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista, op. cit., p. 623.

15) M. Canali, Il delitto Matteotti, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 412.

(16) Cfr. G. Salvemini, I, Memoriale Rossi dell'11 febbraio 1925, op. cit., pp. 252 sgg.

17) Ivi, pp. 252-253.

18) Ivi, p. 253.

19) Ivi, p. 254

(20) Ivi, p. 254.

21) Ivi, p. 257.

(22) Ivi, p. 252.

(23) Ivi, p.256.

24) Ivi, p. 258.

(25) Ivi, p. 259.

26) Ivi, p. 255

27) Ivi, p. 269.

(28) Interrogatorio di Del Giudice, in AA.VV. Matteotti, Sotto l'alto patronato dell'ANPPIA, Roma, 1970, p. 117.

(29) Cfr. G. Salvemini, Appendice C, Nuova luce sull'affare Matteotti, op. cit., p. 289.

30) G. Ciano, Diario, Milano, Rizzoli, 1950, vol. I, p. 39.

(31) Cfr. Interrogatorio Del Giudice, op. cit., p. 107.

(32) L'errore è tale per Salvemini, secondo il quale il passo deve essere letto: " Per incarico avuto da Cesarino Rossi e Marinelli". Cfr. G. Salvemini, op. cit., p.280, n. 2.

(33) Per la sorveglianza speciale a Filippelli, cfr. E. Orlando, Il Dossier Matteotti, Milano, Mursia, 1994, p. 142.

(34) Cfr. "Appendice", "Corriere del Polesine", sabato 2 agosto 1924. La tragegia Matteotti...

(35) Cfr. M. Canali, Il delitto Matteotti, op. cit. pp. 550 sgg.

(36) Per Poggi, cfr. Canali, op. cit., pp. 553-556.

(37) Cfr. Canali, op. cit. p. 553.

(38) Cfr. Canali, op. cit., p.574, n. 5.

(39) Cfr. Canali, op. cit., p. 130.

(40) Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista, op. cit., p. 624, n.2.

41) Cfr. A. Staderini, Una fonte..., art. cit., pp. 791 sgg. 5 febbraio 1923 ( A Menegazzo corrispondente giornali americani) L. 500; 3 marzo (L. 500);  5 aprile (L.500); 5 maggio (L.500); 6 giugno (L. 500); 2 luglio (L. 500); 10 agosto (L. 500); 1 settembre (L.500); 7 ottobre (L.500); 5 novembre (L.500); 7 dicembre (L.500). 1924, 1 gennaio (L. 500); 8 febbraio (L.500). 6 marzo (L. 2000, insieme con Rosati e Parisi).

(42) Per l'intricata e complessa questione dei prestiti americani dei primi anni Venti, cfr. M. Storaci and G. Tattara, Kingdom of Italy's external borrowing and domestic monetary policy between the two world wars, in Financial History Rewiev, vol. 8, part.1, april 2001 Cambridge University Press, 2001, pp. 48-60. Cfr. inoltre l'importante contributo di S. Bartolazzi Batignani, Il contributo degli economisti in alcuni quotidiani, in Banca e industria fra le due guerre, L'economia e il pensiero economico, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 299-358. Infine cfr. M. Canali, La finanza americana in Italia, in Il delitto Matteotti, op. cit., pp.185-249.

43) "Bisogna anzitutto porre a caposaldo di ogni considerazione questa verità, a mio avviso, indiscutibile: la sorte del regime è legata alla sorte della lira...". Lettera di Mussolini a Volpi, 8 agosto 1926. Cit. in G. Carocci, Appunti sull'imperialismo fascista negli anni '20, in Il Regime fascista, a c. di A. Aquarone e M. Vernassa, Bologna, Il Mulino, 1974, p. 424, n. 35.

(44) Cfr. M. Canali, op. cit., p. 14.

(45) Cfr. M. Canali, p. 14.

(46) Cfr. A. Aquarone, Le origini dell'imperialismo americano, Bologna, Il Mulino, 1973. Per il Messico, specialmente le pp. 433-444.

(47) Oltre al già citato Banca e industria fra le due guerre, vorrei anche ricordare gli Atti, che fecero seguito al volume, Atti del convegno conclusivo della ricerca promossa dal Banco di Roma in occasione del suo primo centenario, Bologna, Il Mulino, 1981.

48) Cfr. P. Barucci, Il Contributo degli economisti italiani  1921- 1936, in Banca e industria..., op. cit., p. 211.

(49) Cfr. S. Bartolazzi Batignani, Il contributo degli economisti in alcuni quotidiani, in Banca e industria..., op. cit. p. 311.

