La sentenza di Nembrot  

 

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La sentenza di Nembrot

   Ogni lettore di Dante, da sempre, cimentandosi con il trentunesimo canto dell'Inferno si è dovuto scontrare con una "crux" interpretativa mai effettivamente risolta. Intendo ovviamente riferirmi al verso 67, ove si leggono le famose, quanto insondabili parole del gigante Nembrot (  Rafèl  mai amech zabi almi ), (1) il quale, con un atto di superbia inaudito,  osò costruire la torre di Babele.  Dio lo punì confondendo i linguaggi di quanti attendevano alla costruzione della torre, vanificando in tal modo il superbo progetto di Nembrot.

   Nel corso dei secoli l'erudizione si è sforzata di penetrare l'arcano, ma le soluzioni sono state più o meno cassate perché scarsamente convincenti o addirittura fantasiose. La filologia contemporanea rifugge ormai da tempo da qualsivoglia tentativo di interpretazione, rimanendo saldamente ferma al concetto salutare e certamente ragionevole, dopo diverse ubriacature interpretative, che è bene non fare eccessivi voli di fantasia e restar fedeli alla testimonianza  dei più antichi e  autorevoli commentatori,  tra i quali spiccano sopra tutti il Benvenuto e il Buti , che ebbero a dire che la frase di Nembrot non possiede alcun significato, e che è assolutamente vano cercarne uno. "... Est hic notandum, quod ista verba non sunt significativa..." (Benvenuto). "... Queste sono voci senza significazione...", traduce pressoché letteralmente il Buti.(2)

   La critica attuale, attraverso i suoi più autorevoli esponenti, è scopertamente fedele al detto del  Benvenuto e del Buti, cosicché, dal Sapegno all'Enciclopedia Dantesca giù giù fino alle edizioni popolari della Commedia, sarebbe giocoforza accettare il fatto, sia pur difficile da digerire, che  le parole di Nembrot non possiedano senso alcuno. 

   Ciò premesso, e con tutte le cautele del caso, la questione andrebbe forse ripresa alla luce di una interessante lettura che mi è occorso di fare sfogliando alcuni fascicoli degli Atti dell'Archivio Veneto della seconda metà dell'800.

   Nella Dispensa Nona del Tomo Decimo, Serie Terza, datata novembre 1864 - ottobre 1865, degli Atti dell'Imp. Reg. Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, leggo un puntuale intervento del Membro Effettivo, prof. Minich, il quale asserisce che, grazie a una importante scoperta,  il famoso detto di Nembrot avrebbe trovato il suo interprete.(3) Secondo la narrazione del prof. Minich, il vicebibliotecario dell'Istituto Veneto, prof. G. Veludo, in quello stesso anno 1865, avrebbe individuato in una pergamena una "chiosa" di Anonimo, la quale si riferirebbe al verso 67, in cui si attribuirebbe la scoperta del significato arcano delle parole di Nembrot a un ravennate, Pietro Giardino, che tra l'altro il Boccaccio afferma essere stato "discepolo" di Dante a Ravenna ( uno valente uomo ravignano, il cui nome fu Pietro Giardino, lungamente discepolo stato di Dante)    A onor del vero, questa come altre notazioni erudite  del Boccaccio vennero per vari anni snobbate dalla critica, in quanto si conosceva la fervida fantasia  e la  naturale tendenza dell'autore del "Decameron" ad annacquare spesso la verità dei fatti. Si disse che Boccaccio s'inventasse addirittura nomi e cognomi di testimoni della vita di Dante, tra cui anche quello di Pietro Giardino. La critica erudita dell'800 ha comunque restituito credibilità alle parole di Boccaccio, ricostruendo addirittura l'albero genealogico della famiglia di Pietro Giardino, notaio e figlio di un notaio, di cui si possiedono scritti sino al 1348. (4) Stabilito dunque che Pietro Giardino  effettivamente visse a Ravenna ai tempi di Dante, torniamo alla famosa "chiosa" rinvenuta dal vicebibliotecario, che così dice:

   "  Qui un gigante  che più avanti è detto Nembrotto,  dice alquante parole oscure e di nullo senso ed io ho udito dire a messer Pietro Giardino uomo arguto e sottile in lettere, il quale s'andò al Signore, già è due anni, siccome l'autore, volendo significare la confusione de' linguaggi al tempo di Nembrotto, misegli in bocca parole scortesi e ingiuriose a Virgilio, e traspose le lettere di caduna parola, la quale dalla diritta parte alla manca leggendo, e diversamente insieme ponendo, dice: Mali ciba che ami mal fare...". (pp. 1240-41) La chiosa fu "tradotta" dal prof. Veludo per comodità dei lettori. Nella forma originale si presentava così:

" Qui uno gigante che più ava<n>ti   e dicto Nembrotto dice alqua<n>te parole scure e di nullo se<n>so: et io ho udito dire a meser piero giardino huomo arguto et sotile i<n> letera, lo quale sando al signiore gia e duani [il quale se ne andò al Signore or sono due anni ] sichome lauctore volendo significare la co<n>fusione de linguagi a tempo di Nembroto messeli i<n> boca parole iscortesi et i<n>giuriose  a vergilio et traspuose le letere di catuna parola le quale dala diricta parte ala ma<n>ca lege<n>do et diversame<n> insieme pognendo dicono: mali ciba che ami malfare...".                               

