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'A scola mia

Di: Vincenzo Giandomenico

Vincenzo Giandomenico nacque nel popoloso quartiere della Pignasecca a Napoli il 16 maggio 1922; ancora ragazzino frequentava la "Galleria Umberto I" fulcro dell'arte partenopea dove conobbe tantissimi poeti che gli iniettarono nelle vene quell'amore per la poesia e la canzone che già, naturalmente egli possedeva fu allievo di Raffaele Viviani  che fu anche il suo riferimento artistico. 

Vincenzo Giandomenico è stato un autore al quale va il merito di conservare nelle sue composizioni un contenuto espressivo che unisce metrica e rima senza nulla togliere alla spontanietà ed alla bellezza dei versi. Grazie alla sua vena poetica, felice ed incisiva, egli ha saputo tratteggiare bozzetti di vita popolare con sorprendente armoniosità, arricchendoli di particolari tali da rendere vivi e naturali le situazioni ed i personaggi più disparati. 

Ha vinto oltre venticinque premi A Procida, come a Benevento; a Ischia come a Napoli; a Paestum come a Roma.

Giandomenico nella sua semplicità riesce a far entrare il lettore nell’argomento, come meglio crede.

Nel corso dei miei anni ricordo di aver letto per imparare a scrivere il napoletano spesso poesie di qualsiasi tendenza. Da Russo a Di Giacomo, da Bovio a Murolo, da Capurro a Eduardo De Filippo, ecc… Tra tutte queste poesie, oggi ho sotto gi occhi la più bella sia sotto l’aspetto formale, sia di contenuto universale. Sono convinto che appunto in ciò consista la grande poesia. La lirica che esaminiamo ha un tema molto sfruttato sia dalla poesia che dalla canzone napoletane. La più celebre di tutte è senza dubbio  «Serenatela a ‘na cumpagna ‘e scola»

Scritta da Michele Galdieri per la musica di Bonavolontà, tanto per citarne una; però nessuna, tra queste che hanno avuto maggior fortuna, riesce a portare, gioiosamente a termine, il connubio tra contenuto e forma.

“ ‘A Scola mia” non si adagia soltanto sulla realizzazione, ma cerca il ritmo di “Barcarola”, quel ritmo con il quale nascevano, mentre tra un bicchiere di vino e una quartina di versi, a giro (cioè una quartina di versi a persona), i primi canti accompagnati dal “Colascione” uno strumento musicale con la forma del mandolino, ma gigante.

Se le “Cantine” (negozi di vendita di vino) ci narrerebbero la storia di “’E lavannare d’’o Vommero” del 1200; di “Michelammà”, attribuita a Salvator Rosa;oppure di “No pulce” e “Fenesta vascia” conosceremmo la storia de “Lu cunto de li cunti”.

(Originale)                                                 (Versione in lingua italiana)

“Io songo quase quase analfabeta

(Io sono quasi quasi analfabeta)

pecchè nisciuno a’ scola m’ha mannato,

(perché nessuno mi ha mandato a scuola)

mò me songo fissato a fa ‘o pueta,

(ora mi son fissato di voler fare il poeta)

songo ‘gnurante e faccio ‘o   letterato”.

(sono ignorante e faccio il letterato)

Le parole sono così sincere e così potentemente efficaci che il Giandomenico riesce a rievocare, forse senza volerlo o volendolo espressamente, lo stato culturale di molti cantori napoletani, i quali dettavano i versi ad amici compiacenti che li scrivevano per  loro.

“Nun è che io me sento prufessore,

(Non è che io mi senta professore)

p’ammore ‘e Dio!  Me voglio lusingà?

(per amor di Dio! Mi voglio lusingare?)

‘O vierze si  m’ ‘o scrive chistu core

(Il verso me lo scrive questo cuore)

nun c’è bisogno ‘e l’università”.

(non c’è bisogno di essere colto)

Il poeta tocca la corda del sentimento e le sue parole sono di una semplicità e di una forza che parlano al cuore. Il cuore mi detta i versi, o signori, — egli dice — il cuore che non ha necessità di frequentare scuole e studiare per giungere all’università; il cuore che conosce il vero sentimento di bene va a scuola che dimora sui marciapiedi, nei vicoli senza sole, sempre più bui, quei vicoli che non lo conoscono il sole, non lo hanno mai visto.

“ ‘E viche songo state ‘a scola mia,

(I vicolo son stati la mia scuola)

‘e prufessore ‘a gente che stà ccà,

(i professori la gente che vi abita)

aggiu campato sempe ‘n miez’a via

(ho vissuto sempre in mezzo alla strada)

scassanno tutt’e lastre d"a città”.

