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Disse allora Nicodèmo, uno di loro, che era venuto precedentemente da Gesù: «La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?». Gv 7 Vs 50-51


Titolo: La coscienza.


Argomenti: Natanaele – Dal seno di chi non crede scaturisce la morte – L’uomo non può dimenticare i giudizi fatti – La nostra colpa si riflette in tutto (Erode) – Il male è parlare in modo autonomo da Dio – Giudicati dalle nostre parole – Nicodemo è la coscienza del gruppo – L’autocondanna dei farisei – I veri ignoranti della legge – La coscienza è un pilota automatico – Le parole inutili fanno rumore – Parlare secondo lo Spirito – Il mondo che parte da noi -


 

18/ Settembre/1983



Luigi: Ci troviamo ai versetti 50 e 51, dove troviamo Nicodemo che parla ai farisei  che già hanno condannato in cuor loro Gesù.

È molto facile accostare questo argomento di Nicodemo con quello di Natanaele che abbiamo affrontato sabato: infatti Natanaele, quando gli viene proposto: “abbiamo trovato il Messia, è Gesù di Nazareth”, risponde prima: “ma da Nazareth può forse venire qualcosa di buono?”, ma quando Filippo gli dice ancora: “vieni e vedi”, lui va, e andando constata.

E per questo Gesù gli rende merito: “ecco un vero israelita, in cui non vi è inganno”.

Ecco, Natanaele si meritò questo riconoscimento proprio perché superò la sua conoscenza, le sue convinzioni, e si mantenne aperto alla voce che lo invitava ad andare a vedere e constatare.

Qui Nicodemo fa la stessa cosa che in quella scena fece Filippo: infatti la sua obiezione ai capi rappresenta un invito ad andare ad ascoltare e vedere.

Ma mentre Natanaele andò e constatò, e a un certo moneto gridò: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”, questi capi no: loro non vanno a vedere, e continuano nella loro superbia.

Abbiamo visto che l’argomento dell’autorità si è ormai concluso, è finito in un cerchio chiuso; cioè, si è concluso con un’autocondanna: avendo giudicato, i capi si sono autogiudicati.

Avendo condannato coloro che ignoravano la Legge, si sono autocondannati: perché in realtà erano proprio loro, ad ignorare la Legge.

Ma ci siamo anche chiesti: questi capi, si sono resi conto? Giudicando, si sono resi conto di essere giudicati? Condannando, si sono sentiti condannati?

Dicendo agli altri che erano ignoranti, si sono scoperti ignoranti?

Abbiamo detto: no.

Questo loro non l’hanno percepito perché, abbiamo visto, per capire, per scoprire questo, bisogna essere nella Luce: bisogna aver trovato la Verità.

Solo nella Verità si vede la Verità; solo nella Luce si vede la Luce.

Quindi questa realtà, i capi non la potevano realizzare, non la potevano riconoscere.

Non la potevano verificare.

Però succede questo fatto: che anche se non possono riconoscere la realtà, essi incominciano a subirne gli effetti.

Cominciamo a subire gli effetti, le conseguenze della loro ignoranza, della loro autocondanna.

E come? Qui vediamo che chi inizia a far loro subire queste conseguenze è proprio uno di loro, Nicodemo.

La cosa salta cioè fuori dal seno stesso del gruppo, dal suo interno.

Anche qui notiamo un accostamento; si era detto che “dal seno di chi crede in ME scaturiranno fiumi di acqua viva”; e cioè, dal seno di chi crede scaturisce lo Spirito, la luce, la Verità.

Ma dal seno di chi non crede, scaturisce la divisione: inizia a scaturire la distruzione, perché la divisione è poi morte.

Allora, dallo stesso seno possono saltare fuori due fatti.

Per capire bene questo, approfondiamo alcuni argomenti.

Riflettiamo anzitutto sul fatto che l’uomo diventa figlio delle sue opere, sul fatto, cioè, che egli subisce le conseguenze delle parole che dice.

Le parole che pronuncia non vengono certo dimenticate; le sue azioni, le scelte che compie, non sono dimenticate: non possono essere, cioè, superate.

Ecco, l’uomo ne diventa figlio, ne resta condizionato; proprio per questo egli non può dimenticare ciò che ha detto, non può dimenticare le cose che lui ha detto, i giudizi che ha dato.

Da solo, lui non può dimenticare: tutto ciò che dice senza tener conto di Dio (senza, cioè, derivarle da Dio), senza ascoltare lo Spirito di Dio (le dice in modo autonomo), lo rende “schiavo di sé”.

Che lui ne sia schiavo, vuol dire che non può dimenticarle; Gesù infatti dice: “chi fa il male ne resta schiavo”.

E se ne è schiavo…eh, quando si è schiavi si dimentica mica il proprio padrone: proprio perché si è subordinati ad esso.

Con questo capiamo che questi capi, avendo giudicato ed avendo maledetto, sono divenuti “figli di questo giudizio e figli di questa maledizione”.

Cioè, non possono più dimenticare questo loro giudizio, questa loro maledizione.

Ma non potendo dimenticare, cosa succede?

Succede che tutti gli avvenimenti successivi loro sono costretti a leggerli/confrontarli con questo giudizio, con queste parole da loro dette.

Vediamo che Erode, dopo aver mandato a morte il Battista, poi a un certo momento se lo vede davanti in …quando si parla di Gesù, lui dice: “è Giovanni risorto!”.

Ecco, la sua colpa si riflette su tutto, gli salta davanti in tutto.

Ecco: quando il nostro parlare non deriva da Dio (è la colpa: separare da Dio), quando non deriva dal Suo Spirito, noi seminiamo il male, dentro di noi.

È il male che ci rende schiavi di sé, e che, quindi, ci impedisce di superarlo, di dimenticarlo.

Non potendolo dimenticare, succede che ogni cosa che ci accada, noi la vediamo sotto quella luce che abbiamo presente, e che, appunto, non possiamo dimenticare.

È facile capire che qui si presenta l’argomento della coscienza.

Dunque: tutte le parole che diciamo entrano nella nostra coscienza; questa coscienza allora, di fronte ad ogni avvenimento, ci ripresenta, ci ripropone le parole che abbiamo detto e i giudizi che abbiamo dato.

Ed è lì che noi cominciamo a subire la contraddizione…perché: “tu che hai giudicato così, guarda! tu che hai maledetto quell’altro, guarda!”.

Ecco, è lì che l’uomo inizia a scoprire che il giudizio che lui ha dato sta ricadendo su di lui.

Lì scopre che la condanna che lui ha fatto sta adesso condannando lui…che la maledizione che ha dato, sta adesso operando su di lui.

Cioè, troviamo la conferma di quanto dice Gesù: “ognuno sarà giudicato dalle parole che avrà detto”.

Ecco, non è Dio, a giudicare: siamo noi stessi a restare giudicati da tutto quanto abbiamo detto e fatto non tenendo conto di Dio.

E il tribunale di questo giudizio è la nostra stessa coscienza…perché essa è la nostra memoria.

Ecco, la coscienza è la memoria di tutte le parole che abbiamo detto, di tutti i giudizi che abbiamo dato.

ora, se queste parole, se questi  giudizi, sono stati “secondo lo spirito di Dio”, allora la coscienza (memoria di_) ci aiuta immensamente: ci aiuta a purificarci sempre più nello Spirito di Dio.

Ma quando le parole e i giudizi non sono stati secondo Dio, la memoria/coscienza ce li ripresenta e ce li mette a confronto con tutti i fatti con cui veniamo a contatto.

A questo punto possiamo capire come Nicodemo rappresenti la coscienza di quel gruppo, la “memoria” di esso…memoria che comincia ad incrinare, a dividere, a creare divisione.

Infatti vedremo che tutto il capitolo si concluderà con: “se ne tornarono ciascuno a casa sua”.

Cioè, si passa dall’unione alla dispersione.

Dico: Nicodemo rappresenta la coscienza del gruppo, coscienza che memorizza, cioè che ripresenta, che ripresenta la Legge…quella Legge in nome della quale essi hanno giudicato: “ignoranti della legge, maledetti”.

Nicodemo dice loro, in sostanza: “ignoranti della legge non siamo forse noi? perché non dice forse la legge che prima di giudicare bisogna ascoltare?”.

Ecco, inizia a ripresentare…siamo agli effetti.

Comincia a ripresentare, a insinuare il dubbio: “noi stiamo trascurando la Legge; noi che affermiamo la Legge, in realtà la stiamo ignorando”.

E quindi: “ma se noi stiamo ignorando la Legge, allora i maledetti siamo noi!”.

Ecco, dico: è l’inizio di questo processo di autocondanna; processo che loro non potevano vedere, appunto perché avevano escluso la Verità, quella Verità che aveva bussato alla loro porta attraverso l’umiltà delle guardie.

Loro non hanno visto la Verità, e adesso non possono quindi capire l’errore che stanno facendo.

Però, adesso, iniziano a sperimentarne le conseguenze…ecco, dovranno toccare con mano che il giudizio errato che hanno dato sulle guardie, su quanto le guardie avevano detto loro, ricade unicamente su loro stessi.

Luigi: I capi qui hanno giudicato secondo la Legge; ma il problema viene loro ripresentato proprio secondo la Legge! Infatti Nicodemo dice: “ma forse la legge non dice che…”.

Essi vengono cioè condotti a constatare che stanno ignorando la Legge.

E quindi diciamo che la lezione della Legge è positiva in questo senso: nel senso che ci autocondanna!

Cioè: nel senso che essa non ci approva.

Non si tratta della voce di Dio, perché la nostra coscienza non funziona mica in modo autonomo.

Se nella nostra vita abbiamo messo Dio al centro, allora la coscienza funziona splendidamente; essa la si può paragonare al pilota automatico: il pilota automatico mantiene la rotta, quindi ogni volta che l’aereo devia dalla rotta, il pilota automatico denuncia lo spostamento.

Ora, se noi seminiamo in noi come fine Dio, ecco che quando deviamo da questo fine la nostra coscienza immediatamente scatta, facendoci notare la deviazione, facendoci notare l’angolatura corretta.

Ecco: quando è orientata a Dio, la nostra coscienza si identifica con Dio.

Ma se abbiamo seminato in noi altro da Dio, qui succede l’autogiudizio: seminando altro, la coscienza ci corregge secondo quest’altro.

Erode che semina la morte di Giovanni Battista, incomincia a vedere tutto secondo  Giovanni Battista.

Qui Nicodemo sta ripresentando la Legge secondo i suoi effetti.

La coscienza, a un certo punto, proprio facendoci vedere tutto secondo quel certo punto di vista che noi abbiamo affermato, finisce con l’autocondannarci: appunto perché ci fa misurare ogni cosa secondo quell’angolatura lì.

Eh, ogni parola inutile (cioè non detta secondo lo Spirito di Dio), noi la paghiamo, cioè ne sentiamo gli effetti.

Ad esempio: Dio non lo conosciamo, però ne sentiamo gli effetti: la passione di assoluto.

Solo se siamo con Dio, possiamo capire la causa , il senso di questi effetti; in caso contrario soltanto li subiamo, senza minimamente capirne l’origine.

Ecco perché bisogna imparare a parlare secondo lo Spirito: perché questo ci rafforza, ci aiuta, e a un certo momento ci libera dall’invasione di tutto quel mondo di rumore che ci disturba.

Luigi: Di fronte, ad esempio, alla tentazione di dire: “senza denaro si fa niente”, io devo opporre: “no, senza Dio, si fa niente”.

Devo cioè imparare a glorificare Dio in tutto; se in tutto devo far conto su Dio, evidentemente non posso più dire: “la salute è tutto”.

Ecco, devo scavalcare tutte quelle ragioni in nome delle quali io mi credo giustificato, e che rappresentano delle autorità, dentro di me.

Parlare “secondo lo Spirito” vuol poi dire riconoscere unicamente l’autorità della verità, della Verità Creatrice di tutto: su di Essa dobbiamo unicamente far conto.

Facendo conto su Dio, ovviamente la nostra vita acquista molta libertà: perché non dipende più da nient’altro.

E tutte le volte che sentiamo la tentazione a farla dipendere da altro, abbiamo la coscienza che scatta: “no, un momento, e Dio dove Lo metto?”.

Quindi, chi ha presente Dio tende in tutto a parlare secondo Dio e quindi ad escludere tutto quel parlare, quello scegliere, in cui conferma le ragioni del mondo, degli "altri"”

Luigi: Se tu noti che un tale sta affermando un’autorità diversa da Dio, vuol dire che hai al centro Dio.

Bisogna pregare sempre, e questo “pregare sempre”, vuol dire guardare sempre Dio; è un lavoro dello Spirito, per cui uno non si accontenta di vivere materialmente.

E il lavoro dello spirito è un lavoro di gioia: perché è un lavoro di partecipazione.

È conferma di vita: è sensazione di vivere.

Vivendo solo sul piano materiale, proviamo proprio la sensazione della morte; se invece viviamo spiritualmente, abbiamo la sensazione della vita, ma vita continua.

Ed è una vita meravigliosa.

Luigi: È meraviglioso vedere come Dio abbia fatto “bussare” la verità alla porta dei capi: tramite le guardie.

E si vede proprio la risposta dell’io orgoglioso, superbo; ma comunque, il bussare della Verità è stupendo.

E se stiamo attenti, scopriamo che la Verità bussa continuamente alla nostra porta.

Tutto è opera di Dio: quindi in tutto è sempre Lui che bussa.

Il problema è che noi possiamo dare queste risposte superbe, risposte che mettono la Verità fuori della nostra anima. Ma se noi facciamo la Verità quando Essa bussa alla nostra porta, Dio ci libera da tutte le nostre colpe, da tutti i nostri sbagli.

Anzi, trasforma addirittura in bene le nostre colpe, tutte le parole inutili che abbiamo detto e che facevano rumore dentro di noi.

Dico: ce le trasforma in forza di unione, in motivo di maggior unione con Sé.

C’è un Salmo che dice: “Io, Dio, non dimenticherò le tue colpe”,

Ecco, ma non è che Dio non dimentichi nel senso che ci voglia punire; è che noi non siamo in grado di dimenticarle…e non potendo farlo, le abbiamo sempre presente.

Quindi: o noi abbiamo sempre presente Dio ( e allora siamo orientati in tutto), o se no abbiamo sempre presente la nostra colpa.

Abbiamo cioè sempre presente le parole che abbiamo detto in modo autonomo!

Ma quanto più si cresce in Dio,  tanto più Dio, nel Suo Cielo, assorbe tutto: perché la Verità assorbe tutto.

Questo “assorbire” cos’è? Vuol dire che Lui prende su di Sé tutto quanto, e ce lo compone nella Sua Pace, nella Sua Armonìa.

Cioè ci fa vedere che tutto ha avuto un fine; ci fa constatare che ci ha fatto esperimentare certe cose col fine di liberarci, di liberarci dai nostri errori: per insegnarci a vivere.

In altre parole, Dio ci “carica di rumore” per sollecitarci ad entrare nella Sua Casa, a vivere nell’unione con Lui, in tutto, sempre.

Luigi: Ogni cosa va sempre superata nello Spirito; cioè, va sempre intelletta lì.

Se non c’è lo Spirito, automaticamente c’è l’io di mezzo; come dire, c’è un altro pilota automatico (uno sbagliato).

Ecco, quando c’è di mezzo l’io, esso si ferma sempre alla lettera; cioè, l’io ci fa scomparire che l’anima di tutta la Legge è: “ama il Signore Dio tuo con tutto te stesso”, e ci lascia a: “non rubare, non uccidere”, ecc.

Dico: quando noi facciamo consistere la salvezza nella regola, nella funzione, nel rito, c’è di mezzo l’io.

Invece, il segno che è presente Dio, è l’interesse a conoscere Dio, il desiderio di arrivare a capire, sempre, anche quando ci presenta la Legge: “perché ho detto questo, perché ti ho ordinato questo”.

Cioè c’è sempre l’anima della Legge. Con Dio, si capisce che tutto ciò che Lui dice lo dice col fine di farci camminare nell’amore Suo.

Ci fa cioè capire il positivo.

Se si è uniti a Dio, si può magari anche soffrire fisicamente, ma sapendo che si tratta di opera di Dio, lo si accoglie dalle Sue mani, e allora anche lì si cerca il Pensiero di Dio: e si loda Dio.

Il Signore fa poi capire che attraverso questo mi ha magari liberato da tante altre cose…perché tutto (con Dio) possiede un aspetto positivo: Dio non ci manda la malattìa tanto così!

Tutte le cose sono opera Sua, e dunque seguono un disegno ben preciso: che è quello di liberare la nostra anima per l’essenziale.

Noi però dobbiamo avere come unica preoccupazione il conoscere il Pensiero di Dio.

Siamo stati creati per questo.

 

Luigi: Dice la Bibbia che la paura è un difetto di ragionamento, di riflessione.

Cioè: la paura è un segnale che si sta facendo leva su altro da Dio.

 


Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea». Gv 7 Vs 52 Primo tema.


Titolo: Dio è la vera autorità.


Argomenti: L’ignoranza della legge – Il giudizio sul luogo di provenienza – La Verità non è legata a luoghi, mezzi e tempi – Far dipendere la Verità da altro – Luce e consapevolezza – La disgregazione del nostro universo – Nicodemo è la coscienza – La sicurezza del giudizio sbagliato – La nostra coscienza può ingannare poiché non è Dio – La Verità non viene dalla nostra coscienza – La coscienza porta il nostro giudizio di valore sbagliato – Dimenticare Dio ma non il giudizio errato – Il principio di disgregazione -


                                                                                         

25/ Settembre/1983



Luigi: Eccoci al versetto 52; Nicodemo aveva fatto ai capi una domanda ben precisa nella quale, abbiamo visto la volta scorsa, si rivela la coscienza del gruppo stesso.

Diciamo allora che qui inizia l’opera di disgregazione nel gruppo.

Ormai l’autorità si era rivelata con le guardie, ma anziché aprirsi alla voce di Gesù giunta loro, essi vogliono imporre il loro autoritarismo; e infatti disprezzano le guardie, le maledicono: “perché non conoscono la Legge”.

Dico: inizia, per questi capi, il processo di disgregazione, e il “colpo di gong” a questo processo lo dà proprio Nicodemo: con la sua interrogazione.

Notiamo che i capi non rispondono a questa interrogazione…l’argomento posto da Nicodemo era preciso: “forse che la nostra Legge giudica qualcuno senza prima averlo ascoltato?”.

I capi non rispondono a questa interrogazione; loro gli ribattono: “sei forse anche tu un Galileo?”.

È lo stesso animo con cui rimproverarono le guardie quando esse tornarono senza aver arrestato Gesù. Allora dissero alle guardie; “siete forse stati sedotti anche voi?”.

Qui dicono a Nicodemo: “sei forse anche tu un Galileo?”.

A fondo c’è sempre la stessa mentalità… qui in sostanza l’anima “implicita” della loro affermazione è che solo uno della Galilea poteva condividere il parlare di Gesù, esserne seguace.

E gli aggiungono: “esamina bene la Scrittura, e vedrai che nessun profeta può sorgere dalla Galilea”.

Alle guardie avevano detto: “gentaglia maledetta che non conosce la Legge”; qui dicono a Nicodemo: ”esamina la Scrittura”.

Ma notiamo: Nicodemo aveva rivolto loro una domanda…in sostanza aveva invitato “loro” ad esaminare la Scrittura, a meditare sulla Legge.

Ma qui, ormai, l’anima è indurito: la porta è chiusa.

Qui non possono più accogliere questo invito, questo amore a cercare la Verità.

E allora, ritorcono l’accusa; cioè dicono: “l’ignorante sei tu: sei tu, che non conosci la Legge”.

Ritorcono su Nicodemo l’invito che lui aveva fatto loro.

Ma l’affermazione è abbastanza strana in questo senso: “esamina la Scrittura, e scoprirai che non sorge profeta dalla Galilea”…in sostanza affermano che il criterio di giudizio si basa sul luogo di provenienza.