   Secondo la testimonianza di Pietro Giardino, raccolta dall'Anonimo chiosatore della "Commedia", dunque, le confuse parole di Nembrot altro non sarebbero che un anagramma, e il verso andrebbe letto da destra a sinistra, spostando adeguatamente vocali e consonanti, con il seguente risultato, non spregevole in verità:  mali ciba  che  [ colui che]  ami mal fare. Una sorta di sentenza "urlata" di Nembrot, il quale avrebbe voluto significare, secondo Minich, che è giusto che si nutra, si cibi di male, soffra il giusto tormento, colui che ama il mal fare. Si tratterebbe, tutto sommato, di una sorta di detto sentenzioso, una specie di proverbio, come se ne trovano tanti, che rimandano al concetto della giusta punizione per chi compie il male. La sentenza, anziché significare, come intende il Minich, " è giusto che si cibi...", ecc., potrebbe avere anche un semplice valore asseverativo,  nel senso di " mal si nutre (ciba) colui che ama mal fare". In ambedue i casi il significato cambia di poco.

   Tiriamo adesso una conclusione sia pur provvisoria. Se è vero che, filologicamente parlando, di fronte a una "crux" interpretativa,  ciò che fa fede è l' "auctoritas" più "antiqua", nel caso nostro siamo di fronte a un bel dilemma, perché qui  abbiamo a che fare con due o più "auctotitates"  dissonanti ma pressoché coeve;  però,  sarei portato a ritenere che Pietro Giardino sia un' "auctoritas" più fededegna del Benvenuto e del Buti, poiché, a sentire il Boccaccio, Pietro Giardino sarebbe stato molto vicino a Dante, quasi un suo "discepolo"; ed è piuttosto difficile credere che il discepolo non avesse mai fatto domande indiscrete al "Maestro", allorché, leggendo la "Commedia", si scontrava con versi impervi e di  difficile interpretazione. C'è poi un'ulteriore lancia da spezzare a favore della proposta di Pietro Giardino. Al di là del "discepolato" presso Dante, il Boccaccio aggiunge in altra sede una nota ancor più interessante circa la prossimità di Pietro Giardino con Dante. Nella Lezione Seconda del suo "Comento", Boccaccio ricorda Pietro Giardino come uno dei più intimi amici e servidori di Dante.(5) Se vogliamo essere aderenti al massimo non solo all'antichità delle fonti, ma anche alla "vicinanza" di una fonte rispetto all'autore, perché non credere alla parola di Pietro Giardino, "amico intimo" di Dante, che aveva con lui una frequenza quasi quotidiana, e l'incredibile nonché rarissimo privilegio di ascoltare la viva voce del Poeta?

   L'impressione è che la  nota critica del prof. Minich sia sfuggita all'attenzione degli studiosi di Dante, antichi e moderni, perché probabilmente confusasi con la pletora delle interpretazioni che hanno fatto dell'esegesi dantesca, tanto per rimanere in tema, una sorta di biblioteca di Babele. Va da sé che la cosa andrebbe ulteriormente vagliata  e approfondita, perché il prof. Minich non offre una propria interpretazione, ma,  con molta sagacia e dottrina, e basandosi su una documentazione sino ad oggi non dico  confutata, ma, a quanto mi risulta, neppure vagliata e discussa, espone un'ipotesi di lavoro degna di attenzione, su cui dirò qualcosa più sotto. 

 

Anatomia del "detto" di Nembrot  sui "malcibati"

