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Custodes templi

Di: Francesco Perono Cacciafoco

Francesco Perono Cacciafoco, è piemontese, vive ad Acqui Terme (AL).

E’ studente universitario presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Pisa, ove collabora con la Cattedra di Storia greca del Dipartimento di Scienze storiche del Mondo Antico.

Ha diretto - con Walter Zollino - il foglio letterario trimestrale "Teatro Vocali" edito da Solinum di Castellazzo Bormida – AL, ed è collaboratore della rivista letteraria semestrale internazionale "La Clessidra" (Edizioni Joker, Novi Ligure - AL).

E' autore di tre saggi: uno scritto sull'"Arte dei Calligrammi nella Letteratura universale"; un breve saggio sulle "Fetes galantes" di Paul Verlaine; un saggio piuttosto esteso sull'origine della popolazione ellenica dei Dori nella Grecia preistorica.

Ha pubblicato, in tre anni, tre raccolte poetiche. E' membro della Giuria letteraria del Concorso nazionale di Poesia e Narrativa "Guido Gozzano", in Terzo (AL).  Ha tradotto molti poeti simbolisti francesi e sta lavorando ad una traduzione integrale dei "Poetae novelli".

Ha pubblicato con Lalli Editore in Poggibonsi, le poesie: 1999 "Giorni e giorni e giorni", 2000 "Blues senza ritmo"; 2001 "Celidonia"

La poesia che vi presento oggi si svolge in pochi versi con una mirabile coerenza. Ogni concetto trova il suo sviluppo naturale in quello che segue. Tutto ciò che il Perono Cacciafoco ha detto doveva esser detto e non si poteva dire né più né meno di quanto egli ha espresso. La poesia parla al buon senso degli umani; e tuttavia non è un semplice ragionamento, perché si svolge attraverso ad immagini bellissime: l'invocazione alla

“… tavola di San Quintino” dove “vedevo le mani ancora graffiate/i cenci del tempo breve” riferito alla coscienza degli uomini affinché trovino la più serena e classica espressione del sentimento umano:

"Sulla tavola di San Quintino

vedevo le mani ancora graffiate

i cenci del tempo breve”.

II Poeta giunge trasognato alla visione dei carcerati, sempre a fare le medesime cose e sempre alla stessa ora; e davanti ai suoi occhi continuano a mostrarsi, come un quadro attaccato al muro, quelle mani graffiate e i cenci del tempo breve.

Nella prima strofa è celebrato quel luogo dov'egli contempla «le mani graffiate sulla tavola del San Quintino». A lui pare che meditando su quanto accade in quei momenti, è l’avvicinarsi della morte; là dove forse tornerà ancora un giorno col suo pensiero, e volgendo intorno gli occhi per cercare una via d’uscita alla tremenda esistenza di quei condannati e, vedendo invece le mani graffiate e i cenci del tempo breve, qualcuno si sentirà commosso e spargerà una lacrima:

“che taglia i fossi / le regole

senza più legni Non so

se c'erano notizie di grida”

Qui la fantasia del poeta ritorna naturalmente all'antica visione; quando chino sui libri leggendo, forse Petrarca, vede una pioggia di fiori cadere sul libro aperto, come se il testo fosse il grembo pronto a raccoglierli; ma le mani e le bende non possono sostituirsi ai fiori e allora ricomincia il pianto tragico per la situazione di quegli esseri e vorrebbe “regole senza più legni, senza più notizie gridate”. 

E' inutile tentare qui di sostituire la prosa alla descrizione del poeta: sarebbe un deturpare irrimediabilmente la stupenda opera d'arte. Dopo quella visione, sempre il Perono Cacciafoco conserverà nel cuore il triste ricordo, unito a una specie di sgomento. Da quel momento San Quintino, la mani graffiate, i cenci del tempo, le regole senza più legni, le notizie senza più grida, cammineranno con lui.

Questa breve esposizione della poesia non dice nulla di concreto. Bisogna assolutamente leggerla, fermarsi sopra ciascun verso, sopra ciascuna parola e considerarla com’è, ossia come il poeta l'ha concepita e creata. Ora, leggendo, noi abbiamo davanti agli occhi l'uomo vivo vero e reale che ha vissuto, seppure solo nella sua mente, un determinato momento della sua esistenza e ha saputo con la sua fantasia coglierlo, valutarlo in tutta la sua pienezza ed esprimerlo con una straordinaria vivacità in una forma assolutamente adeguata alla circostanza. Nello stesso tempo noi abbiamo davanti agli occhi una cella del carcere, viva, vera e reale, anche se trasfigurata dalla fantasia poetica e trasformata in quello che realmente è.

“e privilegi / Un uomo saggio era,

certo, sul suo dito l'anello del Santo

In fede non sembrava più chiaro

se l'erba fosse ancora nel prato

se fossi tu ancora nel cuore sicura"

Insieme col poeta e con i carcerati, vivi e reali, noi vediamo la cella, creata con pochissimi tocchi, senza nominarla, ma rappresentata con mirabile evidenza. E' anche vero che il Perono Cacciafoco in questa poesia è un meraviglioso pittore innamorato del suo modello; ed è anche vero che è intento più a rappresentarlo che a possederlo. Però bisogna riconoscere che la cella  non è semplicemente un modello, ma è la dominatrice della scena, la padrona dell'animo del poeta e la sovrana che le fa corona. L'artista ama questo modello non solamente come pittore ma come uomo, perché la passione che introduce nelle sue parole è sentimento profondamente umano e impegna tutto quanto l'essere: sensi, mente e cuore, e ne soffre, noi la vediamo questa sofferenza dipinta sul suo volto, sentiamo il suo dolore che staccandosi dai versi penetra in noi come cento coltelli affilati. E se è vero che il Poeta qui è più intento a rappresentare il modello che non a possederlo, diremo che ciò nasce dal fatto che quella immagine gli è apparsa così terribilmente angosciante, che subito si è accorto di potere in qualche modo sperare di denunciare questo stato e raggiunge quel posto che

“… non sembrava più chiaro

se l'erba fosse ancora nel prato

se fossi tu ancora nel cuore sicura.

Era già un possesso vero la speranza che la persona amata fosse ancora nel cuore sicura di contemplare e il deliziarsi della contemplazione dell’erba del prato ancora e verde.

E’ una chiusa ispirata a una modestia che può sembrare quasi incredibile se si pensa che la vanità non è certo il minor peccato di un artista; eppure è modestia profondamente sincera: è la melanconia che, abbraccia l'opera d'arte, resta sempre nell'animo del grande artista, non mai sufficientemente pago dell'opera propria.  


Se non sono stato chiaro ditemelo, così mi aiuterete ad esserlo in futuro. So che questo gioiello poetico si riferisce alla visita del Santo di Bergamo, del Papa Buono, al carcere di Regina Coeli a Roma, ma sarebbe stato troppo facile restringere in campo vasto in cui la lirica spazia: l’Universo carcerario.


Reno Bromuro

 

 

 

 

 

 

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