RIASSUNTI GV 1
VS 19 Primo incontro.
Titolo: Sedotti dal mondo o da Dio.
Argomenti: Solo con Cristo
possiamo entrare nella Città di Dio. Cristo si
presenta a noi come una scelta da fare. La colpa del non
conoscere. Non scegliere la
vita è restare nella morte. Amare vuol dire
mettere prima di tutto. Noi siamo una parola
di Dio. Il “rumore” di
Dio. Alzare gli occhi al cielo. La malattia e la guarigione. La tentazione. Geremia:
sedotto dalla parola di Dio. La porta delle
pecore: superamento dell’io. Lo specchio
della creazione.Pecore del mondo e
di Dio.
3/settembre/1978
Pensieri
tratti dalla conversazione:
Pinuccia: Lettura del riassunto dell’incontro
n.126 del 2 aprile 1978: ricapitolazione dell’episodio del paralitico.
“Nessuno può andare al Padre senza di me”.
Nella Città di Dio la conoscenza (la conoscenza di Dio, diretta, personale, la
vita eterna), si può entrare solo per mezzo di Cristo: “Io sono la vita”, la
strada. Si arriva solo seguendolo, impegnandosi con Lui, cercando di capire le
sue parole: ascoltare, meditare, capirle nello Spirito di Lui. Lui non è tanto
presenza fisica quanto parola, Verbo, Pensiero che parla del Padre, che parla a
noi per introdurci nella Verità: la porta delle pecore attraverso cui si va
alla Comunione con Dio. Più ci impegniamo con Lui, più possiamo sperare di
giungervi. Il non impegnarsi con Lui vuol dire precludersi ogni possibilità di
giungervi. La vita è effetto di scelta e la prima ed essenziale scelta per la
vita è Cristo. La non scelta del Cristo è morte. Se vivere è amare Dio chi non
sceglie di amare Dio rifiuta la vita. Quindi mentre la vita per averla bisogna
averla scelta, la morte per averla non c’è bisogno di sceglierla. Non è valido
il viceversa; non scegliere la morte per avere la vita. Scelta per Dio vuol
dire lasciare tutto per Lui. Convinti di questo dover scegliere Cristo, non
tergiversiamo perché il tempo per scegliere è breve. Siamo responsabili delle
nostre scelte ma anche delle nostre scelte non fatte: come del non aver
conosciuto. Gesù a Gerusalemme: “Perché non hai conosciuto”; conoscere Dio è
vita eterna. Scegliere Dio vuol dire amare Dio al di sopra di tutto: Dio che è
Persona vuole adesione personale e distacco da tutto il resto. Non si può
vedere Dio se si è dispersi in tante cose. La morte ci colpisce anche se non la
scegliamo. La vita e la morte non sono sullo stesso piano di valore. Trascurare
il positivo vuol dire già cadere nel negativo. E la scelta deve essere
continua. L’amore se si mischia con l’indifferenza subito decade. Questo è il
patto eterno di Dio con noi. Ci crea continuamente e ci chiama a diventare
figli: allora eternamente ci dirà: “Tu sei mio figlio e io oggi ti ho
generato”, così come eternamente richiederà di noi il riconoscimento che Lui è
Padre. Sarà un patto reciproco. Noi possiamo ascoltare e capire solo uniti al
Verbo, perché il Padre parlando ci fa essere. Noi siamo una sua parola e sempre
dobbiamo essere uniti alla Parola per vivere; senza la Parola siamo staccati da
Dio. La parola custodita, meditata, approfondita è il nostro cordone ombelicale
per giungere alla conoscenza. Ma saremo nella pace solo alla conoscenza. La
Parola è il mezzo, la conoscenza è il fine. La Parola va scelta, non basta che
ci giunga.
Luigi: Siamo convinti che non possiamo entrare nella Città di
Dio se non per Cristo?
Pinuccia: L’ha detto Lui: “Nessuno può andare al Padre se non per
mezzo mio”.
Luigi: Appunto, ne siamo però convinti? Cioè siamo convinti che
dobbiamo entrare nella Città di Dio e che la Città di Dio rappresenta la
conoscenza di Dio stesso, perché è la vita eterna: e che in questa vita eterna
noi possiamo entrare soltanto per mezzo di Cristo?
Cina: Dal momento che Dio l’ha mandato per salvarci, Lui è la
strada.
Luigi: Si, ma se siamo convinti, vuol dire che soltanto
seguendo Lui, cioè soltanto impegnandoci con Lui, possiamo entrare in questa
Città di Dio.
Pinuccia: Impegnarci con Lui vuol dire cercare di conoscere quanto
Lui ha fatto, quanto Lui ha detto, vero?
Luigi: Impegnarci con Lui vuol dire soprattutto cercare di
capire le sue parole, cioè ascoltare le sue parole, meditarle, capirle. Perché
Lui non è tanto la presenza fisica, quanto la Parola, perché Lui è il Verbo di
Dio e quindi è la Parola che comunica a noi, attraverso la quale ci introduce
nella Verità. È questa la Porta delle Pecore, attraverso la quale si entra
nella Città di Dio. Allora nella misura in cui ci impegniamo con Lui, possiamo
sperare di entrarvi; in diverso noi ci escludiamo, perché è Lui la porta. La
vita è sempre effetto di una scelta. Il Cristo si presenta a noi come una
scelta da fare. Non scegliendo non è che rimandiamo la vita. Non scegliendo
facciamo la nostra morte, perché la morte è una scelta. Perché se vivere è
amare, l’amore è scelta: chi non sceglie, rifiuta di amare e quindi rifiuta la
vita, ma rifiutando la vita abbraccia la morte. Quindi mentre la vita per
averla bisogna sceglierla, la morte non è necessario sceglierla.
Pinuccia: Basta non scegliere la vita.
Luigi: Basta non scegliere la vita per abbracciare la morte.
Non siamo sulla stessa posizione di uguaglianza, per cui basterebbe non
scegliere la morte per avere la vita. No, non basta che io non scelga la morte
per avere la vita; basta invece che io non scelga la vita per avere la morte,
questo si. No, non basta che io non scelga la mote per avere la vita; basta
invece che io non scelga la vita per avere la morte, questo si. La vita,
essendo amore, è scelta e la scelta vuol sempre dire lasciare il resto per
quello. Ora, se noi siamo convita che Cristo, che la porta per entrare nella
Città di Dio, richiede da noi questo impegno, quindi questa scelta, dobbiamo
stringere i tempi con Lui, perché la vita passa molto in fretta. Il tempo per
la scelta passa molto in fretta. Siamo responsabili delle scelte che non
facciamo e della non conoscenza che abbiamo; perché se in un primo tempo della
nostra vita noi non siamo colpevoli di quello che non conosciamo, viene un
tempo in cui noi siamo colpevoli di quello che non conosciamo. Gesù stesso lo
rimprovera a Gerusalemme: “Perché non hai conosciuto”, quindi si diventa
colpevoli di quello che non si conosce; si diventa colpevoli per il fatto che
la conoscenza che è vita è una conseguenza della scelta. Noi siamo responsabili
delle scelte che non facciamo. Per questo viene un momento nella nostra vita in
cui siamo colpevoli delle scelte che non abbiamo fatto, dell’amore che non
abbiamo amato e questo diventa morte.
Pinuccia: Quindi se non si sceglie la vita, automaticamente si ha
la morte. È automatico questo?
Luigi: È questo che dico: non sono sullo stesso piano. Molte
volte si dice così: basta non scegliere la morte per restare nella vita. Non è
vero! No, basta non scegliere la vita per restare nella morte. La vita è
scelta. Scegliere vuol dire mettere in alto, Qualcuno al di sopra di tutti e
quindi vuol dire distaccarci da tutto il resto per seguire Quello. Ora siccome
la vita è una Persona, è Dio, quindi richiede sempre un’adesione personale, un
distacco da tutto il resto. Ecco, per questo non vediamo Dio. Non vediamo Dio
fintanto che siamo dispersi in tante cose. La vita e la morte non sono sullo
stesso piano. La vita è necessario sceglierla; basta non sceglierla per restare
nella morte; per cui la morte invade noi anche se noi non la scegliamo: basta
che noi non scegliamo la vita.
Pinuccia: Quindi in questo sta la spiegazione di certi vuoti che
uno ha; è sufficiente aver trascurato la preghiera, la ricerca di Dio, la
riflessione.
Luigi: Certo, trascurare il positivo vuol dire giù subito
cadere nel negativo; niente rimane in noi così: non è perché ieri abbiamo avuto
una bella giornata che oggi si possa vivere nella giornata di ieri. Ogni giorno
bisogna mettere un pensiero. Bisogna collegarci con Dio, ogni giorno. Dio si
presenta a noi sempre come un Essere da scegliere. L’amore non è amore come
effetto di una scelta fatta una volta sola; amare vuol dire preferire, mettere
prima di tutto; quindi è un mettere prima di tutto che continuamente va
attuato. Ogni attimo noi rendiamo testimonianza di quello che mettiamo prima di
tutto. L’amore è una scelta continua. È questo il patto eterno che Dio
stabilisce con noi. Lui ci crea in continuazione, anzi ci chiama a diventare
suoi figli e Lui eternamente ci dirà: “Tu sei mio figlio, oggi Io ti ho
generato”, ma chiede a noi che continuamente noi diciamo a Lui: “Tu sei mio
Padre, ed io oggi ti ho scelto come mio Padre”. Ecco c’è sempre la risposta. Lì
abbiamo un patto eterno: il Padre che vuol il figlio come figlio, il figlio che
vuole il Padre come Padre. Cioè con Dio non si vive di rendita: con Dio è una
scelta continua, perché è una Presenza attuale, da volere in continuazione. È
Uno che è continuamente da incontrare, che è continuamente da ascoltare, che è
continuamente da capire. Ecco, Dio si presenta come Uno che continuamente ci
invita. Ed è vita proprio per questo: non si esaurisce mai.
Pinuccia: Però noi possiamo ascoltare e capire solo uniti al
Verbo, cioè alla sua Parola.
Luigi: Sì, è Lui che parla. Lui parlando ci fa essere: se Lui
non ci volesse noi non esisteremmo nemmeno: noi siamo una sua parola. Ora Lui
parlando ci fa essere e parlando ci unisce e quindi ci fa vivere. Per cui noi
viviamo e siamo nella misura in cui ci afferriamo alle sue parole. Dio parla,
le sue parole sono a nostra disposizione; noi dobbiamo sempre afferrarci a
qualche parola sua, ogni giorno, se vogliamo vivere. La vita ci viene dalla
parola sua. La parola sua è un trait d’union tra noi e Lui; è la corda attraverso
la quale ci arrampichiamo in montagna. Ma se Dio non ci gettasse giù la sua
Parola, noi non avremmo niente da arrampicarci per salire su; non sono i nostri
sforzi, non è la nostra volontà, non sono i nostri meriti che possono servire a
qualcosa, no. Noi abbiamo sempre bisogno di afferrarci alla sua Parola. Ecco,
la sua Parola ci unisce nella misura in cui la custodiamo, la meditiamo,
l’approfondiamo, fino a giungere al frutto. Il frutto è la conoscenza, la
Presenza. La Parola di Dio è il suono, suono suo, richiamo, come si sente in
rumore di un aereo. Noi sentiamo il rumore, ma non siamo tranquilli. Non siamo
tranquilli fintanto che non vediamo l’aereo che fa quel rumore. Soltanto
vedendolo ci tranquillizziamo: abbiamo veduto la sorgente del rumore. Supponiamo
di sentire un rumore strano di notte, un rumore che non riusciamo a capire che
cosa sia: siamo inquieti, chissà cosa sarà o non sarà. Ecco, vedi, non basta
che arrivi il rumore. Non entriamo in pace, soltanto quando abbiamo capito che
cos’era che fa quel rumore. Ora la Parola di Dio è il rumore che Dio fa
giungere a noi di Sé; ma noi non siamo tranquilli fintanto che non vediamo Lui
che parla a noi. Allora la sua Parola ci sollecita (è come il rumore che arriva
a noi), a cercare, a guardare. Ci riposeremo soltanto vedendo il suo Volto. Dio
parla per invitarci a cercare il suo Volto. Solo trovando il suo Volto entriamo
nella nostra pace, nella luce eterna. Quindi dico: la parola che Dio fa
giungere a noi è per sollecitarci a cercare il suo Volto, a cercare la sua
luce. Ma bisogna camminare. Quindi il frutto della Parola è la conoscenza di
Dio. Se noi ci accontentassimo soltanto del rumore o di sentire soltanto le
parole ma non ci preoccupassimo di arrivare a vedere il suo Volto, ecco, questo
vorrebbe dire che a noi interesserebbe poco Dio e allora noi semineremmo nella
nostra vita l’inquietudine, perché tutte le parole di Dio non capite ci
provocano l’inquietudine, come un rumore nella notte che non è capito.
Pinuccia: Oppure se ne vanno le parole non capite.
Luigi: Si, ma lasciano noi nell’inquietudine, perché hanno
creato in noi un turbamento, un movimento che non ha raggiunto la meta. Cioè la
parola di Dio è vocazione per noi. Noi siamo stati vocati (vocati vuol dire che
siamo stati chiamati), ma non abbiamo risposto. Allora resta la pena della non
risposta data. Cioè non abbiamo scelto.
Pinuccia: Continuazione della lettura del
riassunto (il paralitico alla parola di Gesù si alza e supera la prova venendo
in conflitto con i farisei). Il paralitico alla parola di Gesù si alza, prende
il suo letto pur essendo di sabato e supera così la prova venendo però in
conflitto con i farisei. La parola che giunge a noi ci trova malati perché non
tocchiamo niente di Dio. Giungendo ci dice: “Alzati”: dal pensiero del tuo io e
del mondo, alzati a Dio. Alzando gli occhi già siamo guariti. Se non li
alzassimo vorrebbe dire che la parola ci è giunta ma non ci ha interessato,
siamo stati chiamati, ma non abbiamo risposto. C’è inquietudine allora in noi
perché solo guardando a Dio riusciamo a star bene sulla terra, ad avere il
nostro cammino illuminato in essa. Cercando Dio prima di tutto si mette anche
ordine nelle cose terrene. Predicare il regno di Dio vuol dire invitare l’uomo
ad alzarsi al cielo, vuol dire guarire. Poi: “Prendi il tuo lettuccio e cammina
con la luce ricevuta da Dio cammina sulla terra, la prova fatte per superare la
tentazione, non per caderci. E subito il paralitico trova chi gli dice: “Non
puoi portare il tuo lettuccio, perché è sabato”. Entra in conflitto con la
lettera della legge sul sabato. È Dio che ci fa giungere la parola e subito ci
chiede di testimoniarla. È l’uomo che afferma la parola affrontando gli
argomenti umani, si rafforza sul cammino della conoscenza di Dio. Ma il seme
può cadere in terreni diversi. E perché la parola crea persecuzioni, molti
abbandonano la Parola. Il paralitico difende la parola: “Colui che mi ha
guarito mi ha detto di prendere il mio lettuccio”. E sostenendo la parola è
trovato da Gesù nel tempio; esce dal mondo e superando il timori umani del suo
io, viene trovato nel tempio. “Non abbiate timore di coloro che uccidono il
corpo”. Dopo la prova superata viene la liberazione. Il paralitico ha
interpretato in modo materiale la parola, obietta, ma Gesù parla in parabole:
la parabola come ogni segno, arriva in superficie (segno di Dio), va
intelletta, approfondita nel Pensiero di Dio. Il paralitico nel corpo è offerto
alla nostra attenzione non perché lo giudichiamo, ma perché sia a noi segno
della paralisi della nostra anima. Va capito nello Spirito di Dio. La nostra
anima soffre di paralisi se bloccata dal pensiero dell’io. Spiritualmente noi non guariamo sempre di
noi. Il Signore attraverso ogni segno ci fa prendere coscienza della nostra
malattia spirituale, ma ci insegna anche il modo di guarirla testimoniando la
sua parola e sottomettendo il nostro io.
Luigi: Ecco qui possiamo capire quello che opera la Parola di
Dio giungendo a noi. La Parola di Dio che giunge a noi trova noi malati. Noi
siamo tutti malati. La malattia, lo troviamo molte volte nei vangeli, è perché
non tocchiamo niente di Dio. Ecco, la Parola, venendo a noi, trova noi ciechi,
zoppi, paralitici, malati. La prima cosa che la Parola di Dio invita noi a
fare, è questo: “Alzati, cioè alza gli occhi dalla tua terra, dalle tue
questioni, dal tuo mondo, dalla tua giornata, alzati dal pensiero del tuo io,
alza gli occhi in alto. In alto c’è Dio”. Alzando gli occhi in alto, già ci
guarisce. La nostra malattia sta nel fatto che noi abbassiamo gli occhi: guardiamo
la terra, anziché guardare il cielo. Possiamo camminare sulla terra soltanto
guardando il cielo. Soltanto con la testa nelle nubi noi camminiamo bene in
terra. Ma più noi guardiamo in terra, preoccupati di camminare bene, e più noi,
sembra strano, sbagliamo, inciampiamo e camminiamo male, perché siamo nella
notte. La luce ci viene dall’alto. Soltanto guardando in alto, abbiamo la luce
per illuminare il nostro cammino in terra. Noi abbiamo bisogno del cielo per
sopportare la nostra vita in terra; noi abbiamo bisogno del cielo per vedere la
luce sulle strade della nostra terra, per scegliere quindi bene il cammino, la
strada della terra. Per questo la Parola di Dio appena arriva a noi dice: “Non
preoccuparti del mangiare, del vestire, non preoccuparti dei problemi del
mondo, alza lo sguardo in alto, cerca prima di tutto Dio”. Ecco, alzando gli
occhi in alto, cercando prima di tutto Dio, si trova la guarigione. Per questo
Gesù manda i suoi discepoli a predicare il regno di Dio. Predicare il regno di
Dio vuol dire invitare la gente ad alzare gli occhi a Dio. Predicando il regno
di Dio, guarivano le malattie. Gesù dice: “Guarite tutte le malattie predicando
il regno di Dio”. Non guarite le malattie con altri mezzi, ma predicando il
regno di Dio. Qui infatti è la vera guarigione, perché se gli uomini si
ammalano non vedendo Dio, guariscono se vengono portati a vedere il regno di
Dio. Per questo la Parola di Dio appena arriva a noi ci dice: “Alzati!”, poi
dice: “Prendi il tuo letto e cammina!”. Ecco, con la luce che ricevi da Dio
sopporta i pesi della terra, cammina sulle strade della terra. Questo ci mette
di fronte alla prova, alla tentazione; come questo paralitico incomincia a
camminare ubbidendo alla Parola di Dio trova subito chi gli dice: “Tu non puoi
camminare con il tuo letto sulle spalle, perché oggi è sabato”. Ecco la prova.
È Dio che dopo averci dato la sua parola, subito ci mette nell’occasione di
testimoniarla. Messo nella tentazione l’uomo si fortifica se afferma la parola
e non si lascia impressionare dagli argomenti del mondo. Il Signore infatti
dice che la parola di Dio è come un seme che cade in terreni diversi. Tra i
terreni diversi c’è anche quello che ha pietre e cespugli di spine; lì il seme
subito germina, ma poi a motivo delle persecuzioni che sorgono a causa della
Parola, ciò che è germinato si perde.
Cina: Anche la lettura di stamattina diceva proprio così, di
Geremia, che quasi non vorrebbe ..
Luigi: Non vorrebbe aver udito la Parola di Dio.
Cina: Perché gli crea scherno …
Luigi: La Parola di Dio crea persecuzione, crea prova. Dietro
ogni Parola di Dio noi siamo messi alla prova, ma questa non è per metterci in
difficoltà, ma per fortificarci, cioè per renderci più liberi, più vivi nella
Parola di Dio. Per questo Gesù dice: “A motivo della persecuzione”. Allora
quelli che hanno pensieri di denaro, di benessere nel mondo, di figura, del
pensiero di se stessi, a motivo della persecuzione, devono abbandonare la
Parola di Dio. Lo vediamo qui in questo paralitico guarito che per ubbidire
alla Parola di Dio si prende il suo lettuccio e cammina e subito trova chi gli
dice: “Non ti è lecito portare il tuo letto, è sabato!”. E lui cosa risponde?
“Colui che mi ha guarito mi ha detto …”. Ecco che difende la Parola di Dio! Qui
abbiamo la prova in cui lui sostiene la parola udita di fronte alla critica del
mondo. Il mondo dice: “Non puoi fare questo!”, lui dice: “Colui che mi ha
guarito mi ha detto di farlo!”. Vedi come sostiene la Parola di Dio?
Sostenendola entra nel tempio. Infatti subito dopo troveremo che il Vangelo
dice: “Gesù lo trovò nel tempio”. La Parola di Dio non si lascia più
appartenere al mondo. E come non ci lascia più appartenere al mondo, il mondo
comincia a suscitare la lotta. “Il mondo vi odia perché voi non siete del mondo
a causa del fatto che Io non sono del mondo” dice Gesù ai suoi discepoli. Cioè
la Parola di Dio non è del mondo. Chi ascolta la Parola di Dio, non può più
essere del mondo, quindi non può più seguire gli interessi del mondo. Allora
tutti quelli che sono del mondo cominciano ad odiarlo. Qui abbiamo la
persecuzione, ma questa è a favore di colui che non appartiene al mondo, poiché
gli allarga le ali, lo fa volare ancora di più, lo fortifica, lo rende più
spirituale. Questo paralitico ha difeso la Parola di Dio e quindi si è trovato
dentro il tempio. La Parola di Dio ubbidita, sostenuta, se la creatura non
arrossisce di fronte agli argomenti del mondo, fa entrare nel tempio.
Cina: A me ha fatto coraggio la lettura di stamattina, perché Geremia
è stato quasi forzato e portato dal Signore, nonostante la sua paura.
Luigi: Si, è stato sedotto dalla Parola di Dio. Ma lui dice:
“Tu mi hai sedotto, e io mi sono lasciato sedurre”. Ecco, lui si è lasciato
sedurre. Si, si può aver paura del mondo,
anche Gesù ebbe paura e pregò: “Padre, se è possibile, passi da me questo
calice, però la tua volontà sia fatta”. Si ha anche paura, però si mette sempre
prima la volontà di Dio. Uno non lascia la Parola di Dio, anche se il mondo con
i suoi argomenti può far tremare; ma Gesù stesso assicura: “Non abbiate timore
di coloro che uccidono il corpo”. L’importante è non separarci dalla Parola di
Dio, perché tutto serve per l’anima che custodisce la Parola di Dio, perché
tutto serve per l’anima che custodisce la Parola di Dio; tutto viene per
servire, per fortificare e quindi per liberare. Si capisce che nella prova uno
trema; ma superata la prova, si sente molto più libero.
Pinuccia: Direi che questo paralitico abbia incarnato in modo
materiale, alla lettera, la parola di Gesù che gli aveva detto di prendere il
suo letto.
Luigi: Si, ma questo è un segno, perché tutte le lezioni del
vangelo sono parabole, sono lezioni per noi, sono segni di Dio: non dobbiamo
fermarci all’espressione materiale “paralitico”, perché potremmo dire: “Io non
sono materialmente paralitico”. No, guarda che invece tu sei paralitico
nell’anima. Se il Signore ci fa incontrare uno che è paralitico nel corpo, non
è perché noi giudichiamo quello, o perché è cieco o perché zoppica; ma perché
abbiamo a capire che è una lezione per la nostra anima, per il nostro spirito.
Se il Signore mi presenta un paralitico, io devo capire che cosa Lui mi vuole
dire spiritualmente; quindi devo cercare di capire la Parola. La Parola di Dio
la si capisce con lo Spirito di Dio. Che cosa vorrà di spiritualmente la
paralisi? Quand’è che noi siamo paralizzati? Quand’è che noi siamo paralitici?
Meditando così, ecco che possiamo scoprire di essere noi paralitici nell’anima,
nella mente, nel cuore e allora capiamo la lezione di Dio che ci dà nel Vangelo
per insegnarci attraverso quale via noi possiamo essere liberati dalla nostra
paralisi, e guariti; e così anche dalla cecità; così anche dallo zoppicare nei
compromessi con il mondo, così pure tutte le malattie fisiche che sono segni di
malattie spirituali. Le malattie nel corpo sono segni di malattie nell’anima.
Ora, quello che importa è scoprire la malattia dell’anima, perché le malattie
del corpo guariscono anche senza di noi, ma quelle dell’anima no. Così se c’è
un mendicante: domani questo sarà un re nel regno di Dio, ma adesso è così per
noi; così se c’è un ubriaco: sono lezioni di Dio. Spiritualmente noi non
guariamo senza di noi. Il Signore ci presenta fuori i segni delle nostre
malattie e ci presenta anche chi le guarisce, affinché noi ci afferriamo a
quella medicina che può guarire la nostra anima. Ma quella medicina deve essere
presa, voluta, scelta. “Vedi, Io ho guarito un cieco per farti capire che se tu
ti scopri cieco nello spirito, nelle vie dello spirito, tu sappia andare dal
medico che guarisce la cecità”. Quindi se Gesù ha guarito il cieco è per dire a
me, cieco nell’anima, che io devo scegliere Lui, andare da Lui come medico per
essere guarito nella mia cecità spirituale; e se Lui ha guarito un paralitico è
per dire a me, ad ognuno di noi, che il giorno in cui noi scopriamo di essere
paralitici, di non saper più camminare nelle cose dello spirito, di andare da
Lui che ha guarito il paralitico, perché Lui è il medico che guarisce la
paralisi. Sono tutte lezioni che il Signore ci mette nel vangelo per segnalare
a noi l’aiuto, la medicina, la strada per cui possiamo uscire dai nostri mali
in cui continuamente ricadiamo.
Pinuccia: Quindi anche questo “portare il letto” che sembra un
compito materiale della Parola di Dio, è una parabola?
Luigi: Si capisce. È come quando Lui parla del seme che cade in
un terreno pieno di spine e pieno di sassi oppure del seme che cade sulla
strada materialmente, ma è parabola. Ora la Parola di Dio che arriva a noi,
arriva sempre in superficie, ma noi non dobbiamo mai fermarci alla lezione
materiale, perché Dio parla spiritualmente.
Pinuccia: Qui mi pareva un’ubbidienza, l’esecuzione materiale di
un ordine.
Luigi: Come parabola; ma ogni parabola va sempre intesa nel suo
spirito, per cui: “Io parlo in parabole affinché non capiscano”. Soltanto chi è
dentro può capire,, ma essere dentro vuol dire approfondire, vuol dire
appartenere a Dio, vuol dire cercare la luce di Dio. Tutte le parabole del
Signore, siccome arrivano a noi nel nostro mondo, nel nostro io, arrivano in
superficie. Ora chi non fa caso e l’intende soltanto materialmente, resta
scandalizzato e allora magari le rifiuta perché dice: “No, è impossibile”.
Quando il Signore dice: “Se il tuo braccio ti è di scandalo, taglialo!”, io devo
tagliarmi un braccio? Ma no, quella è una cosa impossibile e allora la scarto.
Vai a fondo, cerca di capire, perché la Parola di Dio va sempre intesa con lo
Spirito di Dio; essa è il rumore che arriva a noi; ma il rumore va
approfondito, va seguito fino a arrivare alla fonte. La fonte è sempre
spirituale, cioè bisogna sempre capire quello che spiritualmente ci vuol dire
per la vita essenziale, per la vita dell’anima, cioè per la nostra comunione
con Dio.
Pinuccia: Continuazione lettura riassunto
n.127 del 9 aprile: “Onde essi gli domandarono: “Chi è quell’uomo che ti ha
detto: prendi il tuo letto e cammina?”. (Il conflitto tra le due volontà: tra
l’uomo vecchio e l’uomo nuovo). Qui comprendiamo che quell’uomo era paralitico
fisicamente da trentotto anni, perché c’erano i farisei che erano i veri
paralitici.
Scopriamo
che al paralitico guarito nel corpo, fanno riscontro i farisei o noi stessi
paralitici dello Spirito. Ecco l’operare di Dio attraverso la Parola. La Parola
è il Pensiero di Dio incarnato per ricuperarci nella dispersione in cui siamo,
per farci alzare il pensiero a Sé. Nel suo Pensiero. Senza Gesù, la Parola, la
legge ci blocca alla sua lettera, viene interpretata nel pensiero dell’io, è
priva dello Spirito che le da vita. La legge come il sabato è dono dell’amore
di Dio per l’uomo, non è contro l’uomo, per giudicarlo e condannarlo. Essendo
paralitici non possiamo entrare nel regno di Dio: e invece ci crediamo giusti,
vivi, perché la paralisi interiore non ci permette di capire e giudichiamo gli
altri anziché noi stessi. Non comprendiamo che la legge ci è stata data per
salvare l’uomo, non per strumentalizzarlo. “Guai a voi che scorrete mari e
terre per fare dei discepoli e poi voi non entrate e impedite agli altri di
entrare”, ecco la paralisi interiore che preclude il regno dei cieli. Di fronte
a Dio è necessario il credere, il lasciarsi sedurre come la Madonna: “Beata te
che hai creduto, perché si compiranno in te le promesse di Dio”. Dio le
promesse le fa a tutti, ma solo per chi crede che esse si compiono. Dio chiede
alla creatura l’adesione ai suoi doni: prima e soprattutto spiritualmente,
anche se le nostre opere non seguono coerenti. Se c’è amore, Dio agirà anche
sulle nostre opere. Si è pecora di Dio. Si dipende solo da Dio perché Dio è
tutto per noi. Ci si può smarrire, ma Dio arriverà a raccoglierci. Al contrario
per le pecore del mondo: non parla che in parabole per loro, gli ingiusti che
si dicono giusti, ed essi non possono capire. Le sue pecore piangono, a disagio
nel mondo; le pecore del mondo, invece ci stanno a loro agio. La porta delle
pecore che introduce nel regno di Dio è Cristo e per passarvi si richiede di
superare il nostro io, per amare con tutto il nostro essere Dio, vivendo solo
per Lui e in Lui.