   La famosa sentenza di Nembrot, "tradottaci" da Pietro Giardino, "mal  ciba ( o cibi )  chi (che) ama mal fare", è quanto di più dantesco si poteva sperare. In sede di ricostruzione della frase anagrammata, un bel problema per il prof. Minich era quello costituito dalla presenza inopportuna quanto fastidiosa della "z" di "zabi", che l'Anonimo chiosatore leggeva, teste il Giardino, invece come una "c", da cui "cabi", risolto in "ciba". Occorreva quindi individuare nella tradizione dei codici della "Commedia" almeno un testimone che riportasse la lezione dell'Anonimo, e quindi "cabi" al posto di "zabi". La ricerca si rivelava sin dall'inizio estremamente ardua, perché tutti i codici noti attestavano "zabi" e non "cabi". Minich mise quindi al lavoro il prof. Veludo, il quale gli  procurò alcuni codici della "Commedia" presenti nella Biblioteca Marciana di Venezia. "... E in uno di essi - scrive il prof. Minich - segnato Classe IX Num. XXXI B, trascritto nel 1400 da Andrea Zantani, egli trovò, ed io riconobbi, la nuova lezione addotta dalla chiosa prefata... Né dee scemare il valore del detto codice la sua data posteriore alla metà del secolo decimoquinto, giacché, salvo errore, il copista non l'avrebbe introdotta, se non l'avesse incontrata in qualche codice anteriore...". Il ragionamento di Minich non fa una grinza, ed egli si mostra giustamente soddisfatto di aver individuato nella tradizione almeno un codice che attestasse la lezione "cabi" dell'Anonimo chiosatore di Dante. Ma, a dire la verità, la questione su cui si è tanto affaticato il prof. Minich mi pare un problema  importante ma non irrisolvibile, perché è largamente nota alla filologia romanza anche dell'800 l'alternanza nella grafia antico-romanza di "c" con "z", quest'ultima rappresentata spesso con una "c" con "zediglia" (cediglia [ç] )-, come sottolinea lo stesso Minich. ( Si tratta della famosa "... c cedillé (ç), scrive il Battelli, usata in luogo di "z" nei manoscritti italiani degli ultimi decenni del sec. XII a tutto il sec. XIV..." (Cfr. G. Battelli, Lezioni di paleografia, Città del vaticano, 1949, (Terza ediz.), p. 226)  Lo dimostra la discussione seguita alla comunicazione del prof. Minich, ove anche il prof. Veludo osservava la persistenza nei codici italiani del fenomeno di cui abbiamo detto sopra, ossia "... che spesso i codici offrono lo scambio della "z" in "c", e non solo codici di varie parti d'Italia, ma eziandio toscani, come per es...: "Ah Pistoja, Pistoja, che non stanci [= stanzi]/ Poiché in mal far lo seme tuo avanci [=avanzi]".   Il fenomeno fonetico ci è attestato anche da un testimone d'eccezione, ossia il Machiavelli, il quale, nel suo " Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua" ( Ed. critica approntata da B.T. Sozzi, Torino, Einaudi, 1976, p. 20), osserva che i "forestieri" tendono a variare la pura pronuncia fiorentina, cosicché le parole " ... si variano tanto con la pronunzia,/ che diventano un'altra cosa. Perché/ tu sai che i forestieri ... pervertono la c in z...". Il prof. Minich, pur non avendo dalla propria il Machiavelli, a cui tra l'altro a quei tempi si negava la paternità del "Discorso o dialogo...", ritiene la lezione dell'Anonimo più valida di ogni altra, perchè, "... a dire il vero - osserva - questa nuova lezione ha tutta l'autorità d'uno de' codici più accreditati, poiché ci viene da tale che la rilevò, congiuntamente alla spiegazione, da un famigliare di Dante...". (p. 1242) Ovvero Pietro Giardino, che appunto attestò la lezione "cabi" e "ciba", nonché il fatto che il verso era un anagramma e andava letto da destra a sinistra. Tra il serio e il faceto il prof. Minich rileva, a proposito della chiosa, che essa è vera, e attestata in un codice autentico e non "in una manifattura moderna sotto un'apparenza d'impronta antica. Sarebbe il caso di dire -conclude-, secondo un noto adagio francese, si ce n'est pas vrai, c'est bien trouvé" [ se la cosa non è vera, diremmo noi, è stata ben trovata]. In nota Minich riporta ulteriori notizie anche sul copista quattrocentesco, il cui cognome, puntualizza, non era Zantani, come aveva creduto, ma Zancani, Andrea Zancani, il quale nel manoscritto asserisce " d'esser nato a Venezia, e d'aver dato termine al suo lavoro il 20 agosto 1460". Il vero problema riguardo alla famosa "chiosa" illustrata dal prof. Minich non è però l'alternanza si "c" con "z", fenomeno più che possibile, quanto, e Minich se ne rende conto", dimostrare che detta chiosa è autentica e non, come taluni potrebbero sospettare, manifattura moderna sotto un'apparenza d'impronta antica; insomma, dice Minich, si possono dormire sonni tranquilli perché non siamo di fronte a un falso. La sottolineatura di Minich era doverosa, anche perché la storia dei falsi d'autore, eccezionalmente ben congegnati, ha in Italia una storia piuttosto lunga e variegata. Nel nostro caso abbiamo la parola del prof. Minich e del prof. Veludo, membri autorevoli del Regio Istituto Veneto, la onorabilità professionale dei quali è fuori discussione. E' piuttosto la "storia" del reperimento del manoscritto che lascia un po' dubbiosi, perché Minich afferma che il manoscritto dell'Anonimo chiosatore di Dante è stato individuato in un monastero delle isole Sporadi da uno studioso tedesco, di cui però, e qui sta il problema, egli non conosce il nome. Ma sentiamo il prof. Minich:

   "... Ora a sollevare il velo impenetrabile che coperse finora il significato del verso sopraddetto, e a stabilire l'avviso che vi si celi un anagramma, venne in soccorso degli studiosi la scoperta d'un'antica pergamena che forma risguardo ad un codice greco trovato nel marzo dell'anno corrente in un convento di monaci delle isole Sporadi da un dotto membro dell'Accademia delle scienze di Berlino e dalla Società archeologica d'Atene, di cui si spera, a cagion d'onore, di conoscere il nome...". (1240)

   Se quindi la testimonianza dell'Anonimo possiede una sua consistenza, e qui i dantisti potrebbero riprendere la questione, facendo qualche ricerca sull'identità del "dotto studioso" tedesco,  ci si trova di fronte a un evento veramente straordinario, ed è giocoforza   osservare, con un misto di stupore e meraviglia, che ogni termine della sentenza di Nembrot rientra   in quello che potremmo definire il campo semantico "morale" di Dante, ed è anzi  attraverso di esso che il Poeta espone il senso stesso dell'esistenza umana e il significato intero della "Commedia", ove peccato e castigo, punizione e premio s'imperniano, appunto, sul "mal fare" oppure sul "ben fare" dell'uomo.