(50) Zuccoli valutava la validità dei prestiti "sotto un duplice aspetto; la facoltà di usufruire dell'appoggio degli USA 'come prestatore del mercato internazionale' e la possibilità per l'Italia di 'fare, con una moneta sana a base aurea, da ponte fra il grande centro di accumulazione di capitale nord-americano e i minori paesi d'Europa', in particolare...i paesi dell'area balcanica". Cfr. P. Bini, Il dibattito attraverso le "riviste di regime", in Banca e Industria..., op. cit., p. 261.

(51) Sui difficili rapporti di Mussolini con Rosboch, definito "disfattista", cfr. P. Bini, Il dibattito... , in Banca e industria..., op. cit., p. 259. "Mussolini dedicò agli economisti italiani un'attenzione particolare". Cfr. P. Barucci

52) Cfr. A.M. Falchero, "Foto di gruppo": gli elettrici dopo la "Marcia su Roma", in Liuc Papers n. 13, Serie Storia, Impresa e Società, 3, ottobre 1994, pp. 1-37. Si ricorda  tra gli altri Orso Maria Corbino, "i cui meriti in qualità di Presidente del Consiglio Superiore delle acque gli avrebbero valso la carica di consigliere e poi di presidente della Sme". [p. 33, n. 11]. Inoltre, "...'la commissione centrale per lo studio e le proposte di provvedimenti occorrenti al passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace', ironicamente ribattezzata 'Commissionissima', era stata istituita con dl 30 giugno 1918 ed era composta di 27 sezioni, una delle quali, la XV, intitolata alla 'utilizzazione delle forze idriche ed elettriche'. Ne facevano parte Giovanni Barberis, Maurizio Capuano, Terenzio Chiesa, Ettore Conti, Orso Mario Corbino...". [p. 35, n. 25]. Si noti che Capuano era già dal 1920 negli Stati Uniti a cercare prestiti. Vedi sopra nel testo e relative note.

(53) . P. Barucci, Il contributo..., in Banca e Industria, op. cit., p. 200 e n. 72. "Dal 1924 un gruppo di giovani economisti svolse una serie di studi su questioni monetarie interne e internazionali che sfociarono in due volumi curati da B. Griziotti...".

(54) P. Barucci, Il contributo..., in Banca e industria..., op. cit., p. 191.

(55) Scrive Sturzo: " ...Forse la funzione futura di questa Italia, che nulla ha avuto dalla guerra, né colonie, né mandati né riparazioni reali ed effettive, anzi ha avuto le più doloranti umiliazioni per Fiume e la Dalmazia, sarà domani quella...[che] solleverà le sorti del nostro continente e nel mondo americano. Dico del mondo americano, perché noi oggi dobbiamo fare seriamente verso l'America una politica degna del nome italiano. Non è solo una politica di emigrazione...[ma anche una] politica economica che valga ad attirare capitale americano nel migliore sviluppo delle nostre industrie e dei lavori pubblici...". Cfr. L. Sturzo, Rivoluzione e ricostruzione  (Discorso tenuto a Torino alla Camera di Commercio il 20 dicembre 1922), in Il Partito popolare Italiano,  Bologna, Zanichelli, 1956, in Opera Omnia, III, vol. I, p.296.

(56) Cfr. A. Aquarone, Le origini dell'imperialismo americano, op. cit., 527, n. 49: "... Fattore fortemente stimolante della politica imperialistica americana a partire dalla fine del secolo XIX, il fatto che gli interessi economici statunitensi all'estero, in termini sia di investimenti che di mercati di sbocco, erano fortemente concentrati in relativamente poche società...Va pure aggiunto... che anche per le maggiori società americane ( con alcune eccezioni come la Standard Oil del New Jersey, la Singer, la International Harvester...) le attività estere avevano una rilevanza del tutto marginale...".( Corsivo mio)

(57) Cfr. M. Canali, Il delitto Matteotti, op. cit., p. 112: "Lo stesso Arnaldo aveva legami con la finanza americana e quando sul "Daily Herald" fu fatto il suo nome, assieme a quello di Finzi e Rosboch, qualcuno doveva avere ben informato il cronista inglese...".

(58) Cfr. l'articolo apparso sul "Popolo d'Italia", diretto da Arnaldo, dal titolo emblematico: Le esigenze dell'ora. Da oggi la stampa deve ispirare la sua opera di giudizio e di critica alle supreme necessità della disciplina nazionale. 1924. In Eia, eia, alalà, La stampa italiana sotto il fascismo (1919-1943), a c. di O. Del Buono, Milano, Feltrinelli, 1971, p.59.