Luigi: Ecco qui come la lezione si chiarisce. Qui cominciamo a
capire come Dio opera. Ci ha presentato un paralitico e i farisei. I farisei
hanno di fronte a loro (è Dio che lo fa
loro incontrare) un paralitico che viene guarito da Gesù, per dire a noi che
quello che il Signore presenta davanti a noi è una lezione per la nostra vita
interiore. Perché adesso quello che era paralitico e che la Parola di Dio ha
guarito per cui cammina, si viene a trovare di fronte a dei farisei che
scopriamo essere paralitici nell’anima. Allora abbiamo un paralitico fuori e
dei paralitici dentro. Questo ci fa capire che Dio opera fuori di noi quelle
lezioni che devono servire per farci capire quello che portiamo dentro di noi.
Per questo dico che se troviamo un ubriaco fuori è una lezione di Dio per farci
meditare sulle ubriacature che portiamo dentro; se troviamo un paralitico fuori
è per farci capire e richiamarci che siamo paralitici nell’anima. Per cui
abbiamo i farisei che effettivamente erano paralizzati nei loro schemi di legge, nelle loro interpretazioni
della legge e non capivano l’amore di Dio che c’è nella legge. Non capivano che
al centro di tutta la legge c’era il disegno di Dio per salvare l’uomo. Loro
invece usavano la legge per giudicare e per condannare l’uomo, per
strumentalizzarlo e per renderlo schiavo il doppio. Infatti Gesù dice: “Guai a
voi che scorrete mari e terre per fare dei discepoli e poi voi non entrate e
impedite agli altri di entrare”. Ecco la paralisi: “Voi non entrate”. Il non
entrare nel regno di Dio è essere paralitici. Ecco, questa è la paralisi
interiore, la paralisi dell’anima. Però siccome noi le cose dell’anima non le
capiamo, non possiamo rendercene conto, accade che noi ci crediamo giusti e
invece siamo peccatori; ci crediamo sani e invece siamo malati; ci crediamo
vedenti e siamo ciechi; ci crediamo vivi e siamo morti. Allora il Signore si
presenta davanti agli occhi l’idropico, il paralitico, il cieco, il morto che
Egli risuscita: sono sempre lezioni, non perché noi abbiamo a giudicare quelli,
ma perché noi abbiamo a riflettere su di noi.
Cina: Come quella persona che si presentò stamattina e che non
sa dove andare e che nessuno più la vuole e che non ha saputo tenere preziosi
gli aiuti ricevuti. Che cosa ci dice? È anche per noi questo?
Luigi: Certo. Ci dice che noi molte volte supplichiamo di avere
una casa, di avere qualcuno che ci comprenda, di avere qualcuno che ci aiuti a
vivere e poi magari quando ce l’abbiamo, diventiamo violenti, uccidiamo, lo
allontaniamo da noi. Perché il guaio è lì: invochiamo la vita e quando la vita
viene a noi, la crocifiggiamo, la rifiutiamo; per cui vogliamo e rifiutiamo
nello stesso tempo la stessa cosa. Supplichiamo e poi quando l’aiuto ci viene
dato, lo respingiamo. È come per esempio l’affamato che supplicasse per avere una
pagnotta e poi quando la pagnotta gli venisse data la buttasse via. Purtroppo
nella nostra vita succedono tante di queste cose così.
Pinuccia: In questa persona avviene inconsciamente questo.
Luigi: È lezione di Dio; è malattia, malattia esterna per far capire
a noi quante volte invochiamo, supplichiamo un aiuto di Dio e quando Dio ci
manda l’aiuto, lo rifiutiamo. Vedi che facciamo proprio quello che si verifica
in questo malato?
Cina: Però la lettura di questa mattina fa coraggio, perché
Geremia è stato forzato dal Signore, perché è il Signore che ha le redini in
mano e lo porta. Forse che lui lo porta e un altro no?
Luigi: No, ma lui è stato forzato perché si è lasciato sedurre:
“Tu mi hai sedotto ed io mi sono lasciato sedurre”. Poi naturalmente arriva la
prova e nella prova l’uomo si lamenta. Infatti egli dice: “Basta, adesso io non
predicherò più la tua parola”, però appena si trova nell’occasione dice di
nuovo la parola di Dio; non può farne a meno perché? Perché si è lasciato
sedurre. Quante volte uno dice: “Non ci penso più”, “Non ci penso più” e poi
dopo ecco siamo sempre lì. È come uno che sia innamorato: “Basta, io lascio,
non ci penso più”, e poi ricade sempre lì, proprio perché si è lasciato
conquistare. Geremia è un innamorato di Dio, si è lasciato sedurre da Dio e
naturalmente quello gli crea un sacco di tribolazioni. Di fronte alle
tribolazioni dice: “Basta, adesso lasciami stare un pochino tranquillo”, però
non può senza di Lui. Ora lei dice: “Perché Dio non forza tutti così?”. Bisogna
vedere se tutti si lasciano sedurre così.
Pinuccia: E lasciarci sedurre vuol dire accettare la sua Presenza?
Luigi: Certo. C’è stato proprio il momento della vocazione per
Geremia e Geremia ha risposto.
Cina: Dico giusto? Geremia si è lasciato sedurre, allora il Signore
porta a compimento la sua vocazione.
Luigi: Sì, è un po’ come la Madonna. Elisabetta dice a Maria:
“Beata te che hai creduto, perché si compiranno in te le promesse fatte da
Dio!”. Si compiranno! Forse che Dio le promesse non le fa a tutti? E perché
allora non per tutti si compiono le promesse di Dio? Perché soltanto per la
Madonna si sono compiute e non per tutti? Perché soltanto per la Madonna si
sono compiute e non per tutti? Perché Lei ha creduto (“Beata te che hai
creduto”). Credere vuol dire lasciarsi sedurre. Allora Dio fa anche quello che
la creatura non si sente di fare e glielo fa fare, perché ormai la creatura è
posseduta da Lui, si è messa nelle sue mani. Certo, se noi ci mettiamo nella
mani sue allora Lui forza. Comprendi? Ma bisogna dire il “Fiat” come lo disse
la Madonna. La lezione illuminante ce l’abbiamo sempre dalla Madonna. Dov’è che
il disegno di Dio arriva a compimento? Arriva a compimento là dove la creatura
crede; ma se la creatura non crede, abbiamo l’aborto, cioè abbiamo il disegno
che non giunge al compimento. Perché? Perché la creatura non ha creduto. Non
credendo, ecco le conseguenze che si hanno nella creatura! È l’alleanza che
viene rotta! Quindi da parte di Dio, Dio vuole portare tutte le cose a
compimento; ma per portarle a compimento chiede alla creatura l’adesione,
soprattutto dell’anima, dello spirito, della mente; che poi dopo materialmente
riesca a fare certe cose o a non farle, questo conta poco (il Signore ha tutte
le possibilità di fargliele fare). Non conta quello che facciamo materialmente
o il modo con cui ci comportiamo. Quello che importa è l’amore che portiamo
dentro di noi, quello che portiamo dentro il cuore, il pensiero che portiamo
dentro di noi, l’innamoramento che portiamo dentro di noi; cioè quello che
conta è se siamo pecore di Dio o se siamo pecore del mondo. È questo che
importa! Non importa essere in un modo o nell’altro; fare una cosa o farne
un’altra; quel che importa è questo: perché se uno si è lasciato conquistare da
Dio, cioè è innamorato di Dio, diventa pecora di Dio, e allora porta sempre
dentro di sé questo desiderio, questo sogno di sentir parlare delle cose di
Dio, di trovarsi con Dio, di conoscere la sua Verità, il suo Volto e si stufa
di sentire cose del mondo; qui abbiamo la pecora di Dio. Ma se invece noi
abbiamo la creatura che trova la sua soddisfazione nelle cose del mondo, nel
restare nelle cose del mondo, lì abbiamo la pecora del mondo. Non abbiamo la
pecora di Dio anche se questa persona fosse santa, virtuosissima, facesse tutte
cose ottime, ecco, però sta bene nelle cose del mondo: questa è una pecora del
mondo; non si trova esiliata nel mondo. Quello che forma questa seduzione con
Dio è questo rapporto interiore, è questo innamoramento interiore, è questa
convinzione interiore che Dio è tutto per noi, il nostro bene. Questo forma la
pecora di Dio. Questa pecora può anche trovarsi smarrita sulle strade del
mondo, può anche piangere, può anche lamentarsi, può disperare: Dio arriva
sempre perché è una sua pecora! Ma Lui non prega per il mondo. Lui parla in
parabole affinché non capiscano: invece se si tratta di pecore sue, lì invece
no. Lui insiste fintanto che capiscono. Vedi? Abbiamo un capovolgimento. Lui fa
una scelta e la scelta deve avvenire lì: cioè anime che scelgono Lui e mettono
Lui prima di tutto e anime invece che magari sopportano Lui, ma però
appartengono al mondo, cioè prima di tutto a loro interessa il mondo e si
trovano bene nelle cose del mondo. È la distinzione tra la pecora di Dio che
magari nel mondo piange, si lamenta perché è in esilio e non vuole stare nelle
cose del mondo, appartiene al cielo, e la pecora del mondo che si trova bene
nel mondo e quando invece si deve occupare delle cose di Dio lo fa a stento
perché si trova bene nelle cose del mondo. Là dove noi ci troviamo bene, vuol
dire che noi siamo a casa nostra; se noi ci troviamo bene nelle cose del mondo
vuol dire che casa nostra è il mondo, non è Dio; se noi invece nelle cose del
mondo soffriamo e ci sentiamo fuori di casa, siamo in un luogo disagiato, in un
luogo estraneo, allora vuol dire che noi apparteniamo alle cose di Dio, alle
cose del cielo. ora Geremia apparteneva alle pecore di Dio, era sedotto.
Tribolava nel mondo, si lamentava, chiedeva di essere alleggerito da questo
peso, però apparteneva a Dio. Ecco, era sedotto da Dio, non poteva farne a
meno.
Pinuccia: Continuazione della lettura del
riassunto.
-
Travisamento della legge
nel pensiero dell’io;
-
Deformazione mentale che
c’è nell’interrogazione dei farisei, per cui non vedono il miracolo.
-
Necessità quindi del
superamento dell’io.
Non superando il nostro io, anche la legge che
in sé è buona, noi la travisiamo. Strumentalizziamo, giudichiamo gli altri,
invece di usarla a convertire noi stessi. Se non siamo entrati nell’Amore, ma
ancora siamo schiavi dell’io, Dio opera in tutto per farcelo capire; ci acceca
anziché darci la luce, perché ci crediamo vedenti, ci ammala perché ci crediamo
sani. “Chi vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso”, la pecora di Dio,
Cristo stesso è l’Agnello, non fa niente se non lo vede fare dal Padre. Non
come la pecora del mondo che fa solo quello che vede fare dagli altri, spinto
dall’interesse, dalla figura, dai sentimenti. Stiamo attenti alla Parola di Dio
che è in tutto, perché è la parola che ci modifica, ci guarisce dalla paralisi,
ci porta alla conoscenza: ci parla della paglia nell’occhio del fratello perché
scopriamo il trave nel nostro occhio, non per giudicare il fratello. Operando
su di noi ci aiuta nello stesso tempo il fratello. Chi cerca la Verità lavora per
tutti. Senza cercare di convincere gli altri. Ognuno di noi, senza parlare
predica ciò che ama. Ognuno è spettacolo agli altri di ciò che ha messo a
prima. A parole si può affermare l’opposto di quel che testimonia la nostra
vita: ma gli altri credono a quello che operiamo e non a quanto andiamo
dicendo.
Luigi: Abbiamo detto prima che la Porta che introduce nel regno
di Dio è Cristo. Qui si precisa che questa porta richiede a noi il superamento dell’io.
Infatti la chiama la porta delle pecore, delle sue pecore; soltanto le sue
pecore passano attraverso la porta. La condizione quindi per passare attraverso
la quale le pecore entrano nella Città di Dio; ma questa porta richiede il
rinnegamento di noi stessi, il superamento del nostro io. Ora superare il
nostro io vuol dire vivere solo per l’Altro, perché superando noi stessi si
entra nell’amore di Dio. Amare vuol dire pensare al bene dell’altro, quindi non
si vive più per noi, si vive per l’altro. Allora si entra nella Città di Dio
nella misura in cui non si vive più per noi, ma si vive per l’Altro (per
conoscere Dio, per fare Dio, per parlare di Dio, per operare in tutto secondo
Dio). Più noi dimentichiamo noi e più entriamo nella Città di Dio, perché la
Porta che è Cristo, richiede questo. Mentre invece se noi non superiamo noi
stessi, anche tutte le regole che Dio ci dà per farci entrare nella Città di
Dio, vengono da noi travisate, per cui la legge che è buona, se noi non
superiamo il nostro io per entrare nell’amore di Dio, viene adoperata
malamente. E allora noi adoperiamo la legge per giudicare gli altri, per
cambiare gli altri e intanto non ci preoccupiamo di cambiare noi stessi;
arriviamo a condannare a morte il Cristo in nome della legge; tutto perché non
abbiamo capito che la porta richiede alla creatura il superamento di se stessa.
Se noi non superiamo noi stessi, se noi pensiamo a noi, fraintendiamo tutto:
crediamo di essere a posto e siamo fuori posto; crediamo di essere giusti e
siamo ingiusti; crediamo di essere sani e siamo malati; crediamo di essere vivi
e siamo morti; crediamo di essere ricchi e siamo poveri, miseri addirittura. La
chiave di volta sta tutta lì: bisogna mettere Dio al centro e togliere il
nostro io. Quindi togliere il nostro io vuol dire superarsi e non pensare più a
noi, pensare solo a Lui. Noi ci preoccupiamo di Lui e allora lì ci accorgiamo
che nel pensiero suo tutte le cose che arrivano a noi arrivano non per farci
giudicare gli altri e per farci cambiare gli altri, ma perché noi cambiamo.
Allora Dio lì ci aiuta in tutto. Ma questo aiuto di Dio arriva a noi nella
misura in cui abbiamo superato noi stessi e guardiamo solo più Lui, nella
misura in cui siamo entrati nell’amore. In caso diverso Dio opera in tutto per
far capire a noi che non siamo ancora morti a noi stessi, che non siamo ancora
entrati nel cammino; allora Lui ci acceca, anziché darci la luce, perché noi ci
crediamo vedenti; allora opera perché ci crediamo sani, per farci diventare
malati; per portarci alla morte anziché alla vita; ma tutto perché noi non
siamo morti al nostro io. Così abbiamo tutta una serie di operazioni di Dio
precedenti per convincerci che noi non siamo morti al nostro io, che non
abbiamo messo Lui al centro, che tutta la nostra vita è sbagliata. Allora Dio
prima di tutto opera per convincerci che dobbiamo rinnegare noi stessi (“Chi
vuol venire dietro di me”, cioè chi vuol passare attraverso la porta, che è la
stessa cosa, rinneghi se stesso, perché nessuno si illuda di poter venire dietro
di me se non rinnega se stesso).
Cina: Le pecore sono l’emblema di chi segue?
Luigi: Si, di chi segue, di chi si lascia guidare da Dio: “Io
sono la porta delle pecore”. Lui stesso è l’Agnello, cioè è Colui che è tutto abbandonato
a Dio. Pecora è colui che è disponibile, che non fa nulla di sua iniziativa.
Possono esserci pecore del mondo, che non fanno niente di loro iniziativa se
non lo vedono fare dal mondo. Invece la pecora di Dio è quella che non fa
niente di sua iniziativa se non è guidata da Dio; i figli di Dio si distinguono
in questo: che in tutto si lasciano guidare dallo spirito di Dio. C’è che si
lascia guidare in tutto dallo spirito di Dio e c’è che si lascia guidare in
tutto dallo spirito del mondo, da quello che dicono gli altri. Quando ci
lasciamo guidare da quello che dicono gli altri, dalla figura, oppure dai
nostri sentimenti, da quello che può piacere a noi, che fa comodo a noi, allora
noi non siamo pecore di Dio, ma del mondo. Allora lì Dio opera per farci capire
che noi non siamo sue pecore. Di qui la necessità innanzitutto di imparare di
togliere il nostro io dal centro dei nostri pensieri e a metterci Dio.
Teresa: A volte sembra che sarebbe più interessante iniziare un
argomento nuovo, però serve anche rivedere attraverso i riassunti gli argomenti
già visti, perché si dimenticano facilmente.
Luigi: Abbiamo continuamente bisogno di sentirceli confermare;
tante volte noi sentiamo che tutto quello che avviene è per noi, e poi
continuamente (quante volte nella giornata!) lo dimentichiamo e ci fermiamo
soltanto all’avvenimento, al fatto e non passiamo al significato che Dio vuol
dire a noi personalmente. Con che facilità dimentichiamo! Per questo abbiamo
bisogno continuamente di sentirci ripetere queste cose, di sentirci confermare:
“Tutto è parola di Dio; Dio sta parlando con te e quindi in quanto parla con
te, sta attento, cerca di capire quello che Lui vuole significarti, perché se
Lui parla con te parla per cambiarti, per portarti nella vita, per farti uscire
dalla tua paralisi, dalla tua morte, quindi sta attento; non guardare la paglia
che c’è nell’occhio del fratello, cerca sempre di vedere la trave che c’è nel
tuo occhio, affinché tu possa vedere bene. Ecco sono le lezioni di tutti i
giorni, perché tutto è Parola di Dio. Invece noi tutti i giorni il più delle
volte, immediatamente, operiamo sugli altri, anziché operare su di noi e non ci
accorgiamo invece che se noi capiamo la lezione di Dio e operiamo su di noi,
questo è l’aiuto più grande che noi possiamo dare anche agli altri. Già
nell’Ecclesiastico si dice: “Vedete che non ho faticato invano a cercare la
Verità; non ho faticato per me solo, ma per tutti”. Chi cerca la Verità lavora
per tutti, siamo nel vero amore del prossimo.
Pinuccia: Anche se non dico niente a nessuno?
Luigi: Anche se non dici niente a nessuno. Non c’è bisogno di
parola. Quello che si richiede è l’amore per Dio, la ricerca, l’interesse per
Dio. Questa è la vera parola che noi predichiamo nella nostra vita. Perché
ognuno di noi predica ciò che ama, anche senza parole. Ecco: “Dov’è il tuo
tesoro, lì è il tuo cuore”. Quindi qual è il tuo tesoro oggi? Cos’è che ti sta
più a cuore? Questa è la tua predicazione, questa è la tua parola! Anche se non
dici nessuna parola. Qui sta molto attento al tesoro che porti dentro il tuo
cuore, perché questa è la parola che tu predichi nel mondo. Ognuno di noi è
spettacolo al mondo di quell’amore che ha messo prima di tutto. Non c’è bisogno
di parole. Ognuno di noi è spettacolo di quell’amore lì, di ciò che gli sta più
a cuore. Ma, star più a cuore vuol dire avere il coraggio di (non è che lo si
deve fare sempre, però uno rende testimonianza) passare sopra il mangiare, al
vestire, alla figura, alla comodità, al benessere, a tutto questo. È come una
mamma che abbia tanto a cuore il proprio bambino, passa sopra a tutto, pur di
guarire il bambino. Se invece dicesse che non lo può fare perché deve pensare a
farsi bella, al vestito, alla figura, il bambino dove andrebbe? Ci può anche
essere una mamma che dice di amare tanto il bambino, però lei pensa solo a se
stessa e non al bambino. Ecco, allora le parole sole non servono a niente, non
contano niente; e non sono quelle parole che danno spettacolo al mondo. Quella
mamma dà spettacolo al mondo di ciò che veramente ama: se stessa. Ognuno di noi
dà spettacolo al mondo di ciò che veramente ama, di ciò che più gli sta a
cuore. Per questo dico che non c’è bisogno di parole perché quella è la vera
parola, tutto il resto è aggiunta. Stiamo attenti a quello che abbiamo come
tesoro nel nostro cuore
RIASSUNTI GV 1 VS 19 Secondo incontro.
Titolo: La possibilità di
diventare figli di Dio.
Argomenti: La sindone. L’adesione all’opera
di Dio. Le tappe della nostra
vita. La soddisfazione del
bisogno essenziale della nostra vita. La vita è scelta,
perché la vita è amore. Sovrabbondanza
d’amore. Più cerchiamo Lui e più
in Lui avremo la possibilità di intendere le sue opere.
10/settembre/1978
Pensieri tratti dalla conversazione:
Eligio: È possibile per noi vedere positivamente il Padre agire
(come lo è per il Figlio naturale) e non solo attraverso gli effetti?
Luigi: È possibile soltanto nella misura in cui noi diventiamo figli
di Dio, cioè noi facciamo una cosa sola con il Figlio di Dio, allora noi
vediamo le cose positivamente. Ritorniamo così alla Sindone: la Sindone è un
negativo che ci nasconde un positivo, ma ci vuole il rivelatore. Il rivelatore
è la fotografia. Nella Sindone abbiamo la sintesi, come d’altronde in Cristo
(l’incarnazione è un sintesi di tutto l’universo) di tutto il mondo. Tutto il
mondo è un negativo, ma la condizione per vedere il positivo è quella di avere
una macchina fotografica. E la macchina fotografica è la luce del Padre.
Attualmente noi vediamo soltanto il negativo e nel negativo vediamo solo i
chiaroscuri. Vediamo sì che c’è un mistero, che c’è un Essere che opera, però è
un chiaroscuro, navighiamo nel mistero. Quando con la conoscenza del Padre alla
quale ci conduce il Cristo attraverso questa negatività attingiamo il principio
della Verità, allora nella luce del Padre noi scopriamo il Volto del Figlio,
quindi l’azione positiva del Padre.
Eligio: Però prima di giungere a questa luce del Padre, come si
fa a operare secondo il Padre senza ancora vederlo, ma solo sapendo che tutto è
opera del Padre?
Luigi: Sapendo che in tutto c’è la mano di Dio, dobbiamo
accettare, accogliere tutto dalle mani di Dio, perché attraverso l’adesione si
forma in noi la sottomissione e quindi l’attuazione della volontà di Dio. Il
rifiuto è rifiuto dell’opera formatrice del Padre su di noi. Mentre invece
l’adesione ci purifica, allarga la mente, allarga l’anima fino a renderla
capace di accogliere la luce del Padre. Ma chi forma in noi è Dio, non siamo
noi. Dio opera in tutto per formare noi suoi figli, però noi dobbiamo aderire:
“Se tu non ti lasci lavare i piedi non avrai parte con me”, dice Gesù a Pietro.
Il Cristo si abbassa a lavare i piedi della creatura, affinché la creatura
possa avere parte con il Cristo; ma bisogna che la creatura si lasci lavare i
piedi anche se le sembra assurdo. Apparentemente sembra assurdo a Pietro che il
suo Maestro si chini a lavargli i piedi, però deve lasciar fare, anche se ai
suoi occhi sembra assurdo: è opera di Dio, Lui lo sa. Ora non capisci, capirai
poi dopo; ma se non ti lasci fare non avrai parte con me. In tutte le cose, in
tutti gli avvenimenti, ogni giorno, Dio si abbassa a lavare i piedi a noi: i
piedi sono il punto di contatto tra la nostra esistenza e la terra. Noi siamo
fatti di cielo e di terra; i piedi sono il punto di contatto con la terra.
Camminando in terra noi raccogliamo polvere, cioè ci carichiamo di terra;
caricarsi di terra vuol dire renderci pesante il cammino, perché noi ci
appassioniamo delle cose che tocchiamo e toccandole ne restiamo macchiati. Dio
opera ogni giorno per purificare i nostri piedi da questa polvere che
raccogliamo camminando e man mano che ci purifica ci rende più liberi per le
cose dello spirito; ma l’opera è di Dio. Cioè noi dobbiamo lasciar fare a Dio,
ma per lasciar fare dobbiamo sempre accogliere, aderire in tutto a Dio e
ringraziarlo per tutto e possibilmente cercare di arrivare ad intendere il
significato, il perché Dio opera così; ma a base di tutto, siccome il
significato è luce di Dio, c’è l’adesione. Il rifiuto ci mette
nell’impossibilità di avere parte con Lui; cioè il rifiuto non ci trasforma.
Eligio: Non pensavo però al rifiuto, ma a quelle incertezze in
cui ci troviamo prima di arrivare alla luce del Padre.
Luigi: Sì, ma nell’incertezza dico: “È Dio che mi conduce”.
Eligio: Ma tenendo presente ciò che dice Gesù: “Il Figlio non fa
nulla se non lo vede fare dal Padre”, noi che desideriamo diventare figli, come
facciamo se non vediamo cosa fa il Padre?
Luigi: Siccome il Figlio parla a noi proprio per farci figli
con Sé e renderci partecipi del suo regno, annunciandoci che il Figlio non può
fare niente se non lo vede fare dal Padre, intanto ci fa capire che noi non
siamo figli, perché fintanto che noi non vediamo come opera il Padre, abbiamo
in noi stessi la testimonianza che non siamo figli e quindi ci sollecita ad un
certo cammino, perché noi potremmo anche adagiarci dicendo: “Io sono a posto,
sono figlio di Dio, appartengo al popolo di Dio”. Allora Gesù, Figlio di Dio,
mi dice: “Guarda che i figli di Dio operano così”. Il confronto è immediato.
Allora scoprendo di non essere, questo ci mette in movimento verso, perché ci
mette davanti la meta. Scopriamo di non essere figli di Dio perché capiamo per
rivelazione del Figlio che i figli di Dio operano così e così. Però la Parola
che Gesù ci dice, non la dice per escluderci dalla figliolanza di Dio, non la
dice per giudicarci: “Io non sono figlio di Dio, quindi sono dannato, è finito,
ecc.”, no. La dice in quanto ci propone la figliolanza, quindi ci invita ad
essere così. Ce la dà, se noi seguiamo Lui. Quindi Lui mi propone la meta e
nello stesso tempo mi fa capire che io sulla vetta non ci sono; pure mi dice:
“Io sono la strada che ti conduce alla meta ed Io te la propongo per invitarti
a salire su quella vetta”. Per arrivare su quella vetta, prima di tutto la
condizione base fondamentale è questa: non rifiutare nulla di quanto Dio fa,
perché in quanto tu rifiuti, già ti separi. Quindi non rifiutare nulla di
quello che Dio fa, buono o cattivo agli occhi tuoi, piacevoli o no, antipatico
o simpatico; ecco, non rifiutare nulla perché in tutto c’è la mano di Dio che
opera personalmente per te, per formarti suo figlio; quindi anche se non
capisci, lascia fare, accetta; se ti è possibile ringraziarlo; se ti è
possibile ancora, cerca di conoscere il significato di quello che il Signore ti
fa. Allora l’opera non è nostra, l’opera è del Padre. È Dio che genera i suoi
figli, non siamo noi. Ecco il Figlio viene a dare a noi la possibilità di
diventare suoi figli; non ci fa suoi figli, ma ce ne dà la possibilità. Quando
si ha la possibilità ad una persona si richiede l’atto di adesione; però
precisa: “I quali figli non nascono né da volere di carne, né da diritto di
sangue, né da volontà di uomo”, quasi a dire: “Non è in mano vostra questo”; i
figli di Dio nascono da Dio. È il Figlio di Dio che dà a noi la possibilità di
diventare figli di Dio. È per darci la possibilità di diventare figli di Dio
che ci dice: “I figli di Dio nascono da Dio”. Vedi che ti orienta tutto a Dio,
si nasce generati dal Padre, quindi esclusione in senso assoluto di ogni altro
volere, di ogni altro diritto; quindi non per volontà umana, non per sforzo
nostro, non per appartenenza ad una certa stirpe, ad una certa nazione, ad una
certa età, no. Allora sapendo che i figli nascono da quella fonte, devo
guardare soltanto a questa. È in questa tutta disponibilità a questa fonte e
quindi assenza della creatura, che nasce la creatura nuova da Dio, nasce l’io
nuovo, nasce il Figlio di Dio, per opera pura di Dio, che è poi la scoperta del
Padre in noi.
Eligio: Quindi è un fatto cosciente?
