Nel 1860 Napoli era bellissima, piena di
giardini odorosi di fiori, terrazze e marine da incanto, contava già
600.000 abitanti mentre in nessuna altra città del Regno si raggiungevano
i 20.000! Il Vesuvio con il perenne pennacchio scuro spandeva odore di
zolfo dovunque, lambendo i comuni vicini. Il clima e la musica dolce, il
mare, il sole caldo e la luna ruffiana, facevano da cornice alle passioni
terrene dell'umana specie.
Salvatore aveva soltanto 5 mesi quando Giuseppe Garibaldi arrivò a Napoli
e parlò dal balcone di piazza dello Spirito Santo. Il padre Francesco
Saverio, pediatra, lo teneva in braccio mentre assisteva all'insediamento
del dittatore argentino. Questo cambiamento epocale influenzerà la storia
di tutto il sud in conseguenza della fine del Regno Delle Due Sicilie e lo
spostamento del governo a Roma. Di Giacomo è destinato a diventare il
Poeta napoletano, anzi italiano che riporterà la poesia alle fresche
sorgenti della lirica greca.Nasce a Napoli il 12 Marzo del 1860 e, dopo
aver ultimato gli studi classici, si iscrive a Medicina e Chirurgia per
accontentare il padre; nel frattempo però scrive poesie e novelle...Un
episodio raccapricciante lo indusse, dopo tre anni, ad abbandonare
l'università : una mattina, un bidello soprannominato " Setaccio
", cadendo dalle scale gli versò, quasi addosso, una bacinella
ricolma di resti umani che erano serviti agli studenti per esercitarsi...
Salvatore sgomento si rese conto all'istante che quella intrapresa non era
la sua strada ed abbandonò gli studi. Passò al giornalismo militante ed
al " Corriere di Napoli " di Eduardo Scarfoglio e Matilde Serao
cominciò il suo tirocinio di cronista. Dopo un breve periodo però,
accettò di dirigere la biblioteca Lucchesi Palli presso la Biblioteca
Nazionale dove tuttora si possono ritrovare le annotazioni fatte con la
sua scrittura minuta ma chiarissima. Nel frattempo la sua fama era
diventata grande e dopo lo strepitoso successo di"Assunta Spina"
nel 1908, conobbe in biblioteca Elisa Avigliano, una ragazza fresca di
laurea snella e disinvolta, della quale si innamorò. Il poeta pur avendo
raggiunto il 46° anno di età decise di sposarla. Nel 1924 Mussolini
nominò Di Giacomo senatore insieme con Ugo Ojetti. Il Senato però
bocciò la nomina, che era stata molto caldeggiata da Benedetto Croce,
perché si disse:"Piedigrotta non può entrare in Senato" ed Ugo
Ojetti ebbe a scrivere dopo aver rifiutato:" arrossirei al pensiero
di entrare per censo al Senato dove, solo perché povero, non ha potuto
entrare un grande poeta". Ebbe una piccola rivincita don Salvatore
quando, nel 1929, fu nominato Accademico d'Italia, ma non potè mai
partecipare alle sedute anche perché non possedeva la divisa. Aveva
soltanto un vecchio cappotto che cominciava a diventare
inpresentabile:" Era di un così bel colore marrone, ma ora sta
diventando Rousseau; bisogna che lo faccia Voltaire"...scherzava Di
Giacomo. Così scrive Max Vajro nella sua prefazione alla raccolta di
poesie Digiacomiane edite da Fausto Fiorentino:"...Di Giacomo ha
scritto di Napoli tutto quello che un poeta poteva, componendo il più
affascinante e dolente ritratto della città: Cronache di tribunale, scene
di silenziosa miseria, amori furenti e abbandoni, rappresentazioni
dell'amara vita dei fondaci,ricostruzioni di scene amabili del settecento;
sonetti vivaci, talvolta maliziosi; canzoni divenute celeberrime ed
emblematiche nel mondo, commedie e drammi, rievocazioni in prosa che hanno
forza di poesia; ha narrato l'amore delle donne perdute e delle madri, da
"Mese Mariano" ad "Assunta Spina"; la turpitudine
della malavita; e l'eleganza della classicità napoletana che da secoli
riaffiora ogni volta che parole di poesia la interroghino, come se le
sembianze di una città marmorea emergessero al canto delle sirene. Ha
composto un sacro libro che commuove chi ravvisa in esso luoghi e persone,
tradizioni e sentimenti, ma che ogni lettore in ogni lingua può
riconoscere come voce universale ed eterna di poesia. E che essa parli in
napoletano, è un dato che si accresce - per noi napoletani - di un valore
che è già assoluto: segno di amore di cui bisogna essere grati ad un