È come se noi dicessimo: “questo qui viene da oltre Stura, quindi è un delinquente”.

Evidentemente si tratta di una giustizia abnorme: si tratta di una colpa enorme; mentre prima Nicodemo aveva parlato correttamente, loro adesso, sostanzialmente, dicono: “la legge giudica in base al luogo di provenienza”.

Ora, già qui si apre una grande testimonianza, e cioè: che la Verità non è legata ai luoghi di provenienza; cioè, non è legata ai mezzi attraverso cui giunge, si annuncia.

Qui si era annunciata ai farisei tramite delle umili guardie.

E un’altra testimonianza è questa:  che la Verità non appartiene ai tempi, non ne è condizionata.

Ci fa capire che la Verità, essendo trascendente, non è legata/condizionata, né da luoghi, né da tempi né da mezzi attraverso cui si rivela.

Ecco quindi che se noi condizioniamo, facciamo dipendere la Verità dal luogo, dal tempo, o dal mezzo tramite cui Essa si annuncia, compiamo un errore: un errore grave.

E già: perché subordiniamo la Verità a un mezzo, a un tempo, a un luogo!

In pratica, subordiniamo il fine al mezzo.

È l’errore che fanno qui questi farisei.

Evidentemente qui si rivela la contraddizione nella Legge, per loro.

Rifiutando di accogliere l’interrogazione di Nicodemo, si dividono da lui: la contraddizione inizia a dividere.

Ora, come dico, non è che essi siano consapevoli della contraddizione che portano addosso; per essere consapevoli di una cosa ci vuole la luce della verità.

Quando si esclude la Verità, quando non c’è amore per la Verità, assolutamente non si può godere della Sua Luce, e quindi non è nemmeno possibile conoscere sé stessi…senza amore per la Verità noi siamo assolutamente impossibilitati a conoscerci, e quindi non possiamo conoscere la situazione in cui ci troviamo.

Non possiamo conoscere…e però subiamo gli effetti: gli effetti della realtà in cui ci troviamo.

Ma allora succede che ritorciamo sull’altro quella che, nella chiusura nel nostro io, vediamo/leggiamo come un’offesa.

Sotto un certo aspetto, qui Nicodemo aveva puntato il dito sulla loro ignoranza. Loro che si vantavano di essere i maestri della Legge, sostanzialmente si vedono rimproverati di essere degli ignoranti della Legge!

Si sono sentiti accusare di una trasgressione della Legge!

E l’io chiuso in sé stesso non accoglie l’istruzione, non si apre, e anzi ritorce l’accusa, l’offesa.

Ma, dico: proprio attraverso quest’opera si inaugura il processo di divisione, di disgregazione...si arriva al punto in cui questo processo di frantumazione penetra in tutto, di noi: dentro di noi e attorno a noi…finisce con il coinvolgere tutto il nostro mondo, tutto l’universo.

E allora, a un certo momento, noi dobbiamo scappare da tutti, dividerci da tutti, perché non sopportiamo più nessuno: perché in tutto troviamo quella verità che ci umilia, che tende cioè a far morire il nostro io.

Questi capi non potevano dunque essere consapevoli di questo fatto: però ne subivano le conseguenze.

Così come noi non possiamo essere consapevoli della Presenza di Dio, però portiamo gli effetti di Essa nella nostra vita: noi non vediamo Dio, però sperimentiamo la passione di assoluto, sperimentiamo il desiderio di Verità!

Ecco: queste cose sono l’impronta, l’effetto della Sua Presenza in noi.

Così lo stesso: coloro che non hanno amore per la Verità, non possono conoscere l’errore in cui si vengono a trovare…non possono: nemmeno con l’ammonimento; nemmeno, cioè, con la voce della coscienza.

Qui Nicodemo rappresenta, abbiamo detto, la voce della coscienza, della coscienza di questo gruppo.

Loro non possono capire, però subiscono gli effetti: cioè subiscono la disgregazione.

Quindi abbiamo due grandi direttive: una è quella che, avendo al centro l’amore per la Verità, procede verso l’unificazione, verso l’armonia di tutto in Dio.

È la direttiva che veleggia verso la consumazione di ogni cosa nell’unità di Dio, nella semplicità di Dio.

E abbiamo l’altra che, invece, non avendo come fine la Verità di Dio, procede verso la dispersione, la disgregazione: cioè verso la morte, in tutto/di tutto; ecco: “polvere sei, e polvere ritornerai”.

È questa riduzione all’infinitesimo, al granello, alla polvere: per cui non si trova pace in niente.

I farisei, qui, non capiscono però di trovarsi nell’errore; anche in diversi altri casi questi capi dei sacerdoti sono ben convinti di essere nel giusto, ben sicuri del loro giudizio; ecco, sono convinti: in coscienza…

A questo proposito c’è un’affermazione molto netta di Gesù: “verrà il momento in cui chi vi condannerà crederà di rendere gloria a Dio”.

Ma allora, se questi capi erano convinti in coscienza di essere nel giusto, nasce in noi quest’interrogazione: ma se si può essere convinti in coscienza di essere nel giusto, quando in realtà ci si trova in un errore gravissimo, che valore ha la coscienza?!

E quindi: su cosa possiamo appoggiarci per avere un criterio di Verità?

Evidentemente qui si dimostra che la coscienza può ingannarci.

E dunque capiamo che la coscienza non è un valore assoluto. Non possiamo dunque appoggiarci su di essa in modo assoluto.

La Verità è Dio: e la nostra coscienza non è Dio.

Quindi la nostra coscienza non può avere l’autorità della Verità: la Verità procede da Sé stessa.

Come diciamo che l’autorità non viene dalla Verità, così succede che se diamo autorità alla coscienza, dobbiamo a un certo punto toccare con mano che la Verità non viene dalla nostra coscienza.

E allora sorge la domanda: ma a cosa serve la nostra coscienza?

Abbiamo visto qui che Nicodemo è la coscienza del gruppo; ed è proprio lui ad inaugurare l’opera disgregatrice nel gruppo stesso.

Con questo capiamo che la nostra coscienza diventa il tribunale di noi stessi.

Diventa “la memoria”…perché noi sì, possiamo dimenticarci di Dio, lo possiamo trascurare: ma non possiamo dimenticare la voce della nostra coscienza.

Cioè, cosa porta la voce della nostra coscienza?

Essa porta con sé i valori, il giudizio di valori che noi abbiamo messo al centro della nostra vita.

Ora, questo “giudizio di valore” noi possiamo anche non farlo a parole; lo possiamo semplicemente fare anche solo dedicando la nostra giornata a qualcosa…ecco: in quanto ci dedichiamo a qualcosa, stiamo operando un giudizio di valori. E il giudizio di valore che facciamo viene memorizzato nella coscienza, e questo noi non possiamo più dimenticarlo.

Come dico, noi possiamo dimenticare Dio, ma non possiamo dimenticare il male che abbiamo fatto: il “male” è, appunto, quel giudizio che abbiamo dato senza tener conto di Dio.

Lo abbiamo detto tante volte: il male è il non tenere collegato tutto con Dio; non dedurre tutto da Dio.

E Gesù dice: “Chi fa il male resta schiavo di esso”-

Se ne è schiavo, significa che non può dimenticarlo.

“Non dimenticarlo” vuol poi dire, in sostanza, che la coscienza ci ripropone continuamente quei valori (sbagliati) che abbiamo messo al centro della nostra vita.

Poiché non discendono da Dio, si tratta di valori errati:

ecco quindi che succede che la coscienza ci mette in contraddizione con noi stessi.

Pensieri tratti dalla conversazione:

Luigi: Nel bambino non si sono ancora affermati i giudizi di valore: e infatti in lui prevale l’apertura.

Nel bambino c’è la passione di assoluto non ancora seppellita dai giudizi di valore.

Ogni creatura è caratterizzata da questa passione:

la coscienza è in formazione.

Ora, man mano che vive, il bambino inizia ad acquisire dei valori: qui scatta la coscienza: sarà quello che dicono i genitori, gli argomenti che sente a scuola, alla televisione…lui comincia a sentire delle mancanze, ecc.

A poco per volta  questa coscienza si allarga a quelli che sono i valori del mondo, e vivrà così, attraverso queste tribolazioni…ma all’inizio nel bambino noi abbiamo la semplice passione di assoluto, il semplice bisogno di conoscere la Verità.

Abbiamo soltanto il “perché”: “perché questo, perché quell’altro”…ecco, i suoi interrogativi sono rivolti all’assoluto; sta cercando la Verità.

Il problema è che in questo percorso comincia ad introdurre nella sua coscienza determinati valori.

Ecco, la coscienza è proprio questa “memorizzazione di valori”; non è che esista la “facoltà coscienza”: esiste la memorizzazione di valori”.

Appena entrano questi valori, essi divengono determinanti noi….cioè, noi non li possiamo più dimenticare: appunto perché in essi c’è la partecipazione del nostro io.

Noi possiamo invece dimenticare Dio…e perché? perché Dio è un “dato”…dato a noi senza di noi.

E quindi, anche se non possiamo cacciarlo fuori di noi, Lo possiamo però trascurare: Lo possiamo uccidere.

Non possiamo però ignorarlo quando Egli si presenta;

lì infatti non possiamo dire: “non lo conosco”.

Come, dico, Lo possiamo dimenticare, mentre non possiamo dimenticare quei valori che abbiamo introdotto noi: perché lì c’è la nostra partecipazione personale.

Come dice il Signore Gesù, chi fa il male ne resta schiavo: schiavo/dipendente.

Ecco, noi restiamo dipendenti da quei valori che abbiamo lasciato entrare in noi; sono valori memorizzati, valori che diventano i “genitori” della nostra vita.

Non essendo valori che fanno riferimento a Dio, che discendono da Dio, però, noi non riusciamo ad essere coerenti ad essi, non riusciamo a ridurli all’unità: solo con Dio lo posso fare.

Solo con Dio si può consumare tutto nell’unità.

A un certo punto, dunque, inevitabilmente entro in contraddizione: la quale mi rimorde, poiché io sono fatto per l’assoluto, per l’unità semplice.

Luigi: Il bambino ha come destino la Verità: infatti la cerca ovunque.

Tutta la giovinezza è data proprio da questo; l’uomo “adulto”, invece cerca i propri interessi, sotto varia forma: la Verità non la cerca più. E come mai? Cosa è successo?…è che lui non perdura nella linea dell’apertura alla conoscenza della Verità.

Se perdurasse in questa linea, l’uomo arriverebbe tranquillamente in Paradiso.

Il problema è che questa linea retta a un certo momento inizia a girare attorno al suo io: e quindi non ha più tempo a cercare la Verità….e allora, ecco: “sì, sì, chissà perché esiste l’universo, chissà che grande mistero, però intanto io ho la carriera, devo pensare al mangiare e al vestire”.

È tutto lì: non abbiamo tempo!

Luigi: I farisei interpretavano la Scrittura alla lettera, per cui in loro si era formata la sicurezza che Gesù non potesse essere il Messìa: perché veniva dalla Galilea.

Luigi: Nel campo degli esistenti abbiamo una “vetrina” in cui tutte le cose sono esposte a noi, presentate a noi “senza di noi”: tra di esse c’è anche il Pensiero di Dio.

Il giudizio di valori in cosa consiste? nel prendere una di queste cose e metterla al di sopra delle altre: la nostra coscienza si forma in base, in conseguenza a questa scelta.

Poiché il “giudizio di valori” è questo mettere una cosa al di sopra delle altre, la coscienza è condizionata da una cosa sola.

Dico: la coscienza si forma sul valore che io ho introdotto: magari pure inconsapevolmente; e questo valore mi dà del “bastardo”; cioè mi dice, mi rimprovera: “sei un figlio degenere: avevi deciso di andare a Cuneo, e invece stai andando a Torino”.

La coscienza ci rimorde in questo senso, in questo  modo.

Il fatto è che il mio io ha magari scelto adesso di andare  a Torino perché vi ha visto una convenienza, per cui con facilità ha dimenticato la scelta iniziale: quella di andare a Cuneo.

Ma se il mio io ha dimenticato…la mia coscienza no!

La coscienza non dimentica, perché essa è proprio “memoria”, memoria del fine, del valore scelto inizialmente.

E poiché la coscienza sopporta un valore unico, ecco che continuamente essa richiama, ci richiama: ci fa sentire il rimorso.

Mentre il nostro io si gonfia nell’avere una molteplicità di fini, di interessi, la coscienza provvede sempre a richiamare ad un unico fine.

Il fine può essere completamente sbagliato, però la coscienza provvede incessantemente a richiamarcelo.

Ecco: l'io, che sta al di sotto della coscienza, può moltiplicare all’infinito i fini, mentre la coscienza no.

Ragion per cui diciamo che la coscienza controlla l’io.

L’uomo subisce il rimorso della coscienza, e non può non subirlo: la coscienza lo comanda, gli fa sentire il rimorso.

L’io, certo, vorrebbe non sentire il rimorso; evidentemente, quindi, il nostro io si trova al di sotto.

Quindi abbiamo: Dio. Coscienza. Io.

Il nostro io è dispersivo al massimo; resta così esposto al rimorso; “rimorso” viene da “ri-morso”: si tratta della coscienza che ci “morde”.

E perché ci morde? come dico, perché essa non sopporta alcun altro valore.

L’io è confusione, mentre la coscienza è “unitaria”; la coscienza non sopporta altro, per cui ci distrugge, arriva a distruggerci: come uomo, come personalità.

Dove trova molteplicità di fini, la coscienza provvede a distruggere, ad annientare: perché essa non sopporta.

Ecco per cui a un certo punto abbiamo proprio la riduzione dell’uomo in polvere: per opera della coscienza.

Dice infatti il Signore: “le tue parole ti giustificheranno e le tue parole ti condanneranno”.

In altri termini, quei valori che abbiamo messo al di sopra di tutto, quelli ci giustificheranno oppure ci condanneranno.

Ecco perché la coscienza si deve mantenere aperta allo Spirito di Dio: solo lì abbiamo il criterio di verità; senza questa apertura, la coscienza ci conduce a sbagliare, e sbagliare grosso.

Dico: ci fa sbagliare talmente grosso da portarci alla distruzione.

Perché, dico: se noi diamo autorità assoluta alla coscienza è perché evidentemente siamo sganciati da Dio; lì c’è dunque il nostro io al centro.

Ora però, succede questo: che il nostro io non è fedele. Solo Dio lo è.

Il nostro io non rimane fedele al valore che ha posto nella coscienza: il nostro io moltiplica i valori sulla spinta della “convenienza” del momento, del sentimento che predomina in quell’istante…”oggi mi conviene dire sì a questo, domani mi è utile dire sì a quest’altro”…

Allora interviene la coscienza e dice: “sei un menzognero, sei un bugiardo!”.

Cioè: l’io mi costringe a mentire, per convenienza; e la coscienza non sopporta questo.

Per convenienza l’io moltiplica gli interessi, gli amori: in questo modo si gonfia.

E tradisce.

Ecco, il nostro io è traditore.

Ma per essere fedele, il nostro io deve mantenersi unito a Dio, allo spirito di Dio.

Ma da solo è traditore: e non può non esserlo. Perché non può non essere volubile.

Solo che la coscienza “urla”, contro tutto questo, perché essa non sopporta due fini.

Però, da sola, la coscienza ci fa sbagliare; e poiché subito dopo mi crea il rimorso, ecco che essa mi annienta: annienta il mio io.

Ecco, l’io che si è messo al centro, viene a un certo momento, a sua volta, annientato dalla coscienza stessa, cioè da quei valori che lui stesso aveva posto nella sua coscienza.

Dico: viene annientato, viene ridotto in polvere;  è la morte.

È la morte spirituale che porta poi dopo anche alla morte fisica.

E già: perché l’io non può in alcun modo superare il rimorso della coscienza.

Dico: noi non possiamo dimenticare il “male” che abbiamo fatto. Esso resta memorizzato, e noi restiamo al di sotto di esso.

E dunque non possiamo liberarcene.

La liberazione avviene solo da Dio;  da Dio che a un certo punto dice alla creatura: “quella cosa te l’ho fatta fare Io”.

Dimostrandomi questo, il Signore mi libera.

Se no, resto schiacciato.

Luigi: È l’intelligenza, a percepire i valori.

Ma nel giudizio di valori, giocano tre fattori; anzitutto, noi possiamo giudicare una cosa in base a ciò che essa è: per esempio, metto Dio al centro perché è giusto, perché Lui è il Centro.

Oppure posso valutare una cosa in base a quanto risponde ad un mio bisogno.

O ancora, valuto in base a quanto mi dice il mio ambiente, gli altri, le autorità a cui mi riferisco.

Nei due ultimi casi, ovviamente, c’è il mio di mezzo.

Ora, col giudizio di valori noi introduciamo nella nostra vita il concetto di “bene”; cioè passiamo dal concetto di “verità” a quello di “bene”, di “utile”.

L’intelligenza percepisce il concetto di verità, ma questo concetto non ci muove fintanto che noi non mettiamo la Verità come nostro massimo valore.

Se la Verità non è il nostro amore principale, ecco che subentra il concetto di “bene”, il quale diviene oggetto di volontà.

Finisce allora che la nostra volontà si muove solo più sul concetto di bene.

Questo valore è legato alla convenienza, alla risposta ad un bisogno: e allora subisce l’influsso del campo del bisogno e di quello della figura del nostro io.

Ma, ecco: essendoci di mezzo il mio io, il concetto di bene non coincide più con il concetto di verità.

Lì dunque non mi trovo più nel criterio di verità.

La nostra volontà funziona solo col bene, e bisogna dunque che la mia intelligenza ponga la Verità come massimo valore; bisogna dunque che io aderisca alla Verità.

Devo cioè avere, come massimo valore, ciò che una cosa è in sé.

Solo lì la mia volontà diviene capace di volere la Verità.

La volontà deve cioè giungere a vedere la Verità come bene per essa.

Il valore è un’applicazione personale, per cui nel giudizio di valore entra un rapporto personale tra il mio io e ciò che valuto.

E lì inizia proprio la mia vita personale; quando io inizio a mettere una cosa al di sopra di tutte le altre, incomincio a vivere personalmente, perché dico: “per me, il mio bene è questo”.

Luigi: Noi non possiamo riattualizzare il fine (Dio) se non lo vediamo come massimo valore; ora, se noi non lo mettiamo come valore massimo, ci pensa Lui, ad attualizzarsi.

Luigi: Noi vorremmo, dimenticare le nostre colpe: ma non possiamo, le abbiamo sempre davanti…perché sono i giudizi di valore.

È ciò che dice la Bibbia: “Cancella il mio peccato, Signore, perché mi sta sempre davanti”.

E già, perché l’uomo non può perdonarsi, non può cancellare il proprio peccato; non può cancellare il precedente giudizio di valore: l’avere preferito altro a Dio.

Allora, il peccato mi salta fuori come contraddizione, come contraddizione con la coscienza: con quel valore che vi ho inserito.

Anche se sono orientato a Dio la coscienza mi rimorde, quando devio da Dio: ma lì ha la funzione positiva, lì funziona splendidamente.

Luigi: Il peccato non esiste fuori di noi: è solo dentro, nel non tenere tutto quanto unito a Dio. Tutto il male che facciamo esteriormente, è tutto “Dio che prende su di Sé”: che prende su di Sé il nostro peccato.

È cioè Lui che ci fa compiere certe azioni sbagliate: per farci rinsavire.

Ma arriverà il momento in cui Dio non prenderà più nulla, su di Sé: perché tutte le cose le assorbirà nella Sua Verità, nel Suo cielo; il problema è che lì noi rischiamo di rimanere “puri” nel nostro peccato.

Ma si tratta di un fatto tutto interiore, perché non potremo più toccare niente “fuori”.

In altre parole: quando il mio peccato non può più esprimersi in niente/su niente, diventa un mio inferno interiore.