Luigi: Certo è una generazione cosciente. Il Figlio infatti mentre
dice: “Il Figlio non può fare niente se non lo vede fare dal Padre; quello che
il Padre fa glielo fa vedere”, però dice anche: “Tutto quello che è fatto, è
stato fatto per mezzo di Lui”. Vedi che abbiamo una nascita cosciente? Non è la
nascita come avviene nel nostro mondo, in cui nasciamo inconsciamente; nessuno
chiede o può chiedere a noi: “Vuoi nascere?”. Noi ci troviamo lì: sono nato! Ci
sono! È una sorpresa, è una novità; l’esistenza incombe su di noi. Direi, noi
subiamo la vita, noi subiamo la nascita. Come figli di Dio noi non subiamo
niente, perché qui c’è una nascita consapevole; qui ci viene chiesto: vuoi
nascere? Ecco la partecipazione cosciente.
Eligio: Questa consapevolezza ci viene solo nel momento in cui
arriviamo nella luce del Padre, o la si acquisisce già quando ci arriva il
richiamo del Verbo ad orientarci tutto a Dio?
Luigi: No, quella è soltanto possibilità di, ma la nascita
viene dal Padre, non dal Figlio.
Eligio: Allora si realizza solo nella luce del Padre?
Luigi: Solo nella conoscenza del Padre. Il Figlio ti orienta al
Padre.
Eligio: Allora noi finché non vediamo come opera il Padre non
possiamo ritenerci nella situazione di figli?
Luigi: Non ritenerci; quando il Signore ti dà la grazia di
scoprire la figliolanza, è una constatazione, è consapevolezza, quindi non è
qualcosa di inconscio, per cui non è che possa dire: “Io conosco come opera il
Padre, quindi sono figlio”, no, non fai la deduzione, fai una constatazione.
Eligio: Ma lì siamo già nello stadio conclusivo.
Luigi: Certo.
Eligio: Quindi quando uno sinceramente cerca Dio, e sa che Dio
opera in tutto, e riconosce in tutto l’opera di Dio, questa non è ancora la
situazione di figlio?
Luigi: Più restiamo con il Figlio, più il Figlio ci educa alla
sorgente, al Padre, ma è dalla Sorgente che si nasce. Infatti: “Quell’ora
nemmeno il Figlio la sa”; per dire che la nascita è tutta dal Padre,
l’iniziativa è tutta dal Padre: cioè la nostra giustificazione è nel Padre.
Allora il Figlio viene a noi, scende a livello nostro, parla anche nella nostra
morte, nelle nostre tombe, e se noi aderiamo, se ascoltiamo, a poco per volta
Lui ci conduce a vedere la sorgente. Quando siamo giunti a questa sorgente,
dice: “Eccola! Attingi!”. Infatti il Figlio all’ultimo consegnerà il regno al
Padre. Quando ha liberato la creatura da tutti gli altri poteri, da altre
volontà, la consegna al Padre: il Figlio consegna le nostre anime al Padre
affinché il Padre ci faccia nascere come figli.
Eligio: Allora prima di Pentecoste non si può essere nella
condizione di figli?
Luigi: Certo, è logico.
Pinuccia: Riassunto dell’incontro 128 del
16 aprile 1978; Giov. 5,13: “Ma colui che era stato guarito non sapeva chi
fosse, perché Gesù si era allontanato dalla folla raccolta in quel luogo”.
Gesù lasciando la folla ci propone un passaggio
dalla conoscenza relativa alla folla, alla conoscenza essenziale, dell’Essere
in Sé.
Luigi: Precisiamo: la conoscenza secondo la folla è conoscenza
per sentito dire; la conoscenza non più secondo la folla invece è conoscenza
diretta, una presa di consapevolezza.
Pinuccia: Continuazione del riassunto: Dio
viene a noi parlando “fuori” del tempio per agganciarci a Sé, ci parla cioè nel
pensiero del nostro io; ma poi se ne va per farci fare il superamento dell’io e
portarci alla conoscenza diretta di Sé. “È necessario che io me ne vada, se no
non può venire in voi lo Spirito di Verità”. Lo Spirito di Verità è la
conoscenza: la conoscenza di ciò che Dio è. Cristo è venuto tra noi per
impegnarci a tempo pieno, perché l’uomo non è mai guarito. Lui è Uno che
cammina per cui non ci mai fermi. È meglio avere il coraggio di chiudere gli
occhi a tutto, ma non perdere di vista Lui. Egli ci invita a passare dall’esteriorità
all’interiorità superando il nostro io perché è solo nell’interiorità che Lui
si fa trovare. Non dobbiamo mai avere paura di entrare in rapporto diretto con
Lui in tutto (non c’è mai l’altro, ma in tutto è Dio), per stare con Lui.
Nessuna creatura ci può dire quello che Lui ha da dire alla nostra anima;
quindi Lui opera in tutto per suscitare in noi il bisogno di raccoglierci in
Lui.
Luigi: Sinteticamente direi così: le tappe della nostra vita
potrebbero essere quattro:
-
Tutto
senza di Lui
-
Tutto
e Lui
-
Lui
solo
-
Lui
in tutto.
Ma partiamo dal “Tutto senza di Lui”, viviamo in tutto
senza di Lui. Poi cominciamo a
scoprire Lui e allora c’è “tutto e Lui”; cioè “tutto con Lui” (uno tra
tanti). Poi “Lui solo”, perché Lui parlando accentra a Sé e ci libera da tutto.
Poi “Lui in tutto”. Prima ci sono “tanti”, ma non Lui; poi “Lui c’è tra tanti”;
però parlando, seleziona e scopriamo “Lui solo”; poi “Lui in tutto”, Lui nei
tanti.
Cina: “Tutto e Lui” vuol dire due mondi insieme?
Luigi: Si, due mondi insieme. La maggior parte della nostra
vita è questa, perché noi viviamo nel mondo e crediamo anche in Lui. Però se
ascoltiamo Lui, Lui diventa l’Unico, Lui solo, perché tutto il parlare degli
altri perde importanza e si sente il bisogno di essere con Lui solo. Allora
abbiamo la terza tappa: Lui solo. Poi finalmente Lui in tutto.
Nino: Mi pare impossibile che ci sia una tappa in cui ci sia
totalmente il “senza di Lui”, perché un aggancio c’è sempre.
Luigi: Si, perché Lui interviene in tutto.
Cina: C’è magari una nostalgia, un sentire che siamo creati
per altre cose.
Luigi: Si, ma non scopriamo Lui come vita. Guardiamo la maggior
parte della vita degli uomini, del mondo; anche se si va in Chiesa, però è un
vivere tutto senza di Lui, cioè senza di Lui come vita, come ascolto. È un
dovere, ma non è vita. Poi incominciamo a scoprire che c’è anche Lui; magari
incominciamo ad ascoltarlo, però è Lui tra tanti, per cui c’è “tutti e Lui”.
Cina: Ma quel punto immacolato l’abbiamo tutti in noi anche se
non è avvertito.
Luigi: L’abbiamo si, come insoddisfazione, perché fintanto che
non ne prendiamo coscienza resta in noi come insoddisfazione. Dio è presente, è
presente in ogni uomo, però osserviamo e osserviamoci anche: la maggior parte
della nostra vita si svolge senza Dio. Lui è presente, ma è bisogno di qualcosa
di indefinito che non sappiamo nemmeno noi; bisogna che ci lascia
insoddisfatti, oppure ci proietta in passioni nelle cose del mondo che ci
esasperano all’infinito, sperando sempre di ottenere una soluzione con le
creature, con le ricchezze, con i beni di questo mondo, con certe
soddisfazioni. Per prendere coscienza in che cosa consista questo punto
immacolato, bisogna già aver ascoltato Lui. Fintanto che non ascoltiamo Lui,
questo è presente in noi come bisogno di assoluto, come bisogno di Verità,
bisogno di pace, bisogno di luce, ma noi non ce ne rendiamo conto, tant’è vero
che cerchiamo la soddisfazione di questo bisogno in tutt’altre cose. Noi
cerchiamo la soddisfazione del bisogno di Dio che portiamo in noi in un primo
tempo tutto in altro. Per questo dico così che abbiamo tutti e non Lui. Direi
che la Presenza di Lui si rivela dal luogo in cui noi cerchiamo la
soddisfazione del bisogno essenziale della nostra vita quando la cercheremo,
nelle creature, nel mondo; per noi c’è tutto e non Lui. È quando cominciamo a
capire che Lui può soddisfare questa sete, questo bisogno principale, allora
noi abbiamo Lui con tutti gli altri. Più ascoltiamo Lui, più Lui diventa
l’Unico. Diventando l’Unico assorbe in Sé tutto, per cui vediamo Lui in tutto.
Sono i passaggi dell’amore: in un primo tempo noi non scopriamo l’amore; in un
secondo tempo scopriamo l’amore, ma l’amore non ci ha ancora scelti e viviamo
innamorati, ma delle cose del mondo. Ad un certo momento viviamo solo con
l’amore: un cuore e una capanna, cioè con l’amore unico. Poi in quell’amore
unico ricostruiamo tutto, cioè ricostruiamo la nostra vita.
Cina: Avvengono in noi queste tappe?
Luigi: Possono non avvenire, sia ben chiaro. Con Dio non
avviene niente di automatico. Dio ci propone il cammino, non ce lo impone, perché
Dio essendo Spirito, richiede sempre a noi una partecipazione consapevole,
quindi una scelta. Allora tutto il suo operare con noi è sempre una proposta di
quello che noi dobbiamo scegliere, ma che può anche non essere scelto. Non è che aspettando arrivi, no. Aspettando,
arriva la morte, diciamo, non arriva la vita: la vita è scelta, perché la vita
è amore. Se noi non scegliamo arriva la morte, non la vita. Possiamo dire così:
la vita richiede da parte nostra la scelta; la morte c’è anche se noi non la
scegliamo. Quindi siamo in una posizione di svantaggio, perché la morte opera
anche se non la scegliamo; la vita non opera se noi non la scegliamo.
Eligio: È che anche il rifiuto è una scelta.
Luigi: Si, ma noi molte volte crediamo che non scegliere (è lì
che non ce ne rendiamo conto) non ci sia il rifiuto: perché non scelgo. Non c’è
l’atto positivo del rifiuto: che non sceglie non si rende conto che già
rifiuta, perché dice: “Io accetto”, però praticamente non sceglie e quindi
rifiuta. Siccome scegliere vuol dire mettere Uno al di sopra di tutto, vuol
dire lasciare. E noi molte volte crediamo di scegliere senza lasciare e non
scegliamo.
Eligio: Si incontrano a volte persone che al solo vederle sempre
molto lontane da Dio; poi parlando loro arrivano a dirti: “Ti rendi conto cosa
sarebbe di noi se Dio non ci fosse?”. È una testimonianza splendida di come Dio
agisce nelle anime.
Emma: E come non dobbiamo giudicare apparentemente.
Luigi: Certo, perché l’apparenza sempre inganna. La Verità è
profondità.
Pinuccia: Lettura riassunto dell’incontro
n. 129 del 23 aprile 1978. Giov. 5,14 “Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio”. Qui
abbiamo il passaggio dalla conoscenza secondo la folla alla vera conoscenza,
quella delle cose in sé e che si attinge solo da Dio.
Eligio: Se il significato delle cose lo possiamo attingere solo
in Dio, noi praticamente viviamo in un pensato e in un operato di Dio, il cui
significato ci sfugge per quasi tutta la vita.
Luigi: Certo, infatti il Cristo stesso a noi sfugge: “Voi non
mi conoscete”, abbiamo visto ieri sera: “Se conosceste me conoscereste anche il
Padre mio certamente: chi vede me vede il Padre”. Quindi se il Cristo (e il
Cristo è la sintesi di tutta l’opera del Padre con noi), dice: “Non mi
conoscete”, anche l’anima di tutta l’opera di Dio con noi, sfugge a noi. Solo
conoscendo il Padre scopriremo quest’anima e allora capiremo l’immenso amore
con cui Dio ci ha amati prima che noi fossimo capaci di intendere; perché la
bellezza sta lì: che noi ci scopriremo amati già prima che fossimo capaci di
intendere l’amore; per cui capiremo che ci ha amati gratuitamente. Noi amiamo,
ma amiamo in quanto abbiamo la corrispondenza, in quanto vediamo nell’altro
qualcosa di valido da amare. Dio ci ama prima che noi siamo capaci di saper
valutare questo amore, e quindi di corrispondere a questo amore. Anzi è
soltanto con questo amore gratuito di Dio che Lui rende noi capaci di
rispondere ad un amore solo nella misura in cui riceviamo amore. È donando
amore che diamo forza ad un nostro fratello di superarsi, di amare. Quindi non
è rimproverando il fratello che noi diamo al fratello la possibilità di
superarsi, ma è amando, sovrabbondando in amore verso il fratello, che diamo al
fratello la grazia, la possibilità di superarsi. Per questo Gesù dice di essere
perfetti: “Come il Padre vostro che è nei cieli, che fa splendere il suo sole
sui buoni e sui cattivi, e manda la sua pioggia sui giusti e sugli ingiusti”. È
proprio con questa sovrabbondanza d’amore che dà la possibilità alle creature
di superarsi e di amare. Ma se la creatura non riceve amore, non può superarsi.
Eligio: Eppure noi siamo invitati in continuazione a cercare il
significato dell’operare di Dio, pur sapendo che finché non siamo nella sua
luce il significato non lo comprenderemo mai.
Luigi: Certo, però dobbiamo desiderarlo.
Eligio: Ma come possiamo capire allora?
Luigi: Il senso (la freccia). Non è tanto l’analisi
dell’avvenimento, non è il correre dietro alla pietra che Dio mi ha lanciato,
non è il conoscere la pietra, ma è conoscere Chi mi ha lanciato la pietra che
conta. La pietra (ed ogni avvenimento è una pietra che Dio mi lancia), ci viene
lanciata affinché noi guardiamo Colui che l’ha lanciata a noi. In Lui capiremo
il significato di questa pietra, capiremo l’amore che c’era in questa pietra.
Tutte le opere di Dio sono fatte per farci alzare gli occhi direttamente a Lui.
Più cerchiamo Lui e più in Lui avremo la possibilità di intendere le sue opere.
Non è analizzando le sue opere che noi arriviamo a Lui; ma è in Lui che noi
conosciamo le sue opere. Quindi dobbiamo cercare di conoscere lo spirito delle
sue opere, il senso, la direzione, la volontà che c’è nelle sue opere: questo
sì, la volontà. Chi mi tira la pietra, già mi rivela la sua volontà:
richiamarmi. C’è il suo richiamo. Questo è ciò che vale, mentre non conta il
mezzo attraverso il quale mi fa giungere il richiamo.
Cina: Quindi se una persona riceve amore riceve la forza di
superarsi.
Luigi: Non è detto che si superi; però riceve la forza per
superarsi. Non è che amando io ottenga che l’altro mi ami o che l’altro superi
sé, no, però è l’unica via per dargli tale possibilità. Invece castigando,
rimproverando, non si dà all’altro tale forza; lo si esaspera nel suo io, ma
non gli si dà la forza. La forza la si dà con l’amore, come Dio dà a noi la
forza amandoci.
Cina: Stamattina la lettura di Ezechiele dice che ognuno è
sentinella.
Luigi: Tu profeta sei stato esposto come sentinella, affinché
quando vedi il male che sopraggiunge avvisi. Ognuno è profeta di Dio.
Cina: Lo dice a me verso gli altri e agli altri verso di me?
Luigi: Si.
Pinuccia: Vuol dire che noi dobbiamo vegliare sugli altri per
vedere se vanno su una strada sbagliata?
Luigi: “Strada sbagliata” non vuol dire quello che comunemente
noi chiamiamo come “strada sbagliata”. Peccare vuol dire deviare o far deviare.
Quindi se tuo fratello cerca di deviarti dal fine …
Pinuccia: E se non cerca di deviarmi ma vedo che lui stesso è
deviato?
Luigi: Se vedo che uno cammina su una strada deviata dal fine,
è un atto d’amore aiutarlo.
Pinuccia: Se si lascia aiutare, perché a volte si può essere
inopportuni.
Rina: È un ammonimento.
Luigi: È un atto d’amore. Perché, se andando in montagna mi
accorgo che un mio fratello, un compagno o un altro, non conoscendo la strada, la
meta, sbaglia, lo richiamo; è un atto d’amore, non è un rimprovero. Dico:
“Guarda che hai sbagliato sentiero”. Non è che l’altro resti offeso perché dico
questo.
Pinuccia: Anzi, dovrebbe ringraziare.
Luigi: È logico. È in questo senso l’ammonimento. In quando
dico: “Guarda che hai sbagliato sentiero”, in modo che l’altro percepisca
l’amore, l’azione è buona. Il Cristo che ama, è Uno che viene tra noi
dicendoci: “Hai sbagliato sentiero! La strada è questa!”. Lui ci richiama da
tutte le nostre strade.
Pinuccia: Continuazione lettura riassunto:
lo scopo del mondo attorno a noi e della perdita di significato delle cose, è
quello di provocarci alla seconda conoscenza, di provocarci a dire chi è Colui
che ci ha dato la vita.
Luigi: Dio in tutti i segni ci provoca alla seconda conoscenza,
cioè ad entrare nel tempio.
Pinuccia: Continuazione lettura riassunto:
Sono due i fattori che ci sollecitano ad entrare nel tempio (fattori interno ed
esterno = fede e ambiente). Infatti “poco dopo” aver testimoniato di appartenere
a Gesù e aver constatato la propria cecità (provocato a rispondere chi è Gesù
non sa rispondere), Gesù lo trovò nel tempio.
Luigi: Va accennato che lui è entrato nel tempio perché ha
testimoniato, cioè ha disubbidito alla volontà dei farisei che gli dicevano:
“Non puoi portare il tuo lettuccio”; infatti lui rispose: “No, quello che mi ha
guarito mi ha detto che io lo devo portare”. È questa testimonianza che lo fa
entrare nel tempio.
Pinuccia: Questo “poco dopo” nel Vangelo
lo troviamo in un crescendo attraverso il quale Gesù ci educa all’incontro con
il Padre. “Ancora un poco e non mi vedrete più e un altro poco e mi vedrete”.
Ecco, questo “poco” è la condizione necessaria per entrare in quel posto dove è
Gesù: “Dove Io sono”. E in questo “poco”, in questa frazione di tempo c’è tutto
un travaglio di anima attraverso il quale il Signore dice: “Io vado e non mi
vedrete più, perché io vado al prepararvi un posto, affinché dove io sono siate
anche voi”.
Eligio: Quel “poco” che cosa può significare?
Luigi: È il passaggio dalla conoscenza esterna alla conoscenza
interna.
Eligio: Ma quel “poco”, essendo limite, lo riduce praticamente a
termini brevi.
Luigi: I tempi possono essere molto lunghi.
Eligio: Ma Lui dice: “poco”.
Pinuccia: Rispetto all’eternità è un “poco”, no?
Luigi: Si, Lui dice un “poco”, ma tutta la nostra vita è un
“poco”. Comunque il passaggio dalla conoscenza esterna alla conoscenza interna
è preceduto in noi dal Verbo stesso di Dio; cioè il Verbo di Dio parla a noi
nel mondo in cui ci troviamo, quindi esteriormente e noi lo troviamo
esteriormente con le sue parole, cioè meditando sul vangelo. Poi passa, dopo
aver parlato. Il giorno in cui cerchiamo di ritrovarlo esteriormente, se non
abbiamo approfondito la sua parola, non lo ritroviamo più. La parola che arriva
a noi, se non viene ad esempio da noi approfondita, se ne va. Il “poco” è
questo approfondimento, cioè questa fatica per arrivare alla maturazione della
parola, cioè a capire la parola. Allora, la parola annuncia a noi dove noi
siamo, nel mondo esterno, proiettati fuori; se noi non la approfondiamo, e
approfondirla vuol dire arrivare all’interno (perché è in Dio che abbiamo la
conoscenza della parola), la perdiamo; essa se ne va; ci viene portata via,
cioè resta soltanto il ricordo, resta soltanto la scorza, resta soltanto
l’esteriorità. Noi possiamo ricordarla materialmente, ma l’anima di essa la
perdiamo.
Eligio: Lui ci dice però: “Mi rivedrete”.
Luigi: Lui dice: “Mi rivedrete”, ma lo dice ai suoi discepoli
che sono proprio quelli che sono dentro. “Io parlo a tutti in parabole affinché
non capiscano: a voi che siete dentro è dato di capire”. Per arrivare a capire
c’è quel “poco dopo”. Per cui agli altri dice: “Mi cercherete e non mi
troverete”. Ai suoi discepoli dice: “Mi cercherete e non mi troverete, ancora
un poco e mi rivedrete”. Quindi c’è anche per i suoi discepoli il momento in
cui l’anima cerca e non trova: è la fatica di passare (ecco perché si richiede
un terreno profondo) dal segno al significato, cioè da quello che è in profondità.
Ma la profondità noi l’abbiamo soltanto (ed è il frutto del seme) nella
conoscenza di Dio. Allora in questo passaggio dall’annuncio di Dio nel nostro
mondo alla conoscenza in Dio (l’anima delle cose) c’è questo “poco” ed è la
fatica nostra.
Eligio: Questo “poco” è anche un avverbio di speranza, dà
conforto perché vuol dire che la prova non è indefinita.
Nino: È una segnalazione di un passaggio obbligato.
Luigi: In quel “poco” Lui ci invita ad una fedeltà in questa
tensione verso di Lui. Cioè, anche se non lo vediamo, dobbiamo essere tesi
verso di Lui, altrimenti diventiamo un terreno che non produce frutti.
Nino: Ce lo dice perché non molliamo.
Luigi: Ecco, appunto; ce lo dice perché non venga meno in noi
la speranza, quindi l’attesa, l’orientamento.
Nino: Per evitarci di scoraggiarci. Altre volte ci dice: “È
con la pazienza che guadagnerete le vostre anime”.
Luigi: Ora Lui dice: “Giungerete al frutto con la pazienza”, il
frutto che porta il terreno buono. Il terreno buono che porta il seme a
maturazione rappresenta quelle anime che avendo accolto la parola, la meditano,
e con pazienza giungono a maturazione, cioè alla conoscenza. Allora quel “poco”
rappresenta proprio la pazienza per arrivare a questa interiorità, in cui c’è
la conoscenza. Lui ce la promette.
Pinuccia: Continuazione della lettura del
riassunto. È solo col Figlio che si entra nel tempio, si arriva al Padre.
Luigi: Afferriamo la distinzione tra Padre e Figlio? In quel
senso (ed è importante questo) che è il Padre che genera, non è il Figlio che
genera. Cioè, se noi dobbiamo nascere come figli di Dio, è soltanto nella
conoscenza del Padre che nasciamo come figli di Dio. Nella conoscenza del Padre
c’è la nascita dal Padre. Ecco, il Figlio parlandoci del Padre ci aiuta a
diventare figli di Dio. Quindi il Figlio è Colui che parla con me: se io lo
ascolto, mi aiuta a conoscere il Padre suo, affinché nel Padre io possa
ottenere la figliolanza. Cioè c’è una nascita che si deve verificare in noi.
L’importanza sta lì: il Figlio è il Verbo che parla. Ma bisogna distinguere il
Figlio dal Padre perché è il Padre che genera, non è il Figlio che ci genera.
Diciamo: pur essendo una cosa sola, perché se il Padre genera anche il Figlio
genera, però noi non otteniamo la generazione dal Figlio.
Nino: Ad un certo punto Lui dice: “Io sono la vita”.
Luigi: Certo, ma Lui è la vita proprio in quanto ci conduce al
Padre: “Io sono la via, la verità, la vita”. D’altronde è anche logico: “Quello
che il Padre fa, pure il Figlio lo fa”.
Nino: D’altra parte Lui dice anche: “Chi vede me, vede il
Padre”.
Luigi: Ed effettivamente Colui che ci conduce al Padre ci
genera alla vita, perché, conducendoci alla sorgente, ci dà la sorgente, quindi
ci genera alla vita.
Nino: La figliolanza intende una paternità.
Luigi: Ci aspetta una nascita nuova e questa richiede un
contatto con Colui che genera i figli, con il Padre.
Rina: Cristo sarebbe il fratello che ci porta.
Luigi: Ecco, un fratello; diciamo, il fratello maggiore. Ma
ora, siccome: “Nessuno può salire in alto”, non è soltanto un fratello, cioè
uomo come uomo; ma Dio. “Siccome nessuno può salire in alto, cioè al Padre, se
non Colui che discende dall’alto, dal Padre”, solo Lui che discende dal Padre
ha la possibilità di condurci al Padre, noi no. Nessun uomo può; soltanto il
Figlio di Dio lo può. Perché Colui che discende dall’alto conosce la strada.
Noi invece continuamente scivoliamo sul piano materiale; tendiamo sempre ad
analizzare, a giustificare tutte le cose in base a schemi materiali: è tutta la
difficoltà nostra. Noi tendiamo ad interpretare tutto in base materiale:
abbiamo visto con che facilità, pur di evitare il miracolo, quindi l’opera di
Dio, si tende addirittura a dire: “Ma Cristo non è morto, era soltanto in coma,
ecc.”.
Nino: Si tende a relativizzare ogni cosa a noi.
Luigi: Al centro di questo però c’è il pensiero del nostro io,
non c’è il Pensiero di Dio; per cui se non ci superiamo, tendiamo a
materializzare tutto. Materializzando tutto distruggiamo tutto, perché perdiamo
l’anima delle cose. Ecco resta soltanto la cenere. È logico allora che ad un
certo momento noi gridiamo: “Non ho più vita, ma vuoto!”. Cioè partendo dal
pensiero del nostro io, ci troviamo con delle ceneri; ci allontaniamo
dall’anima di tutte le cose; mentre invece per arrivare a quest’anima si
richiede il superamento continuo del pensiero dell’io, e quindi riferire tutto
a Dio: qui c’è Dio! Ecco il salto del “poco”, e allora qui la difficoltà, la
fatica, che è fatica del superamento dell’io, per cui pensare è faticoso: è più
facile ad esempio sedersi su una poltrona e abbandonarci a delle fantasie; non
c’è fatica ma si è in superficie. Ecco, lì mi distruggo, lì perdo la vita.
Nino: È molto importante questa conclusione.
Pinuccia: Continuazione della lettura del
riassunto:
Dio si annuncia fuori del tempio, ma si rivela
solo dentro: è Dio che si dona, non è l’uomo che scopre la sua Presenza.
Infatti noi stessi tocchiamo con mano che non possiamo rendere presente Colui
che è assente. Ma neppure l’entrata nel tempio è opera della creatura. La
condizione per scoprire la presenza è che Gesù se ne vada. Quindi è necessario
poco: “Ancora un poco e non mi vedrete”.
“è necessario che io me ne vada. Un altro poco e mi rivedrete”. Poco dopo
infatti Gesù lo ritrovò nel tempio. Ma in quel “poco” è necessario che noi
tocchiamo con mano di non sapere più chi è Gesù, e testimoniare di voler
appartenere a Colui che ci ha guariti. La guarigione totale avviene solo nel
tempio.
Nino: Abbiamo visto che per il paralitico non è ancora
guarigione totale entrare nel tempio. Infatti anche noi quando abbiamo fatto il
passaggio alle cose dentro, non è che immediatamente siamo guariti, perché ogni
tanto in certe cose ci ritroviamo fuori, e poi recuperandole, riportandole a
Dio, ci ritroviamo di nuovo dentro, però per molto tempo penso si vada avanti
dentro e fuori.
Luigi: Si, è la nostra instabilità.
Nino: Per esempio una volta non capivo quel: “È necessario che
io me ne vada”. Poi l’ho capito, ma non è che io abbia risolto tutto. È tutto
un passaggio e ci vuole molta pazienza. Non bisogna mai mollare.
RIASSUNTI
GV 1 VS 19 Terzo incontro.
Titolo: Il delitto di ogni uomo.
Argomenti: L’amore si può trattenere solo offrendolo. Noi tratteniamo il perdono nella misura in cui siamo capaci di donare
perdono. L’egoismo ci fa perdere
i doni di Dio. Nella Sindone c’è il
dolore di Dio per restare con l’uomo. La passione di Cristo specchio della nostra anima. Il nostro io uccide la presenza di Dio in noi, tra noi. Il nostro io al centro è deicida. Il deicidio
del pensiero. Agli occhi di Dio,
ciò che conta è la realtà spirituale che è la vera realtà. Tutte le parole di Dio sono per salvare. Spiritualmente il non tener conto è uccidere. Cristo facendoci toccare il nostro male ci dà la possibilità di
liberazione.
17/settembre/1978
Pensieri tratti
dalla conversazione:
Pinuccia: Continuazione della lettura del
riassunto n. 129 del 23 aprile.
Facendoci constatare
la nostra cecità, Dio ci fa desiderare la guarigione totale, che si ottiene
però con la partecipazione personale, testimoniando Colui al quale vogliamo
appartenere. La guarigione totale
avviene nella conoscenza di Dio che è personale e incomunicabile. Solo avendo
il “posto” si può restare in questa conoscenza. Il “posto” è Cristo che ce lo
prepara se stiamo con Lui. Non siamo noi che troviamo, ma siamo trovati. È
nella dipendenza totale da Dio che si scopre la Presenza di Dio. Ma essa non è
frutto del nostro desiderio, anche se il desiderio è la condizione necessaria.
