Le origini di Adria  

 

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Cenni sulla storia del delta

   Adria sorge e si sviluppa su un territorio antichissimo, in quella Valle Padana che conobbe  in epoca preistorica le glaciazioni, che colmarono il territorio con enormi quantitativi di materiale alluvionale fino addirittura a qualche centinaio di metri. Certamente, se popolazioni preistoriche abitarono l’antica Valle Padana, i loro resti non si troveranno mai più, sepolti come sono da cumuli di materiale terroso e pietroso di ogni tipo. Per i tempi più recenti  abbiamo invece documenti molto importanti di storici greci e latini. Una testimonianza di grande interesse ci viene da Polibio ( 205-125 ca. a.C.), storico e geografo greco, il quale così descrive l’antico ambiente deltizio:

 

“…Il fiume Po, celebrato dai poeti con il nome di Eridano, ha le sue sorgenti nelle Alpi… Dal mare lo si risale, per circa 2000 stadi, lungo la foce detta Olana. A partire dalle sorgenti, ha infatti prima un solo letto, poi però si divide, nel territorio dei cosiddetti Trigaboli [ territorio oggi identificato nella zona di Ferrara], in due parti; di queste una bocca è chiamata Padòa, l’altra Olana. Su quest’ultima si trova un porto che offre, a chi vi approda, una sicurezza non inferiore a quella di nessun porto dell’Adriatico…”. (1)

 

   Non meno interessante la descrizione che del delta ci offre Strabone (63 a. C.- 20 d.C. ca.), storico e geografo greco nella sua Geografia, vasto trattato in 17 libri, molto importante per la conoscenza del mondo antico.  L’immagine che Strabone ci tramanda del delta è quella di una sorta si paradiso terrestre:

 

“…La maggior parte della pianura è cosparsa di lagune. Come nel paese detto Basso Egitto, è solcato da canali e da dighe, per cui da una parte la terra viene drenata e coltivata, dall’altra si permette la navigazione. Alcune città sono delle vere e proprie isole, altre sono solo in parte circondate dalle acque. Le città esistenti all’interno, al di là delle paludi, hanno delle meravigliose vie di navigazione fluviale e tra queste soprattutto il Po. E’ infatti un fiume grandissimo e spesso in piena per le piogge e le nevi. Si disperde poi in molti bracci alla foce, ostruendo l’imbocco principale e rendendo difficile l’accesso...”. (2)

 

 

   E tutto intorno, un’ infinità di boschi rigogliosi, come narra Francesco Antonio Bocchi (1821-1888), in seguito ai suoi scavi: “… Alla profondità di circa otto piedi… si rinvennero alberi a migliaia, roveri specialmente… avanzi d’antichi boschi che coronavano le isolette elle lagune e le sponde ei fiumi… Abbondavano altresì d’alni e di pioppi, d’ontani, di salici e persino di larici…”. In questi boschi, animali ormai perduti. Oltre agli “animali feroci”, “si rinvennero palchi di cervo insieme con rottami di vasi etruschi”. (3)

 

   Un cenno esplicito ad Adria e alle sue origini etrusche lo troviamo in Plinio Il Vecchio, il quale, dopo aver definito il Po come un fiume immenso, di cui “nessun altro fiume accresce di più la sua portata in così breve spazio”, così prosegue nella “Naturalis Historia”:

 

“…Fra le paludi si apre il celebre porto della città etrusca di Atria, dalla quale prima prendeva il nome di “Atriatico” quello che ora è il mare Adriatico…”. (4)

 

 

   In effetti gli antichi possedevano una conoscenza estremamente precisa degli aspetti morfologici di quel  territorio che in pratica coincideva con la cosiddetta “decima regio” augustea, quindi chiamata “Venetia et Histria”, e che era compresa, nei suoi confini, dal fiume “Ollius” [Oglio] a Ovest, dal notissimo “Padus” [Po] e dall’ “intimus maris Hadriatici sinus” a Sud, e a sud-Est dal “fluvius Arsia” [Arsa], dalle catene alpine e dai rilievi carsici a Nord e a Est. Qui una serie di paesaggi diversi, vari, decisamente unici e di straordinaria bellezza: il mare, le lagune lungo la costa di Ravenna e Aquileia, la fertilissima pianura e, infine i rilievi pedemontani. Di questo  paesaggio straordinario per varietà  ci parlano storici e geografi. Erodoto [V, 9, 2] ci parla dei Veneti come “quelli dell’Adriatico”, espressione poi ripresa da Livio [V, 33, 10] con il suo “Venetorum angulo”. Vitruvio [De Architectura, 1, 4, 11-12] descrive a sua volta le “Gallicae paludes circum Altinus, Ravennam, Aquileiam [le galliche paludi intorno ad Altino, Ravenna e Aquileia]. Plinio, informatissimo, indica dal canto suo l’esistenza delle “Atrianorum paludes”, ovvero delle lagune presso Adria. E sempre delle meravigliose lagune tra Ravenna e Aquileia, incredibilmente salubri, ci parlano Erodiano [VIII, 6-7] e Cassiodoro [Variae, XII, 22], il quale si sofferma su quelle baie ove “il mare ondoso si acquieta, assumendo il calmo aspetto delle acque di una laguna”. Ciò che colpisce gli antichi del cosiddetto “Venetorum angelus” è l’incredibile abbondanza dei corsi d’acqua, di eccezionale importanza sia per la navigazione sia per i traffici mercantili. Così Servio [Georg. I, 262] ci informa che la “pleraque pars Venetiarum, fluminibus abundans” [la maggior parte delle Venezie è ricca di fiumi]; fiumi però navigabili, fiumi che Strabone [V, 1, 6-8, 213-214] definisce “anàploi”, ovvero corsi d’acqua che si possono navigare “controcorrente”. Tutti questi fiumi confluivano quindi nell’Adriatico, e che, internamente, attraverso tutta una ragnatela di canali endolagunari, mettevano in rapida comunicazione Ravenna e Aquileia, Adria e Spina, che erano stanziate lungo la costa orientale, definita da Strabone [VII, 5, 10, 317] “eulìmenos”, ossia “favorevole agli attracchi, ai buoni porti”. E infine, in questo straordinario contesto idrografico, ecco il Po, che Giordane [Get., XXIX, 150] chiama “Italiae fluviorum regem” [il re dei fiumi d’Italia],  “che rappresentava il fulcro dinamico nelle comunicazioni via acqua (interno-esterno) della Cisalpina e anche, con la complessità dei suoi rami deltizi una sorta di nodo e cerniera di tutto il sistema idrografico afferente alla “decima regio”. In sostanza, “l’asse padano assumeva la funzione di grande collettore degli interessi commerciali ed economici dell’Italia settentrionale, funzione che sembra confermata dalle parole di Plinio [Nat. Hist., III, 123], secondo il quale nel collettore transpadano “arrivava ogni cosa dal mare attraverso il corso del Po, che perciò era fructuosus”. San Ambrogio infine definì il Po “una sicura via di collegamento per i commerci marittimi”. E qui, secondo Plinio il Vecchio, vi fu la sede di un famoso porto, quello di Adria, “città etrusca, da cui prese il nome quel mare che oggi è detto Adriatico”.(5)

 

 

 

 

 

 

Adria: città greca o etrusca?

 

 

   Secondo Ecateo di Mileto, il più antico storico greco, Adria raggiunse la sua massima espansione nel V secolo a. C. ed era una “polis” greca, che nacque vicino al cosiddetto “Adrìas Potamòs”, uno dei principali corsi d’acqua che collegava la città al Mare Adriatico.(6). Certo è che l’indagine sui primi abitanti di Adria costituì, specie per gli storici e gli archeologi locali dell’800, un problema fondamentale di ricerca, addirittura una vera e propria “mania”, e, anzi, una “smania”, che li portò a formulare ipotesi tutt’altro che chiare. Si accrebbe anzi la confusione, tanto che l’abate Vincenzo De Vit aggiunse al panorama già di per sé confuso, ulteriori nomi: Umbri, Galli, Greci, Etruschi, e persino i mitici Pelasgi, identificati dal De Vit con i “Filistei d’Oriente”.(7) Lo stesso Francesco Antonio Bocchi sostenne a spada tratta l’ipotesi secondo cui furono i Pelasgi a portare “in Italia la civiltà a Tirreni, umbri ed Etruschi”. Inoltre il Bocchi sosteneva che i “vasi dipinti” fossero “prodotti localmente”, opponendosi, a torto, “alla tesi del Lanzi, che correttamente attribuiva i vasi dipinti alla Grecia”. (8)  Riguardo ad Adria, oggi le iscrizioni rinvenute in un alfabeto greco-eginetico ci permettono di asserire che uno dei nuclei etnici certi fu quello greco, a partire dal V secolo a. C. La presenza ad Adria del culto del Dio Apollo, protettore dei naviganti di Egina, testimonia dell’importanza, non solo etnica, ma anche economica di questo primitivo nucleo greco, ritenuto il fondatore “dell’emporio commerciale”, e comunque i Greci Eginetici sembrano aver costituito “il gruppo dominante ad Adria”. (9) Gli Egineti furono infatti, fra tutti i Greci, i più antichi “mercanti viaggiatori” che solcarono con le navi il Mediterraneo. Essi fondavano ovunque i loro “empori” commerciali. Il più noto e pressoché leggendario mercante egineta fu Sostrato Egineta, “figlio di Laomedonte, col quale nessuno può gareggiare” [Erodoto, IV, 152]. A Sostrato Egineta [VI secolo] è attribuita “una dedica ad Apollo, emersa dalle ormai celebri scoperte di Gravisca ( il porto dell’etrusca Tarquinia)”. (10) E il culto di Apollo, già l’abbiamo visto, è attestato anche ad Adria. Qui dunque stanziarono il loro emporio gli Egineti, inventori della moneta più antica che mai abbia visto il mondo classico, la famosa “tartaruga” di Egina, la cui coniazione è databile un po’ prima del 550 a. C. Nella stessa Atene, circolava anticamente la “dracma eginetica”, poi sostituita da quella detta “euboica”. (11)