   Cominciamo dal "mal fare",  e osserviamo che tale espressione è presente in modo consistente sia nella "Commedia" sia nelle opere minori. Si riporta sotto una serie di esempi.

"... Onde avviene che ciascuno ha nel suo giudicio le misure del falso mercatante, che compera con l'una e vende con l'altra; e ciascun con ampia misura cerca lo suo mal fare e con piccola cerca lo bene..." ( Convivio, II, in Dante, Tutte le opere, a c. di M. Barbi, Firenze, Sansoni, p. 112.  ).

"... Vere "Dei ordinationi resistit", proprie voluntastis ydolum venerando, dum regem aspernata legiptimum non erubescit insana regi non suo iura non sua pro male agendi potestate pacisci..." ( Epistole, VII, 7, p. 334 ) [ ... Ben si può dire che  resiste ai decreti di Dio adorando l'idolo del suo capriccio lei che ha rifiutato il re legittimo e non arrossisce nella sua follia di patteggiare diritti non suoi con un re non suo per ricercarne autorità a mal fare...].

" Ahi Pistoia, Pistoia, Ché non stanzi/ d'incenerirti sì che più non duri,/ poi che in mal far lo seme tuo avanzi?" ( Inf., XXV, vv. 10-13).

   Nella "Commedia" il "mal fare" si presenta in varie forme, con il verbo "fare" va5riamente coniugato: " Temer si dee di sole quelle cose/ c'hanno potenza di fare altrui male" (Inf., II, vv. 88-89); "Mentre che la gran dota provenzale/ al sangue mio non tolse la vergogna,/ poco valea, ma pur non facea male" (Purg. XX, vv. 61-63); "O folle Aragne, sì vedea io te/ già mezza ragna, trista in su li stracci/ dell'opera che mal per te si fe' "(Purg., XII, vv. 43-45).

   Contrapposto al "mal fare" sta invece il "ben fare", tipico della rettitudine e di che agisce con senso di giustizia. Il termine è spesso riferito a Dante stesso e alla sua azione politica: "Ma quello ingrato popolo maligno/ che discese di Fiesolo ab antico,/e tiene ancor del monte e del macigno,/ ti si farà, per tuo ben far, nemico" (Inf., XV, vv.61-64). E' Brunetto Latini che parla, verso cui Dante nutriva un'ammirazione profonda per gli insegnamenti ricevuti. Brunetto Latini aveva scritto nel Tesoretto (vv. 175-179) che le cose del mondo sarebbero andate certo per il meglio se "... tutti per comune/ tirassero una  fune/ di pace e di benfare...".(Cfr.U. Bosco, Il Canto di Brunetto, in Dante Vicino, Palermo, Sciascia Editore, 1966, p. 108.)

" O gente in cui fervore aguto adesso/ ricompie forse negligenza e indugio/ da voi per tepidezza in ben far messo" ( Purg. XVIII, vv. 106-108).

   Infine, nel "Purgatorio" ricorre una mezza frase che sembra quasi "sorella" di una parte della sentenza di Nembrot ( ama mal fare ): " Resta, se dividendo bene stimo, che 'l mal che s'ama è del prossimo..(Purg. XVII, vv.112-113). Ricorrono in questa espressione gli ingredienti linguistici e concettuali fondamentali della fatidica sentenza di Nembrot: il "male" e il verbo "ama". E' attraverso il concetto di "amore", verso il "ben fare" o il "mal fare" che s'incentra tutta quanta non solo la poetica dantesca intorno all'amor "profano" ma anche quella, ben più consistente nella "Commedia", dell'amore verso il bene, e alla fine verso il bene assoluto, Dio. Cosi come l'amore può rivolgersi al male, e quindi "ama mal fare", esso può per converso rivolgersi al bene, e in tal caso, si noti la persistenza del lessico, " ... elli ama bene, e bene spera e crede" ( Par., XXIV, v. 40).  " E l'amore - scrive con efficacia Mario De Rosa - è il concetto-chiave della poetica dantesca... Dante... dall'amore della donna che inizia il processo di elevazione interiore, arriverà a scoprire lentamente la dimensione metafisica dell'amore. E' l'amore il movente dell'attività umana, è l'amore il principio della vita morale...[ da cui ] dipende l'orientamento esistenziale di un individuo...". (Cfr. M. de Rosa, Rigetto e idealizzazione del padre in Dante, in L'Alighieri, n. 1, 1986, pp.27-28).