La nostra vita vera comincia col Pensiero di Dio e poi in questo Pensiero si
deve far entrare tutto di noi, per cui si arriva a lodare e ringraziare Dio in
tutto, con fiducia, facendo conto su di Lui. Bisogna però avere il coraggio di
affermare lo Spirito di Dio nelle prove, se no perdiamo il dono ricevuto.
Ricevere non è possedere.
Luigi: Non basta
che noi riceviamo per possedere, bisogna che noi facciamo i doni che abbiamo
ricevuto.
Nino: I doni li
dobbiamo dare.
Luigi: Li
dobbiamo dare. Noi possederemo solo quello che saremo stati capaci di donare.
(La vita sta nel donare, non nel ricevere). Avremo soltanto quell’amore che
saremo stati capaci di offrire; mentre invece tutto quello che avremo
trattenuto per paura di perdere, quello veramente perderemo: è il talento
sepolto. Quello che si diceva ieri sera: che l’amore si può trattenere, si può
possedere soltanto facendolo, offrendolo.
Nino:
Offrendolo vuol dire spenderlo?
Luigi: Vuol dire
spenderlo. Nella misura in cui sappiamo spendere, ecco veramente possederemo.
Per questo: “Chi cerca di salvare la sua
vita la perde, chi dà la sua vita la possiede”.
Nino: Direi che
spendere non è nemmeno corretto, perché è proprio regalando via la moneta che
ci ha dato.
Luigi: Si, si fa
fruttificare.
Pinuccia: Continuazione lettura riassunto:
La prova accolta
da Dio è gioia perché è un’occasione che Dio ci dà per possedere il dono che ci
ha dato.
Nino: È la
lezione del Vangelo di oggi: noi confermiamo in noi il perdono ricevuto dando
il perdono a chi ci ha offesi.
Luigi: Sì, però
generalmente si commenta dicendo che Dio ci perdona soltanto se noi perdoniamo
agli altri. No, Dio ci perdona prima, Dio ci perdona per primo, Dio ci ama per
primo. È che se noi non perdoniamo agli altri, cioè se non facciamo il perdono,
non possiamo trattenere il perdono, non possiamo trattenere il perdono che
abbiamo ricevuto. Non è che Dio subordini il suo amore, il suo perdono a noi,
verso gli altri: noi non possiamo amare se non siamo stati amati, non possiamo
perdonare se non siamo stati perdonati. Dio per primo ci perdona tutto. È
l’esempio del Vangelo di stamattina di quel re che perdona al servo diecimila
talenti. Dio ci perdona per primo; perdonandoci dà a noi la possibilità, la
capacità, la grazia di perdonare il fratello. Se noi perdoniamo, allora
diventiamo capaci di trattenere il perdono, perché facendo, teniamo. Dio ci
perdona per primo, Dio ci ama per primo; poi ci invita a farlo, affinché
facendolo, possiamo diventare capaci di tenerlo.
Nino: Perché
poi Lui ci dà sempre di più di quello che ci chiede di dare.
Luigi: Certo, si
capisce.
Nino: A quel
servo sono stati perdonati diecimila talenti ed è stato chiamato a darne cento.
Teresa: È un modo
di interpretare perché anche nel Padre nostro diciamo: “Perdona i nostri debiti come noi perdoniamo i nostri debitori”.
Eligio: Dovremmo
dire: “Come noi dovremmo perdonare”.
Luigi: No, noi
otteniamo, tratteniamo il perdono nella misura in cui siamo capaci di donare
perdono. Ma non è che non riceviamo il perdono o che Dio non perdoni o che Dio
subordini il suo perdono a come facciamo noi, no. Lui perdona per primo, perché
l’Iniziatore è Lui. L’Iniziatore della luce è Lui; non è che Lui ci lasci
mancare la luce. L’Iniziatore della rivelazione della sua Presenza è Lui; non è
che ci lasci mancare la Presenza. Quindi è Lui l’Iniziatore dell’amore; è
l’Iniziatore di tutto: ecco come siamo figli del Padre in tutto, ma Padre vuol
dire che è Lui che genera noi in tutto; quindi se noi abbiamo capacità di amare
è già perché per primi abbiamo ricevuto amore. Il peccato, il difetto nasce nel
dono che noi abbiamo ricevuto. Il difetto è soltanto in noi, in quanto noi
abbiamo ricevuto un dono e poi non ci comportiamo “come”. “Ecco, non dovevi anche tu? Siamo perfetti come il Padre il quale manda
la sua pioggia e fa splendere il suo sole su tutti … non dovevi anche tu?”.
Quindi noi siamo tenuti a ripeterci, a comportarci perché abbiamo avuto da Lui
la possibilità. Sei stato amato? Ama! Sei stato perdonato? Perdona! Hai
ricevuto la luce? Dà luce! Ecco, hai ricevuto grazia? Dà grazia! Ecco, invece
noi in questo dono compiamo una frattura; noi tratteniamo il dono, ecco,
diventiamo egoisti. Ecco l’egoismo: ci rifiutiamo quindi di comportarci nello
stesso modo con cui Dio si è comportato con noi: allora perdiamo tutto.
Teresa: Lo
chiediamo per noi e lo neghiamo agli altri.
Luigi: Lo
neghiamo agli altri; e non ci accorgiamo che negandolo agli altri, lo perdiamo
noi.
Nino: Alla fine
è sempre stupidità nostra.
Luigi: Certo.
Nino: La
questione è che sappiamo e ci comportiamo lo stesso così, quindi è stupidità
grossa.
Luigi: Si, è
logico.
Teresa: Abbiamo
il desiderio grande di essere perdonati e non teniamo conto di questo desiderio
negli altri. Cioè contano solo per noi certi valori.
Luigi: Si,
certo. Invece se teniamo presente Dio, quello che desideriamo noi, lo
desideriamo anche per gli altri. Ecco quel: “Ama
il prossimo tuo come te stesso”. Tu desideri essere perdonato? Perdona! Tu
desideri essere libero? Non tagliare il piede al tuo fratello che ha cercato la
libertà (es. il film “Radici”), cerca
anche che tuo fratello abbia la sua parte di libertà. Tu desideri essere amato?
Ama! Ecco, vedi: la lezione è semplice! Ora, Dio non ci obbliga a comportarci
secondo la sua onnipotenza, dato che Lui è Onnipotente; no, è Lui che per primo
ci dà la capacità di amare. Per cui dice: “Hai
ricevuto tanto?”, adesso anche verso tuo fratello comportati allo stesso
modo. Perché se hai ricevuto questo, adesso verso il fratello vuoi comportarti
in modo diverso? Vedi? È l’io nostro che si comporta in modo diverso: arresta
la corrente creatrice. La corrente creatrice dovrebbe passare attraverso le
creature e manifestarsi in tutto. La corrente creatrice è amore. E allora,
arriva a te l’amore? L’onda d’amore lasciala passare anche nei fratelli, in
tutto quanto, in tutte le tue cose; lasciala passare e allora tutto diventerà
amore. Invece succede che in noi c’è l’arresto, la frattura. E dal nostro io in
poi non c’è più l’amore che prosegue, c’è altro: ecco, c’è l’egoismo. Tutto
l’errore sta lì.
Pinuccia: Conclusione lettura riassunto:
Per giungere alla
seconda conoscenza, bisogna passare dall’esteriorità all’interiorità e poi
superare anche la nostra anima e i pensieri della nostra anima per poter
entrare nella conoscenza del Padre. Necessità della vigilanza, sempre, perché
sempre corriamo il rischio di staccarci da Dio, anche quando siamo già nel
tempio. La nostra sicurezza non è nel cammino che già abbiamo fatto, ma in Lui.
Luigi: Il pensiero guida che dovrebbe accompagnarci durante
l’analisi della Sindone è questo: “È per te!”
Infatti Cristo morendo in Croce parla a noi e dice: “È
per te!”.
Il “per” va inteso
in due modi:
-
“per” causale, a causa di te;
-
“per” finale,
a favore di te.
Quindi questo “per”
è causale e finale; cioè è a motivo di te, ma anche a favore di te, per la tua
salvezza.
Luigi: È molto importante precisare una cosa: sovente è stato detto
da molti che la Sindone rappresenta il dolore umano, cioè il dolore che
soffrono gli uomini, tutta l’umanità, per le ingiustizie sociali; penso non sia
giusto, perché la Sindone rappresenta
veramente il dolore Divino, cioè il dolore di Dio a convivere con l’uomo.
Quindi non è che la Sindone sia per consolare l’uomo,
per dire all’uomo: “beh, tu soffri, però guarda il tuo dolore è rappresentato
lì”. No! Nella Sindone c’è il dolore di Dio per convivere, per restare con
l’uomo.
Teresa: Quello che ha pagato Dio…
Luigi: …quello che paga Dio; infatti la Sindone, come
la Croce, è rivelazione di quello che avviene; quindi in quel Lenzuolo vi è
scritto quello che paga Dio per restare con noi. Per questo va precisato che
non rappresenta il dolore dell’uomo, ma rappresenta il dolore di Dio.
È sbagliato dire che rappresenta il dolore umano, perché
così fosse, chiunque abbia una sofferenza può dire: “beh, partecipo anch’io…”.
No! quello è il dolore di Dio per restare con noi.
E allora di fronte a quella scena noi ci sentiamo in
colpa e non giustificati. Infatti se rappresentasse il dolore umano ognuno di
noi si sentirebbe un poco giustificato al punto da dire: “beh, un po’ di dolore
anch’io lo soffro”, e quindi, quasi quasi, trovare nella Sindone una
consolazione. Invece nella Sindone c’è il dolore di Dio per restare con noi
nonostante noi; allora essa è tutto un rimprovero a noi, e quindi un impegno,
quasi a dire: “la mia sofferenza è niente…, è ben altro il problema che la
Sindone mi rivela”.
Quindi La Sindone è il dolore di Dio verso ognuno di noi,
per restare con ognuno di noi.
Nino: È il dolore del Dio incarnato, perché Dio in Sé non può
soffrire.
Luigi: Dio incarnato rappresenta, o meglio, significa la
presenza di Dio in noi. L’incarnazione è la significazione di questa
presenza tra noi di Dio; l’Emmanuele
vuol dire “Dio tra noi” (Mt 1,23). Dio
incarnato, Cristo, è il rivelatore del mistero di Dio con l’uomo, cioè di
quello che noi facciamo passare al Dio in noi. Perché se Lui non restasse
con noi, noi cadremmo nella morte immediata, cadremmo nel nulla.
Dio resta con noi, ma a quale prezzo?
Ecco, Cristo rivela a noi il prezzo di questa
convivenza.
Nino: Intendevo dire: una cosa è Dio Padre, Figlio e Spirito
Santo, e una cosa è il Figlio incarnato; perché è Lui che soffre, non credo che
la sofferenza arrivi a colpire il Dio Assoluto, Spirito.
Luigi: D’accordo, si capisce, la tragedia avviene in noi e non
avviene ontologicamente nell’Essere
Divino: avviene nel Dio che abita in noi. Cioè, la rottura del disegno, della
volontà, dell’amore di Dio avviene in noi.
Nino: Stupisce veramente che Cristo abbia potuto sopportare
tutte quelle sofferenze che si leggono nella Sindone. Oltre il dolore della
flagellazione di 120 frustate, bisogna tenere in conto anche la necrosi dei
tessuti spappolati che dopo un’ora spingono dei veleni in tutto il sangue, con
conseguente febbre, ecc. Poi le cadute sotto quel trave pesantissimo che
poggiava su un tessuto spappolato.
Luigi: Cristo doveva essere un uomo molto forte, perché dopo
l’agonia del Getsemani, la sudorazione di sangue, la flagellazione e
l’incoronazione di spine, si è caricato quel trave di quaranta, cinquanta
chili; un uomo “comune” dopo due o tre colpi di flagello sarebbe svenuto e non
si sarebbe più rialzato.
Nino: Mi ha impressionato la descrizione della passione del
Cristo fatta dal Dott. Barbet, analizzando la Sindone.
Luigi: Certo, più uno è competente è più si rende conto della
portata di quelle sofferenze subite dal Cristo.
Nino: Notiamo questo: quelli che ci hanno impressionato di più
nella descrizione dei dolori dell’Uomo della Sindone in genere sono degli
agnostici, cioè gente che non ha nessun interesse di trovare elementi a favore
di un “credo”, ma è solo gente onesta che ha riportato i risultati delle loro
accurate ricerche.
Cina: Se il Signore ha sofferto così tanto per me, per
salvarmi, vuol dire che mi vuol bene.
Luigi: Certo, quelle pene Lui le ha patite per salvarti. Ma
qual è la causa di queste sofferenze?
Cina: Non fossi stata nel peccato non ci sarebbe stato bisogno
della Croce!
Luigi: Logico, ma sei convinta che tutto ciò che ha sofferto il
Cristo è a causa di ognuno di noi? Quindi non a causa dell’umanità come massa, di
tutti gli uomini, ma è per ognuno di noi. Non dobbiamo giustificarci dicendo:
“ha sofferto così perché siamo in tanti”. No! Lui ha sofferto e soffre tutto
quello per ognuno di noi personalmente. Quindi ci fosse soltanto uno di
noi in tutto l’universo, Cristo muore per quell’uno soltanto, per salvare
quell’uno. La quantità non conta agli occhi di Dio. La statistica di Dio
non è la nostra.
Cina: La flagellazione è di una tale crudeltà che ho paura di
non arrivare a dire: “sono io che partecipo a questa flagellazione”. La morte
sì, ma la flagellazione è di una tale crudeltà che fa rabbrividire.
Luigi: Non sei tu che lo dici, e non sei tu che lo devi
dire: è Lui, Gesù, che te lo dice; la rivelazione viene da Lui, non è opera
nostra. È Lui che dice ad ognuno di noi: “guarda che tu mi hai ridotto così”.
Noi non possiamo dire: “non me la sento di arrivare ad ammettere che sono uno
dei flagellatori”, perché è Lui che ci dice che lo siamo; e abbiamo bisogno
di sentircelo dire da Lui, perché noi non ce ne rendiamo conto, non possiamo
renderci conto di quello che facciamo.
Noi non possiamo renderci conto della gravità della
nostra superficialità, della nostra grossolanità, della nostra incoerenza. Noi
non ci rendiamo conto…; noi con una facilità enorme diciamo: “Signore, io ti
amo con tutto il cuore”, e non ci accorgiamo che forse proprio mentre diciamo
questo, Lui ci rivela e ci identifica magari con coloro che lo prendono in giro
dicendo: “Se tu sei Dio scendi dalla
Croce”(Mt 27,40), oppure, con quei soldati che dopo averLo schiaffeggiato
gli dicono: “Indovina chi ti ha percosso”
(Mt 26,68). Mentre gli diciamo: “Signore, ti amo”, forse Lui ci dice:
“tu sei come coloro che mi hanno flagellato”. La rivelazione è Lui che la
dà.
Pinuccia ieri sera diceva; “Se Gesù venisse a Fossano, se
Lo vedessimo, chissà come sarebbe accolto!”. Ecco, probabilmente noi ci
troveremmo davanti a Uno che dice a noi: “mi stai prendendo in giro?”; oppure:
“stai cercando di farmi indovinare chi è che mi percuote?”. Perché quello che
dice Lui non è quello che sembra a noi, quello che diciamo noi. “Le sue vie non sono le nostre vie, i suoi
pensieri non sono i nostri pensieri” (Is 55,8), quindi la rivelazione su di
noi, su quello che facciamo noi verso di Lui la riceviamo da Lui.
Allora, quello che Lui ha sofferto, la Sindone stessa,
è rivelazione di “cosa” per noi impensata (che però è reale perché è
rivelazione): “Quell’uomo che mi ha
crocifisso sei tu; tu credi che sia Pilato, Erode, che sia Caifa, No!
quell’uomo sei tu!”.
Ecco, è lì che ci fa meditare, perché questa luce ci
viene da Lui; eppure, questa luce, questa rivelazione non la dà a noi per
rovinarci, ma per salvarci, cioè per farci capire che il nostro io, il
nostro egoismo, è deicida; Egli ci rivela la nostra colpa, il “corpo del
peccato” che è il pensiero del nostro io al centro; ce lo rivela per invitarci
ad andare oltre al nostro io, a non fermarci ad esso, perché il nostro
io uccide la presenza di Dio in noi, la presenza di Dio tra noi. E uccidere
la presenza di Dio tra noi ci manda all’inferno, ci manda alla rovina.
Allora, tutto ciò che Cristo ha sopportato e sopporta
lo fa per darci la capacità e la grazia e la volontà di andare al di là del
nostro io, di non lasciarci più guidare dal nostro io, cioè di non avere
più il nostro io come padre, ma di avere Dio come nostro Padre, cioè come
elemento motivante la nostra vita.
Non devono essere i nostri sentimenti, non deve essere il
pensiero del nostro io, non deve essere la figura di noi stessi, il pensiero di
noi stessi davanti agli altri, ma deve essere il Pensiero di Dio l’elemento
motivante.
Ecco, tutta questa sofferenza del Cristo è per
convincerci a superare il pensiero del nostro io e a lasciarci guidare dallo
Spirito di Dio; …fu ed è necessario tutto questo.
Teresa: Solo l’infinito amore di Cristo può caricarsi della
colpa dell’altro, quindi della nostra. Egli si fa sacrificio gradito al Padre
per darci la vita, ma questo solo se lo accettiamo, se lo desideriamo, se
crediamo, se lo lasciamo fare.
Luigi: Sì, il credere, il lasciar fare richiede proprio
l’andare al di là del nostro io, quindi quel riferire tutto a Dio,
cioè quell’aver Dio come Padre. Ecco, il Figlio per far diventare noi
figli subisce questa Passione, questa Morte, unicamente per convincerci, perché
la sua Passione e Morte sono elementi di convinzione. Infatti fintanto che noi
non siamo abbastanza convinti che il nostro io al centro è deicida, ci
adagiamo, seguiamo le abitudini, ci facciamo guidare, poco o tanto, dal nostro
egoismo, cioè dai nostri sentimenti, dalle nostre impressioni, dal giudizio
comune, dalle abitudini, dalle regole.
Ora, il Figlio “vero” viene a morire tra noi per
convincerci ad andare al di là di questo nostro modo di vivere, a non lasciarci
guidare dalle nostre impressioni, dai nostri sentimenti, da quello che dicono
gli altri, perché quello diventa delitto verso Dio: uccidiamo in noi il
Cristo senza renderci conto; infatti diciamo: “ma quando mai io ho ucciso
Dio?”.
Tutte le volte che tu ti lasci guidare dalle tue
impressioni, dai tuoi sentimenti, dal pensiero degli altri, dal pensiero del
mondo, tu crocifiggi, tu metti a morte Dio.
Ora, Gesù, che è il Figlio di Dio, viene per rivelarci
questo nostro delitto, perché noi in superficie non possiamo renderci conto
della gravità delle cose che facciamo e che facciamo per la nostra rovina.
Ecco, Lui viene a subire questa morte per evidenziarci le conseguenze del
pensiero del nostro io autonomo e quindi per convincerci.
Diciamo così: traumatizzandoci ci convince; ma per
traumatizzarci si deve far figlio nostro, cioè ci deve far toccare con mano gli
effetti della nostra superficialità, perché
soltanto toccando con mano gli effetti della nostra superficialità
possiamo arrivare a dire: “ma come è possibile? io ho fatto questo?”. È qui che
si forma la dinamica del superamento dell’io; ci mette in crisi al punto da
portarci a dire: “io che credevo di essere buono, ho fatto questo? Come mai?
Cosa c’è di sbagliato? Dove sta il mio errore?”. È lì, attraverso questa crisi
Lui ci convince che non dobbiamo lasciarci guidare da quelli che sono i nostri
sentimenti, i nostri pensieri, ma che dobbiamo sempre andare a cercare la
ragione e i motivi della nostra vita presso lo Spirito di Dio, perché è lì che
si diventa figli.
Rina: Questa morte di Gesù è per me. Dio me la presenta in
modo che io possa pensare di più a Lui, perché io impari ad accettare la
sofferenza e ogni cosa che il Padre mi manda e a morire al mio io. Però non
sono convinta che per colpa del mio io ho contribuito ad aumentare le
sofferenze della Croce.
Luigi: La non convinzione è effetto di superficialità;
nella superficialità noi non possiamo essere convinti. La convinzione è
effetto di profondità, e la convinzione viene da Dio. La nostra tragedia sta
lì: noi nella nostra superficialità ci crediamo buoni, ci crediamo giusti, ci
lasciamo guidare da tante cose che sono soltanto impressioni, ma
sostanzialmente non siamo convinti di niente; e allora lì noi subiamo tutta una
tragedia. Infatti, se noi ci lasciamo guidare soltanto dalle impressioni, le
impressioni non ci convincono; dire: “faccio così perché tutti fanno così”, non
è un ragionamento corretto, cioè è un ragionare secondo impressioni, e non
convince. Ecco, la convinzione invece è in profondità, presso Dio, nella
Verità.
Ora, Dio ci vuole condurre a queste convinzioni, e per
condurci a queste convinzioni ci traumatizza, perché noi nella nostra
superficialità ci crediamo buoni, giusti, onesti, e addirittura ci
giustifichiamo dicendo: “non sono un eroe, però mi comporto abbastanza
onestamente”.
Rina: Ma non siamo poi tanto delinquenti da ridurre Cristo in
quel modo.
Luigi: Ecco. Invece Cristo ci fa toccare con mano (dicendoci: “E per te!”) che proprio con le nostre
superficialità, con le nostre non convinzioni Lo riduciamo così.
Ora, questo trauma che Lui crea in noi nonostante noi,
perché ci mette di fronte ad un delitto di cui noi credevamo di lavarcene le
mani, ci sollecita ad approfondire. Quindi, mentre prima noi per
giustificarci dicevamo: “no, io non sono”, adesso, traumatizzati, siamo
obbligati ad approfondire. Quando una creatura viene accusata di un delitto, e
cerca di giustificarsi, cosa deve fare? Deve approfondire per arrivare a delle
giustificazioni convincenti per dimostrare la propria innocenza.
Ma proprio approfondendo arriviamo a capire; cioè
arriviamo proprio là dove Lui ci voleva condurre.
Ecco, attraverso questa sua Passione, questa sua Morte,
Lui ci muove da una situazione di stasi in cui noi ci eravamo sistemati sulla
poltrona. Tutto Egli fa per muoverci, perché soltanto muovendoci ci porta
nella vita; e noi all’ultimo Lo ringrazieremo infinitamente di questo
dolore sofferto per noi, perché capiremo che se non fosse stato per questo
dolore noi restavamo adagiati nelle nostre poltrone ed effettivamente ci
perdevamo.
Alla convinzione si approda solo se si approfondisce.
Rina: Se arriviamo ad essere convinti dobbiamo cambiare vita.
Luigi: Certo, il Cristo è morto in questo modo drammatico
proprio per suscitare in noi il movimento di ricerca di una convinzione che non
abbiamo. Perché noi ci roviniamo restando in superficie, cioè lasciandoci
guidare da ciò di cui non siamo convinti. Chi non è convinto si lascia guidare
solo dalle impressioni, e chi si lascia guidare dalle impressioni non giunge
alla Salvezza, non giunge alla Luce. È la ricerca di Dio che ci porta nella
Vita.
Nino: Io non faccio difficoltà ad accettare ed a riconoscere
di essere io il carnefice e l’uccisore di Cristo ogni volta che agisco staccato
da Lui, e quindi ad identificarmi con tutti i personaggi della sua Passione.
Così pure non faccio difficoltà a credere che la Sindone Dio ce l’ha data non
per farci vedere le sofferenze di un uomo qualunque, ma per farci vedere le
sofferenze di un Uomo-Dio che è arrivato fin lì per Amore nostro.
Io mi sento chiamato in causa dalla Sindone, come dicevi
ieri sera, come S. Tommaso, a mettere le mie mani sulle Sue piaghe; questo
perché è una cosa che mi è stata rivelata da scienziati che credevano meno di
me.
Io non posso dire che erano più fortunati quelli di
allora, perché l’hanno visto soffrire; probabilmente ho preso più coscienza io
delle sue sofferenze che non quelli che lo facevano soffrire in quel momento,
infatti loro non potevano analizzare e servirsi di studi di gente più
competente.
Sono impressionanti le analisi del Dott. Barbet, come è
impressionante la fotografia.
Gesù con la Sindone mi ha messo davanti a delle cose che
sono inconfutabili. Non posso più dire che è una pittura, non posso più dire che
è un’opera umana. Nella Sindone è Gesù che parla a ciascuno di noi, che parla a
me.
Luigi: Come è possibile che uno dica: “io sono convinto di
essere causa di questo dolore”, mentre un altro dice: “io non posso pensare di
esserlo…”? eppure siamo tutti uguali. Eligio stesso, ieri sosteneva questo:
“non posso immaginare di essere uno di loro; ad un mio fratello io non farei
lontanamente ciò che è stato fatto al Cristo”; come è possibile che uno sia
convinto e l’altro no?
Pinuccia B.: Ma bisogna intenderlo nello spirito; perché
fisicamente non l’abbiamo fatto, ma spiritualmente lo facciamo.
Luigi: Guarda che ciò che combiniamo fisicamente è molto
meno grave di ciò che combiniamo spiritualmente. Non dobbiamo giustificarci
dicendo: “lo faccio spiritualmente, ma non fisicamente”. Teniamo sempre
presente la sproporzione enorme che c’è tra quei diecimila talenti e i cento
denari della parabola del servo spietato (Mt 18,23-35).
Nino: Pilato l’ho sempre considerato il meno colpevole, invece
Pilato ne ha tanta di colpa, e noi siamo come Pilato; questo accade ogni qual
volta che per paura di ricevere un danno, ci rifiutiamo di assumerci la
responsabilità della Verità.
Emma: In Pilato ci possiamo riconoscere un po’ tutti…
Nino: Ieri sera ci si chiedeva come avremmo seguito Gesù se
fossimo vissuti al tempo dei primi discepoli; probabilmente ci saremmo
comportati come i Giudei, l’avremmo considerato un sacrilego, perché “Tu che sei uomo ti fai Dio”(Gv 10,33).
Gli ebrei aspettavamo un Messia, ma doveva venire da Betlemme, non da Nazareth;
doveva venire come un Re a ristabilire la potenza di Israele e non come
l’ultimo dei mentecatti; per loro era un pazzo che girava per le strade a dire
delle cose senza senso, a dire che “…ognuno
doveva prendere la propria croce…”, che dovevano “rinunciare a se stessi” (Mt 16,24); “…non osservava il Sabato” (Gv 9,16), ecc.
È presunzione dire che se noi fossimo vissuti allora
L’avremmo seguito.
Eligio: Ho ancora una grande difficoltà a vedermi causa della
passione e morte del Cristo. Sul piano del pensiero riesco a capire che con il
mio io uccido Dio, ma sul piano fisico non lo capisco.
Stento a vedermi nella condizione di flagellatore di
Gesù. Accetto per fede di essere causa sul piano fisico, mentre invece sono
convinto di operare un deicidio quando affermo il mio io. Ho bisogno quindi di
giungere a rendermi conto di essere io causa di quella morte fisica di Cristo.
Nino: Non dobbiamo avere difficoltà a riconoscerci in tutte
quelle figure che direttamente o indirettamente hanno ucciso il Cristo duemila
anni fa. Anche Pietro è una figura
altrettanto colpevole. Infatti non c’è tanta differenza tra Pietro e Pilato.
Pietro ad un certo punto, per salvare se stesso, davanti ad una povera donna,
rinnega il suo Maestro: “io non Lo
conosco”(Mt 26,72). E Pietro era uno degli uomini più vicini a Dio.
Eligio: Però non riuscirei a vedere Pietro come flagellatore.
Nino: Pietro è stato un flagellatore proprio per aver
rinunciato a dire la sua in favore di Cristo. Indirettamente anch’egli è stato
uccisore del Cristo. Fortunatamente Dio evita a parecchi di noi di ammazzare
dei nostri fratelli per rivelarci il nostro deicidio, però se noi portiamo alle
estreme conseguenze i pensieri che abbiamo avuto qualche volta per affermare il
nostro io, possiamo renderci conto di come lo spirito del nostro io sia deicida.
Ognuno di noi deve solo ringraziare Dio se non si è trovato nelle condizioni di
un assassino, perché se un nostro pensiero violento avesse potuto realizzarsi,
noi avremmo ammazzato Cristo in un fratello.
Eligio: Farei la distinzione tra un nostro fratello e Cristo.
Luigi: Gesù dice: “Ogni
qualvolta che avete fatto questo ad un altro di questi minimi dei miei
fratelli, l’avete fatto a Me” (Mt 25,40).
Nino: O crediamo alla rivelazione o mettiamo in dubbio le
parole di Cristo. Non ho difficoltà a vedermi in quei personaggi.
Luigi: Però la convinzione è personale, tua; tu hai degli
elementi personali tali per cui dici: “io mi identifico in essi”; un altro invece
trova più difficoltà in quanto magari non ha elementi così convincenti. Ma è Dio che ti ha convinto.
Nino: Penso però che Gesù dà a tutti il mezzo per arrivare a
questa convinzione.