Però, dico: l’essenza del peccato consiste in questo, nel porre in alto un valore diverso da Dio: questo valore “altro da Dio”, mi chiude.

Ed io non lo potrò più cancellare fino a quando non dirò: “Benedetto Colui che viene nel Nome del Signore”.

Cioè fino a quando non riferirò il mio peccato a Dio.

Ma prima di poter fare questo, io devo capire tante cose, eh! per arrivare a capire che Dio prende su di Sé le mie colpe, hai voglia! devo prima fare la giustizia essenziale, devo prima incontrare il Cristo.

Luigi: Noi non possiamo dominare la coscienza: è il contrario. Quindi, fintanto che noi ci mettiamo a fare l’esame di coscienza, significa che non siamo a posto: perché in realtà è la coscienza ad esaminare noi.

Ci “esamina” facendoci sentire il rimorso.

Ora, quando noi siamo orientati bene, quando abbiamo posto nella nostra coscienza Dio al Suo giusto posto (come massimo valore), qui la coscienza diventa una cosa meravigliosa; allora essa diventa proprio il mezzo attraverso cui noi costruiamo il Tempio di Dio.

“Tempio di Dio” è proprio questo subordinare/coordinare tutte le cose alla Maestà di Dio.

Bisogna però capire bene questo: quando si è messo Dio al centro (come elemento determinante), non siamo più noi che facciamo: lì è Dio che ci fa fare; e quindi non siamo più nemmeno noi che “attribuiamo”.

Luigi: C’è il campo delle cose che dipendono da noi, e quello delle cose che non dipendono da noi; queste ultime le dobbiamo tutte attribuire a Dio; nelle altre dobbiamo essere mossi da Dio: perché se porto un’altra intenzione, separo da Dio.

Luigi: La coscienza non sopporta due fini; e inoltre, non sopporta lo svuotamento di valori.

Ora, la moltiplicazione di fini è opera del nostro io, mentre lo svuotamento di valori è la imposizione di una volontà diversa dalla nostra…è Dio che entra.

L’io invece cosa fa? moltiplica i valori senza svuotarli di valore.

Teniamo presente che noi non possiamo sopportare una vita senza significato: con lo svuotamento di valori, dunque, determinato dall’”irrompere” di Dio,  la vita ci diviene insopportabile.

Si tratta di trovare un Valore Superiore: solo così la coscienza accetta un cambiamento di valutazione di valori, un cambiamento di finalità.

Certo: perché il valore superiore mi giustifica…Dio mi giustifica tutto.

La coscienza è disponibile ad accettare un fine superiore che comprenda il fine inferiore; qui ho il passaggio; e di passaggio in passaggio, arrivo a Dio.

Ciò che invece la coscienza non accetta è una moltiplicazione di valori, oppure un valore inferiore al precedente…perché la coscienza va a senso unico.

La coscienza procede a senso unico verso il fine assoluto.

Ecco, il fine superiore che lascio entrare mi dà la possibilità di superare i rimorsi della precedente coscienza sbagliata; perché il nuovo Valore, Dio, mi fa capire che la tal cosa non l’ho fatta io, bensì me l’ha fatta fare Lui.

Ecco perché soltanto Dio può perdonarci i peccati.

Luigi: Lo Spirito di Dio non si lascia “imbottigliare” nella

nostra coscienza, né da regole o principi.

È logico: perché lo spirito di Dio e’ una persona.

Ecco, noi dobbiamo imparare a vivere con lo Spirito come “Persona”.

Luigi: La coscienza è un pilota automatico che ci segnala le nostre deviazioni da fine; e però, le deviazioni sono opera di Dio.

Lui ci fa deviare, e allora fa scattare la coscienza: non può sopportare, la deviazione è una violenza su di essa.

Allora io entro in conflitto: il mio io vuole certe cose, e la mia coscienza “urla”. Non è il Maestro interiore...è che io non sono fedele al valore posto nella coscienza.

Anche se è un valore sbagliato.

Luigi: La coscienza mi approva in un valore sbagliato come la carriera; mentre il Maestro interiore si oppone a questo valore sbagliato; ecco, che rapporto c’è fra i due?

Luigi: È che, durante il mio dedicarmi alla carriera, Dio mi fa fare delle cose che rimordono alla mia coscienza.

E allora, ecco, io non riesco ad essere coerente in una scelta “altro da Dio”.

Solo con Dio, con Dio posto come massimo valore, io posso ad essere coerente.

Infatti, non è possibile ipotizzare di essere idealmente finalizzati solo sull’io...è assurdo, perché il nostro io ha tante facce, è un moltiplicatore di fini; ne consegue che io non sono in grado di restare fedele a quel valore che ho messo nella coscienza: e allora entro in contraddizione con me stesso.


Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea». Gv 7 Vs 52 Secondo tema.


Titolo: Rapporto tra coscienza e destino dell’uomo.


Argomenti: L’illusione di giudicare bene – La relatività della coscienza – L’autorità della coscienza – Il criterio di verità – La funzione della coscienza – Vivere è tendere a un fine, quindi è scegliere, è giudicare – Il giudizio di valore determina la vita – Il campo degli esistenti e il campo della vita – Valore dell’essere, del bisogno e dell’autorità – Il giudizio di valore determina la coscienza – Coscienza è memorizzazione di fine – Il bene e il male relativi – Il rimorso della coscienza – La coscienza non sopporta la molteplicità e le cose senza valore – La nevrosi – Il valore superiore – Le cosi della coscienza – L’anima della legge -


 

2/ Ottobre/1983 Vigna



Luigi: Rimaniamo ancora nel versetto cinquantadue.

Abbiamo visto come questi farisei siano convinti di essere nel giusto, di giudicare quindi rettamente.

A posteriori noi abbiamo la possibilità di scoprire il loro grave errore, l’errore di escludere che da Nazareth potesse venire qualcosa di buono…soprattutto, che da Nazareth potesse venire il Messia.

Dico: noi conosciamo questo loro errore perché, appunto a posteriori, sappiamo che veramente Gesù è il Messia.

Ora, da questo loro errore siamo passati a verificare che la coscienza può darci delle sicurezze sbagliate: con queste false sicurezze, dunque, la coscienza ci può ingannare.

Ne deriva la relatività della coscienza

E ne deriva, quindi, che è errato pensare che sia giusto, per noi, lasciarci guidare dalla coscienza.

Dico: essendo relativa, la coscienza ci può ingannare; può cioè darci la sensazione di essere nel giusto, quando invece si è nell’errore.

Ecco come la coscienza può condurci molto lontano dalla Verità…se la consideriamo “autorità assoluta” essa può risultare la nostra rovina…ci può condurre alla dispersione e alla disintegrazione.

Ora, abbiamo già visto che come regola di vita noi non possiamo mettere ciò che ci piace o che non ci piace, cioè non possiamo lasciarci guidare dai nostri sentimenti…e non possiamo nemmeno lasciarci guidare da “quello che dicono gli altri”.

Non possiamo fidarci ciecamente di autorità umane, istituzioni umane...e perché? Ma perché si tratta sempre di cose esterne a noi.

E però, a un certo momento, nemmeno “dentro di noi” possiamo trovare ciò di cui fidarci ciecamente.

Cioè, come dico, non possiamo nemmeno fidarci della nostra coscienza.

Ma allora nasce il grande problema: dove si trova il criterio di verità?

E soprattutto, (è il tema odierno) si apre il problema di capire quale sia la funzione della nostra coscienza rispetto al nostro destino, rispetto alla nostra vocazione alla Vita Eterna (cioè rispetto al conoscere Dio come vero Dio).

Si tratta dunque di capire perché Dio abbia posto questa coscienza…qualcuno ha detto: “se Dio ci ha dato un’autorità, sarà pure per qualcosa”; effettivamente, se Dio ci ha dato la coscienza, a qualcosa deve certamente servire!

Ecco, dobbiamo cercare di approfondire quale sia la funzione della nostra coscienza nei nostri rapporti con Dio: perché è Dio, Colui che opera tutto, che parla in tutto.

Dio, però, richiede una nostra apertura nei confronti della Verità; ma come dico, resta il problema di trovare il criterio di verità: dove lo si trova? e qual è?

Noi abbiamo bisogno di un criterio di verità sul quale “fidare” i nostri pensieri, le nostre scelte...tutta la nostra vita.

Abbiamo visto che nella nostra vita operano due grandi campi: il campo delle cose date a noi senza di noi, il campo di tutto ciò che esiste: tutte le creature, tutto l’universo… e tra tutte queste cose, abbiamo visto, si trova anche il Pensiero di Dio.

C’è poi l’altro campo, il campo della vita; e la vita è, essenzialmente, raccoglimento, raccoglimento in un fine.

Come dico, il prima campo è dato a noi “senza di noi”, mentre il secondo non ci è dato senza la nostra partecipazione consapevole.

Ora, vivere è “tendere a un fine”; e si tende ad un fine in quanto si effettuano delle scelte, cioè in quanto si danno dei giudizi di valore…in sostanza: in quanto si mette qualcosa al di sopra di tutto..

Il primo campo, abbiamo detto, è dato da tutto ciò che esiste: sono tutte le cose messe “in vetrina” davanti a noi.

Adesso, queste cose attendono da noi una scelta: noi possiamo dare valore ad una cosa anziché ad un’altra.

Per esempio possiamo porre come fine della nostra vita il denaro, le creature, un’istituzione, una regola…e possiamo anche mettere Dio.

Teniamo ben presente che questo mettere una cosa al di sopra delle altre, questo giudizio di valore, rappresenta l’elemento determinante di tutta la nostra vita.

E non solo questo: rappresenta anche il punto di contatto, di unione tra i due campi.

Teniamo presente che i due campi esistono indipendentemente l’uno dall’altro: e il punto di contatto tramite cui noi passiamo da uno all’altro è dato da questa scelta di valori.

Questa scelta di valori può avvenire soltanto, naturalmente, tra le cose che esistono, tra ciò che, cioè, Dio ci presenta.

Tra queste cose che Dio ci presenta, c’è anche il Suo Pensiero.

Ora, qual è il criterio che determina in noi la scelta di una cosa anziché di un’altra?

Notiamo che la cosa che viene messa al di sopra di tutto non viene messa “senza di noi”; ne deduciamo che nella Vita non si entra senza di noi.

Ora, osservando attentamente, notiamo che sono tre i fattori che determinano una scelta.

Il primo è quello di dare valore a una cosa per ciò che essa è, perciò che essa vale.

Il secondo è quello di dare valore ad una cosa in quanto essa risponde ad un mio bisogno, a un mio desiderio.

Il terzo fattore è quello di dare valore ad una cosa perché ce lo dicono gli altri: per l’importanza dell’ambiente in cui siamo nati (la famiglia, la società, l’istituzione).

Dico: la maggior parte della nostra vita è condizionata/determinata da quello che dicono gli altri; ma la vera vita non inizia fintanto che noi non scegliamo una cosa in base al primo criterio: per ciò che essa è, per il valore che ha in sé.

Solo qui abbiamo il criterio di verità per il giudizio.

Prima di questo, noi siamo nel criterio relativo: quello del bisogno.

Oppure siamo nel criterio del sentito dire: “perché lo dicono gli altri”.

E “gli altri”, fosse anche la più grande autorità umana, non vale: perché è esterna a noi.

E fosse anche la nostra coscienza, a dirlo, anche lì: non vale...perché la nostra coscienza può soltanto riflettere la autorità a cui ubbidiamo.

La coscienza è una memorizzazione di giudizi di valore che noi abbiamo dato.

Ecco, i valori subiscono l’influsso di questi tre fattori.

E fintanto che noi non arriviamo a scegliere personalmente una cosa per ciò che essa è (e qui si apre il panorama della scelta di Dio per ciò che Egli è), fintanto che non mettiamo Dio al di sopra di tutto per quello che Egli è, fintanto che non mettiamo come fine della nostra vita la conoscenza di Dio “in Sé”, noi siamo privi del corretto criterio di verità.

La nostra coscienza si forma dunque in conseguenza dei giudizi di valore; ma poiché questi giudizi di valore subiscono l’influsso  di questi tre fattori…ora, non è che la coscienza ci rimorda quando scegliamo una cosa anziché un’altra: no, la coscienza sta al di sotto dei giudizi di valore; la coscienza si limita a memorizzarli.

Dopo averli memorizzati, essa comincia a farci presente quando non li rispettiamo, quando deviamo da essi.

Diciamo: fa notare “da quelli in giù”; ma al di sopra di quelli, no.

Ora, se noi abbiamo lasciato entrare un valore sbagliato, la coscienza comincia a giudicarci/avvisarci da quel punto lì in giù; non da quel punto lì in su.

Essendo memorizzatrice di un valore (valore come “fine”), essa si muove rispetto ad esso, e quindi valuta in termini di “bene” e “male” in rapporto a questa meta, a questo valore che abbiamo eletto: fosse pure sbagliatissimo.

La coscienza, dunque, chiamerà “bene” tutti quei mezzi che ci aiutano a camminare verso quella certa meta; e chiamerà “male” ciò che ostacola questo cammino.

Ora, essendo fatta per una cosa sola, quando noi lasciamo entrare qualche altro fine, la coscienza comincia a rimorderci…a farci star male. Ed essendo superiore all’io (perché ormai abbiamo introdotto in noi un’autorità, dando valore a questa coscienza), noi non possiamo ribellarci.

Cioè, possiamo cercare di ribellarci, alla coscienza, ma allora stiamo malissimo.

Ecco, non possiamo superare questo rimorso: “chi fa il male ne resta schiavo”.

Abbiamo poi visto che mentre il nostro io tende a moltiplicare i fini, la nostra coscienza non sopporta che una unica finalità: la coscienza è rivolta ad un fine unico.

La coscienza non può dunque condividere una molteplicità di fini: se uno ha deciso di andare a Torino, non può poi decidere di andare a Cuneo…la coscienza non accetta questa deviazione!

Il nostro io, invece, accetta ben volentieri la molteplicità di fini: perché esso è passione di possesso…ogni cosa che vede, vorrebbe metterci le mani sopra: e allora salta fuori il conflitto tra la coscienza e il nostro io.

La coscienza è dunque polarizzata su un unico fine…il quale, però, non entra in noi senza di noi; e possiamo farlo entrare in modo sbagliato, per autorità sbagliata.

Inoltre, abbiamo detto, essendo “memoria di un giudizio di valore”, la coscienza non può sopportare nemmeno lo svuotamento di valore.

Ora, non sopportando la molteplicità di fini, dove questa avviene ci fa sentire il rimorso.

Nel secondo caso, lo svuotamento di valori…questo è determinato da una Volontà diversa e superiore a noi, cioè da Dio.

E già: tutte le volte che introduciamo un valore diverso dal vero, che noi coincide cioè con ciò che una cosa è ( e avviene sempre così se non abbiamo per fine Dio), ecco che, per opera stessa di Dio, la nostra coscienza subisce lo svuotamento di valori.

Dio ci svuota di valore  le nostre scelte sbagliate.

E allora, qui, la nostra coscienza si apre alla nevrosi.

L’uomo che si ritrova la vita svuotata di valore, se la ritrova insopportabile…proprio per effetto della sua coscienza.

Ma allora: restiamo schiavi della coscienza?!

Ecco, un’apertura c’è, una via d’uscita c’è,  ed è data dal fatto che la nostra coscienza è disponibile ad accettare l’introduzione di valori superiori.

Ecco: la coscienza comanda dal valore introdotto “in giù”. Ma da quel valore lì “in su”, essa serve benissimo: perché si apre docilmente alla critica dei valori precedentemente introdotti: quando, appunto, introduciamo un Valore superiore.

È quindi possibile passare dai valori iniziali ad altri superiori, fino ad arrivare al Massimo Valore, cioè l’aderire a Dio per ciò che Egli è.

Allora qui la coscienza funziona bene.

Bisogna però che ci sia nella nostra coscienza una continua verifica interiore: un’apertura allo Spirito di Dio.

Ecco, non bisogna cioè lasciarsi dominare ciecamente dai rimorsi e dalle approvazioni della coscienza.

Come non possiamo lasciarci guidare ciecamente dai nostri sentimenti, o da quello che dicono gli altri, così non dobbiamo lasciarci guidare  ciecamente dalle voci della coscienza.

Ma ogni “avviso di coscienza” che ci arriva, deve anch’esso sempre esser valutato  alla luce dello Spirito di Dio.

Ecco: è nello Spirito di Dio che noi abbiamo il vero, unico criterio di verità.

E ritorniamo con questo a quanto diciamo sempre: Dio lo si conosce soltanto “in Dio”; la Verità La si conosce soltanto nella Verità.

Luigi: La coscienza funziona sempre “a senso unico”, nella modifica di sé; cioè, lei cambia solo con l’ingresso di un valore superiore. Con l’introduzione di un valore inferiore, essa non accetta alcuna correzione.

Dico: non è che “se io non faccio l’esame di coscienza non sento il rimorso”…lo si sente, eccome! Se tu hai detto una menzogna, la coscienza te lo fa presente: “hai detto una menzogna”.

E questo rimprovero ti domina.

Per questo, quando noi siamo veramente in collegamento, non abbiamo bisogno di fare degli esami di coscienza: è essa ad esaminare noi!

È la coscienza, ad esaminare il mio io, non viceversa.

Se voglio esaminare la mia coscienza, non ci siamo: sono su un piano sbagliato.

Dico: è la coscienza, che esamina me; e io devo lasciarmi esaminare…perché, per quanto mi ribelli, non posso annullarla: mi porta alla nevrosi, mi distrugge la vita.

Ecco, la coscienza diviene un mio nemico ferocissimo: se noi non abbiamo seminato il vero valore; infatti a un certo momento mi distrugge.

Eh, noi possiamo anche trovarci immersi nel benessere, attorniati da persone che ci vogliono bene, ma se la coscienza ci rimorde, veniamo distrutti.

La via d’uscita sta nella critica ai valori che abbiamo seminato precedentemente; ma questa critica la si fa solo con un valore superiore.

Ad esempio, uno può sottrarsi a ciò che dicono padre e madre solo in nome di Dio. Solo lì la coscienza approva.

Ma se non c’è Dio, ribellandosi a padre e madre, si subisce il rimorso della coscienza.

E se ne resta distrutti.

Solo il valore superiore, in nome di Dio, ci giustifica.

In un Vangelo apocrifo, Gesù dice a un uomo che si mette a lavorare in giorno di sabato: “uomo, se sai quello che fai, sei benedetto dalla Legge; se non lo sai, sei maledetto dalla Legge”.

Vuol dire questo: se tu ti ribelli a tuo padre e tua madre, all’autorità cui appartieni, “in Nome di Dio” (cioè avendo in te la ragione di Dio), sei benedetto.

Ma in caso contrario (cioè se c’è dell’orgoglio, se c’è di mezzo il tuo io), sei maledetto.

Perché? Per ascoltare la coscienza. 

Teniamo presente che introduciamo di solito dei valori, in noi, tipo: “perché lo dice tutta la società che mi sta attorno”.

Poi magari sentiamo parlare di Dio, tutto quanto, ma in pratica ci lasciamo guidare dall’autorità terrena che abbiamo seminato in noi, nella nostra coscienza.

E il valore “Dio”, allora, non entra più...anche quando sentiamo il Signore dire: “cerca prima di tutto il Regno di Dio”, noi riteniamo di stare già facendo questo, “perché ho la Legge, la osservo, sono a posto”.

Questi qui erano sicuri, sicuri che da Nazareth non potesse venire il Messia, per cui si sentivano nel giusto, ad escludere Gesù.

Lo manderanno a morte proprio per quello; ora, essi si ritenevano sicuri perché? Perché avevano questa voce della coscienza…e sbagliavano tutto!

Ecco perché il Signore ci presenta questa scena del Vangelo: per renderci consapevoli della possibilità di questo grave errore.

Come ci libera da “quello che dicono gli altri”, così ci libera dall’autorità della coscienza.

