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Risveglio

Di: Federico Guerrini

Cammino per la strada

luci gialle fosforescenti,

calpestando lattine vuote, gridando

alla gente, mordendo capelli per

vedere se sono capace

di innamorarmi ancora.

Per rispondere a questa domanda, bisognerebbe naturalmente riflettere intorno alla storia della vita dell’autore cui non si sa niente o intorno alla conoscenza e alle sue letture e non soltanto della nostra. Tale storia dovrebbe dimostrare che le opere letterarie sono sempre scritte nel linguaggio parlato. Ed è proprio questo interrogativo che spinse gli umanisti allo studio del nuovo, fenomeno che occorre in tutte quante le epoche e si può dire per tutte le arti.

Il Duecento e il Trecento avevano dato un grande incremento alla produzione volgare e anche questo era stato una novità rispetto ai secoli del Medio Evo, durante i quali gli scrittori avevano sempre usato un linguaggio grossolano, lontanissimo dalla purezza e dall'eleganza classica, fini alla rivoluzione dantesca. Da allora, verso la fine del Trecento e sul principio del Quattrocento, era ritornato negli uomini l'amore per lo studio al quale cominciavano a dedicarsi anche i laici e naturalmente questi studi si rivolgevano in particolar modo a quei grandi autori che fin allora erano rimasti chiusi nelle biblioteche dei conventi, ma già cominciavano a diventare patrimonio di un maggior numero di persone che scoprivano in loro bellezze meravigliose, eleganza e musicalità quali non si trovavano nella più gran parte degli autori che avevano reso illustre il linguaggio poetico italiano.

Tutta la storia della letteratura sta a dimostrare la gravita dell'errore in cui caddero gli scrittori del tempo; invece, i grandi scrittori greci, Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide, Pindaro, Saffo, Senofonte, Fiatone, Tucidide, Luciano scrissero nella lingua parlata e i loro libri ebbero una grande risonanza popolare che assicurò loro l'eternità. Demostene e Cicerone parlavano alla folla che accorreva ad ascoltarli nella lingua della stessa folla, la quale perciò poteva immediatamente rendersi conto non solo delle cose che dicevano ma anche del modo con cui le dicevano. Se avessero parlato in una lingua morta o comunque artificiale, nessuno sarebbe andato ad ascoltarli. Il grande fascino che esercitano ancora oggi su di noi le poesie di Catullo e di Orazio e la prosa di Cesare e di Tito Livio è fondato soprattutto sul fatto che essi parlarono mirabilmente la lingua della loro Roma e seppero usarla nei loro scritti con meravigliosa semplicità, spontaneità e naturalezza. Fu Dante che comprese questa verità, ecco perché le sue opere sono sempre vive e lo saranno in eterno. Noi sappiamo che, quand'egli concepì la mirabile visione, meditando sull'altezza del soggetto, pensò da prima che sarebbe stato necessario esprimerlo nello stile tragico, ossia nella lingua latina; poi l'istinto poetico prepotentissimo che era in lui gli fece capire che avrebbe commesso un gravissimo sproposito. Così nacque la Divina Commedia, scritta nel più puro, nel più vivo linguaggio della plebe fiorentina, comprensibile non solo all'orecchio dei fiorentini ma di tutti gli italiani, tanto che quell'opera divenne popolare fin dal suo primo apparire e tutti ,compresero di essere davanti a un capolavoro.

Dunque la lingua letteraria è la lingua parlata. A formare il letterato concorre indubbiamente lo studio e, prima di tutto, l'esperienza formata sui classici greci e latini. Questi sono i maestri di tutti coloro che vogliono scrivere secondo le leggi dell'arte; ma lo studio non deve portare all'imitazione pura e semplice.

Federico Guerrini sa che l'artista è un creatore e un interprete della coscienza del popolo e dei tempi nei quali vive. Lo strumento quindi di cui deve servirsi è la lingua del suo popolo, nella quale egli parla e per mezzo della quale solo può farsi intendere da coloro di cui è interprete.

     Mentre cammina per la strada egli ascolta, forse anche inconsciamente, i passanti e s’impadronisce della lingua parlata perché vuole essere capito e compreso.

Reno Bromuro

 

 

 

 

 

 

 

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