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IL VENDITORE DI STORIE

Di Renato Milleri (Remil)

 

 

 

Se ne stava tranquillo
come un giorno di Natale.
Seduto per terra fumava
fumava
e faceva grandi anelli di fumo.

 

"Ecco i cerchi,
i grandi cerchi della vita.
Qui dentro vivono le mie storie.
Io le vendo, signori,
anche per un sorriso"

 

Era un venditore di storie
come ce ne sono tanti.
Aveva i capelli lunghi,
molto lunghi,
ed anche la barba era lunga.
Non piangeva
ma soprattutto non rideva.
Non aveva voglia di ridere,
guardava solo il volto
e poi gli occhi dei passanti.

 

"Sono un venditore di storie, diceva,
chi le vuole?
Non abbiate paura di me,
non faccio del male a nessuno io.
Sono un uomo,
non sono la vostra coscienza
e nemmeno vostro padre.
Io vendo storie,
storie vere s'intende,
ma anche possibili.
Ne ho per tutti i gusti,
posso farle  su misura
perché conosco il segreto
dei vostri desideri.
So come siete fatti
e quello che pensate.
Conosco le vostre donne
quando sono femmine.
Conosco le vostre paure
quando perdete una battaglia
od una guerra.
Io vendo vita, signori,
non fumo
come i quotidiani che leggete"

 

Il venditore di storie
s'era chinato come se soffrisse,
prese a tossire e a ridacchiare
e si accendeva una sigaretta dopo l'altra.
Sputava ora a destra ora a sinistra
ed anche al centro della strada
nonostante la gente
avesse cominciato a pressarlo.
Si leccava
due grosse piaghe sui polsi,
le vene del collo sembravano corde
e gli occhi due ferite.

 

"Guardatemi,
queste sono ferite che non fanno male.
Sono ferite d'amore
che voi non potete conoscere
poiché non potreste sopportarle
e morireste.
Ma non racconterò questa storia
perché è la mia
e il prezzo che chiederei
non potreste pagarlo.
Vorrei raccontare invece
di chi seduce le vostre mogli,
di chi modifica il cervello
degli uomini sulla terra,
di chi distrugge i vostri figli
penetrando le loro menti
per renderle qualunquiste
e mai appagate.
Le mie storie, signori
vivono l'aria
di queste vostre città malate,
l'aria d'impossibili felicità
che vi giocate al gioco della fortuna
ogni giorno
perché sempre
volete qualcosa di più.
Quanto tempo sprecato in piazza
in 100 in 1000 in 10.000
perché soffrite l'aria
dei vostri vuoti
dei silenzi rappresi
del vostro essere niente
in queste città
che avete reso insane
dove muoio ogni giorno
come uomo ridotto
ad unità produttiva
senza più anima
e senza più significato.
E' troppo alto
il prezzo del coraggio
per fare come me
che ho abbandonato tutto
per venire a morire qui
tra voi
per raccontare le storie
che dovrebbero farvi tremare
la mente e il cuore"

 

Le sue parole erano divenute gelide
come l'inverno
e sembrava aspettare un cenno.
D'improvviso cacciò un urlo
e s'accascio' al suolo.
Aveva sulla bocca
una piega amara
e sul volto una maschera
di sangue e fango.
Tutti fuggirono,
solo un bimbo
con una pietosa mano
piena di speranza
accarezzò i suoi lunghi capelli
e restò accanto
al venditore di storie
steso
agonizzante
insanguinato come un vitello
colpito quasi certamente ad una tempia
da un sasso
al centro d'una piazza
di una grande città
in un giorno d'inverno
dell'anno che più vi piace. 

Tratta dalla raccolta: "La nostra città violenta"

Remil

RECENSIONE DI RENO BROMURO

Già mi sono occupato, qualche tempo fa dell’intera opera «La nostra città violenta», che trovo straordinaria sia per contenuto sia per fattura poetica; ma prese singolarmente, le liriche acquistano una proprietà individuale non tutte consone alla collettività poetica dell’intera opera.