Perché la coscienza ha un valore importante, ma come “servizio”: ma come “padrona”, è una pessima padrona!

Ecco perché è un errore lasciarsi guidare dalla coscienza...no: bisogna lasciarsi guidare dalla Parola di Dio, dallo Spirito di Dio.

Il criterio di verità è unicamente questo: l’apertura allo Spirito di Dio.

Con questa apertura, con questo orientamento, la coscienza funziona benissimo, perché lì ci aiuta a liberarci da tutte quelle cose che non sono secondo lo Spirito di Dio, che ci ostacolano a vivere secondo Esso: ci aiuta a fare pulizia…lì serve benissimo, lì è un ottimo mezzo; ecco, come tutti i mezzi, ovviamente, anche la coscienza presuppone il fine, la presenza attuale del fine.

Luigi: Solamente con la Parola di Dio abbiamo la possibilità di fare il passaggio al Valore superiore; perché la Parola di Dio mi mette in difficoltà rispetto al valore di prima; prima sono ad esempio convinto che il mangiare e il vestire siano essenziali: confrontandomi con la Parola di Dio, questo valore va in crisi.

Io posso però obiettare alla Parola di Dio: “ho i buoi, i campi, la moglie, non posso venire”: Mi ritengo giustificato, ho tutto il mondo che mi giustifica, la mia coscienza mi giustifica…ma il Signore mi dice: “non gusterai la ma Mia Cena”.

Quindi, la Parola di Dio mette in crisi la stessa nostra coscienza: appunto perché si tratta di una Parola superiore; è Dio che mi “appella”, che mi convoca alla Sua Presenza: “guarda che devi mettere nella coscienza un valore diverso”.

Ecco, Dio opera nella nostra vita svuotandoci di valore…i valori per i quali viviamo.

Se abbiamo fede, allora entriamo in crisi, ma diventa una crisi positiva, comincio a chiedere il perché, e allora piano piano Dio mi conduce a scoprire che devo mettere Lui come Valore, come massimo valore.

Ma se invece non ho fede, entro in crisi: è la nevrosi; perché noi non possiamo sopportare una vita priva di significato.

Per uscire dalla nevrosi, bisogna appellarsi a Dio…ma bisogna vedere se c’è, la possibilità di appellarsi a Lui.

Eh, nell’inferno questa possibilità non esiste più!

E l’inferno può determinarsi già qui sulla terra, mentre si è ancora su questa terra, eh!

Anche qui può realizzarsi, cioè, la situazione di irreversibilità.

Di fronte ad una situazione di nevrosi, noi dobbiamo stare alla scena, senza giudicare: perché noi non possiamo giudicare il rapporto di quell’anima con Dio. La scena è una Parola di Dio per me: “vedi che vivendo per valori umani, terreni, si entra in nevrosi?”.

È una scena; “scena che Io costruisco per te”.

Ma Lui ci dà questi segni per evitarci di entrare in nevrosi.

Luigi: L’importante è sempre rapportare tutto (anche la nostra coscienza) alla luce di Dio, alla luce della Parola di Dio. Se non lo facciamo restiamo dominati dai  suoi valori sbagliati.

Luigi: Si aderisce “per fede”; tramite la fede ci vengono presentati i valori; attraverso l’adesione ai valori si inizia la ricerca della conoscenza.

La conoscenza è la Meta; però noi non arriviamo alla meta se non abbiamo prima creduto ai valori che ci venivano presentati.

Dico, tramite la fede ci viene presentato questo: “cerca Dio prima di tutto, perché Dio è il Creatore, e ha creato tutto per Sé stesso”.

Se noi crediamo, cominciamo ad impegnarci lì.

E questa dedizione è indispensabile: non si arriva alla conoscenza senza di noi.

Ma come possiamo dedicarci a una cosa che ancora non conosciamo? Dico, la cosa mi viene annunciata, e lì richiede il mio impegno, richiede che io la valorizzi.

Il fatto è che, poiché questa cosa annunciata ancora non la conosco, corro il rischio di confonderla con altri valori.

Eh, è solo con la conoscenza che non si rischia più di sbagliare.

Si può sbagliare solo quando non c’è la conoscenza, quando abbiamo cioè solo la  presentazione dei valori, quando mi si dice: “questo vale più dell’altro”.

Lì, se penso a me stesso, rischio di dare più importanza a ciò che vale meno: solo che in  quel momento lì la cosa “mi conviene”…ecco, il mio io mi inganna.

Magari la coscienza mi dice: “guarda che senza mangiare non puoi vivere”, ed è un’esperienza che effettivamente ho fatto; e con estrema facilità, allora, finisco con il vivere per mangiare.

La Parola di Dio interviene allora a correggermi; magari io dico: “ma mio padre è sempre vissuto così”…e la coscienza mi approva, se non rapporto l’autorità di mio padre alla Parola di Dio.

Ecco, bisogna confrontarsi col Vangelo: il Vangelo mi dice una cosa diversa, per cui mi mette in crisi, mette in crisi la mia coscienza.

E se mi metto a meditare/approfondire la Parola del Vangelo, la Parola di Dio, non posso che dire: “hai ragione Tu”.

Luigi: L’esperienza, come il nostro corpo, è un campo di gioco tra noi e Dio: operiamo noi, ma opera anche Dio.

Siamo in due…ecco allora che a un certo momento Dio corregge i nostri “tiri”, le nostre azioni…ci modifica.

Quante volte ci ritroviamo a pensare: “ah, io pensavo di ottenere questo, e invece ho ottenuto quest’altro”.

Ecco, mi accorgo che c’è una volontà diversa che “gioca” con me, che opera su di me.

Così come opera, anche, sulla coscienza: svuotandomi i valori.

Bisogna sempre tenere presente questo:

Noi non siamo mai soli.

E allora io magari dico: “parto da qui e arrivo là”; no, tu parti da qui e c’è Qualcuno che ti fa deviare da un’altra parte”!

È la volontà diversa.

Ora, se noi siamo aperti a Dio Creatore, se crediamo in Dio Creatore, cominciamo ad interrogare: “come mai?”.

E attraverso questo dialogo, questo dialogo con Dio, iniziamo a capire quali sono i veri valori che dobbiamo seminare in noi.

Se invece non crediamo in Dio, cominciamo a rimuginare su noi stessi, su dove abbiamo sbagliato, o su come siamo stati sfortunati, ecc.

Cioè, cominciamo a girare a vuoto.

La correzione avviene sempre solo alla luce di Dio: quindi bisogna partire da Dio per arrivare a Dio.

Ogni cosa bisogna sempre riferirla a Dio…ci vuole questa apertura continua: perché Dio è il fine; dunque bisogna che questo fine sia sempre attuale/presente: perché in ogni istante si presentano dei “bivi”…e per poter scegliere la strada giusta dobbiamo ovviamente sempre aver presente il fine giusto.

Se no abbiamo automaticamente presente altre cose: sarà la mia figura, ma resta tutto un girare a vuoto.

Luigi: I valori non entrano consapevolmente, nella nostra coscienza; magari li portiamo dentro da bambini, per cui noi crediamo che: “ma questo è sempre stato bene, quindi devo camminare così”.

Ecco, li abbiamo introdotti “inconsciamente”, e allora essi finiscono col dominarci.

Giovanna: Dunque fino a un certo punto non siamo colpevoli.

Luigi: Non lo siamo; ma quando ci accorgiamo del senso della vita, del vero valore che dobbiamo mettere prima di tutto, eh, è  qui  che  inizia  la  nostra  responsabilità.

Perché ci vuole la nostra partecipazione, per superare tutti i precedenti valori.

Luigi: Per chi è con Dio, il senso di colpa risulta essere un Suo richiamo, per dirci: “guarda che ti sei dimenticato di Me”; si tratta di un aiuto, per cui bisogna ringraziarLo.

Anzi, il Signore dice di essere contento, quando noi manchiamo: perché può così farci constatare maggiormente la Sua Misericordia.

Può dimostrarci meglio il Suo intervento d’amore.

È un motivo in più di unione con Lui.

Quando si ama veramente, si è sempre disposti a perdonare: perché proprio così si dimostra maggiormente l’amore, la comprensione.

Perché l’amore è soprattutto comprensione.

Mente invece, nel pensiero dell’io, noi non perdoniamo e non ci perdoniamo…proprio non abbiamo la possibilità di perdonarci…cadiamo in quelle “colpe” da cui non ne usciamo.

Luigi: Il nostro io  ha mille facce, e poiché la coscienza non sopporta questa molteplicità, lo contraddice.

Luigi: Davanti a noi abbiamo il campo degli esistenti: tante cose; a un certo punto preferiamo una cosa sulle altre: e qui inizia a formarsi la coscienza.

Nella nostra coscienza i valori entrano…inconsciamente: perché ce li formano gli altri…ad esempio: “papà dice che se mangio la marmellata sono cattivo”; e allora la coscienza comincia a funzionare sull’ordine di papà, e quindi, se vado a mangiare la marmellata, la coscienza mi rimorde.

E devo andarmi a confessare, “perché ho disubbidito a papà”!

Luigi: La divisione del gruppo è conseguenza della contraddizione, la quale porta al rimorso.

È la nostra unità interiore a venire divisa, “scorporata” dalla coscienza stessa!

Per cui qui la coscienza diviene un principio di disintegrazione della nostra unità.

E noi non possiamo resistere a questa disintegrazione: è più forte di noi.

Solo se entra un Altro a prendere su di Sé, dicendomi: “te l’ho fatto fare Io”, siamo liberati, perdonati…altrimenti niente.

Allora, la funzione del Cristo è quella: non quella di togliere i peccati, ma quella di “prenderli su di Sé”: dimostrarci che tutto ci ha fatto fare Lui.

Senza Cristo, senza questa Sua opera, la cosa “l’hai fatta tu”, c’è niente da fare: non puoi disgiungere il tuo io da quello.

Se non credi in Dio Creatore, la cosa è legata a te: perchè le hai scelte “le hai fatte tu”; e quando allora la coscienza ti rimorde, puoi trovarti in un ambiente ricchissimo, circondato da gente che ti vuole bene…ma tu corri al suicidio: non puoi farne a meno.

Cioè: si verifica proprio questa azione di rigetto del Regno di Dio/nel Regno di Dio: azione data appunto dalla coscienza.

Alle estreme conseguenze, capiamo come possa esistere il tormento del demonio: il tormento dato dalla contraddizione in tutto, totale; è una contraddizione interiore: subisce un rimorso su tutto.

E già, la contraddizione è insopportabile: solo in Dio abbiamo l’armonia, e dunque la pace.

Cioè, solo con Dio noi possiamo avere questa “fedeltà” con la nostra coscienza, e quindi avere l’armonia universale.

Eligio: Se siamo con Dio attribuiamo tutto a Lui.

Luigi: Non è questo…è Lui che prende su di Sé; è Lui che ci dimostra che ci ha fatto fare…quando sei con Dio, non fai niente da te stesso.

È una sciocchezza, il fatto di dire: “lo attribuiamo”…il giorno in cui dici questo, entri in crisi.

No, bisogna dire: “è Dio che lo fa fare a me”; non è più il mio io che fa, nemmeno che attribuisce…quando tu hai una tua intenzione, hai un bel fischiare “è Dio che me lo fa fare”…eh, se hai una tua intenzione, sei tu che decidi!

Dico: si tratta di non avere intenzioni “nostre”: “il Figlio non fa niente se non lo vede fare dal Padre”.

È Dio, Colui che muove, di conseguenza, tu ti muovi “perché questa è l’intenzione di Dio, perché Dio vuole questo”.

Luigi: La coscienza ci fa sentire i rimorsi appunto per farci capire che abbiamo bisogno di altri valori, di qualcos’altro.

Anche questi rimorsi vanno sempre riportati in Dio: è la continua apertura allo Spirito di Dio. Lo Spirito di Dio non si lascia imbottigliare dalla nostra coscienza, né da regole, o principi.

Perché lo spirito di Dio è una persona.

Si tratta di imparare a vivere con lo Spirito di Dio come una Persona; poiché è Persona, dobbiamo dialogare con Lui: tutto quanto, compreso quello che seminiamo nella coscienza, che avvertiamo nella coscienza.

Il criterio di verità è la Verità stessa: non è né un’autorità esterna, non sono i sentimenti, non sono i bisogni...e non è neppure la nostra coscienza: è soltanto la Verità, la quale è Dio stesso.

Dunque anche la coscienza deve essere mantenuta in costante apertura allo Spirito di Dio: non deve chiudersi in regole o cose simili.

Perchè, come dico, lo Spirito è persona, dunque è novità continua: e dunque richiede una nostra partecipazione/attenzione continue.

Luigi: A Dio tutto è possibile, certo: ma lo è se da parte nostra ci mettiamo a riflettere su di Lui, sulla Sua parola.

Se non ho fede, precipito all’inferno, c’è niente da fare; se ho fece, trovando il Cristo, capisco che tutto quello che è avvenuto nella mia vita, questo sfacelo di valori, è avvenuto per la mia salvezza; capito questo, sono salvo!

Ora però, il Cristo non Lo possiamo incontrare e riconoscere se non siamo attratti da Dio; e per esserlo, ci vuole almeno questa fede che mi fa riflettere sul perché la mia vita sia finita in questo annullamento.

Se mi limito a pensare a me stesso, entro in nevrosi…bisogna arrivare molto in anticipo: gli esempi, che il Signore ci propone, di persone anziane ormai prese da questo “ciclo” irreversibile di chiusura, sono tutte lezioni per noi, per dirci: “guarda che se non arrivi in anticipo, poi dopo è troppo tardi”.

Bisogna arrivare in anticipo, con la partecipazione personale.

Altrimenti quando gli avvenimenti (gli svuotamenti di valore) ci sorprendono, può essere troppo tardi: “camminate con la Luce finché Essa è con voi. affinchè le tenebre non vi sorprendano”; e queste tenebre sono appunto lo svuotamento di valori.

Quindi diciamo: quando tu stesso puoi partecipare ad un superamento di valori, con la tua partecipazione, fallo; e la cosa può addirittura diventare gioiosa, perché la capisci, dici: “sì, effettivamente devo fare così”.

Ma bisogna anticipare; se no Lui arriva come un ladro di notte: vuol dire che Lui ti spoglia, che ti porta via tutti quei valori che avevi in casa.

Però Lui dice: “Io ve lo dico prima, affinchè voi vegliate e no vi lasciate sorprendere”.

E già: se arriviamo in anticipo, il ladro non viene più; perché noi stessi abbiamo operato per liberarci da tutti quei valori che il ”ladro di notte” ci avrebbe portato via.

Ecco: il Vero Valore non viene portato via.

Bisogna arrivare in anticipo perché si sta andando verso una situazione di irreversibilità: bisogna stare molto attenti a questo io che moltiplica i fini senza che nemmeno ce ne rendiamo conto…quasi quasi, anzi, se ne fa motivo di vanto!

Bisogna tenere presente questa coscienza che non sopporta la molteplicità, e che certissimamente va incontro allo svuotamento di valori.

Noi dobbiamo arrivare al Vero Valore “prima” che il Signore ci svuoti tutti gli altri valori.


 Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea». Gv 7 Vs 52  Terzo tema.


Titolo: Il giudizio di valore.


Argomenti: La coscienza memorizza i giudizi di valore – La valutazione – Il tempio di Dio – La volontà vuole il bene soggettivo – La vita è dedizione ad un fine – Il campo dei dati e il campo della vita – Ordinare i dati in relazione a un fine – Preferire – Il metro di misura – Il valore è dato dal confronto Il campo di autorità: gli altri, i bisogni, Dio – L’essere delle cose – La Verità assoluta criterio di verità – Soli di fronte alla Verità – Dio e l’io – I giudizi di valore sbagliati – L’io è bisogno – I concetti di verità e di valore – Il bisogno determina il valore – Il bisogno è cieco – Il bisogno di Dio -


 

9/Ottobre/1983


Osserviamo ancora questa sicurezza dei capi dei sacerdoti, dei farisei nel loro giudizio.

Un giudizio che a posteriori è apertamente errato, perché loro affermarono con sicurezza che da Nazareth non sarebbe potuto venire il Messia.

Nella realtà dei fatti, il Messia veniva da Nazareth.

E questo impedì loro di conoscerlo, di seguirlo, di ascoltarlo.

Di qui ne è venuta una meditazione sopra la sicurezza della coscienza che può ingannare.

Abbiamo dedotto che la coscienza non sia un autorità assoluta, per cui non possiamo fidarci completamente di essa.

In realtà abbiamo visto che la coscienza memorizza i giudizi di valore.

Ma chi introduce nella coscienza questi giudizi di valore?

La valutazione è una cosa della massima importanza nella nostra vita.

Poiché è proprio attraverso il giudizio di valore che noi siamo messi a diretto contatto con le cose e iniziamo la nostra vita personale e l’edificazione del tempio di Dio dentro di noi.

Se teniamo presente che Dio rivela la sua presenza solo nel suo tempio, possiamo renderci conto di quanto importante sia questo giudizio di valori, che è alla base dell’edificazione del tempio di Dio interiore in cui Dio ha riservato la rivelazione del suo volto, della sua presenza, della sua conoscenza, del suo Regno.

Il campo dell’interiorità è quel campo in cui le cose non avvengono senza di noi e proprio perché è interiore nulla avviene senza di noi.

Quindi questa edificazione del tempio di Dio non avviene senza di noi, pur non essendo opera nostra ma opera di Dio.

Tutto questo è fondato sul giudizio di valore.

Il valore è l’elemento fondamentale della nostra vita e della nostra volontà.

Perché la nostra volontà è solo capace di volere ciò che abbiamo riconosciuto come bene, ciò che abbiamo giudicato importante per noi.

Di qui ne scaturisce la dedizione della nostra vita.

La vita è sostanzialmente dedizione a una cosa, dedizione ad un fine.

Abbiamo visto domenica che nella nostra esistenza ci sono due campi ben distinti: c’è il campo delle cose che sono date a noi senza di noi, quindi che sono annunciate a noi, in questo campo c’è la Verità di Dio e tutti gli annunci della Verità di Dio.

Quindi tutto l’universo, tutta la creazione, tutti gli avvenimenti, tutta la storia appartiene a questo campo che è dato a noi senza di noi.

E poi c’è il campo che non è dato a noi senza di noi ed è il campo della vita.

Il punto di raccordo tra i due campi è il giudizio di valore, attraverso cui noi esaltiamo, mettiamo in alto qualcosa del campo delle cose esistenti, lo mettiamo al di sopra di tutto e di qui comincia la nostra vita personale.

Vita personale che consiste essenzialmente nel raccogliere tutto attorno a quel valore che noi abbiamo messo al di sopra di tutto.

Per cui il campo della vita, diventa un campo in cui vengono ordinati e subordinati tutti i dati del primo campo, il campo degli esistenti.

Ordinati secondo quel valore che noi abbiamo posto al di sopra di tutto.

Nel campo delle cose esistenti, cioè nel campo delle cose date a noi senza di noi c’è anche Dio e quando noi esaltiamo un valore diverso da Dio, subordiniamo anche Dio a questo nostro valore, anche se noi siamo religiosi o preghiamo da mattino a sera.

Evidentemente questo giudizio di valori è l’elemento in cui noi ci giochiamo tutta la nostra esistenza.

In base a che cosa noi compiamo questo giudizio di valori?

Perché noi preferiamo una cosa all’altra?

Perché mettiamo l’accento tra tutte le cose che ci vengono date, su una cosa anziché sull’altra?

E mettendo l’accento trasformiamo quella cosa in un bene per noi.

Un giudizio è sempre un rapporto, una misura e il valore è proprio il giudizio su una determinata cosa, misurata con un certo metro.

Evidentemente per misurare si richiede sempre un metro e una cosa da misurare, cioè si richiedono due termini, un confronto tra due termini.