   Attestata dalle iscrizioni adriesi è infatti la presenza, accanto agli Egineti, di mercanti ateniesi, certamente in concorrenza con i mercanti egineti. (12)  In conclusione, Adria  fu frequentata per scopi commerciali da Greci. “La piccola cittadina tra il mare e i fiumi doveva già essere uno scalo commerciale di notevole vivacità; come documenta la massa di vasi greci, prevalentemente attici, a figure nere, che arriva al porto adriese molto densamente dalla metà del VI secolo a. C. ”. (13) La presenza greca potrebbe costituire un dato storico fondamentale per risolvere il problema etimologico del “nome” della città.   L’origine del nome “Adria” rimane infatti incerto, e molte sono le ipotesi che si sono avanzate in merito. Secondo alcuni, Adria deriverebbe il nome da “Atri” oppure da “Adriano”, antico re dei Pelasgi, mitici e leggendari fondatori della città. Secondo una leggenda, narrata dal poeta adriese Luigi Groto, detto il “Cieco d’Adria” (1541-1585), il cocchio dorato del re sarebbe ancora sepolto sotto il suolo della città. Una leggenda tenace, questa, tanto che Francesco Antonio Bocchi, che dedicò tutta la sua esistenza agli scavi archeologici nel sottosuolo adriese, scriveva: “ Anche ne’ recenti scavi si udiva qualcheduno stare in aspettazione se mai si scoprisse la carrozza del re Adriano”. (14) Un’altra leggenda sostiene che il nome deriverebbe dal termine greco “Aetria”, che significa “Serena”. In base a tale leggenda, si tramanda che Diomede, “… mentre lontano dalla patria combatteva nella guerra di Troia, ed aveva lasciato a casa la moglie sola a godere le sostanze e i beni di cui egli andava famoso, sia stato da lei tradito con Cillabari, figlio di Stenelo, del quale s’era invaghita e col quale giunse al punto di consumare gran parte delle sostanze del marito. Ed egli nel ritorno, indignato della infedeltà della moglie… abbia pensato di cambiare rotta e di stabilirsi altrove. E quindi vagando sia andato a fermarsi dove ora sorge Adria”, spiaggia deserta e “serena” (“Aetria”). (15) La presenza del mito di Diomede ricollega Adria alla vicina Spina, la quale, secondo Plinio il Vecchio, fu anch’essa fondata da Diomede. “Il culto dell’eroe omerico, spiega Nereo Alfieri, nell’Adriatico sarebbe nato dal sincretismo tra una divinità appartenente al substrato etnico locale ( nel nostro caso o dagli Umbri o dai Veneti) e la figura dell’eroe argivo diffusa dai primi navigatori greci”. (16) Altre fonti affermano poi che il nome deriverebbe dal termine latino “ater” (= fosco, oscuro), ma tale ipotesi è stata rigettata dalla critica, in quanto si è osservato che una parola latina non può aver influito sul nome originario di una città la cui nascita precede di alcuni secoli il contatto con la civiltà e la lingua di Roma. Infine, alcune ipotesi prospettano che “Atria” starebbe a significare “Città del Levante” o d’Oriente, la più vicina al Mare Adriatico, che da essa prese il nome, e la cosa costituisce ancora oggi motivo di vanto per la cittadina polesana. Sulla questione del nome si potrebbe azzardare un’ulteriore ipotesi, fondata pur sempre sui dati forniti dalla tradizione.

    Il primo dato su cui occorre ragionare è quello relativo al fatto che l’Alto Adriatico fu frequentato, a partire dal VII secolo a. C., soprattutto da naviganti e da mercanti greci. Di fronte a un mito leggendario, come quello, ad esempio, che attribuisce a Diomede l’onore di aver dato il nome alla città, la prima cosa che occorre fare è chiedersi chi  stesse dietro il mito stesso, ossia chi lo avesse diffuso in questa determinata area geografica e soprattutto “perché”. Lorenzo Braccesi, professore di storia greca all’Università di Venezia, spiegava in un suo intervento dell’87 che “ dietro i culti vi sono i portatori dei culti e questi sono gli uomini protagonisti della grande avventura ellenica, che, a ondate successive, li portava a irradiarsi con proprie colonie in Italia, in Sicilia, in Cirenaica e su tutto il litorale della Gallia e dell’Iberia, nonché, con ricchi empori commerciali, alla foce del Nilo, del Po, del Rodano e dell’Ebro”. (17)

    Il fatto degno di nota è che questi antichi navigatori greci, osservava Braccesi, spinti verso rotte ancora poco note o addirittura sconosciute, per dominare l’ansia di fronte all’ignoto, raccontavano che nelle loro rotte e nei luoghi da essi frequentati erano stati preceduti da eroi-navigatori che avevano partecipato alla guerra di Troia, e che nel loro viaggio di ritorno in patria si erano fermati in varie zone dell’Italia, fondando città. Per quanto riguarda l’Alto Adriatico, dopo la guerra di Troia, eroi fondatori di città furono essenzialmente due: Antenore, mitico fondatore di Padova, e Diomede.

   Mentre il culto di Antenore, nell’Adriatico, fu diffuso dai Focei e dagli Ateniesi, quello di Diomede fu divulgato in modo capillare dai Corinzi,  che “svolsero il ruolo di attivi commercianti in Adriatico soprattutto nella prima metà del secolo VI”  , e successivamente dai Siracusani. Vi fu quindi una persistenza e una continuità nel culto di Diomede perché, come si è fatto notare, Siracusa era “colonia” fondata dai Corinzi. (18)

   Sta però di fatto che l’egemonia corinzia e siracusana fu costantemente messa in crisi dalla presenza in Alto Adriatico degli Ateniesi, e si sa quale ruolo di prima grandezza abbia avuto Atene nel commercio e nell’importazione dall’Attica di vasi di ceramica in tutti i porti adriatici, compresa Adria, ove i reperti vascolari di origine attica sono notevoli. Ora, dominio degli scali commerciali significa anche, lo abbiamo visto, ampio dominio culturale con possibilità eccezionali da parte del gruppo dominante di “esportare” anche i propri “miti”.

   E’ indubbio, nel caso di Atene e dell’Attica, che uno dei miti più fortunati, attestati in modo massiccio soprattutto dalla ceramica di Spina, fu quello di Teseo, l’ “Ercole attico”, protagonista di numerosissime imprese in tutto il vasto Mediterraneo. Il dato culturale interessante è questo: Teseo, l’eroe ateniese per eccellenza, secondo il mito, era figlio di Egeo (= il mare) e di Etra, figlia del saggio Pitteo. Fondamentale il dato linguistico per cui Etra (Aitria) significa, secondo quanto attesta Felice Ramorino, “l’aria serena, e ancora una personificazione del sole che sorge dal mare d’Oriente”. (19)  “Aitria” significa dunque cielo limpido, sereno. (20) Il dato mitologico suggerirebbe quindi l’ipotesi che il nome di “Adria” fosse stato imposto o comunque “inventato” da naviganti ateniesi sulla base del paesaggio lagunare adriatico, orientato al sorgere del sole e immerso in un cielo di straordinaria limpidezza e serenità: nulla di meglio per gli Ateniesi che chiamare “Aitria” quella spiaggia così aperta e luminosa, in onore appunto di Etra, la “limpida” e “serena” madre del loro eroe nazionale più famoso, Teseo, protagonista assoluto di viaggi straordinari attraverso il Mediterraneo. L’ipotesi è tra l’altro in sintonia con i recenti studi di L. Braccesi, in base ai quali sarebbe attestata “una presenza ateniese ad Adria e Spina” molto più massiccia di quanto normalmente si crede, corroborata anche da una epigrafe attica che fu studiata nel 1979 da A. Johnston. (21)

   Tuttavia, possediamo un dato tradizionale apparentemente “contrario” all’ipotesi e secondo il quale l’attributo di “serena” dato ad Adria sarebbe da attribuirsi a Diomede, eroe “sostenuto” da Corinto e Siracusa. Però potrebbe trattarsi di un evidente caso di “appropriazione indebita”, una sorta di “furto”, da parte di Corinto e Siracusa, città “concorrenti” rispetto ad Atene, altrettanto interessata a mettere radici, anche attraverso il mito, in quell’Adriatico che costituiva una fonte di guadagno senza pari. La “rivalità” tra Atene e Corinto è attestata anche attraverso il mito stesso di Teseo. Infatti il mito relativo all’ eroe attico racconta che Teseo, dopo molte avventure, tornò ad Atene, ma qui “trovò Egeo suo padre irretito nei lacci della pericolosa incantatrice Medea, che da Corinto s’era rifugiata ad Atene”, con lo scopo nascosto di avvelenare Egeo e anche Teseo. Egeo però, continua il mito, “riconobbe dalla spada e dai sandali il suo figliuolo, allora buttò a terra il bicchiere del veleno e così Teseo fu salvo. Medea in seguito dovette lasciare Atene”. (22) Siracusa, osserva acutamente Braccesi, sosteneva il mito di Diomede “per privilegiare le relazioni diplomatiche con il mondo adriatico, dove il mito di Diomede” aveva messo radici presso i Veneti. Siracusa quindi sosteneva il mito di Diomede per ragioni “commerciali”, nel tentativo di sostituire Atene “con un ruolo di potenza egemone”. (23) I Greci, dunque, Ateniesi, Egineti, Corinzi e Siracusani ebbero un ruolo di primo piano nella formazione di Adria antica.

   Anche le recenti indagini sulla microcitemia, infatti, la cosiddetta “talassemia”, “la cui percentuale assai notevole è stata riscontrata nel basso Ferrarese e nel Rodigino, è stata connessa da alcuni studiosi di medicina con l’antica presenza di Greci nel territorio, e in particolare con i nuclei storici di Spina e Adria”. Infatti, anche se “il primo  autentico inurbamento della Pianura Padana” si dovette agli Etruschi, vi fu un “consistente apporto greco nelle zone marginali di Spina [e] Adria”. Ulteriori conferme sono venute da altri studiosi, i quali hanno parlato di “origine razziale greca della talassemia”. (24)

    La presenza degli Etruschi è pertanto “secondaria”, nel senso che è attestata ad Adria dalle iscrizioni del tardo VI secolo: si tratta di “iscrizioni in alfabeto etrusco di tipo centro meridionale (orvietano), provenienti da Adria ed esposte al Museo insieme alle iscrizioni etrusche del periodo ellenistico, queste ultime provenienti tutte da tombe adriesi scavate nel corso del XX secolo”. (25) L’affermazione definitiva del gruppo etrusco ad Adria si situa, in base ai reperti vascolari e alle iscrizioni rinvenuti nelle necropoli locali, intorno al IV secolo a.C.