Luigi: Certo, e bisogna arrivarvi, perché Lui stesso dice: “Questo è per te”, e in quanto lo dice
ci sollecita. Naturalmente ci vuole l’atto di adesione, per fede, ma bisogna
arrivare a dire: “la realtà è questa; io non la capisco ancora, però la
accetto, perché me lo dice Lui”, e cercare di convincerci, cercare di arrivare
a vedere questa realtà.
Eligio: Trovo difficile investirmi nel flagellatore, anche se
devo aderirvi per fede, auspicando però che non resti velata la speranza, dal
momento che tutto quello Cristo l’ha subito per salvarmi.
Luigi: E l’ha subito quindi per mantenerti nella speranza.
Eligio: Per me invece è leggermente velata la speranza, perché
mi fa inorridire il pensare di essere l’autore sadico di ciò che accadde al
Cristo.
Luigi: No, perché c’è questo fatto: prima la nostra speranza
era fondata sostanzialmente sulla nostra bontà o meriti personali; invece
adesso Gesù chiede a noi che la nostra speranza sia fondata sulla sua
Misericordia, su di Lui; cioè ti chiede di sperare proprio su Colui che
tu hai ucciso, che tu hai malmenato. La tua speranza la devi fondare su di
Lui, perché è solo Lui che ti può perdonare.
Dio ti porta al punto in cui tu prendi coscienza che non
c’è più niente di buono in te su cui tu possa far leva per sperare. Quindi Lui
ti annulla la speranza che avevi, che è una speranza sbagliata, superficiale,
sentimentale per portarti ad avere la speranza in Lui, quindi per portarti alla
convinzione: “è Lui che mi può salvare, proprio con la sua morte”.
Cristo è venuto quindi a portarci un’altra speranza, una
speranza molto più autentica, molto più vera, perché effettivamente noi
dobbiamo far conto solo su Dio e non su noi stessi, o sulle nostre opere.
Qui allora siamo a posto.
Eligio: Il deicidio sul piano del pensiero con facilità lo
constati, ma anche lo si dimentica
facilmente, perché rimane un sentito dire.
Luigi. Comunque, in quanto la cosa ti turba vuol già dire che
Dio ti chiama; cioè se ti sconvolge è perché ti chiama lì, e sotto un certo
aspetto ti dà la possibilità di convincerti.
Il nostro sforzo non deve mirare tanto a cambiare il
nostro comportamento, quanto piuttosto a superare il nostro io, perché il vero
peccato non è ciò che noi chiamiamo “peccato”, l’azione esterna, ma è la nostra
motivazione sbagliata. Infatti il nostro io si può camuffare di tanta bontà
e quindi far leva e speranza sulle proprie opere buone; e questo
probabilmente è ancora più pericoloso, perché ci mettiamo fuori dicendo: “Signore, io ti ringrazio, perché mi sono
comportato bene” (Lc 18,11-12). È proprio questo atteggiamento che ci fa
stentare ad entrare nel vestito del peccatore, del delinquente, dell’uccisore. Siccome
la salvezza viene da Lui (è solo Lui che salva), noi dobbiamo superare il
pensiero del nostro io e tutto ciò che si appoggia sulle opere del nostro io,
ed è Lui che ci chiede questo, per imparare ad appoggiarci sull’Amore, sulla
Verità, sulla Bontà, sul Perdono e sulla Misericordia di Dio.
Eligio: Io penso che il rischio non sia tanto quello di contare
sulle opere buone, perché siamo sempre colpevoli di tanti peccati, ma è proprio
la difficoltà ad uscire dall’incapacità di giungere alla convinzione di essere
i carnefici di Cristo.
Luigi: È Lui che ci conduce. L’importante che noi capiamo che
dobbiamo arrivare a questa convinzione. Allora, se capiamo che dobbiamo
arrivare a questo, Egli ha già preparato il terreno per la sua semina.
Praticamente Lui dice a noi: “adesso tu
hai capito che devi arrivare a convincerti di questo? Allora tutto quello che
Io ti farò, accettalo per arrivare a questa convinzione, perché sono Io che
opero la convinzione in te…; allora, d’ora in poi incomincia ad accettare
tutto quello che Io ti mando, soprattutto quello che è contro di te, le croci
che non gradisci, perché attraverso quelle ti conduco alla luce che ti convincerà
di ciò che cerchi”. Devi quindi disporti ad accettare tutto, così come
se ti trovassi di fronte ad un plotone di esecuzione: non ti rimarrebbe che
alzare le mani … arrendendoti.
Vedi, Dio mettendoti di fronte ad una certa scena, la Sindone, crea uno stato d’animo tale
per cui incominciamo ad essere preparati ad accogliere tutte le sue opere che
tendono a purificarci, a liberarci, a spiritualizzarci; ecco: la Sindone ci dispone all’accettazione,
perché è Lui che forma il cammino, non siamo noi. Quindi non diciamo: “dubito
di arrivare a convincermi”, No! Lasciamo fare a Lui, però disponiamo la nostra
anima ad accettare con umiltà sapendo che siamo in colpa. Quindi non dobbiamo
pretendere niente; allora accettiamo, stiamo lì, Lui ci conduce. È questa la
condizione fondamentale. Noi generalmente invece siamo restii ad accettare.
Eligio: Prima però hai detto che bisogna cercare di
approfondire, ma c’è bisogno di una grazia particolare, perché non saprei da
dove incominciare ad approfondire. Per me la Sindone è sempre stata una
fotografia di grandissima suggestione, ma mai l’avevo considerata come denuncia
di una mia partecipazione personale ad un delitto simile. Solo approfondendo mi
convincerò che Lui si è offerto a me per la mia salvezza …
Luigi: …e si è offerto a
ciascuno di noi in quella situazione di morte, e di una tale morte; infatti, poiché
vuole salvarci, deve rivelarci che quello che Lo uccide, che Lo flagella sono
le motivazioni che portiamo dentro di noi, che sono le motivazioni di
Pilato, le motivazioni di Pietro, cioè quelle motivazioni che ci fanno credere
giustificati, confortati; infatti arriviamo a dire: “se io non dico quella
menzogna mi comprometto …”. Guardiamo le menzogne di allora quali conseguenze
hanno causato! Quindi se quella menzogna è dentro di te, tu sei colpevole
quanto chi ha ucciso Cristo mentendo, perché di fronte a Dio non conta il
tempo, la regione, il luogo o la situazione: quello che conta per Dio è
l’intenzione che uno porta dentro di sé. Quindi se l’intenzione di Pilato,
che è quella di non compromettere la sua carriera, per cui lascia crocifiggere
Cristo, è un’intenzione che portiamo in noi, anche se materialmente non
facciamo la stessa azione, facciamo comunque la stessa cosa che ha fatto Pilato
(è sufficiente che il quadro ambientale si sposti).
Ora, il Signore ci porta a capire che quello che muove
tutto è l’intenzione che abbiamo in noi; se in noi ci sono le stesse
intenzioni di un Pilato, di un Pietro, di un Giuda, di un Sommo Sacerdote di
allora, noi siamo colpevoli degli stessi atti. Se in noi c’è uno di questi
desideri abbiamo già commesso il deicidio nella stessa atroce maniera che è
avvenuta duemila anni fa; infatti il Signore ci dimostra che l’azione
l’abbiamo già fatta. Questo perché agli occhi di Dio, ciò che conta è la
realtà spirituale che è la vera realtà. Quindi non conta che nella realtà
materiale io faccia questo o quell’altro, perché la realtà materiale è Lui
che la fa; ciò che conta è l’intenzione, il pensiero; quindi se il
pensiero che portiamo in noi è il nostro io al centro, noi siamo già passibili
di tutti i delitti.
Eligio: E anche se spesso cadiamo, penso però che davanti a Dio
conta l’intenzione di non voler più peccare; infatti all’adultera Gesù dice: “Va’ e non voler più peccare” (Gv 8,12)
e non dice: “Va’ e non peccare più”.
Luigi: Certo, d’altronde è evidentissimo: agli occhi del Cristo
(e tutte le scene del Vangelo sono fondate lì), ciò che noi riteniamo i peccati
più gravi sono le cose più leggere, quello che invece agli occhi nostri
sembrano le cose più passabili e normali, magari un atto di orgoglio, o una
superbia, ai suoi occhi invece sono delle stangate e staffilate a non finire.
Agli occhi di Cristo i valori si capovolgono; nella nostra superficialità le
cose sono molto diverse da come lo sono invece nella Realtà. La Realtà è
diversa.
Ora, noi stiamo andando verso questa Realtà “diversa”
che ci sconfesserà tutte le nostre motivazioni; e noi dobbiamo aspettarcela
questa Realtà diversa. La Realtà è spirituale. Si vede chiaramente: noi
condanniamo a morte certi peccati, certi delitti, invece Gesù, agli stessi
Sacerdoti, dice apertamente: “ladri e
prostitute vi precederanno nel Regno di Dio” (Mt 21,31). Quindi vuol dire che c’è un peccato che a noi sfugge,
che è infinitamente più grande della prostituzione e del furto; ed è quello che
Dio vuole evidenziare a noi per liberarci; perché noi magari ce lo portiamo
addosso e ci crediamo giusti, ci crediamo buoni. Ecco, Lui è per evitarci quest’errore
che muore, perché a causa di questo errore noi ci danniamo, ci priviamo della
vita. E allora Cristo per salvarci, per farci capire che siamo malati, che
siamo ciechi e paralitici, subisce questa Passione e questa Morte per farci
toccare con mano la gravità del nostro male in modo da liberarci da esso. È
terribile liberare uno da un male di cui non è convinto. Ecco, il Cristo,
opera tutto questo per liberarci da un male di cui noi non siamo convinti.
Infatti per noi è “normale” pensare a noi stessi o
lasciarci motivare dal nostro io, e non ci rendiamo conto che invece è proprio
il pensiero del nostro io, autonomo da Dio, che uccide il Pensiero di Dio, il
Figlio di Dio in noi. Cristo ci offre la
possibilità di liberarci da questo male (ed è l’unico vero male agli occhi di
Dio), prendendolo su di Sé. In che modo? Facendocene vedere le conseguenze,
affinché capiamo che il nostro io al centro è deicida. Solo comprendendo
questo, solo se ne siamo convinti, abbiamo la forza e la volontà di superarlo e
iniziare a mettere Dio al centro.
Eligio: È possibile che un’anima abbia la convinzione di volersi
liberare del suo vero male e che quindi tenda a liberarsene ma che nonostante
questo permanga nelle sue debolezze?
Luigi: Certo, può anche darsi.
Eligio: Quindi è possibile che un’anima desideri sinceramente
tendere a Dio, pur smentendo questo suo desiderio con cadute e peccati?
Nino: Dio perdona un’infinità di volte.
Luigi: Sì, comunque non dobbiamo mai fidarci di noi stessi, e
anche nella ricerca stessa di Dio non dobbiamo mai far conto su di noi. Noi
dobbiamo sempre, continuamente, superarci per verificarci in Dio. Infatti il
Signore stesso dice: “i miei pensieri non
sono i tuoi”(Is 55,8); quindi non dobbiamo mai fidarci, nemmeno del sincero
desiderio di ricerca di Dio che uno ha; No! Dobbiamo guardare sempre di più a
Dio, perché è possibile che non Lo cerchiamo come Lui vuole o che prendiamo una
cantonata. Ecco, abbiamo bisogno di verificarci continuamente in Dio.
Non dobbiamo fidarci mai di noi stessi; le nostre speranze non devono essere
fondate su di noi.
Nino: È stato detto: Dio ci dà il dono e poi ci mette alla
prova. Tutte le volte che noi superiamo la prova, facciamo uno scalino, ma
tutte le volte che noi non superiamo la prova, perdiamo il dono. Dio ci perdona
“settanta volte sette” (Mt 18,22), e
ancora di più, però ad un certo punto dice anche alle vergini stolte: “non vi conosco”(Mt 25,12).
Eligio: Vorrei pensare che Dio riproponga il dono là dove c’è
stata una mancanza.
Nino: Certamente, se non fosse così non saresti perdonato,
però non è che perdoni all’infinito…
Luigi: No!!! Dio perdona all’infinito, siamo noi che
diventiamo incapaci, impotenti di ricevere il suo perdono infinito. Quando
Egli, alle vergini stolte, dice: “Non vi conosco”, lo dice ancora
per salvarle e per salvarci. Quando Gesù
dice: “meglio per te non essere mai nato”
(Mt 26,24), non lo dice per condannarci, ma lo dice per salvarci; anche quella
è una parola detta per salvarci.
Nino: Anche a coloro che dicono: “noi abbiamo mangiato e bevuto alla tua presenza”, Egli dichiara: “non so di dove siete”(Lc 13,25); anche
queste parole sono per salvare noi che veniamo dopo, ma Lui quelli ce li fa
vedere condannati.
Luigi: No, tutte le parole che vengono da Dio sono per salvare.
Tutto Lui fa per salvare; quindi tutte le parole che Lui dice, le dice perché “vuole che tutti si salvino e giungano a
conoscere la Verità” (1 Tm 2,4): tutti! Allora tutte le sue opere, e quindi
tutte le sue Parole, nessuna esclusa, sono comprese in questa sua Volontà.
Quindi tutto, anche le minacce, o quando Lui dice: “tu sei dannato”, Lo dice ancora per salvarti.
Nino: Però ci annuncia anche un tempo in cui Lui arriverà come
un ladro di notte (Mt 24,42-44).
Luigi: Certo, Lui lo dice per salvare.
Nino: Però dice anche una cosa che avverrà certamente, se noi
permaniamo in quella situazione.
Luigi: Certo, ma anche questo lo dice per salvarci.
Nino: Ci dice però anche che se noi perseguiamo nell’errore ad
un certo punto saremo noi ad averlo voluto, ma Lui non potrà più fare niente.
Luigi: È vero, però da parte di Dio, tutto ciò che arriva a
noi, anche le maledizioni, giunge per salvarci. Direi che la rovina è soltanto
per opera nostra. Quindi non è che Lui ad un certo momento chiuda la porta, e
dica: “non è più tempo” (cf Lc
19,42), no! questo non avviene. Lui ci dice: “guarda che chiudo la porta”, ma lo dice per salvarci.
Nino: Siamo noi a chiuderla, quindi saremo noi ad
auto-giudicarci.
Luigi: Certo, c’è questo rischio: ad un certo momento noi rivestiamo
talmente tutto del pensiero del nostro io, da diventare impotenti ad
appartenere alla sua Luce. C’è questo terribile rischio, che è dato dal nostro
io, che proprio perché è fatto per conoscere Dio, diventa figlio delle sue
opere. La sua Parola ci avverte per farcelo evitare.
Pinuccia B.: Il riflettere che il verbo si è fatto carne,
ed io vivo dimenticandoLo come se Lui non fosse venuto e non avesse parlato, mi
aiuta a capire la mia responsabilità nella sua morte. Non tener conto delle sue
parole nelle mie scelte concrete, dimenticarLo o trascurarLo è una colpa
grossa, perché Lui è venuto.
Luigi: Sì, dimenticarLo è una colpa grossa…; vedi che poco per
volta si arriva a capire che spiritualmente il non tener conto è uccidere.
Pinuccia B.: Mi impressiona l’insistenza di Gesù nel
parlare del Padre: quante volte Lo nomina…, e poi le sue tre predizioni della
Passione (Mt 16,20; Mt 17,21; Mt 20,16) con le conseguenti reazioni degli
apostoli. E poi il suo scagliarsi contro i Farisei, contro ciò che non è la
Verità, rischiando così la morte. Ecco, praticamente Egli viene ucciso
perché parla del Padre a gente che ha tutt’altri interessi, mettendosi così
nelle loro mani.
Luigi: Infatti Gesù dice: “Voi
cercate di uccidermi, perché le mie parole non sono accolte da voi, non
penetrano in voi” (cf Gv 8,37); anche lì, nella loro superficialità
rispondono: “chi cerca di ucciderti, tu
sei un pazzo” (cf Gv 8,52). Così pure noi: chi mai nella nostra
superficialità ritiene di uccidere quando non accoglie la parola di uno? Ma
Gesù ci dice che la realtà è quella.
C’è una Realtà profonda, spirituale, che sfugge a noi,
che anzi ci fa dire “pazzo” a chi afferma una tale cosa. Gesù dice ai Farisei: “voi mi uccidete”, in effetti dopo poco
tempo Lo uccideranno, quindi aveva ragione; però quando Egli diceva loro queste
cose, essi dicevano: “noi non vogliamo
ucciderti”, ed erano conviti di quello che dicevano. Ecco, Colui che vede
più a fondo di loro e di noi conferma: “voi
cercate di uccidermi”; infatti arriverà il momento in cui Lo uccideranno,
in cui Lo uccideremo. Ma perché arriverà quel momento? Perché non abbiamo
accolto quella Parola, perché non accogliere è già uccidere.
Pinuccia B.: È per questo che dobbiamo arrivare a vederci
personalmente implicati in ciò che la Sindone
ci rivela. E per me! Come è vero che Dio ha fatto e fa l’universo per me,
che Egli parla personalmente in tutto con me, è altrettanto vero che la sua
Passione e Morte è per me, quindi anche la Sindone
è per me.
In quanto all’esecuzione, ad esempio della flagellazione,
penso che non c’è differenza tra chi assiste ad una fustigazione, che potrebbe
fermare, e l’esecutore di essa. Supponiamo il caso che questi flagellatori
dipendessero dalla mia volontà, se io do l’ordine, in realtà sono io che flagello, anche se materialmente
non lo faccio.
Nino: Ma noi, già nel momento in cui desideriamo che uno di
quei tanti terroristi che ci sono nel mondo venga colpito da una fucilata,
l’abbiamo già fucilato, e abbiamo fucilato Cristo.
Pinuccia B.: La Sindone “è per me”: “me” come causa, e sono chiamata quindi a riconoscere
di essere causa di questa passione. Inoltre la Sindone “è per me”, a favore mio (“per” finale), perché il suo
Sacrificio è per portarmi nella Vita del Padre. quindi facendomi toccare
con mano la radice del mio male…
Luigi: …sei liberata. Il male grande è quando noi non
tocchiamo il nostro male e quindi lo ignoriamo. Cristo facendoci toccare
il nostro male ci dà la possibilità di liberazione.
Pinuccia B.: La causa di tutto è perché non conosco Dio,
non conosco il Padre.
Luigi: Certo, però il fatto di non conoscere il Padre deriva
dal fatto che tu hai altri padri. Ora, siccome per “padre” va inteso
l’elemento che ti motiva nella vita, vuol dire che tu hai per padre o il tuo io
o gli altri o il benessere o la figura; i padri sono gli elementi, i motivi che
ti muovono.
Ora, Dio viene tra noi per liberarci da questi altri
padri e per portarci a diventare figli suoi; quindi figli di un unico Padre.
E Cristo venendo ci dice: “non chiamate
nessuno col nome di Padre, perché uno solo è il Padre vostro, quello che è nei
cieli”(Mt 23,9), quindi già ci voca a questa unica figliolanza: “il Padre vostro è uno solo”.
“Non date
a nessuno il nome di Padre”, cioè non fatevi figli di
altri all’infuori di Dio. Ecco, siamo noi che ci
sottomettiamo, che ci facciamo figli di altri; e Lui ci libera dicendoci: “voi siete stati creati per diventare figli
di Dio. Abbiate per Dio come unico Padre”; ecco l’opera del Figlio!
Pinuccia B.: Dunque coloro che non hanno accettato il
messaggio del Cristo rappresentano noi quando non accettiamo questo messaggio.
Luigi: No! Rappresentano noi quando preferiamo altri padri.
Pinuccia B.: Però Lui risorge in me quando …
Luigi: … hai toccato con mano il tuo male. È necessario
che tocchi con mano il tuo male, perché non è che Lui morendo ti salva
automaticamente; la sua Morte è una possibilità di salvezza.
Noi possiamo trovarci nell’impossibilità della salvezza: “Mi cercherete e non mi troverete; dove Io
sono voi non potete venire”(Gv 7,34): la porta è chiusa. Cristo, morendo
per noi non ci ha ancora salvati, ma ci dà la possibilità della salvezza;
ma questa possibilità si realizza con il toccare con mano il nostro male:
cioè l’avere altri padri, l’avere il nostro io al centro. Bisogna scoprire
questo male. Ora, chi ce lo fa scoprire è Lui, perché senza di Lui non
scopriamo niente, anzi ci convinciamo del rovescio, ci convinciamo di essere
giusti, di essere buoni, di essere onesti. Ecco, invece con Lui scopriamo il
nostro delitto, e scoprendolo ne siamo liberati.
Pinuccia B.: Se …
Luigi: Ma una volta che sono convinto che una cosa mi fa
male e mi avvelena ho tutta la possibilità di evitarla.
Nino: Però non è ancora così chiaro, perché si può essere
convinti e poi però comportarsi diversamente da quello di cui siamo convinti.
Luigi: Va bene, ma è una cosa totalmente diversa; ormai il
travaglio è tutto tuo. Sei in purgatorio...
Nino: Ma non è una cosa automatica …
Luigi: Ma certo, però il capire il tuo male è la condizione
sostanziale per incominciare questa vita nuova; poi tribolerai tutto quello
che dovrai tribolare, perché magari sei carico di abitudini, e queste abitudini
pesano, ma è tutto un peccato diverso, perché almeno adesso, quando manchi,
puoi dire: “sono proprio uno stupido”, perché lo sai, e puoi correggerti; prima
invece eri convinto di fare bene, e ritenere bene ciò che è male, è lì
l’errore.
Nino: Ma in tal caso mi sento ancor più colpevole.
Luigi: Quello sarà opera di Dio se ti senti più colpevole, ma è
un’altra faccenda; il fatto è questo: che almeno adesso tu sai che quella è
stupidità, che quello è male; prima invece lo ritenevi addirittura bene.
Ora, la Morte del Cristo è venuta proprio per
liberarci dall’illusione, dall’errore di credere di essere nel bene quando invece
stiamo precipitando nel male.
Nino: È comunque una sofferenza.
Luigi: Quella sofferenza è positiva perché è già purgatorio.
RIASSUNTI
GV 1 VS 19 Quarto incontro.
Titolo: La preghiera.
Argomenti: La vera preghiera è approfondire la Parola di Dio, fino ad arrivare alla
Presenza di Dio. La preghiera formale. La sfera interiore deve crescere tanto da assimilare la sfera esterna. La preghiera meccanica. La colpa sta nel sentire e non approfondire. La parola di Dio ci aiuta ad approfondire la parola di Dio. Approfondire non vuol dire ricordare.
24/settembre/1978
Ascolto della
registrazione di un’intervista con un eremita di Camaldoli sulla preghiera.
-
Esperienza
della vita dell’eremo.
-
Riforma della vita eremitica (dopo
sette – otto ore di preghiera vocale, mi domandavo: “Ho pregato Signore mio?).
-
Necessità
della preghiera personale.
-
La preghiera è un patrimonio
comune a tutti i credenti, di qualsiasi religione.
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La preghiera è l’alito vitale, non
è un problema accessorio.
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È sempre graduale secondo una
crescita spirituale (rappresentata da una scala).
-
Non la basta la preghiera
spontanea, il raccoglimento, l’interiorità, se manca un’elaborazione interiore
sulla preghiera stessa, che diventa a sua volta uno sviluppo della stessa
personalità spirituale; spiritualità che cresce in proporzione della preghiera.
-
La preghiera si basa sulla fede,
sulla rivelazione di Gesù.
Quando lentamente si acquisisce questa sua rivelazione
che manifesta l’amore infinito del Padre e l’amore di Cristo Gesù, con la sua
promessa che se l’ascoltiamo, ascoltiamo le sue parole, se accogliamo Lui, il
Padre, Lui e lo Spirito Santo dimorano in noi, avviene che la nostra
interiorità, diciamo, la nostra coscienza, il centro della nostra vita stessa,
si trasforma in un tempio cosciente di questa relazione con Dio Trinità. E di
conseguenza lì incomincia questo dialogo che lentamente non diventa più un
dialogo di parole, né dialogo di frasi che arena la preghiera liturgica, ma che
interiormente è un rapporto vitale, per cui si ha l’esperienza che il cristiano
credente è veramente il tempio vivo dello Spirito Santo e, come diceva Gesù
alla samaritana: “Il Padre ricerca questi adoratori che adorino Lui in Spirito
e Verità”. Se noi diciamo di credere in Dio, ma poi non riusciamo ad elaborare,
a sviluppare, a dare libertà allo Spirito, perché animi la nostra interiorità,
la nostra forma di preghiera può diventare di giaculatoria, di domanda, di
insistenza, di ripetizione, ma non si perviene al centro di tutta l’esperienza
di preghiera. La vera preghiera accolta e seguita tende ad unificare l’uomo. La
Verità rivelata, accolta da noi, unifica la persona (anche per questo la Chiesa
è una; perché stabilisce un centro e di conseguenza tutte le manifestazioni
della vita diventano unificante. Ora, lo scopo del monaco non è solo quello di
essere solo; ma è specialmente questo: l’unificazione che si ha per questa
trasformazione costante, interiore, continua della propria coscienza in tempio
vivo dello Spirito Santo. Per cui il richiamo di Gesù: “È necessario pregare sempre”, diventa: “Come si vive, così si prega”, ossia, si vive continuamente fino
alla morte, e perciò si prega fino alla morte; e dopo speriamo di pregare
ancora meglio. Attingendo continuamente alla Parola di Dio (come ci ha
richiamato la Chiesa col Concilio, il commentarlo, ci riempie costantemente
della Parola del Signore, per cui la sua Parola veramente rimane in noi e mette
anche in continua lotta noi stessi con questa parola, perché ci stabilisce un
termine di confronto, quindi praticamente diventa una conversione continua, una
ricerca costante di Lui, del suo Volto, della sua Parola, della Verità. È la
preghiera perciò costante di cercare le sue vie, di cercare quello che Lui
vuole. E questo avviene precisamente nell’ambito della Parola, nel confronto
della vita con la Parola, per cui questa preghiera diventa non soltanto
espressione e risposta della fede e dell’amore verso Dio, ma diventa anche
costantemente uno stimolo di miglioramento, di conversione, di santificazione.
Domanda:
Quale significato assume la preghiera per l’uomo contemporaneo?
Risposta:
L’uomo contemporaneo è un uomo dilacerato, diviso, stordito. I mezzi di comunicazione,
tutte quelle ideologie, tutto questo, non permette di vivere in armonia. L’uomo
contemporaneo ha bisogno di trovare un punto concreto su cui appoggiarsi, da
cui vedere le cose e da cui dominare la situazione. Ora, quando questo punto è
così labile come sono le ideologie e gli idoli di qualsiasi genere, non si
costruisce sull’unità e si rimane divisi. Quindi l’uomo contemporaneo,
specialmente i cristiani, sono chiamati a questa unificazione di loro stessi.
Per unificare ci vuole un punto stabile, un punto fermo e lasciar lavorare il
Cristo, anche se poi l’autorità stessa ecclesiastica diventa un punto
esteriore, ci vuole un punto di base essenzialmente dinamico qual è la Parola
di Dio animata dallo Spirito Santo nell’interiorità dell’uomo. Senza questo
punto fondamentale non si vive, non si superano tutte queste dilacerazioni che
noi notiamo. Quindi i cristiani sono tutti chiamati qui con maggior senso di
responsabilità e non accontentarsi della esteriorità cristiana, ma a prendere
consapevolezza della fede e della coerenza di fede, specialmente in questo
ritorno all’approfondimento della Parola di Dio, ad una fede più intelligente,
più luminosa, più coerente; perché tutto dipende da come si vedono le cose da
questo unico punto fondamentale che è la Presenza di Dio operante in noi.
Domanda:
Quindi la preghiera intesa così intesa emerge carica di enormi significati e
enormi valori; ma come far capire all’uomo contemporaneo che è necessario
pregare?
Risposta: I
cristiani devono sentirsi responsabili più che di dare una testimonianza
esterna, di avere questa gioia interiore che nasce dalla loro certezza della
fede e dalla loro risposta all’amore di Dio, manifestatoci in Gesù e diffuso
costantemente dallo Spirito, nella loro coscienza.
Pensieri tratti dalla conversazione:
Luigi: Questo eremita fa notare bene la necessità della
preghiera personale, perché dopo ore passate in coro si chiedeva: “Signore mio, ho pregato?” e sentiva il
bisogno di pregare personalmente. La preghiera è proprio questa elevazione
dell’anima a Dio, il che vuol proprio dire unificare tutto nella sua Presenza.
La vera preghiera è: riferire tutto alla sua Presenza.
Cina: Anche per me la preghiera per tanti anni è stata un
disco ripetuto: sempre le stesse preghiere. Si viaggiava su quel binario lì.
Invece dopo che ho scoperto di più la Parola di Dio, questa mi ha insegnato un
altro modo di pregare.
Luigi: È proprio la Parola di Dio che insegna a pregare, la
Parola di Dio quando non è ripetuta ma è approfondita. E qui abbiamo Gesù,
Parola di Dio, che insegna a pregare, perché è Lui che insegna a pregare, è Lui
il Maestro.
Cina: Illumina e insegna.