(59) G. Trupiano, Dibattito, in Banca e Industria..., Atti..., op. cit., pp. 169-170.

60) G. Bruno, Capitale straniero e industria elettrica nell'Italia meridionale, in Studi Storici, 1987, 4, pp. 944-984.

(61) Cfr. G. Bruno, Capitale straniero..., art. cit, p. 962.

(62) R. K. Murray, L'arca dei bolscevichi, in La "questione"dell'immigrazione negli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 265-278.

(63) Cfr. M. Storaci-G. Tattara,  Kingom of Italy's..., art. cit., pp. 9-10

64) S.  Bartolazzi Batignani, Il contributo degli economisti..., art. cit., p. 311, n. 44.

65) E. Hermon, L'Italia di fronte all'occupazione franco-belga della Ruhr (1923), in Storia Contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1979, n. 4-5, pp. 697-766.

(66) Cfr. M. Storaci-G. Tattara, Kingdom of Italy's..., art.cit., p. 8 n. 19.

(67) Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista, op. cit., p. 622.

(68) Cfr. E. Rossi, I Padroni del vapore, Bari, Laterza, 1955, p. 20 n. 7.

(69) Cfr. E. Rossi, I Padroni del vapore, op. cit., p. 62.

(70) Cfr. E. Rossi, I padroni del vapore, op. cit., pp. 64-66.

(71) Cfr. M. Canali, Il delitto Matteotti, op. cit., p. 71.

(72) " Giuseppe Rosati, redattore del giornale romano "La Tribuna" e, dal 1926, collaboratore del "Popolo d'Italia", probabilmente insieme con i giornalisti Alceste Parisi e Giuseppe Menegazzo, aveva un rapporto "particolare" con il Ministero degli Interni; i loro nomi infatti, non sono mai accomunati a quelli di altri corrispondenti ed essi ricevono una quota mensile, con una certa regolarità di pagamento, attraverso il Capo di Gabinetto prefetto Moroni" (Archivio Finzi). Cfr. A. Staderini, Una fonte..., art. cit., p. 789 n. 13.

(73) Cfr, M. Canali, Il delitto Matteotti, op. cit., p. 71.

(74) Cfr. Eia, Eia, Eia, Alalà, La stampa italiana sotto il fascismo, op. cit., p. 50.

(75) Cfr. E. Rossi, I padroni del vapore, op. cit., p. 66 n. 3.

(76) Cfr. E. Rossi, I padroni..., op. cit., p. 62 n. 2.

(77) Cfr. M. Canali, Il delitto Matteotti, op. cit. p. 72.

(78) Cfr. Luigi Sturzo, Il problema della libertà e la crisi italiana,  op. cit.,  vol. III, (1923-1926), p. 188.

(79) Cfr. Appendice, " Corriere del Polesine", lunedì 9 giugno 1924.   Sua Eccellenza Finzi a Badia.

(80) Cfr. Appendice, "Corriere del Polesine", martedì 7 novembre 1922.

(81) Cfr. Appendice, "Corriere del Polesine", lunedì 13 novembre 1922.

(82) Cfr. Appendice, "Corriere del Polesine", martedì 14 novembre 1922.

(83) G. Procacci, Repressione e dissenso nella prima guerra mondiale, in Studi Storici, gennaio-marzo 1981, n. 1, pp. 119-150. In particolare le pp. 122-127. Sulla mobilitazione agraria, cfr. F. Piva, Mobilitazione agraria e tendenze dell'associazionismo padronale durante la grande guerra, in Quaderni Storici, 1977, n. 36, pp. 808-835.  "Con il decreto luogotenenziale del 14 febbraio 1918, n. 147 sulla Mobilitazione Agraria il ministro per l'Agricoltura fu autorizzato "per la durata della guerra e fino a tutto l'anno agrario successivo a quello in cui sarà pubblicata la pace", a provvedere "al controllo delle colture, dell'organizzazione del lavoro agricolo, ed altresì alla provvista e più utile distribuzione dei mezzi di lavoro e di produzione". Come scrisse il ministro Miliani sul "Bollettino della M.A.", il provvedimento fu reso necessario dall'urgenza di "raccogliere e disciplinare le scarse energie" al pari di quanto sin dal '15 si era fatto per l'industria attraverso la Mobilitazione industriale"..." (p. 808).