   Le iscrizioni vascolari, che testimoniano la presenza dei Greci prima e  degli Etruschi dopo, costituiscono il dato fondamentale per impostare in modo verosimile il problema delle “origini” di Adria: greca o etrusca? Le due ipotesi non solo non si escludono, ma addirittura si completano vicendevolmente. Ai Greci infatti si deve l’attivazione dell’ “emporio”,  con l’importazione di una serie di manufatti che in seguito vennero imitati e ripensati “in loco”; agli Etruschi invece si deve la successiva creazione della struttura politica interna della città e la difesa dai pericoli esterni.

 

   Dobbiamo partire dal dato di fatto che la “crisi” che investì le città etrusche centro-meridionali, nello scontro perdente con Siracusa, portò tali popolazioni a spostarsi a Nord, superando gli Appennini, verso la Pianura Padana, alla ricerca di sbocchi commerciali “alternativi” rispetto a un Tirreno ormai completamente e commercialmente perduto per i traffici mercantili etruschi. La vittoria di Siracusa, infatti, costituì una catastrofe per il commercio tra l’Etruria e la Grecia, che se anche non lo “interrompeva totalmente, pur lo ostacolava molto gravemente”. (26)

    Fu da Felsina (Bologna) che partì, secondo gli studi più accreditati, l’irradiazione etrusca verso l’Adriatico. “Con la fondazione di Felsina nasce la cosiddetta Etruria Padana… La espansione etrusca da Bologna ha … diversi aspetti. Il primo, in direzione occidentale, segue approssimativamente la attuale Via Emilia: la testimonianza più viva di una persistenza etrusca nell’Emilia occidentale si ha a Piacenza, nei cui pressi, nel 1877, è stato scoperto il cosiddetto “Fegato di Piacenza” destinato alle interpretazioni degli aruspici. In direzione opposta, la espansione etrusca si è diretta verso Spina, presso la attuale Comacchio, e di là verso Adria nel Veneto”. (27) Spina quindi, fu etruschizzata prima di Adria, che al contrario venne assimilata più tardi alla cultura etrusca e in seguito alla “crisi” ambientale di Spina stessa, e per la necessità da parte degli etruschi, specie di Ravenna, non solo di avere a disposizione un nuovo e più agibile porto, ma anche, come vedremo, per ragioni di opportunità militare. Per il primo aspetto, fa notare G. Serra, “ lo sviluppo dell’antica Adria pare corrispondere al periodo di decadimento di Spina per il continuo peggiorare delle condizioni di accessibilità dello scalo spinetico”, che ovviamente era stato reso inagibile per le navi per il progressivo insabbiamento dei fondali del porto. (28)

   Nel delta antico si assiste quindi a una colonizzazione delle foci del Po, dove sorgono centri di irradiazione per nuovi traffici, con la costituzione o l’assimilazione alla cultura etrusca di villaggi indigeni preesistenti. L’emporio e poi la “città” di Adria, come precedentemente era avvenuto per Spina, nacquero su strutture abitative preesistenti, costruite dagli antichi Veneti appartenenti alla civiltà delle Terramare, insediatisi su un sistema di palafitte che ebbe una persistenza lunghissima nel delta, anche oltre l’età romana. (29) Ben quindici iscrizioni venetiche attestano ad Adria il primitivo insediamento dei Veneti. (30) L’acquisizione, attraverso gli scavi, di reperti archeologici legati alla produzione di prodotti per l’esportazione, ci permette soprattutto di inquadrare l’antichissimo agglomerato urbano di Adria come uno degli scali commerciali più attivi dell’Adriatico, potenziato successivamente dall’organizzazione statale etrusca.

    L’attivazione infatti di empori nell’Adriatico costituì un’inaspettata apertura per gli Etruschi al commercio verso mercati del tutto inesplorati e, si noti, le nuove stazioni commerciali adriatiche etrusche “ristabiliscono”, secondo Staccioli, “un punto di contatto diretto con il mondo greco e segnatamente con Atene”, alla ricerca anch’essa di una “via alternativa ai suoi traffici marittimi che le erano stati preclusi nel Tirreno dalla potente Siracusa”. (31)

   Le correnti di traffico con la Grecia si fecero via via  intense al punto tale che le fonti greche, con eccessiva e disinvolta “ esagerazione nazionalistica”, parlarono di Spina come di “una città greca in territorio etrusco”. Ma, come fa giustamente notare Nereo Alfieri, studioso di fama internazionale,  professore di topografia antica all’Università di Bologna,   la supposta “grecità” non consistette tanto nel fatto che Spina fosse effettivamente una polis “greca”, quanto in una ragione economica, in quanto i Greci, e Atene in modo particolare, costituivano la “corrente commerciale predominante”, e in più vi era nelle stessa città di Spina “la presenza di un fondaco di commercianti greci, i quali godettero certo di particolari privilegi sociali in seno alla città-stato etrusca”. (32)  Quindi la massiccia presenza di mercanti greci ad Adria e a Spina, vie di traffico e zone d’importazione privilegiata di mercanzia e manufatti greci, fa capire come nacque Adria antica e quali ne furono le effettive funzioni. Da parte dei mercanti e navigatori ellenici si costituirono sui villaggi palafitticoli veneti basi commerciali,  dotate di magazzini e fondachi, lungo le foci del Po e le vie d’acqua . E’ quindi evidente come Adria antichissima fosse essenzialmente uno scalo commerciale, situato in una zona strategica, che fu all’inizio una pura e semplice “base” per le merci dei mercanti di Egina, come testimoniano le iscrizioni sui manufatti, che appunto fanno vedere i Greci Egineti quale “gruppo dominante” di Adria. Ben presto però Spina, e qui passiamo a quell’aspetto militare cui si accennava sopra, proprio per il ruolo di “polizia” che si era assunta nell’Adriatico contro i pirati Liburni, pericolosissimi per l’estrema vicinanza, in quanto stanziati nella vicina costa istriana, avvertì la necessità di un rafforzamento del gruppo etrusco di Adria, l’unico nell’Adriatico Nord-orientale che aveva dato vita a una struttura statale compatta di carattere militare capace di difendere le attività artigianali dei Greci di Spina e Adria dai pericoli esterni. (33) Gli Etruschi, ebbe a scrivere Patroni, “non erano sparute avanguardie commerciali, ma già nuclei di colonizzatori, perciò fin dal principio di questa età, nella protostoria, essi dovettero iniziare silenziosamente la soluzione dei problemi che i Greci e i Fenici risolsero solo più tardi: la fondazione di sedi sufficientemente ampie e ordinate, ove si stabiliscono i culti secondo i riti orientali e il reggimento civile. Gli Etruschi pervennero a una salda amalgamazione con gli indigeni in popolo compatto e ad una profonda e intensa organizzazione del territorio interno, che gli altri coloni orientali trapiantati nell’occidente non conobbero mai”. (34) Adria fu perciò assimilata agli Etruschi, straordinari “organizzatori” del territorio, che ne divennero il gruppo etnico dominante, non solo sotto il profilo commerciale, ma anche civile e militare: in questo senso Adria fu “etrusca”. L’antico “emporio greco-eginetico” di Adria, proprio per la sua posizione strategica nell’Adriatico, assumeva agli occhi degli “organizzatori” etruschi fondamentali funzioni militari di controllo, soprattutto per l’estrema facilità con cui si poteva risalire, attraverso i canali intradeltizi, da Adria a Spina. “Data la sua potenza marinara – scrive Nereo Alfieri - Spina avrà presidiato tutte le foci del delta, non diversamente da come Venezia custodì gelosamente gl’imbocchi della sua laguna”. (35) L’assorbimento di Adria, non sottratta con la forza ai mercanti greci residenti con le loro botteghe artigiane, ma presa, secondo Giulio Giannelli, semplicemente “in affitto”, (36) a ulteriore protezione della città di Spina e di Adria stessa, fu dunque per gli Etruschi una decisione non rinviabile, perché “…i nuovi scali di Adria e di Spina non avrebbero … potuto collegarsi con i tradizionali mercati del Mediterraneo senza eliminare o ridurre la pirateria liburnica dell’Adriatico: in questa funzione va inteso il dominio di quel mare attestato dalle fonti”. (37)