Luigi: Ecco, è Lui: “Sarete
veri miei discepoli se resterete nelle mie parole”. Questo restare è
approfondire: il terreno buono che approfondisce. Allora approfondendo
preghiamo. L’abbiamo detto tante volte che la vera preghiera è proprio questo
approfondire la Parola di Dio, fino ad arrivare alla Presenza di Dio. Non è
tanto un ripetere parole. Forse magari le parole che si dicono di preghiera
così, servono per raccogliere l’anima a fare questo lavoro; ma se noi invece
diciamo solo le preghiere come formule esterne e poi non facciamo questo
lavoro, è come se per andare a trovare una persona, ci accontentassimo di
arrivare su fino alla scala e poi tornassimo indietro: non l’abbiamo trovata!
Ora è così: quando si dicono preghiere con formule, si arriva solo alla scala;
ma poi si tratta di entrare e per entrare ci vuole questo lavoro di silenzio,
di unificazione fino ad arrivare alla Presenza di Dio: pregare vuol dire
elevare la nostra anima alla Presenza di Dio, portarci fino a toccare con mano,
direi, la Presenza di Dio in noi. La Presenza viene da Dio.
Cina: E ascoltare quello che Lui dice a noi, più che noi dire
a Lui.
Luigi: Certo, perché la preghiera è ascolto; è la Parola di Dio
che ci guida alla sua Presenza. Non dobbiamo interrompere il cammino prima di
arrivare alla sua Presenza, altrimenti interrompiamo l’ascolto prima di essere
arrivati a quello che l’Altro ci vuole dire.
Eligio: Io vorrei chiedere a quel padre eremita, se non sia
possibile rendere autentica e sostanziale la preghiera ufficiale. Se la
preghiera è ascolto della Parola di Dio, perché non posso vedere nella
preghiera ufficiale la Parola di Dio? Dio parla, si significa attraverso tutto
e quindi in modo particolare anche attraverso la preghiera formale.
Luigi: La preghiera formale la conformerei a quella che può
essere l’opera dell’artista: è espressione di tutto un mondo interiore che uno
porta dentro di sé. È la preghiera personale che poi ti porta a significare
quello che senti dentro e a comunicarlo.
Eligio: Se uno si accosta alla recita delle lodi, dei salmi, con
uno spirito giusto, tenendo presente che quello è Parola di Dio, accettandolo
come Parola di Dio, come possibilità di ricevere da Dio questa forza di
unificazione, proprio attraverso la recita dei salmi, non si immette forse in
questo atteggiamento di preghiera essenziale? Per cui anche la preghiera
formale entra e dà vita al mio spirito, perché è Parola di Dio. Direi, tutto è
Parola di Dio, addirittura il male è Parola, significazione di Dio, a maggior
ragione direi la preghiera formale o ufficiale.
Luigi: La Parola di Dio ha sempre bisogno di essere assimilata,
di essere mangiata, il che richiede un impegno personale. Tu con la preghiera
ufficiale ti avvicini al cibo. Naturalmente quanto tu più l’hai assimilato,
tanto più ti diventa facile assimilarlo. Tutto dipende dalla profondità che uno
porta in sé. Ma questa profondità è sempre un lavoro personale con Dio.
Inizialmente la parola ufficiale dovrebbe essere (poiché il cibo va
spezzettato, in modo che l’anima lo possa assimilare) molto diluito, in modo
che l’anima possa, mentre lo riceve, a poco per volta assimilarlo, o custodirlo
per poi assimilarlo. Altrimenti fa indigestione.
Eligio: Ma allora per molti la vita monastica è inutile e
dispersa?
Luigi: Ma tra il vivere nel mondo in cui sei bombardato da
tutti fattori che ti estraniano, che ti alienano all’argomento, alla preghiera,
perché ti fanno passare la vita in altro, al vivere in un monastero in cui
invece sei bombardato da elementi che ti sollecitano, c’è una differenza. Per
cui costui, che è entrato ai 15 anni in vita eremitica, ad un certo momento ha
sentito il problema: io continuamente mi avvicino a delle parole, che sono
Parola di Dio, ma non assimilo, per cui non prego. E allora si sente il
problema.
Eligio: Però non necessariamente, essendo bombardato dalla
preghiera ufficiale, riesco a far entrare tutto il mio mondo in essa, a essere
raccolto da questa preghiera (cfr. Frère di Tamiè).
Luigi: Non c’è niente di automatico, quindi non basta andare in
convento.
Eligio: Invece posso essere bombardato dal mondo e riuscire …
Luigi: … a raccogliere dappertutto e in tutto. Però una cosa è
trovarci con la Parola di Dio che ti arriva sempre lì e altro è trovarti sempre
con parole degli uomini che addirittura ti estraniano alla Parola di Dio o ti
sollecitano ad estraniarti perché ti pongono altri problemi. Se io mi trovo con
una persona che continuamente mi pone problemi su Dio, sono più occasionato che
se mi trovassi invece con chi mi bombarda con problemi di cinema, di foot-ball,
di mondo. Sì, uno può estraniarsi in un modo o nell’altro. E può anche trovare
motivo di raccoglimento nelle cose del mondo, perché ad un certo momento si
sente talmente stufo che dice: “Basta, non voglio più sentire questi
argomenti!” e per reazione va agli argomenti di Dio.
Eligio: Padre Ch. Ce lo aveva detto chiaramente: “Abbiamo creato
delle comunità perfette, ma non sono cristiane”, cioè pensiamo a noi, ci
chiudiamo nel nostro guscio, stiamo anche bene; crediamo di essere a posto con
Dio e con tutti, e invece non siamo cristiani.
Luigi: È sempre il fatto di mettere la nostra regola al posto
della vita e dell’amore di Dio. Siamo sempre lì: subentra sempre l’esigenza del
fattore personale: l’amore, l’interesse per Dio.
Eligio: Però questo eremita ha detto bene: ha posto in luce il
significato e come deve essere la preghiera, cioè unificazione.
Luigi: Per me ciò che è valido è questo: che ha posto il punto
su questo centro che dobbiamo portare in noi di unificazione, un punto fisso a
cui tutto riferire. E questo punto fisso, l’ha dichiarato apertamente, è la
Presenza di Dio. Per cui il nostro mondo interiore, la nostra stessa coscienza,
deve diventare il Tempio della Trinità di Dio. Ecco, attraverso la preghiera,
noi entriamo in questo Tempio. E in questo Tempio, troviamo la Presenza del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Se noi non arriviamo qui, la nostra
preghiera diventa inutile, perché non conclude, non è arrivata alla sua
conclusione. Abbiamo fatto tanti tentativi per entrare, ma non siamo entrati.
Ecco, l’essenza della preghiera deve arrivare a questo termine qui.
Eligio: Cioè è una risposta ad una domanda fatta da Pinuccia una
volta: “Quando uno arriva a Pentecoste se ne accorge?”. Ecco, il nostro spirito
diventa cosciente dell’inabitazione del Padre, del Figlio e dello Spirito
Santo.
Luigi: Cioè la nostra coscienza, ciò di cui noi siamo coscienti,
diventa Tempio del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e noi prendiamo
coscienza della Presenza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. È stato
valido quanto ha detto questo eremita per aver messo in evidenza il bisogno di
unificazione e il bisogno di avere un centro di unificazione di tutta la
persona umana.
Eligio: È elemento costitutivo della personalità umana. Se non
c’è quello, ha detto bene, gli idoli, la vita stessa sono elementi di
disgregazione.
Emma: È una sofferenza però non riuscire ad essere quello che
si capisce che si dovrebbe essere, e non riuscire ad esternare quella vita vera
che c’è in me.
Luigi: E perché vuoi esternarla?
Emma: Si, perché quando uno è arrivato a questo punto, la vita
può diventare un dono al prossimo.
Luigi: Ma di quello non ti devi preoccupare! Quello è il
Signore che te lo fa fare. Tu non ti devi preoccupare di esternare, ma di
interiorizzare. Sai perché sei portata via dall’esterno, per cui c’è la
frattura con l’interno? Ad esempio perché parli troppo o perché ti lasci
dominare da fattori ambientali, per cui c’è la sfera esteriore che soffoca e
schiaccia la sfera interiore. Invece è la sfera interiore che deve crescere e
deve crescere tanto da assimilare la sfera esterna. Dio ha seminato qualcosa in
noi interiormente, però c’è la sfera esterna che lo soffoca perché noi
diventiamo figli delle cose che diciamo e delle cose che facciamo. Se diciamo
parole che non provengono dall’interno, la sfera esterna prevale e apre una
frattura tra quello che è seminato dentro di noi e quello che pesa su di noi
dal di fuori. Più facciamo tacere le cose esterne, meno parliamo di esse, e più
la sfera interna si allarga e a poco a poco occupa tutto, anche l’esterno.
Allora, quello che tu dici di esternare, diventa gioia, perché diventa
manifestazione dell’interno; ma è l’interno che parla. Non c’è più un conflitto
tra l’interno e l’esterno, la l’esterno viene eliminato; questo dipende dal
lievito interiore che deve crescere fino a far fermentare tutta la massa.
Attualmente tu hai un lievito interiore, ma direi che sotto un certo aspetto è
soffocato dalla massa, la quale massa non lo lascia fermentare, perché continui
a seminare nelle cose esteriori. Quindi abbiamo due semi: il seme che è messo
nella sfera interiore e il seme che è messo nella sfera esteriore. Abbiamo due
lieviti. Ora questi due lieviti, creano uno stridore in te e quindi provocano
in te una insoddisfazione profonda, perché la vera felicità sta nell’avere un
lievito unico. Ma questo lievito unico bisogna lasciarlo crescere fino a far
fermentare tutta la massa, anche soprattutto la massa esterna. Ora, questo come
avviene? Cercando di limitare il più che sia possibile tutto quello che è
superficialità, sentimentalità, esteriorità, in modo che cresca quello interno.
Ad un certo momento la nostra bocca parla soltanto più le cose interiori;
allora lì abbiamo la sintonia, l’armonia e allora comincia la gioia, la pace,
perché si è fuso il mondo esterno con il nostro mondo interno. Ma la fusione
non avviene perché il mondo esterno cresce, no, la fusione avviene in quanto il
nostro mondo interno cresce e cresce al punto tale da diventare un albero che
coinvolge tutto, anche il mondo esterno, per cui anche il mondo esterno diventa
interno. Altrimenti noi sentiremmo sempre quella frattura. È come se uno sia
convinto di una cosa e poi sia costretto per doveri sociali, per rispetto del
direttore, per motivi di convenienza, a parlare in modo diverso da come sente
dentro. Per forza non è contento, perché dentro sente in un modo, fuori deve
esteriorizzarsi in altro modo: c’è la frattura, la persona è divisa; non è
unita, non è felice. La persona è felice quando può vivere secondo quello che
ha dentro di sé, nella sua coscienza, in una grande unificazione. Per cui la
felicità viene dall’unificazione. Nella nostra coscienza abbiamo Dio soltanto
unificando con Dio e in Dio troviamo la nostra pace, la nostra felicità. È
questo il lavoro. È questo il lavoro di preghiera, di vera preghiera:
l’unificazione. Più noi unifichiamo, più la nostra sfera interiore si allarga
al punto da coinvolgere tutto.
Emma: Si, è vero, a questo punto non è che uno si debba più
preoccupare, perché la gente lo vede com’è …
Luigi: Ma no, uno non si preoccupa più di niente perché più
cresce la sfera interna e più opera per volontà di Dio, per amor di Dio, per
pensare a Dio, non pensa più a sé, quindi non c’è più nessuna preoccupazione,
perché tutto è voluto da Dio.
Emma: Questo attrito non sempre riesco a superarlo, a volte
anche per debolezza fisica, appunto perché non sono ancora forte come dovrei
essere.
Luigi: Si, ma parliamo di forza spirituale. Tutto deve essere
assorbito da questa. Più cresce questa conoscenza interiore, questo amore
interiore, questa consapevolezza interiore, e più naturalmente la nostra vita
viene spiritualizzata, e spiritualizza anche il mondo esterno con cui si ha da
fare, perché si vede in tutto la Parola di Dio, si vede in tutto il Verbo di
Dio, e allora tutto diventa spirituale, tutto diventa interiore. Cioè
quell’interiorità che uno porta dentro la riflette in tutto. E allora non c’è
più la frattura.
Emma: Senza parlare …
Luigi: Senza parlare o se si parla, si parla quello che si ha
dentro, cioè si parla nella misura in cui si ascolta dentro. Non si parla in
quanto c’è qualcos’altro che mi prende dall’esterno o dai miei sentimenti, o
dal pensiero del mio io. Qui abbiamo il Figlio di Dio che parla nella misura in
cui ascolta il Padre. Vedi che a poco per volta ci avviciniamo al Figlio di
Dio?
Emma: Si, ora mi è stato chiarito quello che desideravo sapere
e che non riuscivo e non sempre riesco ad esprimere.
Luigi: Più uno approfondisce e più riesce anche a spiegare. È
questione di profondità.
Cina: Quanto bisogno di imparare a pregare!
Luigi: Vedi come è stato difficile anche per i monaci eremiti,
che vivevano poi da soli, quindi tutto per la preghiera; eppure, guarda
attraverso quale crogiuolo, quante prove e quante difficoltà per arrivare a
prendere coscienza dell’essenza della preghiera, in che cosa consiste veramente
la preghiera; ma anche quanta gioia quando uno scopre in che cosa consiste il
vero pregare. Forse è necessario passare attraverso questa esperienza (di
ritenere che la preghiera sia soltanto un ripetere delle frasi, delle
giaculatorie) per arrivare al nocciolo; e si arriva poi alla contemplazione
della Presenza di Dio, al Tempio di Dio.
Pinuccia: Questa unificazione è possibile realizzarla anche fuori
dei tempi di preghiera, ma solo nella fede, senza vedere nulla, ma facendo le
cose per amor di Dio, credendo nella sua Presenza in tutto?
Luigi: No, la fede è un tempo transitorio: “Devi lasciar fare”,
sapendo che c’è la mano di Dio, lasciar fare in attesa di arrivare a vedere.
Però la meta è desiderare di arrivare a vedere.
Pinuccia: E quindi non adagiarci in quell’oscurità.
Luigi: No, altrimenti quello che si fa diventa meccanico,
diventa recitazione, e una volta che uno incomincia a recitare è finito. Si
sdoppia.
Pinuccia: E si svuota. E questo succede anche facendo le opere di
carità.
Luigi: In tutto. Anche pregando. Ad un certo momento diventiamo
delle macchine che pregano. Ad un certo momento ci fosse un robot che all’ora
tale dice le tali giaculatorie, all’altra ora dice le tali preghiere, ecc.,
quel robot potrebbe fare al posto nostro, a tutte le ore ripete le preghiere … questo
non è preghiera.
Pinuccia: C’è il rischio, trovandosi sempre di fronte alla stessa
Parola di Dio, salmi, ecc., di illuderci di pregare e di farvi l’abitudine;
mentre un altro (che pur essendo meno favorito perché si trova solo di fronte a
scene di mondo), non corre per lo meno questo rischio, anzi può essere perfino
sollecitato a cercare la vera preghiera.
Luigi: Comunque tu capisci che Dio sollecita alla vera
preghiera. Si, Dio raccoglie ovunque anche dove non ha seminato, raccoglie da
tutte le parti, anche in una casa di prostituzione. Però oltre è trovarmi nel
mondo e oltre è trovarmi con chi mi parla di Dio. Si, è vero, non è automatico;
per cui sentendo parlare di Dio io posso abituarmi, ma lì io sono in colpa,
perché io sento parlare di Dio e non mi interesso, cioè non cerco di arrivare a
Lui. È come se andassi a scuola e sentissi sempre le stesse lezioni, ma non le
approfondissi, non mi interessassi, non mi impegnassi personalmente; ma se non
mi impegno personalmente incomincia la colpa. Perché Dio ha parlato. E noi
dovremmo dire: “Si, Signore, io ho sentito parlare di Te”, “… e allora perché
allora non hai cercato di conoscere quello che Io ti ho mandato a dire?”. Ecco
la colpa. Quindi è logico, il Signore mi può anche sollecitare attraverso le
scene di mondo, mi può chiamare attraverso tutto, però più ci troviamo a
contatto con quello che ci parla di Lui, personalmente di Lui, tanto più noi
siamo favoriti nel pensare a Lui.
Pinuccia: Se abbiamo l’interesse.
Luigi: Ma se non abbiamo l’interesse siamo in colpa. La colpa
sta nel rifiutare la Verità prima di conoscerla; lì abbiamo la situazione di
colpa.
Emma: Ma allora è colpa se io smetto di sentire altre cose su
Dio per fermarmi ad assimilare quello che ho già sentito dire?
Luigi: Forse non mi sono spiegato. Ho detto che la colpa sta
nel sentire e non approfondire. È lì la colpa; ma se tu sentendo,
approfondisci, qui siamo nel cammino vero, non nel cammino di colpa. Il cammino
di colpa è quando si sente e si resta in superficie, cioè non si approfondisce;
vuol dire che non si ama.
Emma: Da parte mia sento il bisogno di fermarmi a riflettere
su certe frasi sentite e non più sentirne altre.
Luigi: Anche lì però non possiamo assumere come regola quello
che tu stai dicendo, perché non è che sia sufficiente fermarsi, dire: “Beh,
adesso voglio approfondire!”, per arrivare veramente ad approfondire. Molte
volte noi possiamo soltanto approfondire così come si gratta un pochino la
terra, bene in superficie, e poi magari abbiamo bisogno che il Signore ci aiuti
con un’altra parola sua per approfondire ancora di più quella di prima. Direi
che abbiamo bisogno per approfondire, di aiutarci con parole sue, più che con
attività nostra. Cioè è la parola stessa di Dio che ci aiuta ad approfondire la
parola di Dio. Non bisogna correre sulle parole di Dio, restando in superficie,
ma quando uno ascolta deve desiderare di approfondire. Ma se ti accorgi di
essere paralizzato ad esempio (noi il più delle volte siamo paralizzati di
fronte alla parola di Dio, non siamo capaci di approfondire), allora abbiamo
bisogno di continuare ad attingere ad altre parole di Dio perché ci aiutino ad
approfondire la parola udita, perché Gesù stesso, parlando, ad un certo momento
dice, ad esempio, che: “Colui che non
entra nell’ovile per la porta delle pecore, non è il pastore”; Gesù parla
della porta e i discepoli non capiscono che cosa sia la porta; allora uno cerca
di approfondire ciò che sia la porta. Ma io non riesco a capire cosa sia la
porta; se però vado avanti a leggere, trovo Gesù che mi dice: “Io sono la porta”; ecco, mi fa fatto
capire che cos’è la porta; la porta è Lui! Vedi? Allora cosa succede? Succede
che restando in quel bisogno di capire che cosa Lui voglia dire con la sua
parabola, parlandomi della porta dell’ovile, ed essendo io incapace, cieco,
paralitico, ad approfondire, se vado avanti, se resto nell’ascolto delle sue
parole, ad un certo momento Lui mi dice quella parola che mi chiarisce quello
che Lui mi aveva detto con la parabola. Quante volte Egli dice la parabola e poi
Lui stesso la spiega; quindi se uno si fermasse ad essa dicendo: “Adesso cerco
di capire io”, fraintenderebbe la parola di Gesù. No, sii ancora tanto umile e
ascolta ancora il Signore; è Lui che ti spiegherà ogni cosa. Bisogna che in noi
ci sia il desiderio perché il desiderio ci viene dalla parola stessa che Gesù
ci dice e che noi non capiamo; bisogna che in noi ci sia il desiderio di
arrivare a capire, di approfondire la parola di Dio e di portarla a
maturazione; ma questo desiderio deve ancora attingere alle stesse parole di
Dio, affinché ci sia dato approfondire come noi desideriamo. È Dio che semina
in noi il desiderio ed è Dio che fa crescere il desiderio. Non che il desiderio
quando è seminato cresca indipendentemente da Lui, no; dobbiamo ancora guardare
Lui, attingere a Lui, ascoltare Lui, perché questo desiderio possa crescere e
crescere fino a maturazione; cioè è sempre per mezzo di Lui che si semina in
noi la vita ed è ancora per mezzo di Lui che si porta a maturazione la vita
stessa.
Emma: Allora non c’è niente che dipende da noi …
Luigi: Dipende da noi la nostra superficialità, ad esempio.
Dipende da noi l’alzare le spalle nei riguardi dell’ascolto della Parola di
Dio. Dipende da noi il rifiutarci di approfondire. Ecco, tutto quello che è
interruzione (scusate il termine: interruzione di gravidanza), ecco, dipende da
noi. Il non portare a termine quello che Dio semina (Dio semina tutti i giorni
in noi), il non portare a termine, ecco, quello dipende da noi. Se noi però
vogliamo portare a termine, questo dipende da Dio. Cosa vuol dire che dipende
da Dio? Vuol dire che noi dobbiamo guardare a Lui affinché portiamo a termine
l’opera che ha incominciato. Lui incomincia l’opera e poi mi dice: “Continua a
guardare a me, perché sono io che la porto a termine”. Noi possiamo distrarci
dal guardare Lui. Allora non portiamo a termine. Qui abbiamo quello che dipende
da noi. Da noi dipende l’imperfezione, da noi dipende l’interruzione dell’opera
di Dio. Da Dio invece dipende il compimento.
Emma: Succede che vorrei ricordare tutto quello che sento e
così ad un certo punto mi stanco e devo fermarmi.
Luigi: Anche lì: approfondire non vuol dire ricordare. È una
cosa diversa.
Emma: Però risentendo in questi giorni la parabola della vigna,
spiegata tre anni fa, come mi è risultata più chiara! Anche se mi pareva già
allora di aver capito qualcosa.
Luigi: Certo: tutto dipenda da una dimensione interiore nostra.
Pinuccia: Quindi, anche se non si vede la Presenza di Dio, bisogna
solo andare avanti con la fede, accettando e facendo ciò che Dio ci presenta di
fare?
Luigi: Si.
Pinuccia: Ma non c’è il pericolo che ad un certo punto,
continuando a fare quello che Dio ci presenta, senza vedere ancora la sua
Presenza, questa fede diventi una cosa fredda e automatica? Non sarebbe allora
meglio, piantare tutto lì e cercare Dio ad esempio nella sua parola?
Luigi: Ho detto che l’anima di tutto è il desiderio della
Presenza di Dio ed è Dio che lo semina in noi. Ora, se tu ti comporti come un
robot dicendo: “Tanto tutto è opera di
Dio”, come ci dice la fede, allora la colpa è tua: tu non desideri
approfondire, non desideri arrivare alla Presenza di Dio.
Pinuccia: Ma allora cosa si deve fare quando si è in un’attività o
in un qualcosa che Dio ci presenta e che soffoca questo desiderio?
Luigi: Chi ti trattiene in questa attività? Dio autorizza a
scappare da tutte le attività per cercare quello che è essenziale. Non possiamo
giustificarci dicendo: “Dio mi ha messo
qui”. Dio ti ha messo lì? Adesso ti dice: “Scappa!”. Perché dobbiamo dire: “Dio mi ha messo qui!”? No, un momento: il Signore ci autorizza
addirittura a saltare il mangiare e il vestire per cercare prima di tutto il
Regno di Dio. E non dobbiamo dire: “Io
adesso devo pensare al mangiare e preoccuparmi del vestire”. Quello non te
lo dice il Signore. Vedi che noi dobbiamo camminare nelle parole del Signore?
Non dobbiamo dire: “Questo è il mio
dovere!”. No, il tuo dovere è di cercare Dio prima di tutto. Quindi l’anima
di tutto è questo desiderio di conoscere il Signore, perché siamo stati creati
per questo: questo è il nostro destino, questo è il nostro scopo, questo è il
nostro impegno: “Vai a lavorare nella mia
vigna”! Ecco, la sua vigna è questa. La vigna è conoscere il Signore. Siamo
stati creati per questo, ed in quanto siamo stati creati per questo, questo è
il nostro destino, questo è il nostro dovere. Non dobbiamo quindi chiamare
altro con il nome di dovere. Il dovere è questo. Il Signore stesso dice: “Chi ama suo padre o sua madre, i suoi figli
più di me, non è degno di me”. Cioè chi mette altri doveri al posto di
questo, ecco, non è degno di me. Questo è il dovere della creatura: la creatura
è stata creata per questo. Tu sei stato creato per questo fine: “Cammina! Cammina verso questo!”. Ora,
durante il cammino fa, oppure subisci, perché in tutto c’è la mano di Dio,
quindi: “Se uno ti porta via l’abito,
dagli anche il soprabito; se uno ti dà uno schiaffo, porgigli anche l’altra
guancia; non litigare con chi ti vuole portare via il tuo; se ti chiede di far
cento miglia con lui, tu fanne duecento”.
Pinuccia: Ne debbo far duecento? E intanto mi porta via!
Luigi: No! Non ti porta via! Noi puoi lasciarti portare via,
perché il tuo destino è altro! Il tuo fine è un altro!
Pinuccia: Allora subisco che cosa?
Luigi: Devi subire soltanto quello che non puoi toglierti di
mezzo, ma che “non puoi toglierti”.
Pinuccia: Ma subendolo, mi unisco a Dio?
Luigi: Quando hai una passione, un amore, subisci tante cose,
però il tuo amore rimane, quindi non ti lasci portare via da niente. Non c’è
niente che ti impedisca l’amore o che te lo porti via. Tu subisci proprio
perché hai un amore diverso. Proprio perché hai un amore principale, subisci
tutte le altre cose; ma in quanto le subisci, non le fai tua vita. Se tu ti
mettessi a litigare per altre cose, riveleresti di avere passione per esse. Se
invece hai un amore principale, sopporti, subisci tutto il resto, ma quello non
ti porta via il tuo amore. Nessuno può portarti via il tuo pensiero se tu
stessa non rinunci al tuo pensiero, perché tutto quello che avviene dal di
fuori, ma l’anima non ce la possono portare via. L’anima soltanto io me la
posso portare via donandola all’esterno, interessandomi dell’esterno. Allora se
io mi interesso delle cose fuori, anziché di Dio, allora vendo la mia anima, la
prostituisco. Ma se la mia anima invece la tengo per Dio, tutto quello che mi
arriva dal di fuori non entrare nella mia anima: la porta è chiusa, non entra!
Dove c’è Dio, non c’è nessuno che possa entrare, nemmeno il pensiero del nostro
io. Ora, se non entra il pensiero del nostro io, a molto maggior ragione non
entrano i pensieri degli altri io. Quando uno ha un amore, ma un amore vero, è
più forte di tutto il mondo. Pensa soltanto ai giovani quando incominciano ad
amare: possono avere padre, madre, fratelli, sorelle, tutto il mondo contro:
nessuno li smuove. Quanti casi succedono! Quando uno ha un amore vero, riesce a
superare tutti i condizionamenti di parenti e non parenti, ecc., e a
capovolgere tutto. Ecco, ora questo cosa insegna? Queste sono scene, sono
esempi per dire: “Vedi come nel mondo, quando uno veramente ha un amore riesce
a vincere tutte le difficoltà. E allora perché tu nell’amore per Dio
immediatamente ti rassegni alle difficoltà che hai attorno, alle obiezioni? Invece
è proprio trovandoti di fronte di fronte a queste difficoltà che l’amore si
fortifica. Più l’amore è contrastato e più l’amore si fortifica e riesce a
vincere. Ecco, Dio ha posto in noi un qualche cosa da poter vincere il mondo,
tanto forte da vincere il mondo. Non bisogna perdere questo qualche cosa.
RIASSUNTI GV 1 VS 19
Quinto incontro.
Titolo: La vera
preghiera.
Argomenti:
La parola di Dio trasforma; fa suo quello che noi gli diamo. La condizione per restare uniti ad una persona. La
vera offerta sta nel pensare a quello che Lui propone. Offerta
è “dedizione a”, cioè “occuparsi di-. La stagione dei frutti: il
desiderio di Dio. La fame e il pane.
Unificazione interiore. La preghiera è approfondimento.
L’essenza della preghiera è ascolto di Dio.
1/Ottobre/1978
Pensieri
tratti dalla conversazione:
Pinuccia: Lettura del riassunto
dell’incontro n. 130 del 30 aprile 1978.
Leggo solo quello che è stato aggiunto.
Abbiamo letto il riassunto dell’incontro 118 di
febbraio.
“Il paralitico giaceva sotto i portici della piscina in attesa del
movimento dell’acqua”.
L’acqua è il segno di tutta l’opera di Dio.
Tutta l’opera di Dio, unita a Dio, è sorgente di vita per noi. Invece separata
da Dio, diventa motivo di morte. Quindi è molto importante tenere sempre
presente che tutto è opera di Dio, perché questo ci mantiene uniti a Dio;
altrimenti diventa acqua stagnante.
Poi abbiamo letto il riassunto dell’incontro n.
119 di febbraio.
“Di tanto in tanto, l’angelo agitava l’acqua e il primo che vi si buttava,
era guarito”.