poeta che fu un tremante groviglio di echi e sensazioni vissute per noi,
dando alito a una città attraverso la sua voce. "... Salvatore, in
seguito, avrebbe adorato il settecento per quello che effettivamente fu;
un periodo di grandi fermenti culturali ed artistici. Amava, in
particolare, la musica di Domenico Cimarosa e gli piaceva molto andare a
piedi per potersi soffermare ad osservare la gente, la natura e le cose
della sua città, con l' occhio di chi ama profondamente ciò che di volta
in volta scopre ed accoglie nel suo grande cuore. Siamo abituati a
considerarlo, con affetto e rispetto, il poeta dei sentimenti struggenti
che meglio di chiunque altro ha saputo cantare le emozioni e le tragedie
di una Napoli nobilissima ma anche piena di infinita miseria; aveva,
però, anche un carattere scontroso e a modo suo ribelle; a tale proposito
leggiamo il pensiero di Maria Angarano Moscarelli che così descrive Di
Giacomo nel suo libro:"Il bibliotecario Salvatore Di Giacomo, vicende
poco note di un noto poeta" di Liguori Editore...." Fu
l'ossessione di tutta la sua vita, il posto fisso, lo stipendio a fine
mese, senza avere però l'umiltà necessaria per compiere tutta la trafila
che, inevitabilmente, in ogni lavoro bisogna percorrere prima di arrivare
al grado che si sente di meritare. A ciò si aggiungeva un carattere
notevolmente permaloso, scarsamente dotato della tolleranza necessaria a
convivere nei diversi contesti sociali e costantemente chino a scrutare le
proprie stanchezze e malinconie. Tutto ciò lentamente sfociò in una vera
e propria malattia, quella nevrastenia che gli fu fatale. E pensare che
con i pochi amici, che rimasero tali per sempre forse perché lo avevano
capito e lo avevano accettato com'era, sembrava un altro: spontaneo,
spesso pieno di umorismo, addirittura disinibito. Nessuno di questi amici
apparteneva al mondo delle biblioteche, che rimase per lui soltanto il
luogo dove guadagnarsi la libertà di scrivere, anche se, più avanti
negli anni e nella carriera, da quel mondo gli vennero soddisfazioni e
riconoscimenti."... E' stato sottolineato da più parti che Salvatore
Di Giacomo pur essendo molto attento ai comportamenti del popolo e della
borghesia napoletana, sognò sempre un ritorno al glorioso passato della
città, così come egli sentiva di poterlo apprezzare maggiormente: La
pittura del Seicento, la musica ed il teatro del Settecento; i due secoli
in cui Napoli si era preparata a diventare una grande capitale europea,
insieme a Parigi, a Vienna, a Londra, fino allo splendido ma tragico
scoppio della Repubblica Partenopea. Divenne studioso di " certe cose
antiche " sfruttando con intelligenza il suo lavoro di Bibliotecario
presso il Conservatorio di S. Pietro a Majella, alla Nazionale ed alla
Lucchesi Palli. Don Salvatore si dedicò a ricerche sul San Carlino sui
Conservatori e sulla prostituzione, ma più in generale descrisse la lenta
fine di un Regno affidando ai suoi scritti, il messaggio di bellezza e
nostalgia di una grande civiltà in declino. La presenza di Di Giacomo
nella "belle èpoque" partenopea ha un che di originale, infatti
era sdegnosamente distaccato dalle mode letterarie che, in quel tempo,
imperversavano: Il classicismo professorale di Carducci, il patetico
decadentismo di Pascoli e Corazzini, l'immaginifico barocchismo di
D'Annunzio...(che pure a Napoli era di casa )...
Scrive Ghirelli:" Chino sul foglio bianco come un grande artigiano
don Salvatore si isola dal frastuono delle gazzette e dei salotti,
dedicandosi piuttosto a portare ad estrema perfezione uno strumento
personale che non somiglia a nessun altro, il vernacolo, mediato si dalla
realtà popolare ma filtrato attraverso esperienze altamente sofisticate,
che vanno dai lirici greci dell'epoca di Saffo, all'opera buffa dell'epoca
di Paisiello, passando per la narrativa del Cortese e del Basile. La
fusione che egli realizza tra la struttura colta del suo dialetto e la
tradizione parlata attinge la perfezione nei versi delle Ariette e delle
Canzoni nuove, dove la parola si libera " in un aere musicale "e
appare" disposta a vivere per ritmi e metri in una trepidantissima
aura di suggerimenti ".