E anche qui tutto dipende dal metro cioè dal punto fisso di riferimento al quale noi rapportiamo ogni cosa per trarne un giudizio.

Se il valore è effetto di un rapporto tra due termini, la prima deduzione che facciamo è che un termine da solo non costituisce un valore, perché il valore è determinato dal confronto di due termini.

Ma se “valore” vuole dire “bene” per la nostra vita, non possiamo dedurre un bene, la conoscenza di un bene, fintanto che non lo raffrontiamo con qualcos’altro.

Abbiamo visto che c’è tutto un campo di autorità da escludere in questi giudizi di valore.

Nella nostra vita, la maggioranza delle volte i giudizi vengono fatti a motivo dell’ambiente che ci sta attorno, di quello che ci dicono gli altri e la maggior parte della nostra vita passa sotto questo giudizio di valori: quello che dicono gli altri.

Ma “gli altri” non costituiscono una autorità come criterio vero nel giudizio di valori per noi.

Il che vuole dire che vivere in funzione all’ambiente che ci sta attorno, conduce la nostra vita ad un fallimento, noi costateremo all’ultimo che la nostra vita si è conclusa in niente.

Quindi nei nostri giudizi di valore, uno dei primi dati che dobbiamo escludere è il mondo esterno.

Un altro campo in cui entrano nella nostra vita i giudizi di valore sono i nostri bisogni, noi il più delle volte diamo valore a una cosa perché risponde ad un nostro bisogno.

E poi abbiamo ancora un altro canale attraverso cui entrano in noi i valori, ed è ciò che una cosa è in sé.

Escluso il campo di tutte le cose esterne che si riflettono anche nella nostra coscienza (che non è un’autorità assoluta) ed esclusa anche la nostra coscienza, abbiamo visto che per potere avere in noi un corretto criterio di verità nel giudizio di valori, si richiede una apertura continua alla Verità stessa.

Perché escludendo da noi ogni altra cosa, non resta altro che la Verità stessa di fronte a noi come criterio di verità.

Cioè la Verità assoluta che è Dio è criterio di verità per i nostri giudizi.

E solo se Essa è il criterio di verità per i nostri giudizi, dà a noi la possibilità di un giudizio di valori corretto.

Ma se escludendo ogni altra cosa diciamo che è solo la Verità che costituisce il criterio per i nostri giudizi, noi veniamo a trovarci a tu per Tu con la Verità stessa.

Cercando qual è il criterio di verità, veniamo a trovarci con questi due soli termini: la Verità assoluta che è Dio e il nostro io, senza più interposta nessuna creatura, senza più interposta neppure la nostra coscienza.

Qui noi siamo soli di fronte a Dio.

Cioè possiamo dire che nei giudizi di valore, noi siamo sempre soli di fronte alla Verità assoluta che è Dio.

“Proprio di fronte a Te, io ho peccato”.

Le nostre scelte, giuste o sbagliate, noi le facciamo sempre davanti a Dio.

E anche quando noi accettiamo come criterio di Verità il giudizio degli altri, già dentro di noi, noi abbiamo fatto una scelta in questo rapporto diretto tra il nostro io e Dio.

Quindi il giudizio di valore scaturisce da due termini: Dio e l’io.

Ma se questi sono i due termini ed abbiamo detto che nel giudizio di valore tutto è determinato dal metro, cioè dal punto fisso di riferimento, noi possiamo tenere come metro Dio o possiamo tenere come metro il nostro io e qui capiamo come sia possibile fare dei giudizi di valore sbagliati.

Perché se noi teniamo come punto fisso di riferimento il pensiero del nostro io, anche Dio viene rapportato al pensiero del nostro io, con tutte le conseguenze e tutti i giudizi sbagliati che ne conseguono.

Il punto fisso di riferimento non può essere il pensiero del nostro io ma è il pensiero del nostro io che deve essere misurato sul vero punto fisso di riferimento che è Dio.

Dio è il termine assoluto, cui tutto va rapportato.

Ma cosa è questo nostro io?

Il nostro io è sostanzialmente bisogno.

Questo termine “bisogno” è essenziale nei giudizi di valore, perché i giudizi di valore non si formano senza di noi.

Cioè il concetto di Verità esiste senza di noi, perché ci trascende ma il concetto di valore, il concetto di bene non esiste senza di noi, quindi non esiste senza il bisogno da parte nostra.

Noi possiamo parlare di verità e di Dio ma fintanto che non si è formato il bisogno di Dio nell’uomo, il nostro parlare è distante, distaccato, non entra.

Questo lo si capisce perfettamente in economia.

Tutti i valori sono dati non da chi li fa, dal creatore dei beni ma da chi ne ha bisogno.

È il bisogno che determina il valore di una cosa.

Quindi fintanto che in noi non si forma il bisogno di Dio, Dio non può diventare un bene.

Io posso parlare di occhiali, dire quanto siano preziosi, importanti e di valore gli occhiali ma se io parlo a persone con la vista buona, tutto il mio parlare serve assolutamente a nulla.

Non è l’elemento in sé che costituisce un bene.

Gli occhiali non sono un bene per coloro che hanno la vista buona.

Se bene è il valore, evidentemente il valore è determinato da chi ne ha bisogno.

Qui per inciso possiamo vedere l’errore di Marx, il quale ha detto che il valore di una cosa è determinato da quanto lavoro c’è in un prodotto.

Non è la quantità di lavoro che richiede un prodotto a determinare il valore di quel prodotto.

Noi possiamo fare un lavoro immane nel produrre un oggetto ma se quell’oggetto non risponde al bisogno di molti, quella cosa lì non ha valore, la dobbiamo buttare via.

Chi determina il valore di un oggetto è colui che ha bisogno di quell’oggetto.

Ma non è sufficiente avere bisogno di una cosa per riconoscere il valore di quella cosa.

Un malato evidentemente è in una situazione di bisogno ma non può valutare una cosa, fintanto che non la incontra.

Chi ha bisogno come un malato si trova in una situazione di disagio, però fintanto che non gli si presenta un bene specifico per il suo male, lui non può emettere un giudizio di valore, un giudizio di bene.

Notiamo che il giudizio di bene di una cosa è soggettivo, tant’è vero che quando uno è malato, gli si possono presentare dei medicinali fasulli, l’importante è che lui li ritenga validi per sé e lui farà di tutto per procurarseli, perché quello gli è stato presentato come un rimedio per il suo male.

Se il malato si è convinto che un certo rimedio risolve la sua malattia, questo è sufficiente perché per lui sia un bene e se è un bene lui pagherà un prezzo, cioè si sacrificherà per possedere quel bene.

Il bisogno è condizione essenziale per dare un giudizio di valore, di bene, questo è importante perché soltanto riconoscendo il bene di una cosa, noi cominciamo a dedicare la nostra vita a quella cosa, cioè noi sentiamo la disponibilità a pagare un certo prezzo per ottenere quella cosa.

Il bisogno è essenziale ma non è sufficiente, perché il bisogno ci può fare sbagliare, infatti un malato in situazione di bisogno può sbagliare perché credendo che una medicina risolva il suo male, paga profumatamente per poi magari scoprire che quella medicina non risolve il suo male.

Il bisogno è cieco, di per sé non è luce, eppure è essenziale perché scatti in noi il giudizio di bene, il giudizio di valore.

Allora che cosa è necessario affinché il bisogno sia illuminato per fare un vero giudizio di valore?

Essendo solo due i termini, soltanto deducendo da Dio.

I due termini sono Dio e io.

Il nostro io è essenzialmente bisogno, bisogno di assoluto, però corriamo il rischio di sbagliare per tutta la vita, perché proiettiamo questo bisogno di assoluto, verso tutte le cose cui ci rivolgiamo.

Avendo fame di assoluto, tutte le cose che incontriamo le scambiamo per assoluto e fatichiamo tutta la vita per trasformare in assoluto il relativo che abbiamo incontrato.

Quindi questo bisogno che caratterizza l’io umano, è uno dei due termini per il giudizio di valore, l’altro termine è Dio.

Dio da solo non costituisce un bene, perché in noi scaturisca il concetto di bene nei riguardi di Dio è necessario che Dio sia raffrontato al bisogno, cioè che in noi nasca il bisogno di Dio ma il bisogno di Dio nasce solo da Dio.

Quindi soltanto meditando, riflettendo, impegnandosi con Dio, si definisce in noi, prende forma in noi il bisogno di Dio, per cui noi capiamo che quel bisogno indefinito di assoluto che portavamo in noi (“la nostra malattia”) acquista un nome e un volto ben preciso: bisogno di Dio.

Soltanto in quanto in noi si forma questa consapevolezza che l’essenza del nostro stesso io è bisogno di Dio, in noi si forma la possibilità di un giudizio di valore giusto e quindi la possibilità di scegliere il vero bene.

In caso diverso noi sbagliamo tutta la vita, fintanto che non si forma in noi questo bisogno specifico di Dio.

Bisogno di Dio che si deduce soltanto da Dio come punto fisso di riferimento.



Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea». Gv 7 Vs 52 Quarto tema.


Titolo: Il nome del nostro bisogno.


Argomenti: La coscienza – I giudizi di valore – Il valore è relativo al bisogno – L’autorità del bisogno – Il bisogno d’assoluto – Dare un nome al nostro bisogno – Il concetto di bene soggettivo – Il bisogno è mancanza – Bisogno e valore – L’oggetto del bisogno – Solo Dio qualifica il nostro bisogno – Dio autorità assoluta – Il bisogno informe – Dedurre il bisogno da Dio – Adamo e il vero nome alle creature – Il nostro bisogno alla presenza di Dio – Strumentalizzare Dio – La vera religione è rapporto personale con Dio – Il padre del bisogno – Dedurre il bisogno da Dio -


 

16/ Ottobre/1983


Le domeniche precedenti abbiamo visto come la coscienza non sia e non debba essere un autorità assoluta nella nostra vita, poiché essa memorizza quei giudizi di valore che noi stessi lasciamo entrare in noi.

Domenica scorsa parlando dei giudizi di valore abbiamo visto che a fondamento di essi sta il bisogno, cioè il valore, il concetto di bene è sempre relativo al bisogno.

Ricordiamoci l’esempio degli occhiali che per quanto siano preziosi e utili, non possono essere un bene, un valore per coloro che hanno la vista sana, buona.

Questo ci ha fatto capire che l’elemento determinante nella nostra vita circa il concetto di bene, di valore deriva, sta nel bisogno.

Allora forse il bisogno in noi è un’autorità assoluta, alla quale noi tutto dobbiamo sottomettere?

Effettivamente nella vita della maggior parte degli uomini il bisogno è un’autorità assoluta alla quale tutto sottomettono e in nome del quale tutto giustificano.

Tutta l’economia è basata sopra i bisogni.

I prezzi sono determinati dai bisogni.

Questo è vero?

Quando noi ci lasciamo determinare dai bisogni come prima autorità nelle scelte e nei giudizi della nostra vita, noi facciamo due errori.

Il primo è quello di ritenere assoluto quel bene che in funzione del bisogno scegliamo.

Teniamo presente che noi siamo bisogno di assoluto e proiettiamo questo bisogno d’assoluto su tutte le cose cui ci rivolgiamo, su tutte le cose che amiamo.

Questo ritenere assolute le cose che si presentano nella nostra vita è una conseguenza del ritenere il bisogno come autorità assoluta della nostra vita.

Tutte le cose però presto o tardi ci rivelano la loro relatività, ci disilludono e qui facciamo il secondo errore, ci affatichiamo per cercare di rendere assoluto, eterno, quello che ci sta scappando dalle mani.

Tutto il lavoro e la fatica umana è cercare di fare stare su delle cose che stanno crollando.

Tutto questo ci fa capire che noi non dobbiamo cercare di adeguare le cose al nostro bisogno se non vogliamo incappare in quelli che sono i muri esistenziali che ci tormentano, che pesano su di noi e che ci chiudono in una prigione.

Non dobbiamo cercare di adeguare le cose ai nostri bisogni ma piuttosto è il nostro bisogno che si deve adeguare alle cose.

Il nostro bisogno è anonimo, non è determinato, anzi se approfondiamo il concetto di bisogno, vediamo che è costituito essenzialmente da una mancanza di-.

Proprio perché il nostro bisogno è mancanza di-, non può e non deve essere un’autorità assoluta, non deve essere un punto fisso di riferimento.

Essendo mancanza di-, è dipendente da-.

Ma dipendente da che cosa?

Tutto sta nel potere dare un nome, nel potere qualificare il bisogno che portiamo in noi.

Il bisogno che portiamo in noi è un bisogno d’assoluto.

Ma quest’assoluto noi lo proiettiamo su tutte le cose che incontriamo e che vediamo.

Quand’è che a noi è possibile riconoscere la qualità del bisogno che portiamo in noi?

Se il bisogno è mancanza, è privazione di qualcosa, solo scoprendo quel qualcosa di cui noi siamo mancanti, potremo anche individuare e dare un nome al nostro bisogno.

E dando il nome al nostro bisogno, noi qui adesso abbiamo la possibilità di riconoscere il nostro vero bene, prima no.

Noi possiamo parlare e occuparci di Dio ma questo non muove assolutamente quell’anima che non ha scoperto in se stessa il bisogno di Dio.

Perché il bisogno è un passaggio obbligato per arrivare a scoprire il bene che una cosa è.

E fintanto che noi non scopriamo il bene che quella cosa è, la nostra volontà non si muove.

Ricordiamo l’esempio degli occhiali: chi ritiene di avere la vista buona, non può assolutamente desiderare gli occhiali.

Il desiderio in noi, la volontà e quindi tutte le scelte conseguenti, passano attraverso questo punto fisso obbligato: il concetto di bene per me.

Può anche essere un errore, perché noi possiamo anche illuderci che una cosa sia bene per noi e poi restarne delusi, però se attualmente riteniamo che quella cosa lì sia un bene per noi, noi siamo disposti a pagare un prezzo.

Abbiamo detto domenica che non è la Verità in Sé che è un valore per noi, ma il concetto di bene.

Fintanto che noi non passiamo a questo concetto di bene che è subordinato al bisogno, noi non possiamo volerlo.

Però il bisogno deve passare dalla categoria di bisogno anonimo, bisogno che non sa quello che vuole a bisogno che sa quello che vuole.

Cioè il nostro bisogno deve essere sposato, unito ad una cosa.

Può darsi che noi sentiamo un bisogno ma non troviamo l’oggetto corrispondente a questo bisogno, allora noi ci troviamo in situazione di disagio, perché non possiamo trovare l’oggetto, perché non lo abbiamo individuato.

Può darsi anche che la cosa ci venga presentata ma noi non l’abbiniamo al nostro bisogno e allora non c’è neppure la sofferenza della privazione, perché noi non abbiamo individuato ciò di cui siamo privi, ciò di cui manchiamo.

Cos’è che dà a noi la possibilità d’individuare, di riconoscere ciò di cui noi siamo privi? È soltanto quella cosa da cui dipende il nostro bisogno.

A questo punto è facile il passaggio: soltanto Dio qualifica il bisogno che portiamo in noi.

Soltanto Dio dà un nome al bisogno che portiamo in noi.

Cioè soltanto partendo da Dio come autorità assoluta, come creatore, quindi facendo dipendere tutto da Dio (anche il nostro bisogno), noi siamo condotti a scoprire la qualità del nostro bisogno che noi già portavamo in noi come bisogno generico, anonimo, senza nome e senza padre, ma non potevamo dire ciò di cui veramente avevamo bisogno.

Quando uno non ha riconosciuto la cosa di cui ha bisogno, lui è portato ad essere attento a tutto ciò che gli si presenta.

Un uomo che cerca una donna è aperto a tutte le donne che incontra e una donna che cerca un uomo è aperta a tutti gli uomini che incontra, il bisogno è ancora informe, non è formato, non ha un nome.

Chi qualifica il nostro bisogno è soltanto colui che ha determinato il nostro bisogno, cioè colui di cui noi siamo mancanti.

E solo scoprendo il nome del nostro bisogno, cioè soltanto scoprendo la qualità del nostro bisogno, adesso noi abbiamo la possibilità di volere e questo allora diventa il mio bene.

Qui capiamo come arrivare a riconoscere che Dio è davvero il mio bene.

Soltanto in quanto noi scopriamo che il bisogno che portiamo in noi è mancanza di Dio.

E per vederlo come “mancanza di Dio” dobbiamo vederlo come opera di Dio, come deduzione da Dio.

Quando Dio creò Adamo, presentò ad Adamo tutte le creature, affinché Adamo alla presenza di Dio (questo è importante) desse un nome a tutte le creature e la Bibbia aggiunge: “Quello fu il vero nome delle creature”.

Il nome che Adamo diede alle creature alla presenza di Dio.

Per Adamo tutte le creature erano anonime senza nome, senza qualità, soltanto alla presenza di Dio, Adamo ha avuto la possibilità di dare un nome a tutte le creature, così anche il bisogno che portiamo in noi, è una creatura senza qualità, senza nome, chi dà a noi la possibilità di dargli un nome, di qualificare questo bisogno è soltanto Dio, ma è necessario che come Adamo, noi portiamo questo bisogno alla presenza di Dio.

E alla presenza di Dio e da Dio noi possiamo riconoscere che il bisogno che portiamo in noi è essenzialmente mancanza di Lui, privazione della conoscenza di Lui.

Scoprendo questo abbiamo la possibilità in noi di riconoscere il concetto di bene, di valore per noi, cioè di riconoscere il bene e ciò di cui noi manchiamo.

Abbiamo capito che ciò di cui manchiamo è la conoscenza di Dio, adesso avendo capito questo, possiamo dire: “Tu Signore sei il mio bene”.

A questo punto abbiamo la possibilità di volere Dio nella nostra vita.

Anche prima noi possiamo essere religiosi e pregare Dio ma non ci rendiamo conto che utilizziamo Dio come uno strumento per raggiungere il nostro bene ma il  nostro bene non è Lui, è altro, facciamo servire Dio al nostro bene.

Il nostro bene è ciò che noi abbiamo unito al nostro bisogno, noi possiamo essere religiosissimi e preghiamo Dio perché aiuti noi a raggiungere il nostro bene ma il nostro bene non è Dio.

Fintanto che noi non arriviamo al rapporto personale con Dio, in modo da riconoscere che il nostro bene è Dio, noi non scopriamo la vera religione, questo vero rapporto tra la nostra anima e Dio, perché a questo punto la Verità di Dio è passata da Verità di Dio in Sé a quello che è bene, valore per me, per la mia vita.

 

Il nostro bisogno è, come tutte le creature senza padre, è una mancanza di-, ma noi non sappiamo di cosa sia assente, perché chi dà a noi la possibilità di qualificare le cose è soltanto la paternità.

Fintanto che non vedo Dio come Padre del mio bisogno, non posso nominare il mio bisogno, cioè non posso qualificare il mio bisogno.

Per cui abbiamo messo in rapporto la cosa in sé, come valore e il bisogno.



Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea». Gv 7 Vs 52 Quinto tema.


Titolo: Il Signore del bisogno.


Argomenti: La relatività della coscienza – I giudizi di valore – Il bisogno e i valori – La luce del bisogno – Il nome delle creature in Adamo - Strumentalizzare Dio – Il vero bene soggettivo – La religiosità che illude – Bene finale e bene strumentale – La vera religiosità – La primogenitura di Esaù – L’uomo è essenzialmente bisogno – Il bisogno alla presenza di Dio – Figlio di N.N. – Il vero nome delle cose -


 

23/ Ottobre/1983 Vigna


Siamo fermi a questa sicurezza che l’autorità aveva nel giudicare Gesù.

E ci siamo chiesti come sia possibile avere una sicurezza anche nell’errore, poiché qui evidentemente stavano sbagliando tutto nei riguardi di Gesù.

Eppure questi farisei avevano una sicurezza in coscienza.

Abbiamo visto la relatività dei giudizi della nostra coscienza, per cui ne abbiamo dedotto che non possiamo fidarci completamente di essa.