   Dunque, il “presidio” di Spina su Adria fu assolutamente necessario, poiché le due città-stato greco-etrusche, erano anche in strettissimo e agevole rapporto fra esse grazie al “Sagis”, ricordato da Plinio il Vecchio. Come spiega benissimo Nereo Alfieri, “… è evidente la funzione di raccordo di questo canale etrusco [il Sagis], destinato a rendere più efficiente la navigazione interna tra i due centri etruschi di Spina e di Adria”. (38) L’assimilazione all’Etruria dell’imbocco deltizio, sia per la difesa dell’Adriatico dalla pirateria sia, probabilmente, per le  possibili incursioni piratesche verso le zone intradeltizie provenienti dallo stesso mare Adriatico,  era importante non solo per la sicurezza di Adria e Spina, ma anche per Ravenna, anch’essa facilmente raggiungibile attraverso quella che Plinio il Vecchio chiamava “Fossa Augusta”, un “canale” che arrivava appunto fino a Ravenna, “dove si chiamava Padusa, ma in antico anche Padus Messanicus”. (39) L. Laurenzi osserva che “… è possibile che Spina abbia tenuto la polizia dell’Adriatico contro i pirati, ma non esclusivamente, perché certamente dovette spartire gli oneri e gli onori con Corinto e con le città dipendenti da quel grande centro… Da questo accordo dev’essere derivato l’onore fatto a Spina di essere ammessa a partecipare alla vita del santuario di Delfi, il maggior centro spirituale continentale, geloso delle proprie prerogative e quindi tutt’altro che aperto al primo venuto, anche se danaroso…”. (40) E ciò, ovvero la partecipazione di Spina “alla vita del santuario di Delfi”, deve aver convinto ancor di più  gli storici greci della “grecità” di Spina. Però non dobbiamo farci troppo fuorviare dal carattere “religioso” del Santuario di Delfi. Spina era una città molto fiorente e ricca, e probabilmente fu accolta molto volentieri a Delfi, che, oltre che un “santuario”, era una delle principali “banche” di deposito e credito del mondo antico. Fra tutte le banche di deposito e credito greche dal V secolo in poi “spicca Delfi”, ove il Tempio di Apollo aveva la funzione di prestatore di denaro. (41) Ma, per tornare al problema della “grecità” di Spina, come conferma una volta di più Nereo Alfieri, era più che altro il “tono culturale” di Spina che era “prevalentemente greco, [per] l’abbondanza dei prodotti greci, che postulavano l’esistenza di un attivo nucleo di commercianti greci in seno alla comunità italica”. (42) Adria e Spina, pur avendo un “tono” greco,  in alcuni casi mostravano elementi assolutamente originali, tali da differenziarle nettamente dai Greci. Pensiamo a una cosa minima come, ad esempio, la coltura della vite, le cui tracce antichissime sono state individuate dagli scavi del Bocchi negli strati più profondi: “ Vi si coltivava la vite molto prima di quei tempi che si danno come aurora della civiltà ne’ nostri paesi”. (43) Come  coltivano gli Etruschi la vite? In modo del tutto difforme dai Greci, maritata “al pioppo, all’acero, all’olmo”. Infatti, osserva Emilio Sereni, “… un rilievo particolare, un elemento paesaggistico, che manca nell’ambito della colonizzazione greca, e che diverrà invece decisivo nell’area del dominio etrusco…: vogliamo dire un sistema di allevamento della vite che – a differenza di quello greco – nelle terre più fresche… dall’agro di Capua alla Val padana, lascia più libero sfogo al rigoglio dei tralci, che si lasciano correre in larghi festoni, alti sul terreno, ed eventualmente appoggiati a un sostegno vivo. Mentre nell’ambito della colonizzazione greca, così, la vite ad alberello basso o a “palo secco”… dà la sua impronta caratteristica al paesaggio del giardino mediterraneo, nel dominio etrusco, invece, il diverso sistema di allevamento consente una coltura promiscua: nella quale … alla vite allevata alta, ed eventualmente maritata al pioppo, all’acero, all’olmo – si consocia nello stesso campo la coltura dei cerali… [E’] certo, comunque, [che gli Etruschi] raccoglievano e utilizzavano le bacche della lambrusca, la vite selvatica, i cui lunghi tralci spontaneamente dovevano intrecciarsi… nelle chiome egli olmi, degli aceri, dei pioppi. Sino ai giorni nostri, un nome come quello [del vino] lambrusco continua questa antichissima tradizione culturale e linguistica…”. (44) L’agricoltura, presso gli Etruschi, ebbe il suo fondatore, vero e proprio “eroe culturale”, in Tages, l’ “uomo-pianta” nato dalla terra, e venuto sulla terra per insegnare al popolo etrusco come un terreno si doveva coltivare, e come trarre da esso gli alimenti necessari alla vita. Solo da quando apparve dalla terra Tages, l’ uomo etrusco “probibebit vitem”, “bevve il vino”, e fu da Tages che Tarchon, l’uomo che per primo, arando la terra, si vide sorgere dinnanzi, “dalla zolla arata” quell’essere misterioso, imparò tutto sull’agricoltura, e anche tutto ciò che si doveva sapere sull’etrusca disciplina, su quell’arte divinatoria in cui i sacerdoti etruschi furono maestri ai romani. (45)

    Presumibilmente Adria sorgeva dove oggi è situata. Si è scoperto, grazie alle nuove tecnologie della fotografia aerea, che Adria era molto simile alla città-madre di Spina: il territorio era diviso in piccoli lotti fra loro uniti da canali, sui quali venivano costruite le palafitte. Infatti non si deve dimenticare che “Spina”, etimologicamente, significa appunto “derivazione d’acqua” e “canale”. (46) Così, nell’ analoga Adria,  la presenza di antichissimi canali nell’abitato arcaico è attestata dagli studi archeologici e dagli scavi operati da Francesco Antonio Bocchi, vero cultore di storia locale, il quale, “ nel triangolo Sud-Est del Giardino Pubblico… scavò un’imponente palancolata… [che] è senz’altro da interpretare come l’opera di rinforzo della sponda di un canale”. Ciò costituisce un sicuro “indizio dell’esistenza di canali interni al centro urbano, secondo un modello che trova confronti nella vicina Spina”. (47) Le capanne erano formate da una struttura portante a forma circolare. “I sottofondi dei piani pavimentali – attestano gli scavi effettuati ad Adria da Francesco Antonio Bocchi – erano impostati su sabbia e costituiti da strati alterni di graticci o fascinate, di tivaro [terreno alluvionale del Po] impermeabilizzante e di sabbia pulita”.  (48) Sulla topografia dell’agglomerato urbano di Adria greco-etrusca sappiamo poco. Però, dagli scavi archeologici effettuati, sia nell’800 sia più recentemente, sembra che “l’area ove era situato l’abitato arcaico di Adria [fosse] fra la Chiesa di Santa Maria Assunta della Tomba (ove vennero in luce  frammenti di vasi attici con iscrizioni greche) e la zona dell’attuale Ospedale Civile”. (49) Di ciò si accorse Francesco Antonio Bocchi, che osservò:  “…Luoghi più feraci d’anticaglie sono in città la Tomba, il Prato della mostra (Pubblico giardino), la Fontana (Civico spedale [sic])…”. (50) L’insediamento arcaico giace sotto “ una spessa coltre di fanghi alluvionali, ad una profondità situabile fra i cinque e i sei metri dal piano abitativo moderno”. (51) E’ presumibile, come si diceva, che si sia seguito ad Adria uno schema planimetrico simile a quello di Spina, dove gli scavi hanno individuato spiazzi di terreno separati da canali, sui quali sorgevano le palafitte. Quello che però non sappiamo con certezza è se “ quest’opera di pianificazione urbanistica sia da attribuire ai Greci o agli Etruschi.” (52) Il problema è certamente rilevante sotto il profilo storico,  ma occorre osservarlo in un’ottica  soprattutto ambientale: la soluzione delle palafitte infatti era, a detta di Nereo Alfieri, assolutamente “scontata”, perché sia per Spina, sia per Adria, “città del tutto analoga a Spina”, si trattava di confrontarsi con un  “paesaggio lagunare sprovvisto di solidi materiali di costruzione”. E questo era un sistema talmente adatto al paesaggio lagunare, da propagarsi nella “pianura padana fino in età romana e tardo-romana”. (53)

   L’idea di costruire la città sulle palafitte, strutture per altro estremamente “deboli” e rapidamente deperibili, era dunque una soluzione tecnica praticamente “imposta” dalla natura stessa del terreno, costituito da materiali acquitrinosi e di conseguenza estremamente cedevoli.

 

Anche Adria primitiva – scrive Francesco Antonio Bocchi – fu stazione di palafitte... e si provò ad evidenza con recenti scavi… [La] gente usava contemporaneamente strumenti litici [di pietra] e vasi d’ogni maniera, dai fatti a mano e rozzi, ai torniti e dipinti… Era in vigore l’agricoltura e la caccia;… vi si coltivava la vite molto prima di quei tempi che si danno come l’aurora di civiltà nei nostri paesi… Le palafitte si rinvengono a circa 4 metri sotto il suolo attuale…Più profonde ancora si trovarono piantagioni di viti, d’olmi, di pioppi, e sino a 10 metri un altro avanzo di vite…” (54)

 

   Le varie parti della città erano unite tra loro da ponti in legno e le comunicazioni erano inoltre assicurate via acqua dalle imbarcazioni che solcavano i canali, una delle quali scoperta nel 1985, oggi al Museo Nazionale di Adria, e che permettevano non soltanto i rapporti tra gli abitanti, ma anche gli scambi commerciali, che erano molto intensi, essendo Adria, in età arcaica, un porto di prima grandezza e uno degli scali terminali della via dell’ambra, che partendo dalle regioni del Baltico, attraverso il Danubio e le Alpi, giungevano infine sino all’Adige e al Mar Adriatico. (55) L’imbarcazione, scoperta nel 1985, è un linter, ovvero una “piroga monoxila scavata in un tronco d’albero”. Si tratta di esemplari di imbarcazioni molto diffusi nel delta; ne sono state trovate due anche a Spina, e P. E. Arias nota che “la forma primitiva di piroghe non deve far pensare ad epoca preistorica, bensì ad un interessante attardamento di un tipo arcaico, rimasto in uso fino in età storica nel delta del Po”. (56) 

   L’ambra e il suo straordinario commercio, che interessarono le zone geografiche più lontane, fecero sorgere e affermare nell’Adria greco-etrusca il famoso mito di Fetonte, che, “salito sul carro del padre [il sole], [è] incapace di reggere con salda mano le briglie dei focosi corsieri, e dopo esser stato trascinato in una folle corsa per i cieli e dopo aver sfiorato pericolosamente con il carro infuocato la terra, tanto da incendiarne vaste regioni, viene fulminato da Giove che salva l’umanità dal pericolo di un rogo universale. L’incauto auriga precipita nel fiume Eridano. Le Eliadi, sorelle di Fetonte, piangono inconsolabili la sua morte e vengono trasformate in pioppi…[e] le loro lacrime sono mutate in ambra…”. (57) E infatti le leggendarie isole Elettridi [isole dell’ambra:  èlectron=ambra] erano poste dalle fonti antiche alle foci del Po, in quei “Septem Maria”, o sette bocche del Po, dove il grande  e possente fiume scarica in mare le sue acque, formando le lagune di Adria. Interessante l’interpretazione che del mito di Fetonte diede L. Braccesi, secondo il quale il mito “potrebbe anche adombrare l’accensione vulcanica che originò i Colli Euganei”. (58) Certo che un evento così spettacolare, con lingue di fuoco che s’alzavano alte nel cielo potevano ben avere acceso la fantasia mitica degli antichi Veneti, che trasfigurarono l’eccezionale fenomeno vulcanico in una sorta di “caduta” del carro del Sole, malamente tenuto da un inesperto auriga, identificato appunto in Fetonte.