   E passiamo ora a quel "ciba", che dal "Convivio" alla "Commedia" compare con mille sfumature verbali e nominali, spesso a indicare un "cibo" spirituale, il celeberrimo "pan degli angeli". Gli esempi riportati sotto sono poca cosa rispetto al numero veramente considerevole di un termine che qualifica Dante come un vero e proprio "cultore" di esso.

 Gridò: " Di questo cibo avrete caro". (Purg. XXII, 141).

Sempre la confusion de le persone/principio fu del mal de la cittade,/ come del vostro il cibo che s'appone. ( Par. XVI, 67-69)

...E innumerabili quasi sono li 'mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati ( Convivio, I, 112)

... Da ogni nobilitade d'animo li rimuove, la quale massimamente desidera questo cibo...( Convivio, I, IX, 118)

 

   A conclusione di questa nostra disamina, resta da chiarire un dubbio che rampolla spontaneamente in qualsiasi lettore: perché Dante, anziché ricorrere a un anagramma, non espresse chiaramente il proprio concetto con quelle espressioni poi svelateci dal suo "intimo amico" Pietro Giardino? La domanda è importante, e la risposta credo riposi nelle "tecniche poetiche" medievali, nell'officina del "grande artiere", avrebbe detto Carducci. Paul Zumthor, ci ha svelato molti anni fa l'arcano di molti versi "non-sense" dei trovatori, i quali amavano spesso dar vita a versi assolutamente incomprensibili, e spesso, e questo è un dato molto importante da notare, esercitavano tale tecnica su una materia estremamente banale, quale potevano essere un detto sentenzioso, un indovinello o un proverbio. Poiché, appunto, si trattava di materiale concettuale trito, per suscitare l'attenzione del lettore, proponevano versi confusi e incomprensibili, ma, si noti, intendendo spostare l'attenzione del lettore dalla frase in sé consunta al "tema" su cui stavano esercitando la loro perizia poetica. " Il fatras mira a liberare la lingua dalla sua funzione più ovvia - comunicativa e razionale... La scelta degli elementi semantici sui quali esercitare l'effetto di dissociazione appare allora fissata: frammenti di luoghi comuni amorosi cortesi, proverbi e locuzioni triviali, ecc.". (Cfr. P. Zumthor, Lingua e tecniche poetiche nell'età romanica, Bologna, Il Mulino, 1973, p.183 e 186). Chiediamoci per un attimo cosa sarebbe successo se Dante ci avesse proposto il famoso detto di Nembrot secondo le normali norme lessicali, grammaticali e sintattiche. Ne sarebbe scaturito un "detto" che avrebbe lasciato i più pressoché indifferenti: " Mal si ciba colui che ama il mal fare". Oppure, "E' giusto che paghi colui che ama il mal fare".  Dante, invece, secondo gli insegnamenti dei trovatori, ha voluto applicare al suo detto morale la tecnica la "fatrasie", così era nota essa  nel Medioevo; la quale era conosciuta non solo in Francia, ma anche in Italia, e Mario Marti ci assicura che la  "fatrasie" era largamente applicata nei circoli poetici più chiusi ed elitari, e specie tra i "poeti giocosi". " ... E temi e tecnica e motivi giocosi è dato cogliere nelle fatrasies francesi e nelle ensaladas spagnole... Peccheremmo quindi, se leggendo i nostri antichi poeti giocosi, trascurassimo questo aspetto europeo della loro rimeria... Poetica non ignota né ingrata a Dante stesso...". (Cfr. Mario Marti, Introduzione alla lettura dei poeti giocosi, in Dal certo al vero, Roma, Ediz. dell'Ateneo, 1962, pp.18-19, 20.) Dante, quindi,  sposta con un artificio linguistico tutta l'attenzione del lettore dalle parole di Nembrot, che lui stesso, con una punta di protervia, definisce, " a nullo not[e]", al tema, che invece gli importava moltissimo, ossia quello della "superbia", la radice d'ogni male. "Superbia, invidia e avarizia", dice Ciacco, "son le tre faville ch'anno i cuori accesi"; con la superbia al primo posto, come al primo posto, quale radice di tutti gli altri mali la troviamo in alcuni trattati morali del Medioevo. Così Iacopo da Benevento scriveva alla metà del XIII secolo: "... Imperò che la santa Scrittura dice, nel libro Ecclesiastico: " Principio e nascimento d'ogni peccato è superbia", da questo vizio faremo il principio del nostro dire; e diremo le sue condizioni, e de' sette vizi principali che nascono da lei. Li quali sono questi: vanagloria, invidia, ira, tristizia ovvero accidia, avarizia, gola, lussuria. E che questi vizi vengano da superbia, lo dice santo Isidoro in questo modo: "Ogni peccato è superbia, imperò che, facendo le cose vietate, hae in disdegno le comandamenta vietate da Dio". E veramente superbia è principio d'ogni peccato...". ( Iacopo da Benevento, Giardino di Consolazione, Capitolo I : contro la superbia, in Scrittori di religione del Trecento, a c. di don G. De Luca, Torino, Einaudi, 1977, Tomo III, p. 490). I superbi, dunque, deviano dalla "diritta via", perché volgono le loro facoltà a "mal fare", e così agiscono, e si noti la ricorrenza dei termini "amorosi", per malo amore, per un "amare" deviato. Così, Dante descrive  l'ascesa ai superbi nel decimo del Purgatorio: " Poi fummo dentro al soglio della porta/ che 'l malo amor de l'anime disusa/, perché fa parer dritta la via torta". E il Sapegno (Purg.,X, nota 2) così spiega: " Malo amore è quello che erra nella scelta dell'oggetto... e determina così le varie disposizioni peccaminose; esso svia gli uomini col far loro apparire dritta, buona, la via torta, sbagliata".