Ecco perché, questo «Venditore di storia», porta alla memoria già nel titolo  

«Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere» di Giacomo Leopardi, non per questo ha qualcosa da spartire con l’operetta morale del grande Vate. Nelle operette morali del vate di Recanati affiora una visione più calma e insieme più eroica della vita; perché sono più un libro di filosofia e di poesia: idee e ragionamenti che si trasfigurano di solito in immagini e allegorie, grazie ad una prosa lavoratissima che rinnova modelli antichi, soprattutto i dialoghi di Luciano, con «leggerezza apparente», con soluzioni originali e vivaci che consentono l'alternanza di meditazione e ironia, d’aperture liriche e serrati scambi dialettici; mentre in Remil i versi acquistano forza e determinazione, anche se in maniera lievemente sfocata sulle figure metriche tradizionali che possano essere adoperate dal Millèri, non con l'aderenza facile e franca degli antichi; insomma senz'ombra di profanazione, con quei versi «tagliati con l’accetta», alla Garcia Lorca per intenderci. Esempio ne son questi primi versi del canto:

«Se ne stava tranquillo
come un giorno di Natale.
Seduto per terra fumava
fumava
e faceva grandi anelli di fumo».

 

«Ecco i cerchi,
i grandi cerchi della vita.
Qui dentro vivono le mie storie.
Io le vendo, signori,
anche per un sorriso»

Notate quel «fumava» un verso di tre sillabe ripetuto per dar modo al lettore di vedere con l’immaginazione le volute di fumo dell’aria formare dei cerchi e in questi vedere lo scorrere della vita, proprio perché vi convivono le infinite storie della vita.

Si nota che con una certa ingenuità avverte l'importanza del problema metrico per presentare una lirica che fungesse da cerchio concentrico e, per questo ha osservato che: «nei grandi cerchi della vita/ vivono le sue e l’altrui storie» che vende ai passanti per… un sorriso. Quanta desolazione in questa vendita delle storie per un sorriso! Affiora la solitudine più angosciosa e angosciante, che denuncia, seppure con dolore, l’individualismo imperante della nostra epoca. Rileggere pensieri che ho espresso già nel 1976, nella commedia «L’ultimo uomo»,rappresentata appunto nell’ottobre di quell’anno, nell’interpretazione di Massimo Rigoli, Viviana Buzzòli, mi ha fatto accapponare la pelle, perché ingenuamente, ho creduto che l’uomo fosse cambiato, che si fosse corso incontro per camminare insieme, verso un futuro di pace, invece Remil, mi sbatte in faccia la credulità, il mio attaccamento alla valorizzazione dell’intelletto umano e mi fa vedere il fallimento del mio credo.

Ecco perché affermavo che l’opera completa mostra una faccia collettiva e la lirica isolata, la vera faccia dell’attualità; un’attualità dove regna l’egoismo e l’isolantismo.

«Era un venditore di storie
come ce ne sono tanti.
Aveva i capelli lunghi,
molto lunghi,
ed anche la barba era lunga.
Non piangeva
ma soprattutto non rideva.
Non aveva voglia di ridere,
guardava solo il volto
e poi gli occhi dei passanti».

Ho cercato con tutte le mie capacità intellettive e razionali di approfondire, scavando fino a toccare la radice etimologica, ma questo studio che credevo molto utile mi si è rivelato vuotamente retorico perché mi ha fatto toccare rapidamente l'essenza dello spirito remigano. Infatti, a prima vista, sembra che Remil abbia voluto purificare il suo vocabolario e l'istinto melodico della sua poetica. Insiste nel chiamare il suo manufatto «Prose poetiche» pur sapendo che le sue strofe non danno l’impressione del nudo, ma piuttosto del dispogliato. Esse non sono solamente essenziali, ma mostrano, con misteriose allusioni, le immagini, l'orpello caduto ai loro piedi. In principio, avendo piene le orecchie degli echi della melodia prevertiana, dannunziana e pascoliana o delle variegate melodie simboliste di cui questa poesia è la sentimentale reazione, saremmo tentati di pensare ad un ritmo sincopato.

«Sono un venditore di storie, diceva,
chi le vuole?
Non abbiate paura di me,
non faccio del male a nessuno io.
Sono un uomo,
non sono la vostra coscienza
e nemmeno vostro padre.
Io vendo storie,
storie vere s'intende,
ma anche possibili.
Ne ho per tutti i gusti,
posso farle  su misura
perché conosco il segreto
dei vostri desideri.
So come siete fatti
e quello che pensate.
Conosco le vostre donne
quando sono femmine.
Conosco le vostre paure
quando perdete una battaglia
od una guerra.
Io vendo vita, signori,
non fumo
come i quotidiani che leggete»

La strofe di Remil non può ridursi a formula metrica, ma a volte il verso è stranamente allungato o accorciato in un misterioso procedimento sillabico, che realizza, e forse non a caso, sinanche un tono d’armonia imitativa; ma la preoccupazione formale resta assorbita dalla forza sintetica e dalla sintassi di un rigore classico particolare.