 

 

“… Gli abitanti della regione – scrive lo Pseudo Aristotele – narrano il mito di Fetonte, che, colpito dal fulmine, cadde in questa palude. Vi sono  in essa molti pioppi da cui sgorga quella che viene chiamata ambra. Questa, si dice, è simile alla gomma, diventa poi dura come pietra e, raccolta dagli indigeni, viene trasportata fino in Grecia. Dedalo, secondo una tradizione, arrivò fino a queste isole e, occupatele, innalzò in una di esse una statua, nell’altra la statua del figlio Icaro. In seguito, all’arrivo dei Pelasgi, cacciati da Argo, Dedalo fuggì e si recò nell’isola di Icaro…”. (59)

 

 

   Uscendo dal mito, è da dire che l’emporio commerciale di Adria in epoca etrusca ebbe un’importanza di eccezionale rilievo, con un vasto raggio d’azione che andava a coprire gran parte del fabbisogno delle città padane, specie per quanto riguarda la produzione e lo smercio della ceramica a vernice nera. In questo senso Adria fu un “emporio di dimensioni mediterranee”. (60) Nel settore artigianale Spina e Adria, nelle loro officine locali, “svilupparono proprie peculiarità, tanto che possiamo parlare di una facies propriamente padano-deltizia dai caratteri già consolidati al passaggio tra IV e III secolo”. (61) Per quanto riguarda Adria, nello specifico, si rileva che “una produzione adriese di ceramica a vernice nera non sembra discutibile anche per la fase più antica, sebbene attualmente la documentazione archeologica dell’attività dei ceramisti, fornita dallo scarico individuato in località Retratto riguardi solo la più tarda produzione… Diversamente che a Spina, ad Adria è difficile cogliere il momento iniziale, essendo la documentazione per il IV secolo, tutto sommato, alquanto scarsa”. (62) Tuttavia, secondo gli studi più recenti e accreditati, Adria diede vita a una produzione ceramica a figure nere di notevole originalità rispetto agli standard normali; si è infatti parlato di “tendenze anticlassiche”, che si “manifesterebbero nella predominanza della decorazione geometrica della ceramica altoadriatica prodotta dalle officine adriesi”, che denoterebbe una “capacità innovativa” degli artigiani locali. (63) Il che ha una sua ragione storica se consideriamo che il mondo greco, non esclusa Atene, conosce una crisi nelle esportazioni a partire dal IV secolo, e specie nel settore dell’artigianato. “Anche l’artigianato – scrive Domenico Musti – che produce per l’esportazione conosce, nel corso del secolo, un declino, per il quale finora non si è ancora trovata una spiegazione migliore di quella, ormai classica, di Michael Rostovzev, secondo cui esso sarebbe dovuto al fiorire di artigianati locali, che precedentemente erano stati infrenati dalla presenza delle esportazioni attiche; ma queste ultime ora vengono imitate “in loco”, e non c’è più posto per le produzioni originali”. (64) I Greci Egineti e gli Ateniesi che “conquistarono” per primi gli antichi insediamenti veneti su palafitte erano portatori certo della grande arte ceramica greca, ma anche di quella struttura schiavistica così ampiamente sviluppata nel mondo greco. E’ molto probabile che la manodopera cui i mercanti facevano riferimento “in loco” altro non fosse costituita che dai Veneti ridotti in stato di servitù dai Greci. (65) Che gli artigiani vasai avessero bisogno di molta manodopera è assicurato dagli studi; (66) che tale manodopera fosse fornita da genti autoctone o da schiavi greci “fuggitivi” dalla madrepatria è altrettanto possibile. Che tale situazione fosse poi perpetuata anche nella successiva fase etrusca di Adria è pressoché scontato, essendo la schiavitù un dato certo della civiltà etrusca, che fu anche in questo senso maestra ai Romani. (67) Adria insomma costituisce un esempio, sia pur ridotto, di quel fenomeno eccezionale che fu lo sviluppo del commercio greco in età classica. Già dall’VIII secolo, sostiene V. Gordon Childe, l’industria in Grecia si stava talmente affollando che il poeta Esiodo cantava: “ il vasaio gareggia col vasaio e il carpentiere con il carpentiere”. (68) La produzione ceramica eginetica, già a questa data altissima, appare “congestionata” e i vasi di ceramica, “articoli a basso costo di uso universale, esportati da varie città greche – Egina, Corinto, Atene, Rodi -, incominciano a comparire in quantità in sepolcri e rovine di città tutt’intorno al Mediterraneo”.  (69) Nonostante i trasporti terrestri e marittimi si fossero fatti più agevoli, essi tuttavia continuavano a permanere estremamente costosi. In tali circostanze, sottolinea ancora V. Gordon Childe, “non c’è da stupirsi che sovente l’industria emigrasse verso il mercato invece di inviarci i suoi prodotti”. (70) Nascono “fabbriche locali di ceramiche, spesso almeno servite da artigiani immigrati, [i quali] incominciarono a fare imitazioni che tosto chiusero all’antica Grecia i mercati”. (71) A loro volta gli artigiani emigrati, e l’abbiamo notato con il culto di Apollo ad Adria, “portavano con sé le usanze, le tecniche e i culti dei loro paesi nativi e fondavano santuari dove le divinità delle loro nazioni venivano adorate con riti adatti in terra straniera”. (72) A ciò si deve poi aggiungere la perpetuazione del sistema servile, per l’estrema necessità di manodopera. Una fabbrica media di ceramica “impiega quattro addetti alle ruote, un pittore e un addetto alla fornace, oltre al padrone”. (73) L’emigrazione degli artigiani greci e la nascita di industrie locali comportò lo sviluppo di tratti originali nella produzione. Infatti dagli scavi effettuati ad Adria nella tomba 70 di Via Spolverin, che hanno restituito circa sessanta vasi a vernice nera, si possono rintracciare alcuni elementi interessanti di originalità. “Di particolare rilevanza – sottolinea L. Brecciaroli Taborelli – per una più puntuale definizione dei caratteri locali pare il tipo dei piatti su piede, documentati da esemplari ( per lo più presenti in coppia ) appartenenti a tipi differenti… e decorati con stampiglie diverse, accompagnate da fasce di rotellature o cerchi concentrici incisi, [ripresi] attorno al bordo del piatto”. (74) Fondamentali anche gli studi di Elisabetta Mangani, che ha descritto la varia policromia dei vasi. La Mangani, dopo aver osservato che la materia prima era costituita di argilla depurata e granelli di mica, rilevava che “ il colore varia da arancio chiaro a beige, anche nello stesso vaso. La vernice debole e poco coprente, si sfalda a scaglie, è nera opaca o, più spesso, nero-bruna”. (75)

   Sotto il profilo edilizio, l’Adria palafitticola greco-etrusca mantenne la propria fisionomia, già l’abbiamo visto, sino all’avvento della dominazione romana, che s’inizia verso il II secolo a. C. Possediamo molte prove dell’estrema persistenza nella Pianura  Padana di questa tecnica costruttiva, attardatasi appunto su tecniche preistoriche per via del fatto che la zona offriva essenzialmente materie prime lignee.

   I romani, comunque, introdussero anche l’uso del mattone, sostituendolo, in qualche caso, alle strutture in legno: qualche reperto tombale in mattoni di epoca romana si è rinvenuto specie nella zona di Spina. Per quanto riguarda Adria, all’epoca romana risalgono importantissime infrastrutture stradali e fognarie, pozzi per l’estrazione dell’acqua e varie innovazioni architettoniche dovute all’uso dell’arco e della volta a botte, le quali, insieme con le tombe, costituiscono gli unici esempi di architettura etrusca in pietra o tufo. Rispetto all’Adria greco-etrusca, possediamo maggiori informazioni allorché la città entrò nell’orbita della dominazione romana. “Adria entra direttamente nel processo di romanizzazione e viene ad essere coinvolta nei piani di organizzazione territoriale dell’area nord-orientale dell’Italia settentrionale, essendo interessata dal tracciato delle viae Popillia e Annia”. (76) Nel 132 a.C. “ il console P. Popillio Lenate stende la via che dal suo nome viene detta Popillia. Essa aveva il suo inizio a Rimini e, dopo un percorso 81 miglia lungo il litorale, raggiungeva Adria, dove nel secolo scorso si è scoperto il famoso miliare su cui sono scolpiti il nome del costruttore e la distanza in miglia dal capolinea. Recentemente la foto aerea ha rivelato che la via proseguiva verso settentrione, quasi sicuramente alla volta di Altino. Infatti una lineazione sepolta è individuabile tra la periferia nord di Adria e Mensole, dopo aver sfiorato Cavarzere”. (77) Grazie alla fotografia aerea si è anche scoperto il percorso della via Annia, “stesa nel 131 o nel 128 a. C., quando Tito Annio Rufo fu… pretore e console. Questa via metteva in comunicazione Adria con Padova, per proseguire verso Altino… e Aquileia”. (78)

   Tra il 49 e il 42 a. C. Adria diventa municipium, anche se “piccolo”, (79) e acquisisce il diritto di cittadinanza romana ed è assegnata a un distretto elettorale che è la tribù Camilia. Come attestano due iscrizioni, il municipio viene amministrato da magistrati detti quattuorviri iuri dicundo o giusdicenti e dall’ordo decurionum, il consiglio municipale… Gran parte della documentazione archeologica dell’età romana in nostro possesso si colloca tra la fine del I secolo a.C. e il corso del II secolo d.C… Allo stato attuale delle  conoscenze e delle ricerche, riesce arduo il tentativo di ricostruire a grandi linee l’impianto della città romana con la disposizione e l’orientamento degli edifici e delle strade. Il nucleo centrale urbano doveva insistere sulla stessa area meridionale che aveva visto il fiorire dell’insediamento preromano”. (80) Francesco Antonio Bocchi, che attivò con eccezionale passione gli scavi ad Adria, ci dà le seguenti indicazioni: “ Lo strato romano non oltrepassa di regola 1 metro 2.20. Lo strato preromano suol cominciare a circa  m. 3.50 ed essendosi trovate talora tracce d’incendio ad oltre m. 6, esso può dirsi discendere in qualche luogo sin a m. 7, ma tenendo conto delle piantagioni, esso scende anche più in basso”. (81) La romanizzazione porta con sé “l’uso generalizzato del laterizio, pur rimanendo assai comune l’impiego del legno; risulta sporadico l’utilizzo del marmo e della pietra ( se si eccettuano i monumenti funerari). La scoperta delle fondamenta di un teatro e di un tempio, la diffusione di pavimenti a mosaico nelle case con decorazioni geometriche e figurate, la presenza di condotti fognari e di pozzi per l’approvvigionamento idrico… lasciano trasparire il volto di una città con evidenze monumentali costruite con materiali non completamente deperibili. Non dobbiamo dimenticare che la letteratura antiquaria tra XVI e XVIII secolo ha bene documentato anche per Adria il fenomeno della dispersione e del saccheggio di materiali archeologici.  Un lento ma progressivo stato di crisi investe l’antico centro già lungo il corso del secondo secolo d. C… Inoltre Adria non è inserita nel sistema viario principale dell’Impero Romano… [ e la sua decadenza si spiega] con il ruolo emergente e preminente di Ravenna, Altino e Aquileia”. (82) A spiegare la decadenza della città sono poi da considerarsi gli apporti “di imponenti sedimenti alluvionali che, in mancanza di adeguati interventi idraulici, contribuirono a ridimensionare la portata del fiume che la bagnava, ad interrare le sue lagune, a ostruire quel reticolo di corsi d’acqua che le permettevano di svolgere la sua funzione commerciale per la quale precipuamente era nata”. (83) A tutto ciò occorre poi aggiungere che l’invasione gallica nella valle del Po, alla fine del V secolo a.C., determinò il totale cedimento delle città etrusche settentrionali, e per cui la pianura padana in pochi decenni divenne gallica.