   L'articolo del prof. Minich non ebbe, l'abbiamo visto, quella risonanza che forse l'autore sperava, e probabilmente si perse nei meandri della letteratura critica intorno a Dante. Rispetto alle parole di Nembrot siamo quindi ancora oggi di fronte a quanti  non vedono in esse alcun significato, oppure ai pochi che per converso ritengono degni di considerazione i risultati cui giunse in un saggio famoso Domenico Guerri nel 1908, per il quale la  frase di Nembrot era la somma di alcune parole ebraiche, cinque per l'esattezza, le uniche che secondo Guerri Dante conosceva. La critica più autorevole, dal Vandelli al Sapegno, ha comunque giudicato poco convincenti i risultati del Guerri, pur ritenendo la sua interpretazione tutto sommato brillante. La cosa comunque non è finita con il Guerri. Verso la metà degli anni Cinquanta A. Camilli riprese  l'argomento, partendo proprio dagli studi di Domenico Guerri, l'unico che, a sua parere, avesse saputo esaminare " con serietà questo verso". Anche l'articolo di Camilli è brillante, e lo propongo più sotto per la brevità e anche per la sua difficile reperibilità; però, e qui sta il punto dirimente rispetto al saggio del Prof. Minich, siamo pur sempre di fronte a una interpretazione moderna, del tutto "congetturale", come ammette lo stesso Camilli, mentre Minich fondò il suo lavoro su una fonte manoscritta, una "pergamena" che veniva da lontano, dalle isole Sporadi, sepolta per oltre un millennio in un monastero, e alla fine tratta alla luce da un misterioso erudito tedesco.

  

 A. Camilli, Il linguaggio di Nembrotto, in Lingua Nostra, 1953, pp. 39-40

   " I recenti commentatori, in genere, dicono che il verso di Inf. XXXI, 67 della "Divina Commedia", non si può e non si deve spiegare, perché " di linguaggio espressamente (vv. 76-81) voluto da Dante incomprensibile" (Del Lungo). Ma non si può dichiarare volutamente incomprensibile ciò che è solo volutamente oscuro.Assolutamente incomprensibile, caso mai, sarebbe che Dante avesse voluto... ammannire ai suoi lettori inspiegabili versi. Nel caso nostro basta pensare che, se quello di Nembrotte è un linguaggio, un significato nell'intenzione di Dante deve ben averlo avuto, giacché un linguaggio che non significhi nulla non s'è mai dato. E allora la ricerca, quantunque per necessità interamente congetturale, è legittima, e secondo me, bisogna tornare alla prima spiegazione datane da D. Guerri ( Di alcuni versi dotti della "Divina Commedia", Città di Castello, Lapi, 1908, pp. 21-47), l'unico che abbia con serietà esaminato questo verso. Di poco ciò che egli dice va precisato e modificato. Ma è necessario riparlarne per correggere la lezione proposta nel testo critico della Società dantesca italiana.

   Se le lingue babeliche nacquero per un'improvvisa deformazione, diversa per ogni parlante, di suoni, forme, costrutti e significati della madrelingua ebraica, è ragionevole pensare che Dante, a rendere le parole babeliche di Nembrotte, debba avere storpiato, sia nella forma sia nel significato, delle parole ebraiche, quali ne poteva trovare nel Liber de nominibus hebraicis di San Girolamo, nelle glosse bibliche e nei lessici. Ora " per singolare fortuna di questo problema", dice il Guerri, le uniche parole ebraiche, che Dante poteva conoscere, aventi somiglianza con quelle diNembrotte sono RAPHAIM, MAN, AMALECH, ZABULON, AALMA, a cui aggiungo EL.

Ma come raccapezzarsi tra i diversi significati che a queste parole Dante vedeva attribuiti e che egli stesso deve aver ulteriormente modificato? Qui ci soccorre una luminosa intuizione del Guerri, da cui mi meraviglio come poi egli si sia lasciato distogliere  per darne una seconda soluzione: il Nembrotte di Inf. XXXI, 58-81 è quello stesso di Purg. XII, 34-36 [ Qui Camilli si riferisce alla scena in cui Nembrot guarda smarrito e stupito gli operai che hanno smesso di costruire la torre, e non sa darsi un perché del fatto che non vogliano più continuare l'opera], il cui smarrito pensiero è fisso per l'eternità sulle genti che abbandonavano quel lavoro: null'altro si presenta mai alla sua mente annebbiata e null'altro quindi può esprimere. Allora non riesce più tanto difficile scegliere tra i vari significati che Dante si trovava dinanzi e scorgere i mutamenti che egli può aver apportato.