Citiamo Alberto Consiglio: "Salvatore Di Giacomo è stato studiato
dai massimi cervelli degli ultimi tre quarti di secolo. Sulla sua poesia
si è esercitata l'analisi dei maggiori critici italiani: da Croce a
Russo, da De Robertis a Borgese, da Vinciguerra a Flora. Tra il primo ed
il secondo decennio del secolo, era di moda comporre delle tesi di laurea
sulla poesia di Salvatore Di Giacomo. Di questo sottile lirico, si sono
occupati largamente anche critici e traduttori stranieri".
...e Max Vajro:..."Luigi Russo - che sul poeta aveva scritto nel '21
uno stupendo saggio - lo trovò intabarrato in un vecchio scialle,
incorniciato da un fazzoletto popolano la bellissima testa". Il poeta
disse
"Croce sa come mi sono ridotto ?"; e Croce, dimenticando
l'episodio di sette anni prima (durante i quali non si erano mai più
incontrati) sentì una ondata di antico affetto mai spento, e fece
chiedere da sua moglie ad Elisa se poteva recarsi dall'amico morente. Lo
racconta egli stesso:" Lo trovai che si era dato a leggere, per
passare il tempo, ogni sorta di romanzi, dei più puerili, e aveva
rinunziato a scrivere. Parlammo di lui e dei tempi andati: non feci
allusioni a cose politiche. La conversazione si svolse come se continuasse
quelle solite tra noi. Gli detti buon animo, cercai di persuaderlo che si
sarebbe ristabilito. Quando lo lasciai, e noi ci trattenemmo ancora un po
con sua moglie, mentre stavamo per andar via ricomparve sulla porta della
sua stanza, in piedi, sorridente, come per la sorpresa che ci faceva e per
la prova che aveva data a se stesso del suo non del tutto esausto vigore,
e ci salutò ancora sull'uscio".
Salvatore di Giacomo morì il 4 Aprile del 1934 nella sua casa di via S.
Pasquale dove era andato ad abitare due anni prima: e dove nel 1984 fu
apposta una lapide. La moglie gli sopravviverà per un trentennio, negli
ultimi anni svanendo tra i ricordi: un fedele amico la trovò che
imboccava di cibo un ritratto di gentiluomo del Settecento appeso sul
divano, ricordando nella mente confusa l'amore del suo Salvatore per
quelle figure in parrucca rendendo a lui un omaggio trasversale di
tenerezza. E quando questo si seppe, nessuno ironizzò sulla patetica cura
che la vecchia Signora prendeva di quell'ignoto, che a lei vagamente
riportava le parole del suo Compagno, durante le ore al tavolino sotto la
lampada, tra i cari libri e gli echi di Cimarosa...
E' stato notato che in tutta la produzione
di Di Giacomo la parola: NAPOLI
ricorre soltanto tre volte: come se avesse voluto tacere il nome della sua
amante preferita per profonda devozione ed infinito rispetto...e forse
questo deve essere considerato il suo "lascito"... l'amore,
l'infinito amore per la sua città e per gli uomini, che come Lui, ne
hanno reso possibile la grandezza.
Salvatore di Giacomo e la canzone
Nel 1882 la canzone napoletana incontra colui che le darà il vigore
necessario a diventare una vera e propria forma d'arte. La grande
sensibilità e l'infinita cultura sono il tavolo da lavoro del grande
artigiano della poesia, Egli sapientemente fonde la tradizione popolare e
le nuove tendenze di lessico dialettale traendone una forma nuova,
artisticamente evoluta; non scrive finalizzando il verso alla eventuale
musica poiché essa ne è già parte integrante ed indissolubile. La
composizione musicale nasce dalla poesia di Di Giacomo in modo spontaneo,
felice, ovviamente però questa nascita sottende una sottile sintonia con
la sensibilità ed anche il "mestiere" del compositore: la
cantabilità del tema principale, l'arguta, e allo stesso tempo, semplice
costruzione armonica, lo spessore lirico dei versi e, quella che oggi si
definisce "orecchiabilità", forniscono le basi per la
produzione di brani che una volta ascoltati restano imprigionati nel
profondo emotivo e riemergono per strappare un attimo di commozione
essendo, anche, facilmente ricollegabili a particolari momenti della vita
di ognuno. L'intensità, la ricchezza espositiva ed evocativa di Di
Giacomo trovarono in Pasquale Mario Costa il perfetto " traduttore in
musica ". Costa musicò, con impegno ed amore, ben 22 poesie del
nostro Poeta e mai nessuna di esse risentì di una qualche differenza di
livello qualitativo; essendo molto amici, i due hanno avuto modo di
conoscersi a fondo e, sicuramente senza calcolo, hanno trasposto il loro
affetto amicale e la reciproca stima nella produzione di capolavori che
sono ormai nella storia della musica e non soltanto napoletana. Tra gli
altri musicisti che hanno" vestito" di suoni il lavoro di Di
Giacomo, vanno senz'altro ricordati: De Leva, Di Capua, Gambardella, E.A.Mario,
Nardella, Nutìle, Tosti e Valente... per citare i maggiori.... Artisti e
compositori di grande professionalità e sensibilità.