(84) H. Ullrich, L'organizzazione politica dei liberali italiani nel Parlamento e nel Paese (1870-1914), in Il liberalismo in Italia e in Germania dalla rivoluzione del '48 alla prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1980, quaderno 5, pp. 403-450.

(85) Ivi, p. 423.

(86) Ivi, p. 424.

(87) L'espressione "costruire...un 'tetto' " è di Ullrich, L'Organizzazione..., art. cit., p. 436. Sulla ricerca affannosa di  un partito, cfr. ivi le pp.418-444.

(88) G. Salvemini, I, Come nacque la dittatura, in Scritti sul Fascismo, I, op. cit., p. 48.

(89) L. Bigi, Gioventù cattolica e fascismo in un'inchiesta del Consiglio Regionale Toscano, in La Chiesa del Concordato, Bologna, Il Mulino, 1977, vol. I, pp. 415-438. Il questionario è alle pp. 417-418.

(90) Ivi, p. 431.

(91) Ivi, p. 321.

(92) Ivi, p.424.

(93) Ivi, p. 424.

(94) Ivi, pp. 418, 421, 424, 433, 434.

95) " I numerosi rapporti di Dosi sono raccolti nell'archivio Finzi; spesso redatti più volte in un mese, essi riguardano, tra l'altro, la politica del partito popolare, la preoccupazione vaticana per la condotta morale di Mussolini e il pericolo che Terzaghi insidiasse il posto si sottosegretario a Finzi...". Cfr. A. Staderini, Una fonte.., art. cit., p. 773, n. 32.

(96) "... Nell'archivio privato di Finzi, oltre a delle lettere del luglio '23 di Tom Antongini (vicedirettore del "Corriere Italiano") al sottosegretario, sull'organizzazione tecnica e finanziaria della stampa del nuovo quotidiano, vi sono altri documenti, collegati alle difficoltà incontrate, tra il giugno e il luglio, nel portare avanti il finanziamento promesso dagli industriali siderurgici e zuccherieri... In una lettera di Antongini a Finzi, inoltre, si specifica che gli industriali liguri "malgrado l'intervento di Cesarino Rossi e la lettera del presidente, non intendono proseguire nell'affare del giornale"...". Cfr. A Staderini, Una Fonte..., art. cit., pp. 771-772, n. 9.

(97) Cfr. Appendice, "Corriere del Polesine", 18 giugno 1924. "Al Giornale d'Italia".

98) Cfr. " Il Giornale d'Italia", 16 giugno 1924. "Il Presidente del Consiglio - deve - approfittare dell'occasione non solo per far giustizia contro i delinquenti, ma anche per epurare certi ambienti fascisti... nonché per mettere a posto organi essenziali del governo... La situazione del Ministero degli Interni è un caos...". Cfr. G. Salvemini, Scritti..., vol. I, op. cit., p. 66.

99) Cfr. G. Pansa, Le notti dei fuochi, Milano, Sperling & Kupfer, 2001, p. 303.

100) Cfr. G. Salvemini, Scritti..., vol. I, op. cit., p. 223.

101) Cfr. O. Belluco, Il partito nazionale fascista in Polesine (1920-1939), in Polesine e Fascismo, Studi Polesani, Rovigo, Minelliana, 1985, pp. 71-92.

(102) F. Socrate, L'organizzazione padronale agraria nel periodo giolittiano, in Quaderni Storici, 1977, n. 36, cit., pp. 661-682.

(103) F. Socrate, L'organizzazione..., art. cit., p. 680, n. 30.

(104) G. Pansa, Le notti dei fuochi, Milano, Sperling & Kupfer, 2001, pp. 303-304.

(105) A. Ventura, La Federconsorzi dall'età liberale al fascismo, in Quaderni storici, 1977, n. 36, p. 709.

(106) Ivi, p. 710.

(107) Ivi, p. 711.

(108) F. Socrate,L' Organizzazione padronale agraria nel periodo giolittiano, in Quaderni Storici, 1977, n. 36, p. 676.

(109)  R. De Felice, Mussolini il fascista,Torino, Einaudi, 1995, p. 454, nota 5.

(110) R. De Felice,  Mussolini il fascista, cit., pp. 452-453, nota 2.

(111) Ivi, p. 454, n. 3.

112) G. Bruno, Capitale straniero e industria elettrica nell'Italia meridionale, in Studi Storici, 28, 1987, p. 966.

113)   Canali, p. 254.

114) Su queste problematiche cfr. Canali, cit., pp. 161-162; 268-269.

(115) Canali, pp. 125-27.

116)  "Corriere del Polesine, mercoledì 18 giugno 1924.