 

La religione, le Necropoli e i riti funerari

 

   Tutto ciò che sappiamo di Adria arcaica lo dobbiamo ai reperti archeologici sepolti nel sottosuolo e nelle necropoli etrusche, ovvero, le “città dei morti”. Molto importanti sono le iscrizioni eginetiche, che testimoniano della presenza ad Adria di culti e onori resi a divinità greche come Apollo. Nel 1811, “presso la Chiesa di Santa Maria Assunta della Tomba, a Nord del Museo” si è scoperta un’iscrizione relativa a un mercante originario di Egina, Tycon. “L’iscrizione attesta l’esistenza di un santuario al dio greco Apollo, ad Adria, funzionante dal primo venticinquennio del V secolo a. C.; il santuario, in base agli stessi rinvenimenti, risulta frequentato solo da Greci; non si sono rinvenute, insieme, iscrizioni etrusche”. (84) E noto tuttavia che i culti greci furono ben presto fatti propri dagli Etruschi. Apollo è infatti, oltre che “protettore delle coste e dei viaggi”,  il dio della “mantica”, dio della divinazione per eccellenza [ per me è palese quel che sarà, quel che è stato e quel che è al presente ( Ovidio, Metamorfosi, Lib. I, vv. 515 sgg.)], (85) e gli Etruschi furono i maestri del mondo antico in fatto di magia e divinazione. Alétheia [=Verità] è infatti il “nome di una delle nutrici di Apollo, il grande dio oracolare”, che diceva sempre la verità. (86) Apollo è legato con mille fili a un dio che presso gli Etruschi ebbe una diffusione eccezionale, ovvero Dioniso-Bacco-Libero: “ rispondente a Dioniso era Liber o Liber Pater, generalmente associato con Cerere [=Demetra] e Libera [=Persefone]. Era il dio del vino, della vendemmia, e in genere di ogni produzione terrestre e animale; durante le feste di lui, i devoti solevano abbandonarsi a un’allegria libera (donde il nome) con canti e motti pungenti”. (87) Già sappiamo come Spina e Adria siano città “sorelle”. Gli scavi effettuati a Spina sotto la direzione di Nereo Alfieri portarono alla luce oltre duemila tombe, e moltissimi vasi con Dioniso,  il dio della vegetazione, del vino e della fecondità, rappresentato nei vari aspetti che lo caratterizzano e con tutto il suo seguito di satiri e di baccanti. (88) Allo stesso modo di Spina, ad Adria, conferma Francesco Antonio Bocchi, numerosi i vasi con “Bacco, baccanti, sileni strani e bizzarri… nudi satiri codati… danzano tra grappoli e tralci… Né mancano i segni fallici, danze mascherate, processioni specialmente bacchiche…”. (89)

   Infine, si ricorda che il culto di Apollo è legato a uno dei miti più famosi del delta, ossia quello di Icaro. Infatti, “se stiamo ad un’altra notizia dello Pseudo-Aristotele, Dedalo, raggiunte le isole Elettridi, vi innalza due statue, una per sé e una per il figlio Icaro”. (90)  Altro importante culto greco arcaico presente ad Adria, e attestato dagli scavi nella zona della Tomba, è quello relativo alla dea Iride, la messaggera degli dèi, venerata, “con un santuario, solo nell’isola di Ecate presso Delo”, (91) santuario insulare sede di un’altra importante “banca” di deposito e prestito, insieme con Teno, Egina, Samo, Cos, Rodi e Cipro. (92) Fra gli “eroi” della Grecia arcaica risulta avesse ad Adria una particolare rinomanza e fortuna il culto di Ercole (Eracle). Infatti nel 1803 fu rinvenuta nella stessa zona della Tomba una “ grande ampolla (Lekythos) a figure nere, attica, con la figura dell’apoteosi di Eracle in Olimpo… L’eroe Eracle è ben attestato ad Adria sia nella produzione vascolare greca… sia nei bronzetti etruschi”.  (93) Infatti varie pitture vascolari del Museo archeologico di Adria rappresentano momenti delle imprese di Ercole, come la lotta dell’eroe contro il leone Nemeo o quella relativa  alla “disputa tra Eracle e Apollo per il Tripode Delfico”. Ercole è un eroe caro agli Etruschi, tanto religiosi quanto “superstiziosi”, perché è sentito, per alcuni aspetti, come un eroe assolutamente “positivo”: “lo si invocava per aiuto nelle difficili congiunture della vita, specialmente coi titoli di Soter, salvatore e Alexicacos, allontanatore dei mali”. (94)  Ercole è  inoltre un eroe cui piace la buona cucina, il mangiare e il bere abbondantemente. Ercole è infatti, oltre che un grande guerriero, un eroe dominato da una vera e propria “polifagia”, da una voracità da beota, e da una “mostruosa golosità”. (95)

Infatti, gli Etruschi amavano il vino, la cucina a base di pesce, come attesta il ritrovamento a Spina dei cosiddetti “piatti da pesce”. Si tratta, spiega G. Vivenza, “di piatti in ceramica con cavità centrale, talvolta forata, destinata a contenere salse, o, più verisimilmente, a far scolare l’acqua; decorati con figure di pesci e destinati appunto, secondo l’unanime opinione, a servire in tavola il pesce. Originari dell’Attica (IV secolo), tali prodotti dell’artigianato greco si diffusero in zone diverse: anzitutto nella Russia meridionale ( ne sono stati trovati  a Kertsch e a Taman); [e] qualche esemplare si trovò a Spina”. (96) Vivenza si riferisce a un “servizio simposiaco” largamente diffuso nella produzione ceramica etrusca “altoadriatica”, e quindi anche adriese. (97) Negli ultimi tempi i ritrovamenti a Spina di “piatti da pesce” sono notevolmente aumentati e oggi “assommano – scrive P.E. Arias – ad alcune centinaia”. Fra i pesci individuati come normale pietanza, oltre all’orata e al cefalo, il sargo, la triglia, il pesce persico, lo scorfano, la seppia, il polipo, il calamaro, un mùggine e alcune altre varietà. (98)

La cultura greca emerge poi in un eccezionale frammento di cratere, a figure rosse riportanti il mito di Edipo, attribuito a Polignoto, un ceramista che, pur non avendo “nulla ha a che fare con l’omonimo Polignoto di Taso”, (99) “porta fin qui, ad Adria, il respiro della grande arte ateniese del pieno classicismo, l’arte del periodo d’oro dell’Atene di Pericle e di Fidia”. (100) Si sottolinea che tale vaso greco è stato preso nel 1989 come simbolo del Museo Nazionale di Adria.

   Venendo ora alle  necropoli etrusche, esse non erano costruite dentro la città, ma nelle zone limitrofe. Le tombe erano in pietra e poste ad alcuni metri di profondità: qui venivano deposti i corpi dei defunti con il loro corredo funerario. Un rito funerario etrusco era costituito dalla cremazione. Questo tipo di rito consisteva nel bruciare la salma del defunto e nel custodirne le ceneri in urne di vari tipi. Quello più usato era l’ “ossuario biconico”, che veniva deposto in una buca, rivestita poi di ciottoli ( tomba a pozzetto) o messo tra lastre di pietra (tomba a cassetta). Dopo questa operazione, il tutto veniva ricoperto di terra, con sopra un “segnacolo funerario”. Un altro tipo di sepoltura usato dagli etruschi era l’inumazione.  “Negli inumati lo scheletro ha orientamento da Nord-Ovest a Sud-Est e corredo [funerario] disposto parallelamente.: il più delle volte sulla destra, talora però sulla sinistra o su ambedue i lati. Data l’assenza di rivestimento architettonico, occorre pensare che il cadavere fosse avvolto in un lenzuolo”. (101) Nell’ “Etruria Padana”, “gl’inumati – scrive Nereo Alfieri – [erano] in sensibile prevalenza sui cremati”. Adria però costituisce un’eccezione, perché, al contrario, “i cremati prevalgono”, (102) e ciò costituisce un’ulteriore prova della presenza, accanto agli Etruschi, e prima del loro avvento, di popoli veneti autoctoni, discendenti dei crematori delle terramare, costruttori di quelle strutture palafitticole che saranno nei secoli un segno distintivo di Adria antichissima.

   Il corredo funerario che accompagnava il defunto era allestito appunto allo scopo di “accompagnarlo” nel suo viaggio, incerto e misterioso, verso l’aldilà. Nelle tombe venivano posti oggetti personali e di uso quotidiano: vestiti, ornamenti e armi. Uno degli oggetti più presenti nelle tombe etrusche erano le cosiddette “fibule”, che avevano nell’abbigliamento una funzione di sicurezza, ossia di “fermare” i vestiti.  Esistevano vari tipi di fibula: ad arco semplice, ad arco ritorto, a sanguisuga e a drago. Certo che i manufatti trovati nelle tombe rendono bene l’idea circa gli oggetti che maggiormente circolavano sul “mercato” del delta del Po: oreficerie, vasi e candelabri di bronzo, specchi e ceramiche.

   Se poi il defunto era stato uomo di una grande importanza, un guerriero valente, un cavaliere, nella tomba si potevano trovare resti di un carro da guerra e altre armi.