RAPHAIM, cioè GIGANTES, storpiato da Dante in RAPH e modificato in GENTI, UOMINI;

EL, cioè DEUS, modificato in DèI, DIVINI;

MAN, cioè QUID?, storpiato in MAì, e modificato in PERCHE'?

AMALECH, cioè POPULUS RELINQUENS, storpiato in AMèCH e modificato in  ABBANDONATE;

ZABULON, cioè HABITACULUM, storpiato in ZABì e modificato in EDIFICIO, LAVORO;

AALMA, cioè VIRGO, da cui si faceva derivare il latino ALMUS, il cui significato sarebbe stato quello babelico, storpiato in AALMI.

   Secondo il testo critico della Società dantesca italiana questo verso si dovrebbe leggere: Raphèl maì amèch zabì almì, dove " almì " rimerebbe solo per l'occhio con PALMI e SALMI. Ma perché mai Dante avrebbe qui introdotto quella zeppa metrica... non si capisce. Non poteva modificare ad arbitrio il linguaggio di Nembrotte? Non avrà anzi , per un presupposto babelico, spostato qualche accento ( il Guerri leggeva infatti zabi aàlmi con le " i " disaccentate ) proprio perché una regola faceva queste forme ossitone in ebraico? e nel caso di aalmi, non avrà egli fatto parossitona questa voce come in latino, dal momento che il suo significato babelico era appunto quello latino? Quindi ha ragione il Guerri [ p. 40 ] a leggere aàlmi, e da questo ricava anzi un'altra conferma la sua interpretazione. In conclusione io credo si debba leggere:

Raph El, maì amèch zabì aàlmi ?

Spiegando: Homines Divi, cur relinquitis aedificium almum? *

Le due prime parole, secondo me, sono in corrispondenza con "Satan Aleppe" ( Satana Dio ) di Pluto.".

* Camilli non traduce, ma il senso in italiano è questo: " O uomini veramente simili a Dio, perché avete abbandonato la costruzione dell'alma torre?".

Postilla

   L'articolo di Camilli, sviluppato sulla scorta del saggio di Domenico Guerri è indubbiamente suggestivo, ed egli  mi trova in sintonia quando asserisce che il linguaggio sia pure astruso di Nembrot  un significato deve pur averlo. Però ho il vago sospetto che esso non sia quello ventilato dal Guerri  e integrato dallo stesso Camilli, e ciò perché le premesse a tutta la loro argomentazione  sono per lo meno dubbie.

    Il Camilli parte dalla convinzione che per Dante  "... le lingue babeliche nacquero per un' improvvisa deformazione ... [ sott. mia] della madrelingua ebraica", e sarebbe quindi logico pensare che egli, " nel rendere le parole babeliche di Nembrotte, debba avere storpiato... delle parole ebraiche... [ sott. mia]". E il ragionamento si appoggerebbe sul De vulgari eloquentia, in cui Dante mostrerebbe di credere che la lingua ebraica fosse stata in assoluto la prima lingua del mondo.

   Solo che le cose non stanno esattamente così. Studi recenti hanno invece dimostrato l'esatto opposto. Come sottolineò a suo tempo Bruno Nardi,  il poetà "rettificò" nella "Commedia" quanto asserito un po' forzatamente nel De Vulgari eloquentia, nel quale Dante "... si rassegna ( sott. mia) ad ammettere che Adamo parlasse ebraico, che l'ebraico fosse la lingua di tutti gli uomini prima della confusione, e che dopo la confusione l'ebraico, cioè la lingua d'Adamo, si conservasse ancora presso gli ebrei...". E ciò, " per rispetto... alla comune opinione degli interpreti del libro sacro" (Cfr. B. Nardi, Il Canto XXVI del Paradiso, in L'Alighieri, 1985, n. 1, pp. 24-32, in part. le pp. 31-32 ).  Dante operò la "rettifica" di tale opinione nella "Commedia", facendo parlare lo stesso Adamo, che  "corresse" l'antica ed errata opinione del poeta, e da cui si arguisce anche il fatto non secondario che egli non credeva affatto alla "improvvisa" scomparsa delle lingue, ma, più modernamente, a una loro lenta evoluzione. Ecco il passo in cui parla Adamo:

La lingua ch'io parlai fu tutta spenta/ innanzi che all'ovra inconsummabile/ fosse la gente di Nembrot attenta. Pria ch'io scendessi a l'infernale ambascia,/ I s'appellava in terra il sommo bene/ e El si chiamò poi;...

