«Nero,
burrascoso. Minaccioso ci osserva.
Pronto a
ghermirci».
L'inizio
della poesia ha un verso lapidario che potrebbe bastare a farci percepire,
capire la minaccia del cielo, già «pronto a ghermirci».
Se non
l'avessi letta prima dell'undici settembre direi fosse stata scritta dopo
la tragedia. Invece ancora una volta devo accettare l'affermazione di
Nietzsche: «Il poeta precorre i tempi per questo è considerato Vate,
annuncia all'uomo comune quello che lui vede in anticipo e l'uomo comune
riesce a vedere solo quando il fatto si è avverato».
Il poeta
vede, nel cielo minaccioso, «nuove prede votate alla sofferenza» ma non
si arrende. E' una tentazione per il lettore, perché la musicalità, fin
dalla prima lettura, diventa già famosa alle nostre orecchie. Le parole
sono entrate nell'anima e le sentiamo moltiplicarsi all'infinito come un
coro. Dio, sembra di trovarsi davanti ad una grande orchestra che esegue
in coro da »IL NABUCCO» di Verdi! e finito il coro, veniamo ripresi e
incatenati dai versi che ci danzano nel cervello e nell'anima, a volte
come ballerini di «Flamenco», altre come ballerini classici.
In poche
parole si tratta di un pezzo bellissimo, preghiera e lamento insieme, e al
poeta pare cosa impossibile che « in quel cercar di stare in piedi sotto
il cielo», sia un miracolo sprizzato dalle sue mani. Miracolo scaturito
da quelle immagini dipinte con le parole e che potesse trovare tanta
armonia fino a sentirsi pago.
Riflettendo
su queste cose, Ricardo Antonio Piana non sente più il bisogno di uscire
e cercare altre vie. La musicalità della sua lirica lo ha riconciliato
con la vita perché ha capito che, necessariamente deve:
«Avanzare,
contro ogni ostacolo.
A denti
stretti, di dolore,
di rabbia e
di paura».
La
conclusione di una tale meditazione lo fa sentire in pace con sé stesso,
sta compiendo il suo dovere sulla terra (come afferma Mazzini, ne: «I
Doveri dell'Uomo» ); si sente tentato di abbracciare ogni cosa vivente
sulla terra, che gli passa vicino, oppure che avverte soltanto.
A me questa
poesia è intimamente piaciuta e, tutte le volte che la rileggo, mi sento
colpito. Suppongo che questo derivi, oltre che dalla scioltezza e
spontaneità dei versi, dalla profonda umanità che la pervade
interamente. Credo che si tratti di un'umanità tutta italiana. Il nostro
popolo non sa odiare. Il Poeta sente che, gli uomini, anche quelli così
diversi di lingua e di costume, non riescono ad accordarsi e a liberarsi
dall'abborrita tirannide.
«Franare
sotto l'ingiuria
del tempo.
Dell'amore.
Fino alla
morte.
Ultimo dei
sollievi»
A me pare
che proprio qui il Piana abbia anticipato i tempi. Infatti la storia ci
dice oggi che ciò è avvenuto l'undici settembre 2001. Quel giorno e non
un altro giorno il cielo si è fatto minaccioso e, attraverso quello
avvenimento, l'uomo ha visto «Franare sotto l'ingiuria del tempo», il
suo sogno: vedere un giorno, camminare uno al fianco dell'atro
sottobraccio, come fratelli, figli dello stesso padre.
Aggiungo
solo che, se il pensiero qui espresso da Ricardo Antonio Piana fosse
potuto diventare pensiero e aspirazione di tutti i popoli fin dall'epoca
in cui il poeta ha scritto queste parole, la storia del mondo avrebbe
potuto avere uno svolgimento ben diverso.