La coscienza non è nell’uomo una autorità assoluta.

Avevamo già scartato precedentemente l’autorità esterna come autorità assoluta, poi siamo passati dall’esterno all’interno all’autorità della coscienza e anche qui abbiamo dovuto oltrepassare quest’autorità della coscienza, perché presenta un aspetto relativo e ci può anche ingannare.

Di lì siamo passati ai giudizi di valore, poichè è proprio attraverso i giudizi di valore che si forma la nostra coscienza.

E dai giudizi di valore siamo giunti al bisogno come elemento determinante i giudizi di valore.

E abbiamo visto che ciò che dà valore alle cose è il bisogno che uno ha di queste.

Ma proprio esaminando i giudizi di valore, abbiamo visto che il bisogno pur essendo autorità assoluta per gli uomini e che determina tutte le nostre scelte, non è e non deve essere un’autorità assoluta, perché ci fa sbagliare e sbagliare di molto.

Quindi anche il bisogno va superato.

Il bisogno che portiamo in noi deve trovare una qualifica, deve trovare una luce, deve trovare un nome.

Il tema di oggi è che cosa possiamo fare per dare il vero nome al nostro bisogno, che cosa possiamo fare per dare il vero nome alle cose.

Noi nominiamo tutte le cose, perché tutti i giorni giudichiamo tutte le cose che arrivano a noi.

Non le possiamo giudicare per quello che esse sono, perché questo sfugge a noi ma ne giudichiamo il valore e il valore è sempre rapportato al bisogno che portiamo in noi.

Che cosa possiamo fare per dare il vero nome alle cose?

La scena fondamentale da tenere presente è sempre quella della creazione in cui Dio presenta ad Adamo tutte le creature, affinché Adamo alla presenza di Dio, dia ad esse il nome.

E la scrittura commenta dicendo che questo fu il vero nome.

Teniamo presenti questi tre elementi fondamentali: Dio Creatore, Adamo creatura e le creature che vengono presentate da Dio ad Adamo.

Questa scena non ci è posta per un dato culturale o naturistico ma ci è stata posta all’inizio dei rapporti tra Dio ed Adamo come lezione fondamentale per la nostra vita.

Poiché in realtà ogni giorno Dio presenta a noi la sua creazione.

Ma qui capiamo anche che Dio ci presenta ogni giorno la sua creazione: creature e fatti affinché noi diamo a loro un nome.

Noi il nome lo diamo ma lo diamo sempre alla presenza dei nostri bisogni.

Abbiamo già visto la volta scorsa come questo giudizio di valori in base ai nostri bisogni ci faccia errare, poiché in un primo tempo ci fa ritenere le cose che si presentano a noi come assolute, poi Dio facendoci scoprire che queste mutano, c’introduce nella grande tribolazione per cercare (inutilmente) di renderle assolute, mentre esse sono destinate a tramontare.

Ma c’è un errore ancora più grande in questo giudizio di valore, in questo giudizio di bene ed è l’errore di scambiare come religioso ciò che religioso non è.

Noi proprio giudicando in base ai nostri bisogni e soprattutto giudicando in base al nostro bisogno di assoluto, noi siamo portati a ritenere di essere credenti, di essere religiosi, di avere Dio come nostro vero bene, perché lo preghiamo magari da mattina a sera, perché crediamo in Lui, perché chiediamo aiuto a Lui.

Ma stiamo attenti che noi possiamo rivolgerci a Dio, per chiedergli aiuto per un nostro vero bene che non è Lui.

Cioè noi possiamo strumentalizzare Dio ai nostri fini.

Il nostro vero bene è ciò a cui noi dedichiamo i nostri pensieri, le nostre preoccupazioni, il nostro tempo, la nostra vita.

Questo è il vero valore che noi abbiamo messo al di sopra di tutto.

E come dico, noi generalmente scegliamo questo in funzione del nostro bisogno principale.

Orientati così, poi se siamo credenti, ci rivolgiamo a Dio, lo preghiamo, lo imploriamo per ottenere da Lui l’aiuto per conseguire il nostro fine, non per avere Dio come nostro fine.

Quindi non è che noi abbiamo giudicato Dio come vero bene, noi abbiamo giudicato come vero bene altro e poi ci rivolgiamo a Dio perché ci aiuti a conseguire quest’altro.

È un errore grave perché ci fa scambiare per religiosità, quella che è strumentalizzazione di Dio ai nostri fini.

Qui allora dobbiamo distinguere due categorie di beni; c’è il bene che noi mettiamo al di sopra di tutto (bene finale) e c’è il bene strumentale, quello che serve per conseguire il bene finale.

Fintanto che noi ci rivolgiamo a Dio come aiuto per conseguire il nostro bene finale diverso da Dio, noi non siamo religiosi.

La vera religiosità sta nell’avere Dio come bene finale.

E da cosa ce ne accorgiamo se abbiamo Dio come bene finale?

Lo abbiamo come bene finale se a noi interessa conoscere Lui, conoscere il suo pensiero, conoscere la sua volontà.

Se a noi non interessa né conoscere Lui, né quale sia il suo pensiero, né quale sia la sua volontà ma c’interessa quello che Lui può dare a noi, quello in cui Lui può servirci, questo è un segno che in noi Dio non è bene finale ma è strumentalizzato, a servizio di un altro bene finale relativo al pensiero di noi stessi.

È facile cadere in questo errore, perché poi abbiamo tutto il mondo che ci approva in questa situazione.

È un po’ il dramma di Esaù che il mondo giustifica.

Perché quando Esaù di fronte al piatto di lenticchie di Giacobbe, era affamato dice: “Che cosa mi importa della primogenitura se io sto morendo di fame?” è l’argomento fondamentale con cui noi giustifichiamo tutte le nostre scelte di vita, perché se io sto morendo di fame, quello che importa è risolvere ora questo problema.

E non ci accorgiamo che disprezziamo il nostro diritto alla primogenitura: tu uomo sei stato creato per conoscere Dio.

Tutto questo è perché noi diamo un nome alle cose in funzione del nostro bisogno.

Ma abbiamo già visto che il nostro bisogno non deve essere in noi un’autorità assoluta.

E allora dove dobbiamo rivolgerci e come possiamo fare per dare il vero nome alle cose e per superare questo principio del nostro bisogno come elemento determinante nelle nostre scelte?

La scena fondamentale cui dobbiamo riferirci è quella di Adamo.

Il Signore presenta ad Adamo la creazione, affinché Adamo dia il nome a tutte le cose.

Adamo rappresenta ogni uomo.

Ma andiamo più a fondo, cos’è questo Adamo?

Noi essenzialmente siamo bisogno, siamo fame e siamo sete.

Adamo è bisogno.

Allora abbiamo Dio che presenta al “bisogno” tutte le sue opere, tutte le sue creature, perché il “bisogno” le nomini alla presenza del Signore.

Cioè il bisogno non deve essere l’autorità assoluta e ogni cosa è presentata dal Signore quindi ogni cosa deve essere valutata alla presenza del Signore.

Ecco qui l’autorità assoluta, alla presenza della quale il nostro bisogno deve valutare tutte le cose.

Il bisogno è importantissimo perché il bisogno è quello che determina il valore delle cose.

Però il bisogno non deve essere un’autorità assoluta.

Il bisogno deve valutare le cose alla presenza di Dio, il creatore di tutte le cose.

Cos’è questo bisogno messo alla presenza di Dio?

Adamo, il bisogno posto di fronte a Dio è il bisogno che oramai non è più anonimo, è il bisogno che oramai ha ricevuto un nome.

Il bisogno lo possiamo paragonare ad un figlio di N.N., ad uno che è senza padre e senza madre.

C’è il bisogno d’assoluto in noi, però non ha nome e dobbiamo dargli un nome, anzi è la prima creatura che deve avere un nome per poter avere la possibilità di potere dare un nome a tutte le altre cose.

Soltanto se il nostro bisogno riceve il vero nome ha la possibilità a sua volta di dare un nome a tutte le cose, di dare il vero valore.

Ma se non riceve un nome, il nostro bisogno in tutti i suoi giudizi di valore, dà dei giudizi che sono errati.

E non può farne a meno perché diventa un’autorità assoluta ma il nostro bisogno non è un’autorità assoluta perché il nostro bisogno è mancanza di-.

Se è mancante di qualcosa, non può essere un’autorità assoluta, poiché dipende da ciò di cui manca.

Adamo posto di fronte al suo Signore, è il bisogno posto di fronte al Signore del Bisogno.

Il Signore del Bisogno è ciò di cui il nostro bisogno manca, è privo.

Proprio di fronte al Signore, il bisogno riceve la paternità, riceve un nome.

Viene qualificato.

Cioè abbiamo il figlio di N.N. che trova suo padre.

Trovando suo padre adesso questo bisogno è qualificato e ha la capacità di dare un nome a tutte le cose.



Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea». Gv 7 Vs 52 Sesto tema.


Titolo: Dio finale e Dio strumentale.


Argomenti: Bene finale e bene strumentale – L’illusione della fede – Il disinteresse per conoscere Dio – Noi avvertiamo solo la presenza del fine – La mancanza di Dio dedotta da Dio creatore – Il nostro bisogno è cieco – La distanza dell’anima da Dio – Esperimentare la presenza di Dio – Rapporto diretto del bisogno con la sua Causa -


 

30/Ottobre/1983


Dopo quanto detto domenica scorsa, mi sembra che adesso possiamo rispondere alla domanda: come mai alcuni, pur credendo alla verità di Dio, pur avendo fede, pur essendo religiosi, pur pregando Dio, hanno difficoltà a prendere contatto con Lui, ad avvertire la sua presenza.

Ogni cosa può essere considerata come un bene strumentale o un bene finale, e questo varia da ognuno di noi.

Basta considerare che se noi andiamo a trovare una persona, possiamo andare per conoscerla, per conoscere il suo animo, i suoi pensieri, la sua mentalità, ciò per cui essa vive, i desideri che essa ha o possiamo andarla a trovare per ottenere da essa un servizio, un favore per qualcosa di nostro.

Nel primo caso noi consideriamo quella persona come un bene finale, entriamo nell’amore, nel secondo caso invece quella persona per noi è un bene strumentale.

Quando noi siamo legati a beni strumentali o adoperiamo cose o persone, noi crediamo, appunto perché ci rivolgiamo a queste cose di amarle, è l’inganno in cui molti che si credono religiosi vengono a trovarsi nei riguardi di Dio.

Si ritengono religiosi, credono di pregare, vanno in chiesa, ossequienti a riti e funzioni, sono magari molto scrupolosi nei loro doveri, eppure non hanno Dio come fine, cioè considerano Dio come mezzo per ottenere da Lui un aiuto.

Ecco Dio per loro è un bene strumentale.

Non è il bene finale.

Si può essere in rapporto strumentale con Dio ed avere l’illusione di essere giusti, fedeli e religiosi.

Sintomo del fatto che per noi Dio è un bene strumentale è che a noi non interessa conoscere Dio.

A noi non interessa cercare Dio, conoscere chi sia Dio, quale sia la sua volontà, quale sia il suo spirito, non interessa il fine suo, a noi interessa il servizio che Lui ci può offrire, l’aiuto che può darci.

Questo è il sintomo che per noi Dio è un bene strumentale.

Penso che sia facile per ognuno di noi riconoscere a quale delle due categorie appartiene.

Comunque fintanto che in noi non si sveglia questa attrazione, questo bisogno per cercare e conoscere Dio in Sé, noi siamo sempre nella sfera del campo dei beni strumentali nei riguardi di Dio.

Fintanto che Dio per noi è un bene strumentale, è impossibile per noi stabilire un rapporto diretto, di unione tra la nostra anima e Lui.

Perché noi siamo in rapporto diretto, sentiamo la presenza soltanto nei riguardi del fine, del bene finale, qui abbiamo un rapporto personale, tutto il resto rientra nel campo dei beni strumentali.

E fintanto che Dio per noi, rientra nel campo dei beni strumentali, dio non è al suo posto o meglio: noi non siamo al giusto posto nei riguardi di Dio e quindi non possiamo eliminare la distanza tra noi e Dio.

Per Dio noi sarà sempre assente, tranne quei casi particolari in cui Dio risponde alla nostra preghiera, dandoci una soddisfazione al nostro desiderio, per farci sentire in qualche modo la sua presenza, ma il nostro rapporto è sbagliato.

Fintanto che per noi Dio è un bene strumentale, Dio sarà sempre alla stessa distanza dalla nostra anima, noi non potremo avvertire la sua presenza, perché noi avvertiamo la presenza diretta soltanto del bene finale.

Di quello che noi abbiamo per fine.

Possiamo fare qualcosa?

Per fare qualcosa bisogna sempre collegarci con il fine per cui Dio ci ha creati.

Il concetto di bene passa attraverso il bisogno nostro e bisogna  scoprire che l’anima, la sostanza del bisogno, quindi della privazione in cui ci troviamo è la conoscenza di Dio.

Ogni uomo soffre per la mancanza della conoscenza di Dio ma non lo sa, perché per saperlo  deve dedurlo da Dio creatore.

Il bisogno di per sé è informe, non è determinato, è un bisogno d’assoluto che si proietta su tutte le cose che incontra ma di per se è indeterminato, non si conosce, il nostro bisogno è cieco, ha bisogno di essere illuminato, luce sul nostro bisogno è la causa di esso, ma la causa di esso è Dio creatore.

Soltanto se noi mettiamo in rapporto il nostro bisogno con Dio creatore, lì veniamo a scoprire che il nostro bisogno, cioè la nostra mancanza, è mancanza della conoscenza di Lui.

Conoscendo che il nostro bisogno è questo, qui Dio diventa per noi il bene finale e non il bene strumentale, qui entriamo in rapporto diretto con Lui, qui sottomettiamo tutto a Lui, perché noi quando abbiamo scelto un bene finale, subordiniamo ogni altra cosa a esso.

Fintanto che per noi Dio è un bene strumentale e lo preghiamo perché ci aiuti a raggiungere un nostro fine diverso da Lui, noi non possiamo esperimentare la presenza di Dio, non possiamo esperimentare la vicinanza di Dio, perché noi tendiamo a sottomettere Dio a un fine diverso da Lui stesso.

Evidentemente qui c’è un errore di fondo, errore che impedisce a noi di eliminare le distanze, tra i nostri pensieri e Lui, tra la nostra anima e Lui.

Soltanto se mettiamo Dio come nostro bene finale, mettendo in rapporto diretto il nostro bisogno con Lui, soltanto così noi possiamo esperimentare la presenza di Dio, perché facendo così subordiniamo ogni altra cosa a quello.



Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea». Gv 7 Vs 52 Settimo tema.


Titolo: Il bisogno soddisfatto.


Argomenti: La coscienza e Dio – La relatività della coscienza – Dio bene strumentale o finale – L’autorità assoluta – Il bisogno di Dio e Dio – Gli errori di assenza e presenza di Dio – L’esperienza della presenza – La presenza è sintesi di due fattori – Presenza e conoscenza – Dio fine, Dio mezzo – Contemplare l’opera dell’io – La natura di Dio e del bisogno – Dio si lascia strumentalizzare -  


 

6/Novembre/1983 Fossano


Abbiamo visto queste ultime due domeniche, due errori che possono succedere nella vita religiosa.

Il primo è quello di ritenerci religiosi perché preghiamo, perché crediamo in Dio, perché siamo ossequienti alle regole della vita religiosa, riti, funzioni, partecipiamo ai sacramenti, senza però sentire il desiderio di cercare e di conoscere Dio.

Noi possiamo anche sentire il desiderio di conoscere Dio ma trovarci sempre ad una certa distanza, non riuscire cioè ad attingere la sua presenza, a toccare qualcosa di Lui.

Queste due situazioni sono conseguenza del fatto che implicitamente in noi Dio viene considerato come un bene strumentale e non come un bene finale.

Cioè non guardiamo a Dio come fine ma guardiamo a Dio come aiuto per raggiungere qualche altro nostro fine.

Stasera dobbiamo considerare un altro errore che si può fare di fronte all’autorità assoluta.

Abbiamo visto che si approda alla autorità assoluta attraverso questi due termini: bisogno di Dio e Dio.

A un certo momento veniamo a trovarci su quell’orizzonte in cui due soli sono gli elementi che abbiamo davanti a noi.

Il primo è il bisogno dell’assoluto che denota in noi una mancanza di assoluto e il secondo è l’assoluto stesso.

Veniamo cioè a trovarci con la sete e la sorgente.

La fame e il pane.

Il bisogno di Dio e Dio stesso.

Di fronte a questa situazione c’è un errore “di presenza” che noi possiamo fare, un errore costatando la presenza di Dio, o meglio ritenendoci soddisfatti dell’esperienza della presenza di Dio.

Per cui si vive in continuazione un contatto con Dio, di ripetere in continuazione l’esperienza di Dio che magari abbiamo potuto fare, che abbiamo incontrato.

Per potere approfondire questo errore, dobbiamo prima di tutto osservare cos’è l’esperienza della presenza di qualcosa.

Si esperimenta la presenza come sintesi di due fattori: un fattore soggettivo e un fattore oggettivo, cioè come fusione del desiderio di qualcosa, con quel qualcosa che risponde al nostro desiderio.

Per cui diciamo che la presenza è la sintesi di due fattori.

Se manca il primo o il secondo l’esperienza di presenza non si verifica.

Tenendo presente questo e tenendo presente che di fronte all’autorità assoluta, a Dio, noi veniamo a trovarci con il nostro bisogno di Dio.

Nella morte noi saremo essenzialmente bisogno di Dio, scadranno tutti gli altri bisogni e resterà solo il nostro bisogno di Dio di fronte a Dio stesso.

Evidentemente avendo due elementi abbiamo la possibilità di stabilire due rapporti diversi.

Cioè possiamo mettere l’accento sul bisogno di Dio e vedere Dio come Colui che soddisfa questo bisogno, oppure mettere l’accento su Dio e vedere il nostro bisogno come una espressione di Dio.

A seconda del caso, vengono a determinarsi due tipi di presenze diverse.

Possiamo vedere la presenza di Dio come Colui che soddisfa il nostro bisogno e allora qui verifico una presenza, la presenza di Dio, desiderando una caramella, noi esperimentiamo la presenza di Dio in quanto Lui ci fa arrivare la caramella. In quanto il nostro bisogno è stato soddisfatto esperimentiamo la presenza di Dio ma corriamo il rischio, avendo esperimentato la presenza, di scambiare questa presenza per conoscenza.

E se scambiamo questa presenza per conoscenza, succede che adesso noi tendiamo a ripetere questa esperienza, per ritrovare quella presenza, ritenendo che la nostra pace stia nel ritrovare l’esperienza di questa presenza che si può ripetere in molti modi, a seconda delle diverse espressioni del nostro bisogno, comunque è sempre per mezzo del nostro bisogno che è stato soddisfatto da Dio.

Il bisogno soddisfatto ci dà la pace, ci fa esperimentare la presenza di Dio , ma non ci accorgiamo che abbiamo implicitamente creato uno scambio dal Dio fine al Dio mezzo, poiché è il nostro bisogno che è stato soddisfatto.

L’errore sta nel confondere l’esperienza della presenza di Dio con la conoscenza di Dio.

La conoscenza di Dio non si deve confondere con l’esperienza della presenza di Dio.

Quando invece noi abbiamo Dio come vero fine, noi non cerchiamo Dio come Colui che soddisfa il nostro bisogno, ma tendiamo a vedere, a capire il bisogno che viene da Dio, che discende da Dio, che discende da ciò che Dio è.

Quindi più che cercare di soddisfare il nostro bisogno, cerchiamo di capire perché esiste questo nostro bisogno in rapporto alla natura di Dio.

Cioè dal momento che esiste Dio, cos’è questo bisogno di Lui che portiamo in noi.

Qui abbiamo Dio come fine.