117) E. Hermon, L'Italia di fronte all'occupazione franco-belga della Ruhr, in Storia Contemporanea, nn.4-5, 1979, p. 738, nota 145.

(118) Canali, p. 65,

(119) Canali, pp. 264.

(120) Canali, pp. 69-112.

(121)V. Salierno, D'Annunzio e Mussolini, Milano, Mursia, 1988, p. 115.

(122) Discorso di Mussolini del 3 gennaio

(123) De Felice,  Mussolini il fascista,  cit., p.395, nota 6.

124) Canali, p. 504.

(125) Canali, p. 319

126) Canali, p. 319

127) Salvemini, I, p. 210

(128) Salvemini, Memoriale Rossi, pp. 252-271, p. 253.

(129) Salvemini, I, p. 206

130) E. Orlando, Il dossier Matteotti, Milano, Mursia, 1994, p. 72.

131-132-133-134-135) Salvemini, p. 268, 245, 276, 286 nota 2, 187, 187.

136) V. Salierno, D'Annunzio e Mussolini, Milano, Mursia, 1988, p. 115.

(137)-(138)-139-140-141-142-143) Salvemini, I, p. 213, 213, 249, 216-217, 216, 215, 245.

(144) Orlando, p. 217.

(145) Salvemini, I, p. 242, nota 111.

(146)) Staderini, cit., p. 809.

147) Archivio Perrone-Compagni, scatola B.7, fascicolo n. 6, doc. n. 30, 5 aprile 1921. In F. Taddei, Le forze politiche a Firenze alla vigilia del fascismo, in AA. VV., La Chiesa del Concordato, a c. di F. Margiotta Broglio, op. cit., vol. I, p. 410, n. 133.

(148)149) Canali, p. 78, 461.

150) Orlando, p. 217.

(151) De Felice, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 6, nota 1.

(152) Orlando, p. 55.

(153) Canali, p. 315

(154) Orlando. p. 155.

(155)Canali, p. 480.

(156) Cfr. Canali, pp.  313-315, 321 e Orlando, p. 28.

(157) R. De Felice, Mussolini il fascista, cit., p. 619.

(158) Orlando, pp. 54-55.

(159) E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, Milano,Mondadori, 1970, p. 189, 218.

(160) Ludwig, p. 84.

(161) Canali, p. 218.

(162) Canali, p. 67, 69, 82 nota 16.

(163) Ludwig, p. 120.

(164) Il Discorso in De Felice, Mussolini il fascista, cit.,Appendice, 10, pp. 775-785.

(165) Salvemini, I, p. 210, nota 30.

(166) Canali, p. 65.

(167) Ludwig, p. 184 e 219.

(168) R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 65.

(169) Orlando, p. 177 e 163.

(170) Canali, p. 504.

(171) Orlando, p. 72 e nota 32.

(172) Salvemini, I, p. 276.

(173) La lettera è in Staderini, Rapporti inviati da Amerigo Dumini ad Aldo Finzi, da Parigi nel settembre del 1923, art. cit., pp. 805-806.

(174) La lettera trovata nell'ufficio di Rossi è riportata in Salvemini, op. cit., I, p. 251.

(175) Cfr. Staderini, p. 796.

(176) Cfr. Salvemini, I, p. 189.

(177) De Felice, Mussolini il fascista, cit., p. 623.

(178) Salvemini, I, p. 215 nota 45.

(179) Salvemini, I, p. 276.

(180) V. il documento n° 1 dell'inserto tra le pp. 192 e 193 del libro di P. Tompkins, Dalle carte segrete del Duce, Milano, Tropea, 2001. Del libro di Tompkins, a parte l'inserto documentario citato, non si può dare una valutazione positiva per l'impostazione eccessivamente disinvolta della materia, priva di  riferimenti bibliografici sufficientemente orientativi per il lettore. Molto materiale, più che dalle "carte segrete" di Mussolini, mi pare ripreso da quelle, edite, di Salvemini.

(181) De Felice, Mussolini il fascista, cit., p. 629.

(182) La deposizione di Pennetta è in Canali, pp. 496-497.

(183) Filippelli fu ricevuto da Finzi il giorno 12 giugno alle ore 11.  Mussolini lo ricevette prima del delitto, il 5 giugno alle ore 11.30. Cfr. Canali, p. 319.

(184) De Felice, Mussolini il fascista, cit., p. 626.

(185) Canali, p. 339.

(186) Canali, p. 228.

(187) Salvemini, I, p. 212.

(188) L'articolo della Sarfatti su "Gerarchia" in Salvemini, I, p. 246 nota 118.


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