   Nel Museo archeologico di Adria, inaugurato nel 1961, abbiamo una testimonianza importantissima di un corredo funerario relativo a un guerriero, appartenente alla classe dei cavalieri. Si tratta della famosissima Tomba della Biga, ove sono stati rinvenuti un carro da guerra e gli scheletri di due cavalli. Scoperta nel 1938 nella Necropoli etrusca del Canal Bianco, grazie agli scavi di Giovanbattista Scarpari condotti tra il 1938 e il 1940, la tomba risale al III secolo a.C. (103) La biga, che attesta la rilevanza sociale dei cavalieri etruschi,  “non è un carro funebre – sottolinea Von Vacano -, ma un carro adoperato nelle occasioni festive, come si addiceva a un personaggio nobile, allorquando attraversando la campagna, si recava ad una visita di cortesia o ad un rito religioso oppure quando andava a prendere parte a una battaglia. Era questo un carro tarchiato e pesante, per una o due persone, poggiava su forti ruote a quattro raggi ed era destinato ad essere trainato da due cavalli.” (104)

   Tanta cura da parte degli Etruschi nel circondare il defunto dei suoi oggetti personali era data dal “viaggio” che il morto doveva fare verso un mondo ignoto e sconosciuto. Nel caso poi del cavallo e della biga si rimanda ad antichissimi valori magico-simbolici. Nelle civiltà più antiche, “il cavallo è molto di più di un mezzo di trasporto e di un efficacissimo strumento di guerra. La mitologia e il culto gli assegnano infatti un ruolo fondamentale, espresso sul doppio versante della funzione eroica e solare e di quella funeraria… Il cavallo è l’accompagnatore dei defunti…, il mezzo di comunicazione tra i vivi e i morti”. (105) . La brevissima notazione ci conduce ancora al regno misterioso dell’oltretomba, e ai Libri Acheruntici attribuiti dalla tradizione ancora a Tages (… Sacra Acheruntia quae Tages composuisse dicitur [ i libri “Acheruntici”, che si dice avesse composto Tages]), mitico fondatore nell’Etruria non solo dell’agricoltura, e delle tecniche di difesa dei raccolti, attraverso l’extispicium, o “interpretazione dei fulmini”,  ma anche di quell’arte aruspicina che permetteva, attraverso i suoi insegnamenti, di “ casus aperire futuros”, ossia di “indovinare” il futuro, tecnica nella quale, com’è a tutti noto, “risultavano eccezionalmente dotati i vati etruschi”. (106)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia minima di riferimento

 

 

1) AA.VV., Padus, La lunga storia del delta, a cura di C. Munari, Ricerche e testi di A. Mazzetti, R. Peretto ed E. Zerbinati, Padova,  Papergraf, (Pazzola sul Brenta), 1990. Cfr. in particolare i seguenti saggi: Quando il Po diramava a Nord. L’antica idrografia padana, pp. 10-11. Fetonte e le Isole elettridi. Miti e leggende nel delta del Po, pp. 13-17. “Septem Maria”. L’ambiente nella descrizione degli antichi, pp. 18-24. “Adrìa-Atria”. La città lungo il suo fiume e presso il suo mare, pp. 26-34. Una terra disegnata e un paesaggio fossile. La gestione del territorio: il popolamento, l’agro centuriato e la viabilità, pp. 36-47.

2) Francesco Antonio Bocchi, Il Polesine di Rovigo, Milano, ristampa anastatica, 1861, Sala Bolognese, A. Forni, 1975, in particolare le pp. 23-44.

3) AA.VV., Francesco Antonio Bocchi e il suo tempo (1821-1888), a cura di A. Lodo, Stanghella (PD), 1993. In particolare vedi i seguenti saggi: S. Bonomi, Gli scavi di Francesco Antonio Bocchi nell’abitato arcaico di Adria, pp. 75-85. E. Zerbinati, Spunti di interesse archeologico nei MSS. 452-453 di Francesco Antonio Bocchi nella biblioteca Concordiana, pp. 87-112. L. Sanesi Mastrocinque, Il Museo Archeologico Nazionale di Adria e la collezione Bocchi, pp. 113-122.

4)  In lingua inglese: R. L. Beaumont, Greek influence in the Adriatic Sea…, in The Journal of Hellenic studies, LXI, 1936. A. Spekke, The ancient ambra routes and the geographical discovery of the easter Baltic, Stoccolma, 1958. J. Beazley, Attic Red-Figure Vase Painters, Oxford, 1941 (I ediz.) e 1963 (II ediz.).

5) N. Alfieri – P.E. Arias, Spina, Firenze, Sansoni, 1960.

6) R.A. Staccioli, Gli Etruschi. Mito e realtà, Roma, Newton Compton, 1985 (III ediz.).

7) Otto-Wilhem Von Vacano, Gli Etruschi nel mondo antico, Cappelli, Rocca di   San Casciano,1982.

 

NOTE

1)      “Septem Maria”. L’ambiente nella descrizione degli antichi. In  AA.VV., Padus, La lunga storia del delta, a cura di C. Munari, Ricerche e testi di A. Mazzetti, R. Peretto ed E. Zerbinati, Padova,  Papergraf, (Pazzola sul Brenta), 1990, p. 22.

2)      Cfr. “Septem Maria”, in Padus, op. cit., p. 22.

3)      F.A. Bocchi, Trattato geografico-economico comparativo per servire alla storia dell’antica Adria e del Polesine di Rovigo, Adria, Guarnieri, 1879, p. 130.

4)      Cfr. Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, in “Septem Maria”, in Padus, op. cit., p. 24.

5)      G. Rosada, Paesaggi e carte archeologiche territoriali e urbane, in Cultura e Scuola, Roma, gennaio-marzo 1993, n. 125, pp. 217-223. In particolare le pp. 218-219.

6)      Adrìa-Atria, La città lungo il suo fiume e presso il suo mare, in Padus, op. cit., p. 26.

7)      E. Zerbinati, Spunti di interesse archeologico nei MSS. 452-453 di F.A. Bocchi nella biblioteca Concordiana, in AA.VV., Francesco Antonio Bocchi e il suo tempo (1821-1888), a cura di A. Lodo, Stanghella (PD), 1993, p. 91.

8)      Ivi, p. 91.

9)      L. Sanesi Mastrocinque, Il Museo Archeologico Nazionale di Adria e la collezione Bocchi, in AA.VV. Francesco Antonio Bocchi e il suo tempo…, op. cit., pp. 115-116.

10)  D. Musti, L’economia in Grecia, Bari, Laterza, 1981, p. 52.

11)  D. Musti, L’Economia in Grecia, op. cit., p. 75.

12)   L. Sanesi Mastrocinque, Il Museo Archeologico…, art. cit., p. 116 e nota 10: “Va ricordato che esiste ad Adria anche un’iscrizione attica che dice di se stessa: Jierà, cioè sacra, o che attesta quindi anche la presenza di Ateniesi”.

13)   L. Sanesi Mastrocinque, Il Museo Archeologico…, art. cit., p. 116 e 115: “Sono infatti le ceramiche greche, i graffiti greci e i bronzi etruschi rinvenuti ad Adria e zona adiacente che hanno consentito di sostenere con certezza l’esistenza di un fiorente scalo commerciale, frequentato da Greci ed Etruschi, sorto fin dagli inizi del VI sec. A. C.”.

14)  E. Zerbinati, Spunti di interesse archeologico…, art. cit., p. 97, n. 31.

15)  AA.VV.,La città di Adria, in Le cento città d’Italia illustrate, Rovigo e Adria nella leggenda e nella storia, Milano, Sonzogno, fascicolo 47, s.d., p. 12.

16)  N. Alfieri – P. E. Arias, Spina, Firenze, Sansoni, 1960, p. 24.

17)  L. R. Angeletti, VI Congresso Internazionale sulle relazioni fra le due sponde adriatiche, in Cultura e Scuola, Roma, aprile-giugno 1987, n. 102, pp. 278-279.

18)  L. R. Angeletti, VI Congresso…, art. cit., p.279.

19)  F. Ramorino, Mitologia classica, Milano, Hoepli, 1967, p. 311. Sulla diffusione del mito di Teseo nella pittura vascolare di Spina, cfr. N. Alfieri-P.E. Arias, Spina, op. cit., pp. 72, 80, 106, 107, 121, 133, 150, 155, 163, 164, 172.

20)  G. Gemoll, Vocabolario greco-italiano, Firenze, Sandron, 1961, alla Voce.

21)  Cfr. L. Sanesi Mastrocinque, Il Museo Archeologico…, art. cit., p. 116, n. 10.

22)  F. Ramorino, Mitologia classica, op. cit., p. 312.

23)  L. R. Angeletti, VI Congresso…, art. cit., pp. 279-280.

24)  N. Alfieri – P. E. Arias, Spina, op. cit., p. 44 e n. 40.

25)  L. Sanesi Mastrocinque, Il Museo Archeologico…, art. cit., pp.116-117.

26)  R.A. Staccioli, Gli Etruschi. Mito e realtà, Roma, Newton Compton, 1985 (III ediz.), pp. 71-72.

27)  G. G. Buti – G. Devoto, Preistoria e Storia delle regioni d’Italia, Firenze, Sansoni, 1974, p. 66, 68.

28)  G. Serra, Quando sorge Comacchio, in AA.VV., Ferrara. Il Po, la Cattedrale, la Corte, Bologna, Arti Grafiche Emiliane, 1969, vol. I, p. 45.

29)  Adrìa-Atria, La città lungo il suo fiume e presso il suo mare, in Padus, op. cit., pp. 26, 28.

30)   G. Devoto, Il linguaggio d’Italia, Milano, Rizzoli, 1974, p. 57: “Le iscrizioni venetiche oggi sono 270 di cui 119 da Este, 15 da Adria, 19 da Padova, 73 dal Cadore, 23 dalla Valle del Gall nel territorio austriaco al di là delle Alpi Carniche. La loro età va dal secolo VI a. C. alle soglie dell’età romana nel II”.

31)  R. A. Staccioli, Gli Etruschi…, op. cit., p. 72.

32)  N. Alfieri-P.E. Arias, Spina, op. cit., pp. 24-25.

33)  Ivi, p. 26.

34)  G. Giannelli, Trattato di Storia romana, Bologna, Patron, 1976, p. 91.

35)  N. Alfieri-P.E. Arias, Spina, op. cit., p. 34.

36)  G. Giannelli, Trattato…, op. cit., p. 121.

37)  N. Alfieri-P.E. Arias, Spina, op. cit., p. 25.

38)  Ivi, p. 47, n. 55.

39)  Ivi, p. 46, n. 48.

40)  Ivi, p. 25.

41)  D. Musti, L’ economia in Grecia, op. cit., pp. 114-115.

42)  N. Alfieri-P.E. Arias, Spina, op. cit., p. 29.

43)  F.A.Bocchi, Storia di Adria la Veneta e degli antichi abitatori della Bassa Vallata padana, 1865-1882, Rovigo, Accademia dei Concordi, Ms. Conc. 452, p. 30. Cit,. in  Adrìa-Atria, cit.,  in Padus, op. cit., p. 34.