E anche se il nostro bisogno non è soddisfatto, e anche se non sperimentiamo ancora la sua presenza, per noi Dio è il termine a cui guardiamo.

Mentre invece nel primo caso, noi tendiamo a interrogare magari Dio, a misurare tutto con Dio ma unicamente per risolvere i nostri problemi ed essere noi soddisfatti.

Qui non contempliamo Dio ma contempliamo noi stessi, noi siamo in pace non in quanto conosciamo Dio o lo cerchiamo di conoscere, ma siamo in pace, in quanto vediamo che il nostro io agisce, fa compie opere perfette perché ispirate da Dio, ma la meta per noi non è la contemplazione di Dio, di quello che Dio è in Sé, la meta per noi a questo punto è contemplare il nostro io e quello che fa il nostro io.

Senza rendercene conto noi scambiamo il fine per un mezzo.

Prima gli errori li facevamo in quanto scambiavamo i mezzi per fini, tutta la creazione e le creature sono mezzi per arrivare a conoscere Dio ma possiamo anche arrivare a scambiare il fine per un mezzo.

E lo scambiamo in quanto luogo di pace e riposo, nostra meta è quella di contemplare il nostro io che agisce, che fa bene, con l’aiuto di Dio, ecco Dio come mezzo.

È l’errore estremo che possiamo fare perché è dato proprio dall’ultimo rapporto tra il nostro bisogno e l’autorità assoluta di Dio.

Anche di fronte all’autorità assoluta di Dio che porta noi ad esperimentare la sua presenza, noi possiamo fare l’errore di scambiare questa esperienza della presenza di Dio al posto della conoscenza di Dio e quindi di contemplare il pensiero di noi stessi che agisce e che fa, anziché avere come luogo di pace la conoscenza di quello che Dio è in Sé.



Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea». Gv 7 Vs 52 Ottavo tema.


Titolo: Concetto e natura del bisogno.


Argomenti: Dio e il bisogno di Dio – Bisogno e presenza – L’esperienza della presenza di Dio -  Presenza e conoscenza – Il mistero della Trinità – I giudizi di valore e il bisogno – Bisogno, valore, dedizione, conoscenza – Il bisogno è un segno – Farsi dominare dal bisogno – Non c’è mancanza senza presenza – L’uomo (bisogno) è costituito da una assenza e una presenza – Livelli di presenza – Dio è incancellabile dall’uomo – La conoscenza di Dio non è data a noi senza di noi -


 

13/Novembre/1983 Fossano


Andando verso la ricerca della autorità assoluta dalla quale dobbiamo far dipendere tutte le cose, dopo aver superato ogni autorità esterna ed interna a noi, abbiamo visto l’ultimo errore che si può fare nella vita dello spirito quando ci si trova di fronte all’autorità assoluta di Dio con il puro bisogno di Dio.

Poiché arriva l’ora della verità, in cui superati tutti gli altri valori, noi veniamo a trovarci con il nostro io di fronte a Dio.

Il nostro io che è bisogno d’assoluto, bisogno di Dio e Dio che è l’autorità assoluta, Colui che risponde al nostro bisogno.

Abbiamo visto che dati questi due termini, è ancora possibile per noi fare l’errore di mettere l’accento sul nostro bisogno di Dio più che su Dio stesso.

Cioè scambiare il nostro bisogno di Dio per fine, anziché come mezzo e quindi ritenere di avere raggiunto il fine, quando il nostro bisogno di Dio è soddisfatto.

Il bisogno è soddisfatto in quanto incontra una presenza.

L’esperienza della presenza di Dio, soddisfa il nostro bisogno e può indurci nell’errore di ritenere che nell’esperienza di questa presenza sia la conoscenza di Dio.

Conseguenza di questo fatto è che noi non ci impegniamo più nel mistero di Dio, soprattutto nel mistero intimo di Dio di cui ci parla il Cristo: Padre, Figlio e Spirito santo.

Tutte le parole che Dio ci dice, le dice per impegnare la nostra anima, il nostro spirito, la nostra mente a capirle.

Se Cristo ci parla del Padre, del Figlio e dello Spirito santo è perché vuole impegnare il nostro pensiero in questo mistero.

Non ce lo annuncia come cultura o notizia, ma se ce lo annuncia, ce lo annuncia come vita.

Quindi il mistero di Dio è vita per noi e dev’essere vita per noi.

Cristo è venuto a portarci la vita, non è venuto a portarci una notizia, un annuncio, una nozione culturale. Cristo è venuto a portarci la Vita.

La vita è tale, in quanto è impegno e dedizione a qualcosa.

Se il Figlio di Dio che è venuto a portarci la Vita, è venuto a parlarci della trinità come mistero di Dio, è perché qui, in questo mistero è nascosta la nostra vita.

E noi dobbiamo impegnarci in questo mistero, perché soltanto impegnandoci noi troviamo la nostra vita.

Quando noi scambiamo l’esperienza della presenza di Dio come soddisfazione del nostro bisogno che è bisogno di Dio, noi ci sottraiamo ad un ulteriore impegno nella conoscenza di Dio, poiché riteniamo che questa sia già conoscenza di Dio.

A questo punto l’unica cosa che noi cercheremo di fare, sarà quella di rinnovare l’esperienza della presenza di Dio il più che sia possibile e quando la esperimentiamo siamo contenti, quando la perdiamo ci diamo da fare, cerchiamo mille mezzi per ritrovare e ripetere l’esperienza di questa presenza.

Poiché riteniamo che quella sia la meta, sia il fine, sia la conoscenza.

Ed è un errore.

Abbiamo anche visto che ci sono due tipi di presenze.

Essendo questa un errore, dobbiamo chiederci quale sia la nostra responsabilità in questo errore.

Dove c’è un errore c’è sempre una responsabilità personale e quindi c’è una colpa.

Dobbiamo cercare quale sia la nostra colpa quando scambiamo il nostro bisogno di Dio come fine e quindi quando scambiamo l’esperienza della presenza di Dio per conoscenza di Dio.

Il bisogno di Dio viene dato a noi come mezzo per conoscere Dio, infatti è attraverso il bisogno che si formano in noi i giudizi di valore, non la conoscenza.

Dal bisogno non nasce la conoscenza, dal bisogno nasce il giudizio di valore.

Dal giudizio di valore nasce la dedizione a ciò che abbiamo messo prima di tutto, ciò che abbiamo giudicato al di sopra di tutto.

Solo dedicandoci alla conoscenza di Dio possiamo giungere alla conoscenza di Dio.

Alla conoscenza non si giunge senza la dedizione di noi e non soltanto dedizione ma la dedizione a quel livello che richiede la conoscenza della Verità.

Abbiamo accennato a quella veglia infinita che si richiede come condizione per arrivare alla conoscenza di Dio.

Il bisogno è un segno di Dio e come d’altronde tutti i segni di per sé è ambiguo, proprio per questo è necessario che approfondiamo il concetto e la natura del bisogno, per renderci ben conto della responsabilità che noi abbiamo, perché uno degli errori più facili da commettere è quello di lasciarci dominare dal nostro bisogno, anche nella vita dello spirito.

Lasciandoci dominare dal nostro bisogno, non ci rendiamo conto che mettiamo il nostro bisogno come autorità assoluta in noi.

Mentre l’autorità assoluta non è il nostro bisogno, il nostro bisogno è un mezzo, quindi non dobbiamo lasciarci dominare dal bisogno.

Pur essendo il bisogno, un mezzo per valutare l’importanza di Dio nella nostra vita e quindi per dedicarci a Dio.

Ma il bisogno non è fine, quindi non è autorità assoluta, il fine è conoscere Dio.

Noi abbiamo visto che il bisogno è essenzialmente mancanza di-.

Ma quando parliamo di mancanza, immediatamente viene fuori il concetto di presenza, poiché non ci può essere mancanza senza presenza.

Come facciamo noi ad accorgerci di avere bisogno di qualcosa o di avvertire la mancanza di qualcosa se non l’avessimo presente quel qualcosa?

Quindi dobbiamo dire che nel concetto di bisogno si fondono due fattori, una presenza ed un assenza.

E siccome l’uomo si caratterizza proprio per il bisogno di Dio, dobbiamo dire che l’uomo è essenzialmente costituito da una presenza e da un’assenza.

L’uomo è stato creato il sesto giorno nell’opera creatrice di Dio e l’opera creatrice di Dio non è stata, è, la creazione di Dio è continua, Dio è fuori dal tempo quindi non è stato il creatore, è il creatore e ogni uomo che nasce su questa terra, nasce alla conclusione di sei giorni dell’opera creatrice di Dio.

Se l’uomo è costituito da questo bisogno, cioè da una presenza e da un assenza, possiamo riconoscere che Dio attraverso i sei giorni della creazione opera per formare la sua presenza e la sua assenza nella creatura.

E questo è Adamo.

Ognuno di noi è creato in Adamo, cioè ognuno di noi è creato in questo bisogno di Dio.

Ognuno di noi è creato con questa presenza e con questa assenza.

Quindi bisogno è uguale a presenza più assenza.

Basta che uno dei due elementi manchi che il bisogno non c’è più.

Se manca la presenza, non c’è più il bisogno, anche se c’è l’assenza.

Così anche se manca l’assenza e c’è soltanto la presenza non c’è più il bisogno.

Perché ci sia il bisogno è necessaria la contemporaneità di assenza e presenza.

Non solo ma l’assenza è l’elemento più attraente per noi.

Non solo, ancora un altra cosa: la presenza è a livelli diversi e noi ce ne accorgiamo con molta facilità di questo.

Noi patiamo sofferenze diverse e quindi soffriamo un’assenza diversa a seconda del livello di presenza con cui noi abbiamo conosciuto qualcuno.

Una persona cara, amica, della famiglia quando viene a mancare crea un grande vuoto, patiamo una grande assenza, perché c’è stato un livello di presenza diverso rispetto a quando viene a mancare una persona lontana da noi vista qualche volta.

Questo ci fa capire che nella nostra vita ci sono livelli diversi di presenza e a seconda della conoscenza della presenza si determina l’assenza e quindi si determina il bisogno.

Ma a questo punto si richiede ancora un ulteriore approfondimento proprio sul concetto di assenza e di presenza che formano il bisogno che forma l’uomo.

Dobbiamo chiederci che cosa è questa presenza?

E com’è possibile che in uno stesso essere ci sia allo stesso tempo presenza ed assenza?

Da che cosa è determinato?

La presenza in noi è determinata da ciò che è dato a noi senza di noi.

L’assenza è determinata da ciò che non può essere dato a noi senza di noi.

Noi siamo formati da dei dati che arrivano a noi senza di noi.

La creazione arriva a noi senza di noi e quindi con il concetto di creazione c’è anche il concetto di creatore, quindi anche il creatore è presente in noi senza di noi.

Dio è Colui che nessuno può ignorare, perché è presente nell’uomo senza l’uomo.

Dio essendo trascendente, superiore all’uomo, per primo creando non fa altro che donarsi all’uomo, è presente quindi nell’uomo indipendentemente dall’uomo.

Dio non ha bisogno dell’uomo per essere presente all’uomo, Dio è presente all’uomo indipendentemente dall’uomo, senza l’uomo.

Ma proprio perché è presente nell’uomo senza l’uomo, l’uomo non lo può cancellare.

Dio è una presenza incancellabile dall’uomo.

Però questa presenza non è conoscenza.

Abbiamo detto che Dio è Colui che nessuno può ignorare ma pochi arrivano a conoscerlo.

Non ignorare una cosa non significa conoscerla.

Noi non possiamo ignorare che esiste un creatore, poiché tutto è creazione e niente è opera nostra: basta un filo d’erba per confonderci, per farci capire che non è opera nostra.

Ogni bambino che nasce, nasce al termine di sei giorni della creazione di Dio, è un opera mastodontica, impressionante che richiede tutta la partecipazione dell’universo, di quest’universo di cui noi non capiamo assolutamente niente, perché è opera di un essere infinitamente superiore a noi.

Quindi tutto ciò che viene all’esistenza, tutto ciò che arriva su quest’orizzonte della creazione di Dio, non è opera dell’uomo, è opera di qualcun altro che noi non possiamo ignorare ma la cui natura sfugge a noi.

Noi non lo conosciamo eppure noi ne avvertiamo l’assenza.

Noi portiamo la presenza e questa presenza ci fa soffrire perché forma in noi l’assenza, l’assenza che è data dalla nostra ignoranza di Colui che non possiamo ignorare, dalla nostra non conoscenza di Dio.

Noi patiamo la non conoscenza di Dio.

Quindi abbiamo in noi una presenza che è data a noi senza di noi che fa sentire a noi l’assenza, cioè il bisogno di-.

Abbiamo detto che l’assenza rappresenta ciò che non può essere raggiunto senza di noi.

La conoscenza di Dio non può essere ottenuta senza di noi.

Dio si annuncia a noi ma la sua conoscenza non si rivela senza di noi.

Allora l’assenza è formata da due elementi; da ciò che è dato a noi senza di noi e da questo bisogno di-.

Cos’è che costituisce questo bisogno?

Quello che costituisce questo bisogno è dato da un altro segno, che è il segno stesso di Dio, che è il bisogno stesso che forma in noi e che non è unito a Dio e fintanto che non sarà unito a Dio, questa presenza di due fattori: Dio e il suo segno nel nostro io in noi, costituisce questa situazione di sofferenza che è bisogno di Dio.

Il bisogno è costituito da due cose non unite, però queste due cose non si uniscono senza di noi in noi.

Abbiamo quindi Dio Creatore e la sua opera che è il segno suo che nell’uomo si sintetizza come bisogno.

Questi due elementi presenti in noi, creano in noi questa situazione di disagio.

E quindi creano in noi questa situazione di ignoranza, di mistero, di sofferenza, di bisogno.

E fintanto che le due cose non si fondono in una, in noi non sorge la luce e quindi non sorge la pace, non sorge la conoscenza.

Ma queste due cose non si fondono in noi senza di noi.

Ecco l’importanza di assorbire il bisogno di Dio in Dio e non invece di assorbire Dio nel nostro bisogno di Dio.

Soltanto se assorbiamo il bisogno di Dio che portiamo in noi che è segno di Dio in Dio, allora noi utilizziamo bene il bisogno come mezzo per arrivare a Dio e abbiamo la conoscenza. Ma senza questa dedizione nostra a Dio come fine, in noi non si forma la conoscenza. Il fine deve assorbire tutti i suoi segni in Sè ma non li assorbe in Sè senza di noi.



Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea». Gv 7 Vs 52 Nono tema.


Titolo: La via che ci conduce a casa.


Argomenti: Conoscenza e esperienza di presenza di Dio – Il bisogno non è criterio di verità - L’elemento determinante la mancanza di qualcosa è la presenza di quella cosa – Il bisogno soddisfatto – L’ambiguità del bisogno – I due desideri di Dio – Esperienza e conoscenza di Dio – Bisogno di conoscere Dio -  Avere o essere bisogno di Dio – Il significato del bisogno di Dio – La conoscenza è data dall’unione di due termini – Il Pensiero di Dio in noi forma l’assenza di Dio – Il pensiero di Dio nel Padre -


 

20/Novembre/1983


Dio nella sua opera creatrice ha un fine, quello di formare il bisogno di Sé.

Tutta la creazione si riassume in un essere che porta in sè il bisogno di Dio.

Questo essere è Adamo che conclude il sesto giorno tutta l’opera creatrice di Dio.

Tutti siamo stati creati in questo bisogno di assoluto, in questo bisogno di Dio, l’uomo si caratterizza perché porta in sé il bisogno dell’assoluto perché tutti noi siamo creati in Adamo.

Ogni uomo quindi è formato in questo sesto giorno dell’opera creatrice di Dio.

Tutta la creazione si sintetizza in questo.

Nel bisogno di Dio c’è la possibilità di un errore, perché nel bisogno di Dio si fa esperienza di Dio, c’è la possibilità che l’esperienza di presenza, che si fa di Dio a livello del nostro bisogno si confonda con la conoscenza di Dio che è il Fine.

La conseguenza è non impegnarci più nel raggiungere il Fine, nel non impegnarci più nel conoscere Dio, nell’approfondire il mistero di Dio, ma nel cercare di rinnovare, di ripetere queste esperienze della presenza di Dio nella nostra vita.

L’esperienza della presenza di Dio avviene quando il nostro bisogno viene soddisfatto.

Ma il nostro bisogno non è un criterio di verità.

L’esperienza che il nostro io fa, non è un criterio di verità, l’esperienza di uno, non è sufficiente per convincere un altro.

Infatti la Verità non ha bisogno della testimonianza degli uomini: “Io non ricevo testimonianza dagli uomini”.

Dio non ha bisogno degli uomini.

La Verità ha ragioni tali in Se stessa che sono molto superiori alle esperienze che gli uomini fanno.

D’altronde abbiamo visto che il nostro bisogno, essendo essenzialmente mancanza di qualcosa, privazione di qualcosa è costituito essenzialmente da due elementi.

Prima di tutto da una presenza, perché se non ci fosse una presenza, non si potrebbe sentire la privazione di essa.

Quando noi proviamo la mancanza di Dio, questo è segno della presenza di Dio in noi.

La mancanza di qualcosa è segno della presenza di questo qualcosa.

L’elemento determinante la mancanza è proprio la presenza.

Questo è da tenere molto presente.

L’elemento determinante la mancanza di qualcosa è la presenza di quella cosa e il livello della presenza.

A seconda di ciò che uno ha presente esperimenta la mancanza di esso.

Proprio perché il bisogno è costituito da questi due elementi, il bisogno può sparire e quindi può anche essere soddisfatto in quanto uno dei due elementi viene a mancare.

Può venire a mancare la presenza di Dio o può venire a mancare l’assenza di Dio e allora non si sente più il bisogno di Dio.

Ci sono molte persone che non sentono il bisogno di Dio.

La presenza di Dio in noi non può essere cancellata, ma viene a mancare in quanto noi non ci dedichiamo ad essa.

La presenza c’è in quanto c’è dedizione da parte nostra.

L’assenza può essere cancellata o perché è stata soddisfatta al livello di quella presenza di cui sentiamo il bisogno, ma questa assenza può anche diminuire mano a mano che noi cerchiamo la presenza di Dio e quanto più cresce questa presenza di Dio, tanto più questo bisogno viene assorbito.

Però questa ambiguità di soddisfazione del bisogno e quindi di esperienza della presenza di Dio (soddisfazione di un bisogno), ci fa capire come in noi il bisogno è ambiguo.

E il volto di questa ambiguità noi lo possiamo facilmente verificare perché noi possiamo avere bisogno di Dio, come si può avere bisogno dell’idraulico e possiamo essere bisogno di Dio.

C’è una grande diversità tra l’avere bisogno di Dio per ottenere qualcosa, qui il fine non è Dio, ma il fine è ottenere da Dio qualcosa.

Per questo il bisogno è ambiguo.

E possiamo invece essere bisogno di Dio.

Data questa ambiguità c’è da chiedersi qual è la via vera.

Basta riflettere per capire che avere il bisogno di Dio porta a fare esperienza della presenza di Dio quando Dio risponde a una nostra richiesta.

Ma essere bisogno di Dio porta a cercare e a conoscere Dio.

Il bisogno di Dio conduce all’esperienza di presenza di Dio che però non si deve confondere con la conoscenza di Dio, altrimenti l’esperienza di presenza ci arresta sul cammino della conoscenza di Dio.

Soltanto in quanto “siamo” bisogno di Dio, cioè bisogno di conoscere Dio, qui siamo sulla via giusta.

L’argomento di stasera è la via che ci conduce a casa.

Cioè la via che conduce all’autorità assoluta, in cui noi troviamo il nostro riposo.

Solo se il bisogno di Dio ci porta alla ricerca della conoscenza di Dio ci fa camminare sulla via giusta.

Ma se porta noi a desiderare la conoscenza di Dio, qui capiamo che il bisogno di Dio che Dio stesso ha formato in noi, non ci è stato dato per essere soddisfatto, ma ci è stato dato per capire il significato di esso.