    Sia il Guerri sia il Camilli partono dal presupposto, non fondato alla luce delle più recenti acquisizioni, che Dante usasse l'ebraico perché la considerava la "prima lingua" di tutti gli uomini. Ma come Adamo ha dimostrato a Dante con una chiarezza esemplare, la "prima lingua"  dell'umanità era  "tutta spenta" già al tempo del tentativo di Nembrot. E non si vede per quale ragione Nembrot si mettesse a storpiare proprio l'ebraico, che non era, teste Adamo, la "prima lingua" dell'umanità, che tra l'altro neppure lo  stesso Nembrot poteva conoscere, essendo essa ai suoi tempi "già spenta".  Poiché Dante era perfettamente consapevole del fatto, non si vede per quale misteriosa ragione avesse voluto rifarsi  all'ebraico se egli sapeva già in partenza che quella era "lingua seconda", al pari di tutte le altre lingue post-adamitiche. Da quanto si è andati dicendo, nulla vieta di credere che le parole storpiate di Nembrot potessero appartenere  non all'ebraico, ma a qualche altra lingua, per cui l'ipotesi del Guerri e del Camilli, fondata esclusivamente sull'ebraico,  sembrerebbe il frutto di una lettura non pertinente delle teorie di Dante sul linguaggio.

   Di qui dunque l'impressione  che con il famoso verso di Nembrot Dante non si rifacesse né all'ebraico né tanto meno a quella lingua "adamitica" di cui conosceva al massimo una parola: I, Dio; né ad altre lingue. Il prof. Minich ricorda al proposito i tentativi infruttuosi dell'abate M. Lanci con l'arabo,  dell'abate M. Venturi con il siriaco e infine di P. G. Maggi con la stessa lingua ebraica (p.1237). Tutti questi tentativi vani rafforzano l'ipotesi di quanti sostengono che Dante  avesse semplicemente giocato con la lingua fiorentina, secondo le regole delle "Fatrasies". Potrebbe quindi darsi effettivamente  che Dante avesse  inventato un semplice   anagramma, il cui significato venne successivamente confidato dal poeta al "dotto uomo in lettere" Pietro Giardino, suo   "discepolo" e "amico intimo", e infine consegnato da quest'ultimo all'Anonimo chiosatore del verso 67 del XXXI canto dell'Inferno. Anonimo sì, ma che si mostrava conoscitore molto ben informato circa le persone vicine a Dante in Ravenna. Il prof. Minich non si pose il problema di chi fosse in realtà l'Anonimo; ma intanto sappiamo che era un contemporaneo di Dante, che conosceva bene  Pietro Giardino, e probabilmente anche altri "discepoli" della cerchia ravennate che ruotava intorno a Dante.  Forse potrebbe trattarsi di quello stesso "Anonimo chiosatore" di cui si conservano alcune "glosse" di un commento alle ecloghe di Dante in un codice del  XIV sec., segnato Laurenziano Plut.,  XXIX, VIII, di cui ci parla Oddone Zenatti in un libro che si raccomanda per l'impianto erudito veramente eccellente.(6)  L'Anonimo  afferma di sapere chi si nascondeva dietro il nome del pastore Melibeo nelle ecloghe, ossia quidam ser Dinus  Perini florent.[inus] [  Dino Perini, "giovine fiorentino, nipote d'un mercante omonimo"], (7)   anch'egli identificato come uno dei "discepoli" e "amico" di Dante; così come sapeva che sotto il nome di Titiro si nascondeva Dante stesso e sotto quello di Mopso Giovanni del Virgilio.(8)

                                                                                                                    Enzo Sardellaro

      

Note

1) La lezione di questo verso è controversa. Il Vandelli, Inferno, Milano, Hoepli, 1974, accetta la seguente: " Raphèl may amèch zabì almì". La stessa anche nel Sapegno.

2) Enciclopedia Dantesca, Biblioteca Treccani, Milano, A. Mondadori, 2005, vol. 11,  Lun-N, Voce Nembrot, pp. 556-557.

3) Il m. e. prof. S. R. Minich legge: Sopra una antica chiosa, testé scoperta, al v. 67 del C. XXXI della prima Cantica di Dante, in Atti dell'Imp. Reg. Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, Tomo Decimo, Serie terza Dispensa Nona, Venezia, Presso la segreteria dell'Istituto nel Palazzo Ducale, 1864-65, nel Priv. stabil. Antonelli Edit., pp.1236-1251.

4) G. Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, in O. Zenatti, Dante e FirenzeProse Antiche, Firenze, Sansoni, 1984, p. 169 e n. 1: " ... Giardino, padre di Piero, fu notaio, dottore in legge e cavaliere: quindi, messer Giardino. Piero fu egualmente notaio, quindi ser Piero, e di lui, scritti di sua mano, si conoscono finora tredici documenti che vanno dal 18 maggio 1311 al 1348...". Sul Giardino v. inoltre p. 167, n. 2, e p. 82, nota.

5) Ivi, p. 81, nota 1.

6) Ivi, p. 79, n. 1 e pp. 466-467.

7) Ivi, p.81, nota.

8) Ivi, p. 79, n. 1.


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