Quando si è lontani da Dio, la Parola di Dio,
arriva ad intermittenza, perché per ascoltarla, anche se Dio parla sempre, ci
vuole il silenzio di tutto il resto. È per questo che Dio opera per condurre
l’uomo nel deserto, per convincerlo a fare attenzione a Lui. Questo culmine
dell’opera di Dio è il movimento dell’acqua ad intermittenza; è segno di come
Dio si presenta di quando in quando. Quel “gettarsi
per primo” vuol dire mettere prima di tutto Dio, che annuncia la sua
Presenza, annuncia la Presenza di un’altra volontà che opera nella nostra vita,
smontando tutte le nostre sicurezze. Dio parla così fuori del Tempio, perché
annuncia alla creatura a sottomettersi al suo Creatore, cioè per farla entrare
nel Tempio. Siccome nel Tempio la creatura attende tutto da Dio, e riferisce
tutto a Dio, nel Tempio è Dio che conosce la creatura, non è la creatura che
conosce Dio, ci scopriamo pensati da Dio. Qui nasce il figlio, nel Tempio;
mentre fuori del Tempio abbiamo i servi. Per arrivare a riconoscere che
effettivamente tutto è grazia di Dio, la creatura deve essere messa con le
spalle al muro: “Non ho nessuno”. Qui
abbiamo constatato che non c’è più niente che
ci possa guarire; se troviamo la guarigione non possiamo che attribuirla
a Dio. Ciò che ci fa entrare nel Tempio non è la nostra adesione (la Legge, la
regola), ma è l’adesione ad una Persona. Perché aderire ad una Persona vuol
dire: svuotare tutto noi stessi, per guardare solo più ad Essa. Una cosa è
applicare una regola, che si applica nel pensiero dell’io: “Io mi devo comportare così”; e un’altra cosa aderire ad una
Persona. La Regola non mi salva, perché sono sempre io che mi sono applicato ad
osservarla. Solo il pensiero dell’Altro, solo la Persona ci dà la possibilità
di superare l’io. E proprio questo aderire, questa adesione continua alla
Persona, che ci porta nella possibilità di scoprire la sua Presenza, di
scoprire di essere pensati, conosciuti, chiamati da Lui. Allora noi conosciamo
in quanto siamo conosciuti. È solo la Persona che ci dà la possibilità di
superare l’io perché la Persona, l’Altro, è un Essere che pensa, agisce in
continuazione, per cui l’adesione all’Altro, ci porta necessariamente a dimenticarci.
Se non ci dimentichiamo, perdiamo l’unione ad Essa.
Luigi: Ieri sera meditavamo su quello che Gesù disse proprio
come motivo per la sua unione col Padre: “Perché
Io faccio sempre ciò che piace a Lui”. Infatti la condizione per restare
uniti ad una persona, è quella di fare sempre ciò che piace a lei. Il motivo
per cui noi molte volte ci sentiamo separati, deriva dal fatto che abbiamo
fatto qualche cosa non secondo Dio, e allora quello che noi abbiamo fatto non
secondo Dio, crea una frattura in noi. Dio è sempre con noi, però ciò che
facciamo, crea una frattura in noi, perché è dentro di noi che si crea
l’isolamento, la solitudine, e noi non ci sentiamo più pensati, non ci sentiamo
più uniti, ci sentiamo autonomi: in realtà non lo siamo, però ci sentiamo tali,
in conseguenza delle nostre opere o delle nostre parole o anche forse
semplicemente dei nostri pensieri non secondo il Padre; mentre il Figlio si
caratterizza da questo: “Che non può fare
nulla se non lo vede fare dal Padre”. Ecco, è proprio questo, questa
consapevolezza di non poter fare nulla senza Dio. Invece noi siamo coscienti di
fare tanto, anche senza vederlo fare da Dio. Ed è proprio questo “fare cose diverse” che ci separa da
Dio.
Pinuccia: Questa adesione all’Altro, infatti consiste nell’attribuire
tutto all’Altro, di vedere tutto nell’Altro, di ricevere tutto dall’Altro.
Luigi: Soltanto così noi ci manteniamo uniti a Dio, o perlomeno
l’Altro ci tiene uniti a Sé.
Pinuccia: Lo dice la parola stessa: “adesione”.
Luigi: Si.
Pinuccia: Continuazione della Lettura del
riassunto.
C’è una differenza tra l’essere dentro il
Tempio ed essere fuori dal Tempio. Fuori del Tempio, cioè fuori dal Pensiero di
Dio che opera tutto, Dio si annuncia ma non si fa conoscere; non ci conosce
perché non abbiamo superato l’io, mettendolo prima di tutto, testimoniandolo,
entriamo nel Tempio. Più pensiamo a Lui, più Lui ci trasforma a poco per volta
in “tutto pensiero suo”. Ogni segno
di Dio è una sollecitazione ad amare. Ogni nostra distrazione da Dio ci rende
più deboli nell’amore; e non si può più stare nell’amore, perché si è in un
conflitto di pensieri. È donando noi stessi che noi possediamo Dio, non
ricevendo doni. La vera felicità è offerta a tutti e sta nel dire: “Si faccia di me secondo la tua parola”.
Ubbidendo alla parola: “Alzati, alza il
tuo sguardo”, incominciamo a camminare, anche senza sapere dove arriveremo,
ma si avanza per esclusione, dicendo tanti: “No!” a ciò che si capisce che
sarebbe un disubbidire a Colui che ci ha detto: “Alzati!” (invece il: “Si!” non
lo possiamo ancora dire perché non vediamo la strada). È con la sua Parola che
cominciamo almeno a vedere che le altre strade sono sbagliate, perché non
possiamo entrare nel Tempio di nostra iniziativa, perché: “Dove Io sono voi non
potete venire”. Ed è dicendo tanti: “No!”, che si forma il bisogno di Lui e di
camminare sulla sua Parola.
Lettura del riassunto n. 131 del 17 febbraio
1978
L’attesa nel Tempio
Quel restare in attesa nel Tempio, indica che
la novità viene da Dio. È Dio che annunciandosi a noi fuori del Tempio, suscita
in noi il desiderio di entrare per vedere la sua Presenza, dicendo tanti “no” a
ciò che non è Lui. Sono proprio i conflitti col mondo che ci mettono nella
necessità di vedere Colui a cui apparteniamo e che difendiamo senza ancora
conoscerlo ma che portiamo in noi, proprio per poter sostenere questo conflitto
con il mondo. Ma per sostenere dobbiamo avere in noi qualcosa di Lui, il suo
Pensiero, la sua Parola, testimoniandola. La sua Parola, cioè Lui stesso, è la
via che ci porta al Tempio. La condizione per entrare nel Tempio è convincerci
che Dio è Colui che fa tutto e dal quale dipende tutto. Ma non basta essere nel
Tempio per trovare la Presenza di Dio: per questo il Signore fa aspettare dieci
giorni. Questo tempo di attesa è necessario perché la creatura si convinca che
non è il suo desiderio che fa la Presenza. Questa attesa è la notte passiva
dell’anima che è tutta dipendente da Dio: può solo pregare e non può fare
niente (invece fuori del Tempio poteva ancora fare qualcosa, perché diceva
ancora i “no”); in questa attesa, può solo vegliare in attesa che lo Spirito
scenda: “Restate in Gerusalemme”, cioè
in questa interiorità, “fintanto che non
scenda lo Spirito dall’alto”.
La rivelazione della Presenza è puro dono di
Dio che trova noi: solo trovandoci ci fa il posto per la sua Presenza. Trovarci
vuol dire che “fa suo” quello che è nostro: è quanto avviene a Pentecoste ed è
il significato della consacrazione nella Messa. Ma è necessario da parte nostra
l’offertorio, la dedizione, l’attesa. Qui abbiamo il salto di qualità, dalla
conoscenza relativa all’io alla conoscenza essenziale. Qui ci conduce a quel “Dove Io sono”, cioè a vedere tutto
dall’alto, secondo ciò che Egli è. Gesù ci provoca a questo passaggio dentro di
noi, proprio allontanandosi dalla folla: “È
necessario che io me ne vada”. Egli ascende al cielo: al cielo che è
nell’intimo dei suoi discepoli, perché il Padre abita dentro di noi. Ci precede
nel mondo interiore e ci invita ad entrarvi perché lo troveremo lì. Gesù, e
tutte le cose esteriori, passano per lasciare in noi il posto per la Presenza
di Dio. Lui, andandosene, prepara il posto, facendoci entrare dentro di noi: “Vado a prepararvi un posto”. Se le cose
esteriori non passassero, ci abbarbicheremmo ad esse e non avremmo in noi il
posto per la Verità di Dio: “Se non me ne
vado non può venire a voi lo Spirito di Verità”, che è lo Spirito di
Presenza.
Luigi: Vedi lì come resta confermato quello di cui parlavamo
ieri sera: “Dove io vado, noi non potete
venire”, “Se non credete che Io sono, morirete nel vostro peccato”, perché
è solo sulla Parola sua, solo con la Parola sua noi possiamo venire e trovarci
là dove Egli è, dove c’è quel “Io sono di
Dio”. In caso diverso noi ci aggiriamo sempre nel nostro essere, perché tutto
il mondo, tutte le creature, non fanno sì che confermare a noi stessi. Noi da
soli non possiamo, non riusciamo ad uscire. Noi possiamo aspettare, possiamo
vegliare, possiamo offrire a Dio: ma se Dio non dice la sua Parola, noi
restiamo fuori. Chi ci fa entrare nel luogo in cui Egli è, è la sua Parola, è
Egli stesso. È Lui che prende possesso
di ciò che è nostro: quindi questa entrata è un prendere possesso, un fare suo
ciò che è nostro.
Pinuccia: Che crediamo sia nostro.
Luigi: Si, che noi crediamo sia nostro. In un primo tempo noi
crediamo che tutto sia nostro: anche i nostri pensieri, il nostro mondo; e
questo ci isola. Poi il Signore viene, parla in questo mondo esterno, fuori del
Tempio, e ci invita ad offrirlo a Dio, ma questo non basta. Ci invita a
metterlo a disposizione di Dio. Però tutto questo non basta. Fintanto che Dio
stesso non dice su di noi, su quello che noi mettiamo a disposizione, la sua
Parola, che fa suo ciò che è nostro, noi restiamo sempre fuori. È la sua Parola
che trasforma il pane in Corpo suo. E fintanto che non dice questo noi non
entriamo, non possiamo entrare. È una luce, perché Dio non usa parole umane.
Si, anche nella Messa si dice: “Questo è
mio”, e sono parole umane queste, per farci capire quello che deve avvenire
in noi, ma nell’intimo Dio non usa parole umane: è una luce attraverso la quale
fa suo quello che noi gli offriamo; ma offriamo non nel senso: “Signore, io ti offro questo”. La vera
offerta sta nel pensare a quello che Lui propone. Molte volte facciamo atti di
offerta; ma l’offerta sostanziale, sta nel pensare quello che Lui ci invita a
pensare.
Pinuccia: Con quello che offro?
Luigi: No, la vera offerta sta in questo. La vera offerta sta
nel dedicarci a Dio. E “dedicarci a” cosa vuol dire? Vuol dire pensare a quello
che Lui ci propone.
Pinuccia: Pensare alla sua Parola?
Luigi: No, attraverso la sua Parola, Lui ci propone qualcosa di
Sé, che ancora noi non comprendiamo, ma ce lo propone, perché la sua Parola in quanto
giunge a noi, ci propone (= parabola) una cosa che ancora noi non capiamo. Se
noi ci offriamo a quell’argomento che Egli ci propone, ci dedichiamo a quello,
anche se non lo capiamo ancora, questa è la vera offerta. Lo vedremo anche nel
concetto di preghiera: questa preghiera è proprio questo dedicarci a; non tanto
dire parole, oppure sacrificare. (Nel canto di Osea si dice: “Dio non vuole sacrifici …”) Dio guarda
al tuo cuore, Dio guarda al tuo pensiero. “Se
tu veramente mi offri qualcosa di te, offrimi il tuo pensiero, occupati di
quello che Io ti propongo”. Quando c’è la vera offerta, uno non dice: “Signore, io ti offro”. Non lo può
nemmeno dire, perché si offre: lo fa. Ecco, allora qui capiamo ciò che il
Signore dice: “Non chi dice: Signore,
Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa”. Generalmente
intendiamo per “fare”, l’azione: “Mi do
da fare”, per cui diciamo: “Il
Signore vuole l’azione”. In diversi commenti del Vangelo di questa domenica
(i due figli e il lavoro nella vigna) ho letto che bisogna fare. E no, il
“fare” è ben altro che quello che intende Dio! È proprio questo occuparci di
quello che Dio ci propone. Così con le parole: “Cerca prima di tutto il regno di Dio” mi propone di cercare prima
di tutto il regno di Dio. Se io faccio la sua Parola, mi occupo di quello che
Lui mi propone, di conoscere. Allora, quello che Lui vuole è questa dedizione
della nostra anima, del nostro pensiero, del nostro tempo interiore a Lui, il
che è sempre una cosa molto difficile, perché per noi è una cosa molto più
facile toglierci qualcosa di tasca, fare un’offerta, che offrire il nostro
pensiero, perché diciamo: “Ho tante cose
a cui pensare!”.
Nino: Si, l’azione è molto più facile che donare il pensiero.
Luigi: Si, l’azione è più facile. Invece il Signore chiede il
dono del pensiero. Ma il dono del pensiero vuol dire: “Dedicarsi a”.
Nino: È un’azione anche quella.
Luigi: È un’azione ma noi non la consideriamo tale.
Nino: È un’azione che vuole Lui, non quella che vogliamo e
intendiamo noi.
Luigi: Sì, sì. Noi molte volte l’offerta la intendiamo nel
fatto di dire: “Signore, io ti offro la
mia vita, ti offro questa cosa, questo mio interesse”. No, sostanzialmente
il Signore non ci chiede questo. Lui dice: “Se
io avessi bisogno di qualche bene, ho tutto l’universo a mia disposizione! No,
Io ho bisogno del vostro pensiero, cioè che voi mi dedichiate, vi occupiate di
quello che vi propongo”.
Pinuccia: Cioè, Dio ne ha bisogno per poter dire: “Quella parola lì”.
Luigi: Certo!
Pinuccia: Cioè ne ha bisogno per noi, non per Sé.
Luigi: Lui parla per salvare noi, cioè per introdurre noi nella
vita eterna, per introdurci nella sua vita intima. Lui parla per noi. Tutto le
cose che il Signore dice non le dice per Sé ma le dice per noi, per introdurre
noi nella sua vita. Ora il concetto sostanziale di offerta è “dedizione a”,
cioè “occuparsi di”. Più noi ci occupiamo di, veramente diamo a Dio quello che
di più prezioso Lui ci ha dato, che è il pensiero. Dicessi anche tante parole,
ma il nostro pensiero lo sottraessimo a Dio, ecco noi diremmo parole, solo
parole, ma non faremmo quello che Lui vuole.
Nino: L’azione che noi diamo come a seguito di quello che noi
crediamo sia la sua richiesta, quell’azione lì può avvenire, ma dopo aver dato
il pensiero.
Luigi: Certo, si, perché allora diventa un’espressione di ciò
che abbiamo nell’anima.
Nino: È una conseguenza. Ma deve essere una conseguenza.
Luigi: È una conseguenza. Ma deve essere una conseguenza.
Altrimenti diventa recitazione, diventa come pagare un’imposta.
Nino: Diventa un surrogato.
Luigi: Diventa un surrogato: “Mi sono sdebitato”. Una cosa è colui che si sdebita magari per
riconoscenza o per altro, e una cosa è colui che si esprime per amore, perché
ce l’ha dentro. È una cosa molto diversa!
Nino: È una cosa che, l’hai espressa molto chiaramente,
difficilmente è intesa così. In genere è
intesa un’azione proprio a favore di Dio e quella assolve tutto.
Luigi: Quasi avessimo da pagare un debito: “Ho soddisfatto il debito verso Dio”.
Nino: È un po’ quello che si pensa i primi tempi quando si è
molto carichi; si fa un’offerta e si dice: “Ho
fatto qualcosa”.
Luigi: Il Signore tiene conto anche di questo, sia ben chiaro,
perché ogni piccolo passo verso di Lui è
prezioso ai suoi occhi. Sono piccoli passi e il Signore tiene conto di tutto, è
logico.
Nino: È un piccolo passo, ma visto poi, è senz’altro un passo
insufficiente, non è quello che Lui aspetta da noi.
Luigi: Certo, è logico!
Nino: Può aspettare da noi anche quel piccolo passo lì, ma che
sia poi seguito da tanti altri piccoli passi.
Luigi: Siccome noi siamo molto duri ad intendere, allora Lui ci
dice: “Dal momento che non capisci,
incomincia a fare questo fioretto, incomincia a fare questo sacrificio,
incomincia a fare questa piccola cosa”, ma ce lo dice per avviarci a cose
superiori.
Pinuccia: È la pedagogia di Dio.
Luigi: Lo si vedrà nel Vangelo di domenica prossima: la
parabola dei lavoratori della vigna. Il padrone manda i servi a chiedere i
frutti della vigna, a fine stagione; poi dice: “Finalmente manderò mio Figlio perché gli altri li hanno uccisi, almeno
per mio figlio avranno rispetto”. In che cosa consistono questi frutti?
Anche lì noi fraintendiamo il significato di questi frutti. Quale frutto
dobbiamo pagare? È il Padrone! Perché ci ha dato da lavorare la sua vigna,
quindi dobbiamo pagargli un certo affitto. Oppure, non so, altra
interpretazione. Invece il vero frutto è: se in te è maturato l’interesse per
Dio, da quello che Dio ti ha dato. Perché i doni che Dio ci dà, e quindi anche
questa vigna da lavorare, ce li dà per far maturare in noi l’interesse per
conoscere Lui.
Nino: Quindi quello che pretende Lui da noi come offerta, è il
massimo che gli possiamo offrire: il nostro pensiero.
Luigi: Sì, il nostro pensiero.
Nino: Quando saremo arrivati a dargli il nostro pensiero,
invece che un’azione particolare, sia pure buona, questa verrà come
conseguenza.
Luigi: Sì, certo! Anzi, di lì l’azione diventa espressione
d’amore, perché è un’espressione autentica di quello che uno porta dentro.
Nino: È sbagliato pensare invece che con un’azione così, noi
ci sdebitiamo verso Dio. Invece Dio vuole ben altro! Lui ci ha dato tutto e
vuole tutto da noi.
Luigi: Sì, tutti i doni che Dio ci dà, ce li dà per far
maturare in noi il desiderio di Lui. Allora i frutti che Lui chiede quando
arriva la stagione dei frutti, sono questi: “Attraverso tutto quello che ti ho
dato, in te, che cosa è maturato?”. Se noi potremo dire: “Signore, è maturata
tanta fame di Te!”. Ecco il frutto! “Con i talenti che ti ho dato, che cosa hai
ottenuto?”, se potremo rispondere: “Signore, tanto desiderio di conoscere Te!”.
Ecco, questo è il vero frutto! Dio ha operato e continua ad operare tutte le
cose perché in noi (ecco il fiore nato in cima alla collina), fiorisca questo
desiderio di Lui, perché è questo desiderio che ci fa applicare agli argomenti
suoi. È maturato il desiderio? Questo è il frutto. E Lui viene a chiedere
questo: se c’è in noi questo desiderio. Perché soltanto se in noi c’è questo
desiderio, c’è capacità (= la tazza vuota), di accogliere il vero dono di Dio:
Lui stesso. Se invece in noi non si forma il desiderio di Dio, anche se Dio si
donasse, noi non possiamo accoglierlo, perché non abbiamo fame, quindi non
possiamo nutrirci del suo pane. Allora Dio opera in tutte le cose per far
sorgere in noi la fame, affinché con questa fame, Lui possa finalmente darci il
suo pane. Ecco perché i veri doni di Dio, che sono poi Lui stesso, la sua
Verità, la sua Vita, la sua Essenza, la sua conoscenza, i veri doni non possono
essere dati se non a coloro che li desiderano. Ma bisogna che Dio formi prima
in noi questo desiderio. È lo scopo di tutta la creazione, di tutta l’opera di
Dio fuori del Tempio. Può anche darsi che questo desiderio non maturi, che il
frutto non venga fuori: allora c’è qualcosa di sbagliato, perché l’opera è
stata fatta da parte di Dio per far sorgere in noi la fame; e come mai non è
sorta la fame? “Io ho fatto tutto questo
perché in te sorgesse il desiderio di conoscermi, e come mai non è sorto questo?”.
Ecco, c’è qualcosa di sbagliato in noi. Cioè, è il nostro io che ha preso il
sopravvento e ha strumentalizzato tutta l’opera di Dio. Per cui tutti i doni
che Lui ci mandava, noi li utilizzavamo e quindi li annullavamo nella loro
intenzionalità a favore del nostro io, per gonfiare il nostro io. Il nostro io
si può gonfiare all’infinito di tutti i doni di Dio: noi diventiamo dei ladri,
perché togliamo a Dio quello che è di Dio.
Nino: È la vigna data a quei contadini indegni.
Luigi: Certo. Uccidiamo il Figlio, cioè uccidiamo l’anima di
tutti i doni di Dio. Perché tutti i doni, Dio li dà affinché in noi maturi
questo. Se questo in noi non matura, noi soffochiamo tutta l’opera di Dio, la
rendiamo vana, inutile. Ma la parola “frutti”, quanto è difficile intenderla!
Generalmente noi intendiamo per frutti, offrire a Dio qualcosa, far
fruttificare qualcosa. Il vero frutto è proprio il desiderio di Dio. Lui manda
il Figlio a vedere se in noi c’è questo desiderio, questa attrazione. Infatti
il Figlio viene a vedere se in noi c’è l’attrazione per il Padre.
Pinuccia: Continuazione della lettura del
riassunto.
“Se non me ne vado non può venire a voi lo Spirito di Verità che è lo
Spirito di Presenza”.
Poi con lo Spirito di Presenza, ritroveremo
anche tutta l’opera di Dio nel suo significato. Allora le cose non ci
toglieranno più la Presenza di Dio, anzi, diventeranno un richiamo ad essa e ci
aiuteranno a mantenerci uniti a Dio.
Nino: A questo proposito vorrei chiarire una cosa: come mai le
cose che sono state create per aiutarci ad arrivare a trovare il Padre, noi le
ricuperiamo soltanto di ritorno, dopo aver realizzato già la conoscenza del
Padre?
Luigi: Perché le cose ci sono state date per suscitare appunto
in noi quel frutto, cioè il desiderio. Le cose ci aiutano a cercare il Padre in
quanto formano in noi il desiderio. Il desiderio non ci fa ancora conoscere le
cose. Il desiderio ci lancia verso Dio.
Nino: Però quando noi abbiamo trovato il Padre, le cose hanno
un loro insegnamento.
Luigi: Allora abbiamo la visione del significato. È
l’insegnamento che prima era nascosto. Nel Padre scopriamo il grande amore che
ha il Padre: che ha preparato tutto quando ancora noi non potevamo capire,
perché soltanto nel Padre e dal Padre capiamo il suo amore.
Nino: Quindi non solo per svegliare il desiderio.
Luigi: Solo per svegliare il desiderio.
Nino: Sì, se no viene persa una parte della funzione della
creazione.
Luigi: Dal Padre poi avremo la visione del tutto. Infatti Gesù
dice: “Quando sarà venuto a voi lo Spirito
di Verità, che è lo Spirito che il Padre vi manderà, vi condurrà a vedere la
Verità in ogni cosa”. È lì che si scoprirà il grande amore, perché
incominceremo a vedere il grande disegno che Dio ha avuto già fin dall’inizio
della creazione per noi, per fermare in noi questo desiderio di assoluto,
questo desiderio di Verità.
Pinuccia: Continuazione e fine della
lettura del riassunto.
Il momento critico è quello in cui il Signore
se ne va da noi. Ma ormai il legame che si è stabilito con Lui è la forza per
dire i “no” al mondo. Il non aderire al mondo e il desiderio di vedere Colui
che ha dato la possibilità di camminare, solo la partecipazione di amore che è
richiesta, per entrare nel Tempio. Qui il Cristo diventa tutto per l’anima.
L’essere trovati nel Tempio vuol dire scoprirci pensati, conosciuti da Lui: qui
è la vera libertà, il vero compimento della Legge, la cui anima è: “Cerca il Signore Dio tuo con tutte le tue
forze”, cioè: “Entra nel sabato,
conosci Dio prima di tutto!”. Invece noi nel pensiero dell’io ci atteniamo
a delle regole: “Se faccio questo sono a
posto” e non amiamo; cioè facciamo questo non nel Pensiero di Dio, ma nel
pensiero del nostro io. Non dobbiamo fare le cose perché ce le siamo messe in
programma, ma le cose vanno fatte nello Spirito di Dio, per amore di Dio. Dio
non ci ha dato la vita per recitare, ma per amare; ma è solo il Pensiero di Dio
che ci fa autentici. Se no, nel pensiero dell’io, crediamo di soddisfare alla
vita con Dio comportandoci in un certo modo, ma non c’è l’amore; buttiamo via
il frutto e ci teniamo il guscio. L’amore vuole il pensiero, perché amare è
pensare all’Altro, desiderio di conoscere l’Altro, volere l’Altro. Il vero
peccato sta nel non pensare a Dio. “Lasciati
guidare dal Pensiero dell’io ed Io penso a tutto”, ci dice Dio. Finché
abbiamo altri amori, non siamo capaci di ricevere la sua Presenza, perché Lui
non può ancora dire: “Tu sei mio”.
Dobbiamo fermarci nell’Io di Gesù e allora Lui ci farà diventare tutto Pensiero
del Padre.
Nino: Comunque una cosa mi è rimasta più chiara: noi dobbiamo
dare il nostro pensiero fino a diventare tutto Pensiero di Dio. Ma vorrei
precisare che più che un pensiero di Dio, cioè un pensiero generico, dobbiamo
essere pensiero del Pensiero di Dio, cioè pensiero di quello che pensa Dio.
Perché qualche volta dico: “Beh, io penso
Dio”. Invece io devo pensare qual è la sua intenzione, specialmente nei
confronti di me stesso. Perché qualche volta diciamo: “Pregare è pensare a Dio”, ma è pensare a Dio perché ci scopra le
sue intenzioni, la sua volontà.
Luigi: Di questo ne parleremo dopo.
Ora ascoltiamo la registrazione di un’intervista fatta ad
un monaco trappista sul tema:
“Cosa è la
preghiera?”.
Domanda: Il Vangelo non dà definizioni ma dà nozioni
precise, concrete di vita. È un messaggio di salvezza, non un trattato né di
metafisica, né di etica. Come si fa a dire che cos’è la preghiera? Gli stessi
apostoli chiedono a Gesù non: “Che cos’è la preghiera?”, ma: “Signore,
insegnaci a pregare!”.
Risposta: Non è che non sappiamo che cosa sia la
preghiera, non sappiamo pregare. E Gesù risponde insegnando a pregare, non
definendo la preghiera. Quindi neanche io mi sento di dare una definizione
della preghiera perché sento che non ci sia. La preghiera è come l’amore:
un’esperienza misteriosa, strettamente personale. Direi che è la sollecitazione
percettibile di Dio nella singola anima e la risposta della singola anima a
questa sollecitazione di Dio … Comunque se devo fare una definizione, darò
quella di un ragazza tredicenne: “Pregare per me è dare del “tu” al Signore”.
Ho scelto la vita di monastero, come vocazione di rimbalzo … tagliando
completamente i ponti con l’apostolato che mi aveva assorbito vorticosamente
per trent’anni di sacerdozio, perché ad un certo punto ho sentito che il Signore
mi chiedeva questo … In fondo è stato un ritorno all’inizio della mia vocazione
… ormai sono sedici anni … La nostra vita è completamente comunitaria …
Domanda: Cosa rappresenta la preghiera per l’uomo
moderno?
Risposta: L’uomo d’oggi sembra assillato più che del
passato, del problema del lavoro, del rendimento … Spesso si cade nell’equivoco
dicendo che il lavoro è preghiera. No, il lavoro non è preghiera. Il
vocabolario parla chiaro: lavoro è lavoro, la preghiera è preghiera. Gesù
stesso ha avuto dei momenti dediti unicamente alla preghiera e ha invitato gli
apostoli ad unirsi a Lui nella preghiera e quello era preghiera. Poi c’erano i
momenti forti dell’attività (i pescatori, il peregrinare, la predicazione …) e
questa non era preghiera in quanto tale. Che anche nel lavoro l’uomo debba
cercare di trovare Dio, cioè di tornare a questo rapporto con “tu” di Dio, è
verissimo. Ma mi pare che sia proprio questa la risposta all’economismo di
oggi: l’uomo deve trovare tempo e spazio per dedicarsi al rapporto personale
con Dio. Non come una cosa accessoria alle altre attività. Gesù chiede spesso
agli apostoli di fare spazio alla preghiera: “Vegliate e pregate per non cadere
in tentazione”. “Questo genere di demoni non si scaccia se non con la
preghiera”; quindi non tanto con l’attivismo. E solo quando finalmente si
troveranno perseveranti nella preghiera con Maria nel Cenacolo, dopo
l’Ascensione, è proprio allora che ottennero la Pentecoste, e nacque la Chiesa.
Domanda: Ma quale significato può assumere o assume
la preghiera per l’uomo contemporaneo?