Cioè il significato del bisogno di Dio che portiamo in noi è più importante della soddisfazione del bisogno stesso.

Poiché soddisfare il bisogno è giungere all’esperienza ma l’esperienza non è il fine, l’esperienza è sempre nel campo dell’io, nel campo del nostro bisogno.

Soltanto se noi cerchiamo la conoscenza, quindi soltanto se noi cerchiamo il significato in Dio del nostro bisogno, noi siamo aperti al vero Fine.

Quindi più che proiettare Dio nel nostro bisogno, noi camminiamo sulla via giusta in quanto proiettiamo il nostro bisogno in Dio e ne cerchiamo in Dio il significato.

D’altronde anche il nostro bisogno è un segno e come segno di Dio porta con sé l’ambiguità, come tutti i segni di Dio può essere rivestito del Pensiero di Dio o del nostro pensiero.

Soltanto se questo bisogno, come segno di Dio è mantenuto unito a Dio, noi siamo condotti verso il nostro vero fine, noi siamo condotti cioè a cercare (come in ogni segno) il significato di esso.

Il significato di una cosa è più importante della cosa stessa.

Il cercare il significato di una cosa in Dio, richiede sempre in noi il mantenere l’unione tra la cosa stessa e Dio.

Il bisogno è causato da una presenza, il bisogno di Dio è causato dalla presenza di Dio, quindi soltanto se noi manteniamo unito questo bisogno di Dio con il suo Creatore, con Colui che lo ha causato noi camminiamo verso il nostro vero fine.

Teniamo presente che la causa del nostro bisogno è la presenza, la presenza di Dio forma in noi la mancanza, l’assenza di Dio.

Ma se questa è la causa, proprio nel conoscere Dio sta questa autorità assoluta a cui tutto dobbiamo riferire e ordinare.

Se noi troviamo l’autorità assoluta a cui tutto dobbiamo riferire, noi abbiamo trovato il punto fisso di riferimento da cui tutte le cose devono dipendere, noi abbiamo trovato la nostra casa, il luogo del nostro riposo.

Che cosa c’è in questa Presenza in noi che forma in noi l’Assenza?

Come può essere che la presenza di Dio in noi formi l’assenza di Dio e cosa si richiede perché questa assenza sia eliminata e noi possiamo conoscere Dio?

L’assenza è sempre determinata da due termini che non sono stati riuniti, se in noi c’è il bisogno, cioè la mancanza, la privazione di Dio (causata dalla presenza), ci devono essere due termini che non sono riuniti e che non si riuniscono senza di noi.

La conoscenza è data dall’unione di due cose ma queste due cose non si uniscono senza di noi.

Ora il bisogno è caratterizzato da queste due cose in noi che non sono riunite e che non si riuniscono senza di noi.

Abbiamo detto che la presenza nella situazione di bisogno è determinata da qualcosa che è dato a noi senza di noi, ora la presenza di Dio è data a noi senza di noi ma la conoscenza di Dio non è data a noi senza di noi.

Che cosa c’è allora da unificare in noi per poter arrivare a questa conoscenza, per potere finalmente riposarci in casa nostra.

Quello che è dato a noi senza di noi è il Pensiero di Dio e la presenza del Pensiero di Dio in noi, forma l’assenza di Dio, perché noi non sappiamo che cosa sia questo Pensiero di Dio e non sappiamo che cosa sia, perché non lo vediamo nella sua causa, non lo vediamo nel suo essere.

C’è in noi la presenza del Pensiero di Dio che è l’elemento che forma in noi l’assenza di Dio, che fa sentire a noi il mistero di Dio, che fa sentire in noi l’ignoranza di Dio, il bisogno di Dio.

Allora possiamo dire che Dio, attraverso tutta la sua opera creatrice, arriva a formare una creatura in cui mette la presenza del suo Pensiero, ma la creatura non conosce che cosa sia questo Pensiero.

Alla conclusione di tutta la sua opera creatrice Dio forma Adamo, una creatura che porta in sé il Pensiero di Dio, senza sapere che cosa è questo Pensiero di Dio.

E proprio perché porta in sé questo Pensiero di Dio, senza sapere cosa sia questo Pensiero, Adamo sente il bisogno di Dio.

Però abbiamo detto che il non conoscere una cosa è causato dalla presenza di due termini non riuniti.

La presenza in noi del Pensiero di Dio, senza conoscerne la causa e l’essere che genera in noi questo pensiero, reca in noi due termini: il Padre e il Figlio.

Il Pensiero di Dio è il Figlio del Padre.

Fintanto che in noi questi due termini non sono riuniti, cioè fintanto che noi non vediamo il Pensiero di Dio nel Padre, noi portiamo in noi l’assenza di Dio, determinata dalla presenza del Pensiero di Dio in noi


E tornarono ciascuno a casa sua. Gv 7 Vs 53


Titolo: Sfiorati dalla Luce.


Argomenti: Dio è luogo di dimora della nostra vita - La Parola di Dio scritta è ambigua – Lettera e spirito della scrittura – La veglia infinita – Il dubbio eterno – L’ascolto del Figlio – La dedizione alla Luce – La memoria uccide la Luce – Il soggettivo dell’uomo e l’oggettivo di Dio – L’impossibilità di conoscere Dio –Interiorizzazione e memoria – Riassorbiti dal mondo vecchio – Attribuire tutto a Dio -


 

27/ Novembre/1983



Qui il capitolo si chiude con questa delusione: “E se ne tornarono ciascuno a casa sua”.

Nelle scorse domeniche siamo stati condotti a considerare l’Autorità Assoluta, ed a scoprire lì il luogo della nostra pace, della nostra sicurezza; in sostanza: la nostra “casa”.

Con la scena dei farisei che “rimproverano” Nicodemo, Dio ci ha condotti sulla via di casa.

In altre parole: ci ha condotti a capire che siamo stati creati per abitare in Lui, e con questo ci fa dunque comprendere che Lui stesso è la nostra Casa.

I primi discepoli avevano chiesto a Gesù: “Maestro, dove abiti?”.

E Gesù aveva risposto: “venite e vedete”.

E ciò che essi videro fu talmente meraviglioso che dopo 50 anni se ne ricordavano ancora l’ora: “era l’ora decima”.

Avevano visto dove Gesù, Figlio di Dio, abitava.

E il luogo in cui Lui abita, è lo stesso luogo in cui siamo chiamati ad abitare noi.

Attraverso la scena di Nicodemo con i farisei, siamo stati condotti ad individuare questo punto fisso, questa Autorità Assoluta, questo luogo di abitazione per tutti i nostri pensieri.

Dio è luogo di dimora di tutta la nostra vita.

Ma qui si presenta un fatto deludente: “se ne tornarono ciascuno a casa sua”. Cioè: non approdarono alla Casa, a quella Casa.

È il tema di oggi: “sfiorati dalla luce, si può poi tornare nel nostro vecchio mondo. C’è questo rischio; e come mai?

Qual è il significato di tutto ciò per la nostra vita essenziale.

Evidentemente qui ci presenta questo rischio: dopo essere stati sfiorati dalla luce, possiamo ricadere nel nostro mondo precedente.

Come può succedere?

Qual è la luce che ha sfiorato questi farisei?

L’altra volta qualcuno ha detto: “ma di tutto ciò di cui stiamo parlando, nel Vangelo non si vede nulla!”.

E allora dobbiamo chiederci: ma noi siamo forse giunti ad una conclusione che è estranea al Vangelo?!

Nicodemo aveva ammonito: “forse che la nostra legge giudica qualcuno prima di averlo ascoltato?”.

Aveva cioè ammonito i farisei ad ascoltare Gesù.

Sotto sotto, aveva detto loro che essi ignoravano la Legge.

La risposta dei capi è stata: “tu stai ignorando la Scrittura”.

Hanno cioè ribaltato l’accusa di ignoranza, e infatti gli dicono: “tu sei ignorante; studia la Scrittura, e vedrai che da Nazareth non può uscire niente di buono”.

Ecco, essi fanno appello alla Scrittura; la Scrittura è Parola di Dio, eppure qui la troviamo in conflitto con Cristo…

I farisei, dando autorità assoluta alla Scrittura, hanno rifiutato di ascoltare Gesù: cioè hanno rifiutato di ascoltare il Messia.

Allora, qui c’è un fatto estremamente importante: teniamo presente che la Scrittura è “segno”, segno di Dio.

E come tutti i segni, dunque, anch’essa è ambigua: la Parola di Dio è ambigua.

E infatti essa va sempre mantenuta unita allo Spirito di Dio: solo così siamo liberati dalla sua ambiguità.

E l’intenzione di Dio qual è? È quella di portarci all’ascolto di Dio.

Quando Nicodemo diceva ai capi che la Legge non giudica se prima non ascolta, li invitava ad ascoltare.

Nicodemo conosceva molto meglio di loro la Legge e la Scrittura.

E già: perché lui era nello “spirito” di Legge e Scrittura; d’altronde, egli aveva già incontrato Gesù (cap. 3°).

Ed in effetti tutta la Legge e la Scrittura concludono in questo: condurci ad ascoltare il Figlio di Dio; se non ci conducono lì, Legge e Scrittura divengono in noi motivo di distrazione da Dio.

Diventano motivo di rifiuto, di uccisione di Dio.

E infatti manderanno a morte il Cristo in nome della Scrittura, in nome del “sabato”…per loro il sabato era l’autorità assoluta, e invece, dice il Signore, “il sabato è fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato”.

Dunque, la Scrittura non è l’autorità assoluta; certo, “autorità assoluta” è il Figlio di Dio, il Figlio di Dio che parla con noi.

Se la Scrittura, come tutti i segni di Dio, come tutta la creazione, come il nostro stesso bisogno, non ci conduce all’ascolto del Figlio di Dio, essa diviene per noi motivo di rovina.

Ma allora chiediamoci: perché a un certo momento diamo così tanta importanza alla “lettera” della Scrittura?

Evidentemente perché in noi si trova qualche disarmonìa da Dio.

In questo caso, ecco che a noi “conviene” appoggiarci più sulla lettera della Scrittura, sul “sabato”, sulla legge, che non aprirci al Figlio di Dio.

Il punto estremo è quello della veglia infinita.

Quando a noi arriva una Parola di Verità (come arriva qui ai farisei, tramite Nicodemo), c’è in noi una risonanza: perché noi siamo portatori dell’assoluto, del bisogno di assoluto.

Ma se il pensiero del nostro io ha altri interessi, se pensa alla figura, ecc., succede che, pur vedendo la strada, pur vedendo che è una strada giusta, noi preferiamo pensare a ciò che dovremmo lasciare per percorrerla.

I farisei qui vedono quanto Nicodemo propone loro, ma vedono anche (soprattutto) ciò cui dovrebbero rinunciare, per mettersi ad ascoltare il Cristo!

È questo il motivo che li ha portati a pesare molto di più la lettera della Scrittura anziché lo spirito di Essa.

Da questo errore deriva il loro credersi giustificati, giustificati dicendo: "sta scritto che da Nazareth non sorge profeta”.

Mentre la Scrittura è il pedagogo per condurci al Cristo, alla Parola di Dio che arriva a noi, per essi diventa motivo di esclusione del Cristo, dal Cristo.

Solo intendendola nello spirito di Dio, noi seguiamo/capiamo veramente la Scrittura, la Parola di Dio; ecco, la Parola di Dio ci conduce ad ascoltare Dio.

Ora, seguendo lo spirito della Scrittura, siamo portati a quel confine che è la veglia infinita:  la nostra dedizione totale al Mistero di Dio…siamo chiamati a penetrare il Mistero di Dio.

Ecco, capiamo qui che ogni luce che Dio ci manda richiede da noi una dedizione, una dedizione proporzionata al grado di luce che ci ha mandato.

C’è sempre il rischio che la luce che il Signore ci manda non ottenga da noi la dedizione necessaria, la risposta necessaria. E in questo caso cosa succede?

Succede che la luce entra nella memoria; e in quanto entra nella memoria, muore.

E allora noi ritorniamo nel nostro mondo precedente, veniamo riassorbiti dal mondo di prima: resta solo il ricordo, il ricordo di quella via che si è presentata a noi e che noi non abbiamo percorso.

In altre parole: non seguendo la luce, veniamo riassorbiti dal nostro soggettivismo.

Al contrario, aderendo alla Luce, si arriva alla Presenza Oggettiva di Dio.

Ma, dico: se non aderiamo alla Luce, ricadiamo nel soggettivismo, in quel mondo, cioè, in cui a noi risulta assolutamente impossibile conoscere Dio…è il: “dove Io sono, voi non potete venire”.

Ecco, l’uomo che ricade nel soggettivismo viene a trovarsi in una situazione tale in cui gli è impossibile attingere alla Verità Assoluta, alla Presenza Oggettiva di Dio; e già: perché lì ogni cosa, ogni pensiero che Dio gli presenta, viene sempre infirmato, macchiato, dal pensiero del suo io.

Ora, questo è il grande rischio: il rischio del dubbio eterno; c’è il rischio di cadere in questo dubbio senza mai poterne uscire.

Luigi: C’è differenza tra “interiorizzazione” e “memoria”: la memoria è “cosa passata”, mentre invece la Luce, quando giunge a noi, deve diventare “vita”, impegno di vita, dedizione di vita.

Il segno che rimaniamo nella luce non è il “cambiamento”: è la dedizione.

In quanto la luce ci impegna, automaticamente avviene il cambiamento.

È un po’ come dire: se io devo andare a Torino, automaticamente escludo tutti gli altri luoghi.

Luigi: Quando ci arriva una luce su questo Rapporto tra Padre e Figlio, evidentemente si tratta di una Luce che richiede da noi una veglia infinita, una purezza assoluta, un “non inquinamento” da nessun altro pensiero, assoluto.

La Luce arriva a gradi diversi: è pane spezzato.

Man mano che ci dedichiamo ad approfondirla, tanto più questa Luce diventa esigente: fino ad impegnarci a tempo pieno.

Si tratta della Veglia Infinita: è necessaria per approdare al punto fisso, per ancorarci al Mistero di Dio affinchè Dio sia effettivamente la nostra Casa.

Solo lì non corriamo più il rischio di essere riassorbiti nel mondo di prima.

Luigi: Anche la nostra dedizione è Grazia di Dio, Dono suo: si entra nel Regno solo attribuendo tutto a Dio, e niente a noi.

Entrare nel Regno di Dio vuol dire poter attribuire tutto a Lui.

Noi siamo nella confusione proprio perché riusciamo ad attribuire tutto a Dio.

Infatti siamo immersi nel peccato: “peccato” vuol proprio dire non attribuire tutto a Dio. E allora sperimentiamo in noi la contraddizione, perché “c’è Dio, ma c’è anche la mia libertà…”.

C’è Dio “ma ci sono anche le leggi della natura”…

Ecco il grande pasticcio…ecco come ci impediamo di entrare nel Regno di Dio, di vederlo, e quindi di glorificare Dio in tutto: proprio perché “vediamo” altre cause.

Allora dico: ”grazia di Dio” è poter contemplare in tutto il Pensiero di Dio, la Gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Questa Gloria era in Principio ed è adesso, in ogni cosa, in ogni avvenimento, e così sarà sino alla fine.

E noi entriamo nella Vita Eterna solo in quanto in tutto possiamo glorificare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

La meta, la Vita Eterna, è questo poter vedere in tutto il Padre, il Figlio ed il Rapporto tra di Essi.

Ora, vedere questo è tutto Grazia di Dio, infatti: “dove Io sono voi non potete venire”.

In sostanza, finché sta nel pensiero del suo io (quando attribuisce qualcosa a sé), l’uomo non può entrare nel luogo dove si trova il Figlio di Dio.

E già: perché il Figlio di Dio è nel Padre, e quindi riceve tutto dal Padre, riporta tutto a Lui.

E ognuno di noi è chiamato a questa figliolanza, cioè a ricevere/riportare/riferire tutto a Dio: a glorificare in tutto il Padre.

Riferire tutto al Padre vuol poi dire poter dire, consapevolmente: “Signore, è stato tutto Opera Tua; e continua ad essere tutto opera Tua”.

Entrare nel Regno vuol dire potere dire questo non per sentito dire, ma per convinzione.

Luigi: “Ancora per poco la luce è con voi”; e già, la Luce è con noi fintanto che il Figlio di Dio parla con noi.

Ma qui bisogna camminare; questo “camminare” vuol dire dedicarsi a ciò che la Luce ci presenta.

Senza la dedizione nostra, si viene sorpresi, riassorbiti dalle tenebre; si resta col ricordo, ma sopraffatti dalle tenebre.

E senza luce, qualunque cosa è motivo di inciampo; dedicarsi alla luce significa aprirsi all’ascolto, all’ascolto di Colui che parla con noi.

La Casa in cui dobbiamo abitare è la Conoscenza del Rapporto tra Padre e Figlio, lo Spirito di Verità.

La Luce, quando arriva, va fatta: cioè si tratta di dedicarsi ad Essa.

Nicodemo che invitava i capi ad ascoltare Gesù era poi il Cristo che arrivava a loro; infatti Nicodemo aveva precedentemente incontrato il Signore Gesù, e allora dice: “Lo abbiamo ascoltato? prima ascoltiamolo, poi giudicheremo”.

Siamo nella Casa di Dio, quindi è un Altro che parla.

Il grave è che loro, a questa Parola di Dio, oppongono un’altra Parola di Dio!

Nicodemo era nello spirito della Scrittura, i capi no.

La Scrittura è soltanto una scala: per cui, una volta usata, non la si guarda più.

Ecco perché la Scrittura è ambigua: per cui la si può prendere alla lettera, e sbagliare tutto!

Succede quando c’è il nostro io di mezzo, un nostro interesse.

Ma se in noi si è formata la convinzione dell’unica cosa necessaria, evidentemente è per opera di Dio, il quale ci ha condotti su quell’orizzonte in cui, finalmente, la nostra anima, ha individuato, ha capito.

Ha individuato per Grazia di Dio, per opera creatrice del Signore.

Dio, facendoci camminare sulla Sua strada, ci conduce in questo luogo in cui, davanti ai nostri occhi, è apparsa l’unica cosa necessaria.

Noi non ce ne rendiamo conto, ma si tratta in tutto di opera di Dio: siamo tutti/in tutto condotti da Dio.

Cosa vuol dire “essere condotti”?

Significa che Dio, per sentito dire, introduce a poco per volta in noi quelle cose che, a un certo punto, fanno passare la nostra anima di luce in luce.

E a un certo momento, allora, l’anima viene a trovarsi di fronte a questa montagna, la montagna che si eleva su tutte le altre, come dice Isaia.

L’anima viene condotta lì: prima vedeva tante montagne, e a un certo punto ne vede solo più una: la Conoscenza di Dio.

La spiritualizzazione della nostra vita avviene così: attraverso l’individuazione dell’unica, vera autorità assoluta.

A questo punto, sapendo che “nessuno viene al Padre se non per mezzo di Me”, l’anima si “fissa” in Lui,, si focalizza in Lui…perché sa che è il passaggio obbligato per arrivare al Padre.

Noi non sappiamo chi sia questo Figlio di Dio che ci parla, , ma sappiamo che è il passaggio obbligato per arrivare al Padre, per cui ci isola con Lui: è la veglia infinita.

Luigi: La Legge è il pedagogo, come dice San Paolo; Essa viene valorizzata da Cristo; di per sé essa non ci salva.

Le Parole degli ultimi capitoli del Vangelo di San Giovanni hanno proprio lo scopo di sostenerci nella veglia infinita.



 

E tornarono ciascuno a casa sua.Gv 7 Vs 53 Secondo tema


Titolo: L’occupazione della Luce.


Argomenti: La funzione della Scrittura – L’ascolto del Maestro – Disarmonia con Dio – L’astrazione di Dio – La veglia infinita – La distrazione dalla Luce -


 

1/Dicembre/1983