L'argomento principe della poesia di Di Giacomo è l'amore, quello per la
Donna, quello della madre, quello universale, quello funzionale ai
rapporti interpersonali; ma anche la miseria, l'arte d'arrangiarsi tipica
di Napoli, la problematica legata alla giustizia applicata ai ceti meno
abbienti; i ritratti di personaggi carismatici e storici e la storia
stessa; vengono affrontati dal Nostro con maestria e padronanza assoluta,
competenza profonda e grande passione. Era solito dire che si occupava di:
"certe cose antiche" l'artista che sapeva dipingere con la
parola e non usava mai dire - poesia - parlando di se stesso o delle sue
opere.
Mi piace citare da: "Storia della canzone Napoletana dal 1400 al
1900" di Sebastiano di Massa, Fausto Fiorentino Editore Napoli 1961:
"La rinascita della canzone napoletana, dopo il 1860, non si sarebbe
mai avverata in modo così vigoroso ed originale se un poeta non avesse
convogliato ed amalgamato, con la eccezionale sua sensibilità, gli
elementi tradizionali del canto e lo spirito del popolo del suo tempo,
alla cui vita intensamente partecipò. La ineguagliata canzone di
Salvatore di Giacomo ebbe a suscitare il risveglio di altre energie, nel
campo poetico ed in quello musicale che concorsero a dar lustro a questa
forma d'arte tutta nostra. Gradatamente il di Giacomo acquisisce nuovi
elementi al suo canto, e abbandona gli schemi nei quali la recente
tradizione aveva costretto mortificandolo, il canto popolaresco. Uno è
l'elemento culturale, attraverso il quale il canto nuovo viene ricollegato
ai canti popolari tradizionali di Napoli e della Campania ed anche di
altre regioni. L'altro elemento è costituito dalla partecipazione del
poeta alla vita del popolo della sua città, vita particolarmente
caratteristica di quegli anni. Questi elementi di natura culturale ed
esterna trovano la scintilla, che li ravviva e che dà novità di spirito
e di forma alla canzone, nella sensibilità di Salvatore di
Giacomo".
Con Salvatore di Giacomo, come scrive Vincenzo Valente, la canzone
"fu un miracolo di compatibilità fra urgenza di canto e
purificazione dalle scorie del facile verseggiare" .Poeta, storico,
letterato, studioso, giornalista, bibliotecario, creò una produzione di
versi per la musica con una valenza artistica di grande respiro. Ebbe in
vita numerosi riconoscimenti, la sua opera fu tradotta in diverse lingue.
Verista, lirico, realista, soggettivo, aulico, per noi ha poca importanza.
La sua produzione legata alla canzone si muove spesso da un colore
all'altro senza particolari discriminanti ma con un suo inconfondibile
stile aristocratico. Il Croce lo considera:... "uno dei rari poeti
schietti dei tempi nostri... Temperamento amoroso, malinconico, triste ed
anche passionale, amaro e tragico"....e Pasquale Scialò: ..."Di
Giacomo rappresenta il ceto intellettuale che cerca nel vernacolo una
verginità espressiva diversa da quella dei moduli stantii degli
accademici. Non a caso infatti l' Accademia dei - filopadriti - lo attacca
per le sue innovazioni all'interno del dialetto napoletano. Il poeta nei
versi per la canzone sfodera spesso una carica popolaresca e insieme
colta, di grande impatto. E' impossibile elencare i versi delle oltre 250
canzoni fino ad ora accertate, musicate in un arco di tempo che va dal
1882, con" e ghiammoncenne mè !" su musica di Mario Costa, fino
al 1978 con
" Addio canzone " su musica di Jacopo Napoli. I suoi versi per
la musica mostrano sempre una disponibilità ai vari generi legati alla
canzone: da quello lirico a quello più popolare dai cupi toni drammatici,
fino ad arrivare a quella sonorità delle ariette nelle quali egli tende a
un superamento della forma stessa della canzone". Infine Vittorio
Viviani scrive :"La produzione di S. Di Giacomo era tesa a perseguire
soggettivamente quell'ideale che purifica e corregge mediante la forma il
reale con una di tendenza verso l'infinito e l'universale". |