Remil obbedendo ad un suo preciso intento critico vuole puntualizzare che la natura del canto remiliano è puro bisogno di cantare e non solo a proposito di questa determinata poesia, che è la poesia della nostra generazione, della nostra solitudine la stessa poesia cui appartengono i Mallarmé, i Valéry, gli Ungaretti, i Leopardi i Baudelaire e i Prèvert, cui sovrintende il tutto la metrica feroce del Lorca. Mi esprimo convenzionalmente, cioè oscuramente, proprio per farmi capire. Nel bisogno di cantare di un Leopardi o di un Prèvert, della cui razza Millèri è il più recente esempio, il bisogno vero e proprio è costituito di altri bisogni, altre sofferenze: in cima alla montagna delle sofferenze: la solitudine.

«Il venditore di storie
s'era chinato come se soffrisse,
prese a tossire e a ridacchiare
e si accendeva una sigaretta dopo l'altra.
Sputava ora a destra ora a sinistra
ed anche al centro della strada
nonostante la gente
avesse cominciato a pressarlo.
Si leccava
due grosse piaghe sui polsi,
le vene del collo sembravano corde
e gli occhi due ferite».

Sono versi a volte aspri, a volte sordi e velati, dove ci si urta in varii echi, da quelli dei poeti più stanchi e opachi, Martini, Corazzini. Saba e su fino a Leopardi, per ricadere subito… il discorso si pone del tutto diversamente: il canto sovente quasi fiotta in elegia. Dirò anzi che, in Millèri, quelle cadenze sono inavvertitamente preparate a tal segno da parere improvvise, come fossero per un subitaneo moto interno; e nei crepuscolari la poesia è tutta una cadenza, che quasi senti prima ancora che t'arrivino le parole, e ti par di entrare in una stanza nuova.

Già, il nominare e nominare le cose, quell'impressione di gemito che non nasce tanto dai luoghi singolari quanto da tutta la lirica, corrisponde a una conoscenza del mondo; a una presa di possesso dolorante, perciò ancora virtuale. Questo è Remil poeta della vita. Fin qui, di proposito, mi sono tenuto alla parte di ricchezza, alle cose che pure ci sono nella poesia di Remil; e molte più di quelle che io ho potuto dire. D'altra parte il giardino della vita non è un orto, ma un reliquiario, il mondo è tutto sparso di cose alle quali è connessa una memoria, un ricordo: il poeta che passa sembra un rievocatore di cose che accadono in questa «Città violenta» popolata di delusioni, di solitudine, di morte.

«Le sue parole erano divenute gelide
come l'inverno
e sembrava aspettare un cenno.
D'improvviso cacciò un urlo
e s'accascio' al suolo.
Aveva sulla bocca
una piega amara
e sul volto una maschera
di sangue e fango.
Tutti fuggirono,
solo un bimbo
con una pietosa mano
piena di speranza
accarezzò i suoi lunghi capelli
e restò accanto
al venditore di storie
steso
agonizzante
insanguinato come un vitello
colpito quasi certamente ad una tempia
da un sasso
al centro d'una piazza
di una grande città
in un giorno d'inverno
dell'anno che più vi piace».

Infatti, pur facendo salva la modernità di questo poeta romano, vedremo per molti caratteri come la sua poesia sia classica in quanto a purezza e soprattutto ad un equilibrio di elementi costitutivi.

Parlando dello stile di Remil si avverte che esso è andato toccando la propria perfezione per pure leggi interne senza appoggiarsi ai facili incanti del classico, e aggiungerò: Classici per il vigore naturale con cui hanno masticato e fuso le blande influenze del tempo.

La poesia di Remil si potrebbe benissimo accostarla all'epigramma, ma senza nessuna velleità classicistica. Questa poesia che trae argomento e personaggi dall'arte figurativa, che ogni giorno popola le vie della sua «Città violenta»;  ma Remil la tratta senza nessuna velleità classicistica. Come si vede, ampliando il discorso sul classicismo remiliano, elimino l'accenno all'epigramma cui avevo fatto riferimento, e individuo i versi nell'aridità realistica delle immagini che si sovrappongono,come frequenti dissolvenze in apertura e chiusura cinematografiche  stabilendo così un rapporto tra il realismo concreto e carattere della poesia visiva facendo brillare la lirica di luce propria.

Reno Bromuro

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