44)  E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, Laterza, 1979, pp. 40-41.

45)  M.C. Di Spigno, Il ruolo di Tages nella tradizione romana, in Cultura e Scuola, Roma, Aprile-giugno 1982, n. 82, pp. 174-182.

46)  N. Alfieri-P.E. Arias, Spina, op. cit., p. 47, n. 58.

47)  S. Bonomi, Gli scavi di Francesco Antonio Bocchi nell’abitato arcaico di Adria, in F.A. Bocchi e il suo tempo, op. cit., p. 78.

48)  Ivi, p. 78.

49)  L. Sanesi Mastrocinque, Il Museo…, art. cit., p. 114.

50)  Francesco Antonio Bocchi, Il Polesine di Rovigo, Milano, ristampa anastatica, 1861, Sala Bolognese, A. Forni, 1975, p. 39.

51)  L. Sanesi Mastrocinque, Il Museo…, art. cit., p. 114.

52)  S. Bonomi, Gli scavi…, art. cit., p. 79.

53)  N. Alfieri-P.E. Arias, Spina, op. cit., pp. 37-38.

54)  F.A. Bocchi, Storia di Adria la Veneta…, op. cit., in Padus, op. cit., p. 34.

55)  Per acque e terre. Direttrici di traffico e attività economiche, in Padus, op. cit., pp. 52-60.

56)  N. Alfieri-P.E. Arias, Spina, op. cit., p. 186.

57)  Fetonte e le isole elettridi. Miti e leggende nel delta del Po, in Padus, op. cit., p. 13.

58)  E. Zerbinati, Spunti di interesse archeologico…, art. cit., p. 96 n. 28.

59)  Cit.  in Padus, op. cit., p. 16.

60)  S. Bonomi, Gli scavi…, art. cit., p. 77.

61)  L. Brecciaroli Taborelli, Le ceramiche a vernice nera padana (IV – I secolo a. C.). Aggiornamenti,osservazioni,spunti,in http://192.167.112.135/NewPages/EDITORIA/SAP/21/21-0, p. 1.

62)  Ivi, p. 4.

63)  Ivi, p. 4.

64)  D. Musti, L’economia in Grecia, op. cit., p. 132.

65)  Sulla schiavitù in Attica, ad Atene, Egina e anche Corinto, cfr. quanto dice D. Musti, L’Economia…, op. cit., pp. 107-108.

66)  Cfr. V. Gordon Childe, Il progresso nel mondo antico, Torino, Einaudi, 1979, pp. 208-209; 217.

67)  A. Carandini – S. Settis, Schiavi e padroni nell’Etruria romana, Bari, Laterza, 1979

68)  V. Gordon Childe, Il Progresso…, op. cit., p. 206.

69)  Ivi, p. 206.

70)  Ivi, p. 249.

71)  Ivi, p. 249.

72)  Ivi, p. 251.

73)  Ivi, p. 208.

74)  L. Brecciaroli Taborelli, Le ceramiche a vernice nera…, op. cit., p. 5.

75)  Cit. in L. Brecciaroli Taborelli, op. cit., pp. 4-5, n. 33.

76)  Cfr. Adrìa-Atria, art. cit., in Padus, op. cit., p. 28.

77)  Una terra disegnata e un paesaggio fossile. La gestione del territorio: il popolamento, l’agroo centuriato e la viabilità, in Padus, op.cit., p. 36.

78)  Ivi, p. 40.

79)  E. Zerbinati, Spunti…, art. cit., p. 92.

80)  Adrìa-Atria, art. cit., in Padus, op. cit., p. 28.

81)  E. Zerbinati, Spunti…, art. cit., p. 96.

82)  Adrìa-Atria, art. cit., in Padus, op. cit., p. 29.

83)  Ivi, p. 29.

84)  L. Sanesi Mastrocinque, Il Museo…, art. cit., p. 115.

85)  Cfr. F. Ramorino, Mitologia classica, op. cit., p. 55.

86)  M. Detienne, I Maestri di Verità nella Grecia arcaica, Milano, Mondatori, 1992, p. 19.

87)  F. Ramorino, Mitologia classica, op. cit., p. 199.

88)  N. Alfieri-P.E. Arias, Spina, op. cit., alla voce Dioniso, p. 195.

89)  F.A. Bocchi, Il Polesine di Rovigo, op. cit., p. 42.

90)  Cfr. Fetonte  e le isole elettridi…, art. cit., in Padus, op. cit., p. 16.

91)  L. Sanesi Mastrocinque, Il Museo…, art. cit., p. 116.

92)  D. Musti, L’economia in Grecia, op. cit., p. 114.

93)  L. Sanesi Mastrocinque, Il Museo…, art. cit., p. 116.

94)  F. Ramorino, Mitologia classica, op cit., p. 334.

95)  M. Calì-B. Zannini Quirini, L’ingordigia di Botres, in Cultura e Scuola, Roma, luglio-settembre 1986, n. 99, p. 109.

96)  G. Vivenza, Gli Hedyphagetica [Ghiottonerie] di Ennio e il commercio del pesce in età repubblicana, in Economia e storia, Milano, Giuffrè, 1981, n. 1, p. 11.

97)  L. Brecciaroli Taborelli, La ceramica a vernice nera…, op. cit., p. 4.

98)  N. Alfieri-P.E. Arias, Spina, op. cit. p. 97.

99)  Ivi, p. 63.

100)                     L. Sanesi Mastrocinque, Il Museo…, art. cit., p. 118.

101)                     N. Alfieri-P.E. Arias, Spina, op. cit., p. 28.

102)                     Ivi, p. 29.

103)                     L. Sanesi Mastrocinque, Il Museo…, art. cit., p. 113.

      104)           O. W. Von Vacano, Gli Etruschi nel mondo antico, Rocca di San Casciano,

Cappelli, 1982, p. 110.

 

      105)           F. Barbarani, Dai cavalieri della steppa alla cavalleria medievale, in              Economia e Storia, Milano, Giuffrè, 1982, n. 3, p. 390.

      106)           M. Concetta di Spigno, Il ruolo di Tages…, art. cit., pp. 180-181.

 

 

 

 

 

Appendice documentaria

 

 

Da Strabone, Geographia, V, 1,5 C 212. Traduzione di Clizia Voltan, In Padus, op. cit., p. 22.

 

“…L’intero territorio abbonda di fiumi e di lagune, soprattutto nella parte abitata dai Veneti; qui anzi sono presenti anche le variazioni del mare, perché è questa forse la sola parte del nostro mare che subisce gli stessi fenomeni dell’Oceano e che, in maniera del tutto simile a questo, ha dei flussi e riflussi di marea, in conseguenza dei quali la maggior parte della pianura è cosparsa di lagune.  Come nel paese del Basso Egitto, è solcato da canali e dighe, per cui da una parte, per cui da una parte la terra viene drenata e coltivata, dall’altra si permette la coltivazione. Alcune città sono delle vere e proprie isole, altre sono solo in parte circondate dalle acque.  Le città esistenti all’interno, al di là delle paludi, hanno delle meravigliose vie di navigazione fluviale e tra queste soprattutto il Po. E’ infatti un fiume grandissimo e spesso in piena per le piogge e le nevi. Si disperde poi in molti bracci alla foce, ostruendo l’imbocco principale e rendendo difficile l’accesso. L’esperienza però sopperisce anche alle difficoltà più gravi…”.

 

Da Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, III, 119-121. Traduz. Di Clizia Voltan, in Padus, op. cit., p. 24.

 

“… Nessun altro fiume accresce di più la sua portata in così breve spazio. Appunto sotto la pressione della mole delle sue acque il Po si scava un alveo profondo ed è dannoso alle terre [adiacenti]. Quantunque tra Ravenna e Altino per un’ampiezza di 120 miglia sia diviso in bracci e canali, tuttavia sui dice che formi la laguna dei Sette Mari [“Septem Maria”] là dove le sue acque sfociano con maggiore abbondanza. Per mezzo del canale Augusto, il Po è condotto fino a Ravenna, dov’è chiamato Padusa, ma un tempo fu detto Messànico…[ Dopo aver nominato il fiume Vatreno e la Foce Spinetica, Plinio così prosegue]… Di lì la prossima foce è la Caprasia, quindi il Sagis, quindi il Volane che prima era chiamato Olane. Tutte queste foci [sono alimentate] dal canale Flavio, che per primi scavarono gli etruschi a partire dal Sagis… scaricando la violenza del fiume… nelle lagune degli Ariani, chiamate Sette Mari.

   In esse si apre il celebre porto della città etrusca di Atria, dalla quale per l’innanzi prendeva il nome di “Atriatico” quello che ora è mare Adriatico… [corsivo mio].

 

Un viaggio di Luciano lungo il Po [ Lucianus, De Electro, 1-5. Passim.]. In Padus, op. cit., p. 16.

   “… Finalmente… capitai in quella zona, e risalendo in barca l’Eridano, non ci vedevo pioppi, per quanto mi guardassi intorno, né ambra; anzi quei pescatori non conoscevano neppure il nome di Fetonte. Io mi volli informare e domandai: “ Quando giungeremo a quei pioppi che producono l’ambra?”. I barcaioli mi risero in faccia e mi chiesero di parlare più chiaramente. Io raccontai loro una favola, come Fetonte fosse un figlio del sole, e che fattosi giovanotto chiedesse al padre di guidare il carro. Il padre glielo concesse, ma egli si rovesciò nell’Eridano e morì. Le sorelle piansero tanto la sua fine che furono trasformate in pioppi e le loro lacrime si mutarono in ambra. “Chi è quel bugiardo che ti ha raccontato questa storia?, risposero. “ Noi non abbiamo mai visto nessuno ribaltato nel fiume, e non abbiamo i pioppi di cui tu parli. Credi forse che andremmo tutti il giorno in barca per due soldi, se ci potessimo arricchire con le lacrime dei pioppi?”. Queste parole mi colpirono molto, e tacqui deluso, e mi dispiaceva di esserci caduto come un bambino nel credere alle favole dei poeti, che dicono sempre bugie e mai la verità. Tuttavia mi affliggevo, perché era come se l’ambra mi fosse sfuggita di mano, perché avevo immaginato quali e quanti usi ne avrei potuto fare…”.

 

                                                                                                             Enzo Sardellaro

 

 

 


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