(rompendo tutti i vetri della città)

Ho detto in principio che la poesia assolve al suo dovere di cantata in versi con una mirabile coerenza. Ogni concetto trova il suo sviluppo naturale in quello che segue. Tutto ciò che il Giandomenico dice o ha detto doveva essere detto e non si poteva né aggiungere p togliere niente di quanto egli ha espresso.

La poesia parla dello spirito napoletano e spiega in versi il pensiero di molti napoletani, che riescono, pur nella miseria più nera, ad inventarsi di vendere l’aria di Napoli chiusa in una scatolina di latta; e gli inventori più coraggiosi sono proprio quelli che hanno frequentato o frequentano la scuola sul marciapiede o nei vicoli che non conoscono il sole.

Mi sovviene una struggente poesia di Libero Bovio “’A maestrina”pensando ai vicoli della Speranzella, o di San Biagio de’ librai; anche perché l’autore è nato e cresciuto nel quartiere della Pignasecca, dove ho trascorso la mia fanciullezza e per questo conosco e come se li conosco.

All’angolo tra via della Speranzella e via Pasquale Scura, proprio all’angolo, andando  verso la salita di Pasquale scura, c’era la pizzeria di Peppino Fiorelli, l’autore di tante celebri canzoni, dove la sera si davano appuntamento gli autori di canzoni napoletane e poeti; e dove anche noi ragazzi, magari per comprare solo una crocchetta di patate (‘o panzarotto) perché non avevamo soldi abbastanza per una pizza anche divisa in quattro. E, forse, ci siamo anche incontrati da Fiorelli, qualche volta, ma lui aveva dieci anni più di me e quindi sono certo di non aver avuto l’onore di conoscerlo, oppure l’avrò conosciuto, ma lo ricorderei, alla redazione del “Posillipo” il quindicinale di Amedeo Greco, un foglio che mostrava con lo stesso amore opere di giovanissimi e di Pacifico Vento e di Tommaso De Filippis, e di Giovanni De Caro.

“C’ ‘ a mazza e pivize, ‘a purtuvallare, 

(con un bastone e pirollo assottigliato alle punte perché lo si potesse colpire bene e poi batterlo e farlo arrivare il più lontano possibile, era come giocare a baseball)

c’ ‘o strùmmelo, currenno p’a marina,  

(con la trottola – un blocco di legno a forma d’imbuto,)

tiravo ‘a rezza ‘nziem ’e marenare

(cui si attorcigliava intorno un filo di spago e poi si lan-(ciava ad un punto stabilito, un cerchio fatto sul terreno per vedere chilo centrava e chi ci riusciva vinceva)

criscenne ‘nterr’a rena ‘e margellina.  

Cu ‘e tramme io tenevo abbunamente 

(col trama avevo l’abbonamento)

Cu’ abilità io lle saglievo ‘ncuollo

(con un salto mi aggrappavo)

Si’ o fatturino me teneva mente

(se il fattorino si accorgeva di me)

Io pè dispietto  lle  scappavo ‘o trollo”. 

(io per dispetto gli abbassavo il Trollo)

La poesia non parla però del buon senso che dovrebbero avere i ragazzi; e tuttavia non è un semplice ragionamento, perché si svolge attraverso immagini bellissime: il ragazzo che rincorre il tram, vi si aggrappa con un salto da scimmia e se il fattorino lo vede e vuole scacciarlo ecco che afferra la corda che regge il trollo e scappa.

“Pè tutte chesti cose che facevo

(Per tutte queste cose che facevo)

‘a gente spisso ‘iastemmava ‘e muorte

(la gente spesso mi bestemmiava i morti)

io m’arraggiavo e spisso nce chiagnevo  

(io m’arrabbiavo e spesso ci piangevo)

pensanno a mamma mia che m’era morta. 

(pensando a mamma mia ch’era morta.)

 

‘E viche songo state ‘a scola mia,

(Sì, i vicoli son stati la mia scuola,)

c’’o popolo me so laureato

(col popolo mi sono laureato)

pirciò si mò ve scrivo na puisia

(perciò se adesso vi scrivo una poesia)

dint’a sti viche me ll’aggiu ‘mparato”.

(dentro a questi vicoli l’ho imparata.)

Penso che pochi avrebbero saputo, non parlo dei poeti di oggi che non conoscono appieno la realtà quotidiana, abituati come sono alle comodità più avanzate, narrare con maggior vivezza d’immagini reali, vive e palpitanti, una storia che sigilla un’epoca e scolpisce nel cemento un pezzo della storia ormai scomparsa. Ritorneremo ancora a parlare di questo Poeta non osannato nell’universo internet, perciò grande, morto nella sua città il 5 maggio 1993. Mi auguro soltanto che la formattazione regga.

Reno Bromuro

 

 

 

 

 

 

 

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