Risposta: L’uomo contemporaneo ha più che mai bisogno
dell’Assoluto, anche attraverso la negazione di un Dio che non è il vero Dio, per
questo lo negano … per questo lo cercano. Anche l’astronauta Gagarin, tornando
dallo spazio dice: “Non ho visto Dio!”: non vuol dire che l’ha cercato, ne
aveva bisogno ed è rimasto deluso di non averlo visto sul trono di una stella.
Oggi c’è una gioventù assetata di Assoluto. Vengono qui squadre di giovani … a
scrutarci incuriositi, un po’ scettici: cercano una testimonianza autentica e
il più delle volte tornano a casa sconvolti e trasformati. C’è la preghiera di
chi crede di non credere. Mi diceva un giorno un mio caro amico marxista:
“Purtroppo io non credo”. In quel “purtroppo” c’era già la sua preghiera. Anche
lui a modo suo dava del “Tu” a Dio, lamentandosi di non vederlo; ma in fondo lo
sentiva e ne soffriva. Ciascuno è chiamato a dare del “Tu” a Dio come può e
come sa. Ecco la preghiera. Zaccheo prega arrampicandosi sull’albero; la
peccatrice rompendo un vaso di alabastro e bagnando di lacrime i piedi del
Maestro; la vedova di Naim piangendo silenziosa; i fanciulli giocando,
venendogli incontro con le palme che avevano rubato; l’adultera tacendo senza
scusarsi; il cieco di Gerico gridando; il centurione battendosi il petto; Maria
e Marta rimproverandolo per la morte di Lazzaro. Ciascuno dà del “Tu” a Dio
come sa e come può. Ed è proprio questo “tu” misterioso e segreto che oggi, non
meno di ieri sale a Dio da dove meno pensiamo e salva il mondo.
Conclusione di chi ha condotto l’intervista:
La Trappa è un mondo che appartiene ad una realtà ecclesiale spesso
incomprensibile per l’uomo contemporaneo, ma è una realtà fatta di ascesi, di
preghiera, di quotidiana conversione personale e comunitaria; una realtà che in
ultima analisi costituisce per la Chiesa universale, per l’intero consorzio
umano una ricchezza inesauribile di grazie spirituali.
Nino: Volevo fare un’osservazione: noi di solito preghiamo per
non cadere in tentazione; invece dobbiamo pregare per non cadere durante la
tentazione, perché la tentazione è mandata da Dio per provarci. Dio ci dà un
dono e poi ci mette alla prova per vedere se noi quel dono lì lo teniamo o lo
perdiamo; non per farcelo perdere, ma perché il fatto di averlo tenuto durante
la prova ce ne rende degni e allora il dono diventa realmente proprietà nostra.
Pinuccia: Cioè il sostenere la prova ci fa capaci di tenerlo.
Luigi: Si.
Nino: Quindi la tentazione è una cosa in sé buona. Quindi
sbagliamo quando noi preghiamo di non cadere in tentazione, perché è il momento
che Dio ci dà per affermarci nella sua fede.
Luigi: Si, ci invita a pregare per non cadere nella prova, per
non cadere cioè durante la prova, non per non cadere sotto la tentazione,
perché la prova è buona; ma noi preghiamo affinché non abbiamo a cadere nella
prova, non a cadere nella tentazione.
Nino: Invece noi abitualmente lo intendiamo così: “Dio non
darci la tentazione”. E questo non è giusto.
Luigi: No.
Nino: Perché la tentazione fa parte proprio del disegno di
Dio.
Luigi: No, ma preghiamo: “Dacci
la possibilità di non cadere nella prova”, di non soccombere nel momento
della prova.
Nino: Ma è importante, perché noi nel Padre nostro: “Non ci
indurre in tentazione”, lo intendiamo abitualmente così, mentre si dovrebbe
dire: “Non lasciarci cadere durante la tentazione”.
Luigi: Si, questo è chiaro.
Ascolto
della registrazione dell’eremita Anselmo di Camaldoli (già udita domenica
scorsa).
Luigi: Ecco, è quanto dicevamo prima: la parola di Dio
trasforma; fa suo quello che noi gli diamo. Questa è la preghiera. È
unificazione interiore: quindi bisogna avere questo punto fisso di riferimento
ed unificare tutto in esso.
Nino: Si, si deve partire dal punto fisso ed unificare tutto
in quel punto fisso. E questo lo sperimentiamo in tanti campi, non solo nello
spirito. Noi per esempio in dentistica, abbiamo bisogno della chiusura centrica
che si ha in una posizione di chiusura dell’asse cerniera, che è sempre uguale,
che non può mutare: da quello noi riusciamo a costruire dei lavori esatti, se
no i nostri lavori sarebbero sempre dei lavori fluttuanti.
Luigi: Ci vuole un punto fisso di riferimento per stabilire i
rapporti. Questa testimonianza dell’eremita lo mette bene in evidenza. È
interessante perché è entrato nell’eremo a quindici anni. Quell’altro trappista
dopo trent’anni di dedizione all’apostolato come prete; poi ha sentito il
bisogno di ritirarsi dal mondo.
Nino: Aveva fatto trent’anni davanti alla piscina di Siloe.
Luigi: Si, si, i trentotto anni.
Nino: A proposito della piscina di Betesda, perché in qualche
posto la chiamano la piscina probatica?
Luigi: Probatica, in greco vuol dire “delle pecore”, quindi è
la piscina delle pecore, la piscina che era accanto alla porta delle pecore.
In queste registrazioni ci sono degli spunti molto buoni
che varrebbe la pena di approfondire. Ora però fermiamoci un po’ in silenzio
sull’argomento “preghiera” vista come approfondimento della Parola. Bisogna
aver capito quello che proponeva quel monaco: la preghiera non tanto
recitazione, coro, salmeggiare; invece è proprio bisogno di approfondimento
della Parola di Dio, è unificazione interiore. La vera preghiera è unificazione
interiore. Questo passare dal segno (l’altro diceva: “Dare del tu a Dio”) alla
sostanza. Dare del “tu” a Dio non è tanto un segno (dare del “tu” a parole).
Andiamo all’anima.
Nino: Vuol dire entrare nell’intimità.
Luigi: Andiamo all’anima: cosa vuol dire dare del “tu”? Vuol
dire portare direttamente gli argomenti di fronte a Lui, per sentire da Lui,
per ricevere da Lui la luce. Questo unificare, questo raccogliere; quindi il
vero pregare è un raccogliere, cioè approfondire. Riflettiamo se la vera
preghiera sia, e perché, un approfondire la parola di Dio; se quando noi
approfondiamo la parola di Dio preghiamo. Chiediamoci cioè se veramente questo
è la preghiera.
Pinuccia: Se è approfondita davanti a Lui, in questo rapporto
diretto.
Luigi: L’approfondimento può essere fatto solo in Lui e con
Lui, perché la parola è sua. Per approfondire la parola di uno deve sempre
tenermi presente a quell’uno, perché è nel pensiero di quell’uno che si arriva
a capire la sua parola. Approfondire che cosa vuol dire? Arrivare al pensiero,
all’intenzione in quella parola. Non cogliere quindi l’intenzione nostra o
l’intenzione degli altri, i propositi nostri o i propositi degli altri, ma
invece cogliere il pensiero di Dio.
Nino: Lì se capisce proprio quello che si intende quando si
dice che si deve mettere prima Lui e che il nostro io deve scomparire, perché
se no, noi non riusciamo ad entrare nel pensiero suo perché se abbiamo anche
intimamente anche il pensiero nostro che lavora, immediatamente siamo fritti.
Non possiamo entrare nel pensiero di un altro quando c’è anche il pensiero
nostro. “Non si può servire a due
padroni”.
Pinuccia: O pensare a due cose contemporaneamente.
Luigi: Certo, non si può.
Nino: Comunque chiederei di diminuire il tempo di silenzio e parlarne
un po’ di più, perché penso che si chiariscano tante cose a parlarne, tanto più
che è un argomento che abbiamo già pensato tante volte e avrei piacere di avere
la correzione di ciò che penso.
Luigi: Allora chiediamoci:
-
perché
sia essenziale pregare,
-
perché è vitale per ogni uomo
pregare
-
e in che cosa consista veramente
la preghiera, tenendo presente che ci è proposto che la preghiera è
approfondimento della Parola di Dio. Dobbiamo tenere questo orientamento perché
dovremo arrivare tra due o tre conversazioni a questo argomento: “Il Padre ama il Figlio e gli mostra tutto
quello che Egli fa”. Ora a me sembra che tutti questi argomenti sulla
preghiera ci conducano o per lo meno ci aiutano ad arrivare a capire questo, ci
preparano a capirlo.
Nino: Approfondendo, si scopre che tutto, ogni più piccola
cosa, tutto, è complesso. Man mano che approfondiamo arriviamo a scoprire
sempre qualcosa di più.
Luigi: Tutto; se tu prendi per esempio la funzione
clorofilliana, ad un certo momento sprofondi nell’infinito. È tremendo. E tutto
ha un significato nello spirito.
Nino: Noi siamo stupiti di fronte all’universo, ai buchi neri,
ecc., ma se approfondiamo l’infinitamente piccolo, sprofondiamo ancora di più
nel mistero.
Luigi: L’argomento allora era questo:
-
che cos’è la preghiera; perché è
necessario pregare;
-
e se la preghiera effettivamente
sta nell’approfondimento della parola di Dio.
Pinuccia: Se Gesù ci dice: “Pregate sempre”, è perché la preghiera
è indispensabile per la vita, uno conditio sine qua non; quindi non è un lusso,
un sovrappiù o un qualunque cosa sia pur grande e bello, ma di cui si può anche
fare a meno qualche volta. No, è una cosa vitale, perché ci tiene legati alla
sorgente della vita. È come se Gesù ci dicesse: “Non siate autonomi, se non
volete morire”. Questo “mai” è in relazione a quel “sempre”. Questo vuol dire
che quando non preghiamo siamo autonomi, quindi stiamo allontanandoci dalla
vita, e incominciamo a morire. “Io sono
la vita: senza di me non potete fare nulla, cioè siete nulla”. Lui ci
comunica la vita, la sua vita, parlando a noi. Noi la attingiamo ascoltando Lui
che parla a noi in tutto. La preghiera allora è questo ascolto che cerca di
intendere. Sapendo che Lui parla a noi in tutto e parla personalmente, pregare
vuol dire cercare di capire, approfondire questa sua parola che giunge a noi
attraverso lo scritto o attraverso gli avvenimenti. Appunto, pregare è cercare
di capire, approfondire ciò che ci dice Colui che parla a noi, fino ad arrivare
al suo pensiero, alla sua presenza, raccogliendo cioè ogni cosa (poiché tutto è
parola sua) in Lui riferire tutto a Lui per attendere da Lui la luce. Questa
attenzione è amore. È possibile solo se si ha tanto interesse per Colui che
parla a noi. Sapendo che Colui che parla a noi parla per comunicarci qualcosa
di Sé, allora chi ha interesse di conoscenza fa tanta attenzione per
raccogliere tutte le sue parole, per custodirle, per unificarle nel suo Spirito
per cercare di capirle, perché sa che comunicano qualcosa di Colui che desidera
conoscere. Le
condizioni per realizzare questa preghiera sono:
-
convinzione che Dio è la nostra
vita, il sommo nostro bene e che conoscere Lui è vivere;
-
e quindi lasciare ciò che non è
Lui (silenzio di tutto). Le conseguenze, diciamo i frutti, di questa preghiera
fatta di attenzione e interesse per approfondire la parola di Colui che parla
in tutto, sono:
-
la dimenticanza di sé e quindi una
grande liberazione non solo dall’io, ma anche dai tanti altri amori che ci portano via;
-
e soprattutto una progressiva conoscenza e
amicizia con Dio. Il dare del “tu” a Dio, infatti, non è una parola, ma un
atteggiamento interiore, un mettersi in sintonia con, è un far dipendere tutto
da quel “tu”, un riferire tutto a quel “tu” e quindi un progressivo scoprirsi
pensati e fatti da quel “tu”. Penso che daremo il vero “tu” a Dio, quando Lui
potrà dire sul nostro pensiero: “Questo è
mio”.
Luigi: Si, noi diamo del “tu” quando siamo dell’altro. Quindi
quando Lui dice: “Questo è mio”, Lui
ci fa entrare nella sua familiarità; ci sentiamo suoi e in quanto uno si sente
suo, allora può dare del “tu”, in quanto si sente dell’altro (“sono tuo”). Il
“tu” è proprio questo rapporto diretto.
Pinuccia: È anche un ricevere, no?
Luigi: È una conseguenza del ricevere. E siccome Lui è sempre
infinitamente superiore a noi, e l’abbiamo visto, ce lo significa anche in
tutte le opere (nelle profondità, come abbiamo visto prima, del nostro corpo,
nella profondità dell’universo). La profondità di tutte le cose è proprio una
significazione della sua trascendenza. E siccome Dio in tutte le sue opere non
fa altro che significare Se stesso, in tutte le sue opere noi troviamo questo
infinito che ci supera e che non può mai essere da noi raggiunto in tutta la
sua complessità. Allora essendo superiore a noi, la preghiera diventa
approfondimento, quindi richiede un superamento, cioè il superamento della
nostra superficialità. A me sembra che lì effettivamente noi possiamo capire
come diceva quel monaco trappista, che non è giusto dire: “Chi lavora prega”. Chi lavora, lavora; chi prega, prega. Il lavoro
non è preghiera. Che il lavoro debba essere fatto con l’animo in preghiera va
bene. Ma dire che chi lavora prega, no. È una confusione di termini. La
preghiera è altro. La preghiera è approfondimento.
Nino: Il lavoro è una forma meno nobile di preghiera, ma può
essere preghiera, io penso, quando è fatto nel pensiero di Dio, cioè quando tu
agisci in qualcosa proprio nel pensiero rivolto a Dio.
Luigi: Cioè se è il pensiero di Dio che ti muove a farlo.
Nino: Se per esempio uno arriva ad un certo momento a
dedicarsi ai drogati, ma nello spirito che gli viene proprio
dall’approfondimento del pensiero di Dio, in fin dei conti ciò che fa è
preghiera, perché lui ha sempre in mente Dio in quello.
Luigi: Si, ma …
Nino: È una forma non certamente al livello della forma di chi
nel silenzio, nel segreto della sua camera, mi unisce a Dio, però penso che
possa essere preghiera.
Luigi: Io farei delle distinzioni; perché ammettiamo che tu ti
dedichi ai drogati e sia mosso da Dio, però tu capisci che avrai sempre bisogno
di mettere il tempo del silenzio nella tua giornata anche se ti dedichi a
quello, altrimenti …
Nino: Sono d’accordo; solo penso che è una forma di preghiera
anche quella, sia pure minore, ma anche quella è una forma di preghiera, se tu
hai il pensiero sempre a Dio, anche quando fai quello.
Luigi: Ma presuppone sempre l’altra.
Nino: Un don Bosco in fin dei conti ha agito tutta la vita;
avrà dedicato il suo spazio e il suo tempo anche alla preghiera, ma ha agito tutta
la vita. La sua è stata una dedizione a Dio, anche nel raccogliere gli orfani.
Luigi: Si, comunque …
Nino: Che poi ne sia derivata della confusione può darsi, però
io penso che originariamente lui non avesse le idee confuse.
Luigi: Comunque non so se siamo d’accordo su questi temi:
-
La preghiera è veramente
approfondimento; per cui escludendo il fatto, o per lo meno facendo la
distinzione, non possiamo identificare il lavoro con la preghiera perché la
preghiera richiede quel silenzio, quello spazio di silenzio. Che poi dopo possa
anche essere un’esplicazione di quello che uno ha contemplato, d’accordo, però
presuppone sempre quel raccoglimento.
Nino: Si, leggendo T. de Chardin ho visto la grande confusione
della sua idea lavoro – preghiera, del lavoro quale svolgimento di un’opera che
Dio ci ha affidato.
Luigi: Inoltre ancora una cosa: se la preghiera è
approfondimento della parola di Dio, la preghiera veramente non sta nel
ripetere le parole di Dio. Quello che diceva l’eremita: salmeggiare o cantare
in coro. Se uno cantasse da mattino a sera, non penso che possa dire di aver
pregato. Qui cadiamo in quello che avevamo approfondito quando avevamo meditato
quella parola di Gesù che dice: “Come il
Padre opera, così anche il Figlio opera”. Avevamo detto che quel “così” (“come il Figlio opera”), non sta nel ripetere l’azione. Allora, se
Dio fa giungere a noi una parola, la preghiera non sta nel ripetere quella
parole infinite volte, o anche nel ripeterla dentro di me infinte volte, fare
il disco, la registrazione della parola, no; il Figlio è approfondimento della
parola, perché è riconoscere che quella parola è del Padre. Quindi è un
ritorno. È un riportare al Padre quello che viene dal Padre. Ma in quel
riportare, uno riconosce e allora veramente prega. La preghiera è proprio
questo ritorno. Dio parla a noi, ma parlando offre a noi, diciamo, il materiale
per la nostra preghiera. Noi possiamo prendere questo materiale, non riportarlo
a Lui e non preghiamo, anche se adoperiamo quello stesso materiale, cioè lo
ripetiamo infinite volte, dentro di noi: ecco, non è quella l’essenza della
preghiera; può anche essere un aiuto per raccogliere la nostra anima, cioè
distrarla dalle cose del mondo e concentrare quindi la nostra anima. Ma
l’essenza della preghiera non sta lì, perché l’essenza della preghiera è
ascolto di Dio. E quindi noi prendiamo la parola di Dio per portarla a Dio in
modo da ascoltare da Dio, la parola illuminatrice su una sua stessa parola. Per
questo diciamo: Dio parla, ma è poi ancora Dio che illumina la sua parola; per
cui se riceviamo la sua parola, ma poi non la riportiamo a Dio per ricevere da
Dio l’interpretazione, la luce (questo è l’approfondimento) per unificare in
Dio, ecco, noi sostanzialmente non preghiamo. La preghiera sta in questo
ritorno, in questo riportare: quindi approfondimento. Per cui è guardare Dio la
sostanza della preghiera. Ecco, elevando l’anima a Dio. Ma elevare l’anima a
Dio vuol dire guardare. Soltanto che per guardare uno che è superiore a noi, si
richiede un continuo superamento di tutto quello che abbiamo, anche delle sue
stesse parole che arrivano a noi, e quindi approfondimento. Ora, siccome Lui è
il principio della vita e la vita quindi sta nel raccogliere in Lui, noi
comprendiamo come pregare è condizione essenziale per vivere. Ecco perché: “È necessario pregare sempre”. È come se
Gesù ci dicesse: “È necessario che tu
viva sempre. Non mettere degli spazi di morte nella tua giornata. Devi pregare
sempre, perché pregare è vivere”. Quel monaco diceva: “Per ogni uomo la preghiera è l’essenza della vita”. Se noi non
poniamo l’essenza della nostra vita nella preghiera, la nostra vita è
dispersione, è morte; quindi pregare è questo raccogliere e raccogliere è un
approfondire nell’unità divina, quindi unificare in Dio.
Pinuccia: Vorrei mettere in relazione questo con quanto è stato
detto due domeniche fa: “Siate perfetti
come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”. Cioè: “Il Padre vostro perdona? Anche voi dovete
perdonare. Ricevi amore? Anche tu devi amare”. Cioè è una ripetizione di
quello che vediamo in Dio.
Luigi: Ma questo va fatto con intelligenza!
Pinuccia: Quindi non si tratta di una ripetizione.
Luigi: No.
Pinuccia: è piuttosto un riportare, un raccogliere in Dio.
Luigi: Si, perché se tu non hai presente Dio, scivoli
immediatamente. Per avere presente Dio, devi continuamente superarti,
altrimenti non basta che tu abbia la regola; “Hai ricevuto amore? Dona amore!”. Io mi propongo la regola però al
momento opportuno certamente mi comporto diversamente. Quindi quando dice: “Siate perfetti come è perfetto il Padre
vostro”, Gesù mi dice una parola; quella parola non rimane in me se io non
guardo in continuazione Lui, cioè se non prego in continuazione, altrimenti mi
sfugge soprattutto nel momento opportuno. Quel: “Crescere ad immagine e somiglianza”, richiede una continua
verifica con Lui.
Nino: Una continua dedizione al suo Pensiero.
Luigi: Una continua adesione. È come se io dovessi copiare un
disegno; non basta che io dica: “Adesso
lo guardo bene o lo faccio!”. No, lo devo guardare in continuazione, tratto
per tratto, sempre, con una verifica continua: guardo un piccolo tratto e poi
faccio un tratto, poi un altro; cioè il disegno va guidato e verificato in
continuazione. Quindi quando ci dice: “Siate
perfetti come è perfetto il Padre”, non ci dice: “Guardalo una volta e poi mettiti a far pratica come fa il Padre”.
Nino: Devi sempre essere ammonito dal Padre.
Luigi: In continuazione!
Nino: Io penso questo: ero disperso e ho incontrato il Cristo,
il quale parlandomi continuamente del Padre, mi ha chiarito qual è il modo di
vedere, di pensare del Padre; cos’è che il Padre vuole dalla creatura e da in
me in particolare? Poi Gesù mi ha anche chiarito che quello che Lui dice è
sempre convalidato dalla testimonianza del Padre, che noi troviamo nella nostra
coscienza: adesso abbiamo capito che quella che chiamavamo “coscienza” è il
Padre (come quello che chiamavamo il “caso” è Dio). Adesso abbiamo capito che
la nostra coscienza è il Padre che parla di noi.
Luigi: Infatti quel monaco dice che la nostra coscienza diventa
il Tempio della Trinità di Dio.
Nino: Allora Gesù ci spiega tutto un modo di essere, è la
Verità, è la strada per arrivare al Padre, ma poi noi dobbiamo arrivare al
Padre, perché se no c’è sempre una discrepanza tra il nostro modo di pensare e
il nostro modo di vivere. Gesù ci mette anche il desiderio di vedere il Padre,
ci dice anche che dobbiamo diventare figli del Padre. Queste cose io le credo,
non le metto più in discussione.
Luigi: Però le hai macinate parecchio.
Nino: Comunque adesso io ho il desiderio di diventare figlio,
di diventare tutto pensiero del Padre, e tutto vita unificata al Padre, perché
è proprio questa unione mia personale che mi dà vita. Lui mi ha detto che il
Padre mi ama da sempre, e realmente io me ne sono convinto, però io a mia volta
sono stato un figlio abortivo: come ho risposto io al mio amore? Certamente in
modo sbagliato. Vorrei arrivare a rispondere in modo da figlio, però per
arrivare a rispondere da figlio io non devo solo conoscere il Padre
teoricamente come me l’ha insegnato Cristo; ma devo arrivare a conoscere il
Padre realmente di volta in volta, in ogni occasione della mia vita, in ogni
momento; cos’è che Lui vuole da me.
Luigi: Si, come Padre …
Nino: È un rapporto personale; è naturale che gli do del “tu”,
perché se voglio essere figlio, se lo riconosco come Padre, anche se sono
indegno, devo avere la fiducia in Lui.
Luigi: Proprio perché è un rapporto personale.
Nino: Non posso parlargli come a uno che vedo per la prima
volta. È Uno che io vedo forse per le prime volte però Lui mi ha sempre tenuto
sottocchio. Allora io devo cercare di
arrivare a conoscere il suo Pensiero in ogni circostanza, in ogni momento della
mia vita, perché in ogni momento io devo rendere la mia vita aderente a quello
che Lui vuole da me, personalmente da me. Quindi, ormai so che è dentro di me.
So che lo devo interpellare ad ogni passo. Non accorgermi solo degli sbagli
fatti dopo che li ho commessi; devo arrivare ad evitarli. È una cosa difficile,
però a me sembra che se si riesce è questa la vera preghiera.
Luigi: La preghiera continua.
Nino: Che se si riesce ad essere continuamente con Lui si
arriverà anche a non più fare sbagli, ad essere uniti a Lui, a diventare figli.
Luigi: Si, perché non è che Lui ci avvisi a posteriori, dopo
che noi abbiamo fatto le cose: Lui parla a noi prima che le cose siano fatte,
se noi siamo attenti, se noi guardiamo a Lui: è lì la meraviglia! Non è che Lui
ci avvisi a posteriori che abbiamo sbagliato, ad esempio, dopo che noi abbiamo
fatto lo sbaglio. Lui non ci fa notare che abbiamo sbagliato, dopo che abbiamo
sbagliato. Si, all’inizio magari succede questo, per cui ce ne accorgiamo dopo.
Ma se noi preghiamo, cioè viviamo sempre, Lui insegna a noi come comportarci,
per cui ci avvisa prima di fare le cose come queste devono essere fatte. Ci fa
vedere. Ecco, ci avviciniamo a quello che sarà l’argomento della prossima
volta: “Il Padre ama suo Figlio (e
Gesù parla perché ognuno di noi diventi figlio) e gli mostra tutto quello che fa”, gli mostra!
Nino: Direi che noi arriviamo proprio a capire quel: “È necessario che io me ne vada”, perché
il Signore ci insegna tutto quello che dobbiamo fare, ma non ce lo fa fare in pratica.
Noi abbiamo poi tutta una prova che è la nostra vita dove dobbiamo far vedere
al Padre che realmente siamo interessati a Lui come Lui è interessato a noi, a
me. Quindi a quel punto Gesù deve fare il passaggio anche Lui: passare
nell’interno; noi dobbiamo ritrovarli nel nostro interno.
Luigi: Ascendere al Padre, salire al Padre.
Nino: Ed essere solo più con Lui; a quel punto lasciare
realmente tutto il resto per ascoltare solo chi si deve ascoltare.
Luigi: Certo.
Nino: è difficile e lunga la storia, ma direi di averla
capita.
Luigi: Prima non si capisce, poi si arriva a capire, poi ad un
certo momento si arriva a vivere. Ma l’importanza è cominciare ad essere
convinti, ad esempio, che è necessario pregare sempre. Quando uno si è convinto
di questo e in che cosa consiste la preghiera …
Nino: Si, perché finché noi non siamo uniti al Padre avremo
sempre una differenza tra il nostro pensiero e il nostro agire, il nostro
vivere.
Luigi: Noi molte volte facciamo l’errore: “Io ho pregato”,
oppure: “Mi sono consacrato”; oppure: “Ho fatto un voto”, per cui adesso vivo
bene; no: naturalmente noi non siamo uniti a Dio; naturalmente noi non siamo
guidati da Dio. Siccome Dio ci trascende, richiede a noi questo continuo (ecco
la preghiera) superando di tutto quello che arriva a noi. Ecco perché la vita
comincia non nel ricevere doni, ma nel riportare i doni a Dio, il che richiede
il superamento.
Nino: Invece noi siamo maestri, quando abbiamo qualche
difficoltà o qualcosa che urta il nostro io, a sotterrarlo nel nostro
inconscio, lo dimentichiamo, lo superiamo in quel modo lì.
Luigi: Crediamo di superarlo e invece resta.
Nino: Facciamo finta di superarlo, illudiamo noi stessi perché
arriviamo a farci una convinzione di una cosa che ad un certo punto salterà
fuori … perché non sta sempre sepolto dentro di noi.
Luigi: Affiora …
Nino: Quindi direi che Gesù è quello che ci dà la strada per portarci al Padre; però il
Padre, raccogliendo in Lui, è quello che ci fa uniti a Lui, è quello che ci fa
diventare figli. I figli nascono dal Padre. Allora il figlio vero ci riporta al
Padre. Però quanto più noi diventiamo a nostra volta figli, diventiamo capaci
di ripetere l’opera del Cristo, di riportare al Padre. E noi nel Padre
ritroviamo il Figlio.
Luigi: Facciamo una cosa sola.
Nino: Il Padre ci parla sempre attraverso il Figlio; è la
Parola e la parola è l’espressione del suo Pensiero. Noi li ritroviamo tutti e
due dentro di noi, come ritroveremo lo Spirito Santo che è lo Spirito della
loro Presenza.
Luigi: Lo Spirito del Padre e del Figlio.
Nino: Bisogna che ci convinciamo che noi non siamo ancora così
uniti al Padre, perché dedichiamo ancora troppo poco tempo a Lui, troppo poco
tempo dedicato esclusivamente a Lui. Certe volte (capisco che è stupidità la
mia) me lo chiedo: se io sono convinto di queste cose che ho detto (e lo sono
realmente non è una cosa che la dica per far piacere a qualcuno), perché non
dedico tutto il tempo lì? Mi sembra che qualche volta quando sono arrivato a
capire qualcosa, sono talmente pieno che devo scappare, devo interrompere
(questo mi succedeva anche a scuola), quasi per il timore che mi scappi quello
che ho capito, se aggiungo altro.
Luigi: È un po’ come il bambino che quando prova un momento di
gioia sente il bisogno di sgambettare (perfino di scappare), cioè ha bisogno di
trasferire in azione quello che sente.
Relazione
di Cina e Emma, della convivenza di tre giorni a cui hanno partecipato, sui tre
temi: la fede, i
beni, la croce.
Identificazione col giovane
ricco: ognuno ha la sua ricchezza.
Cina: Non si vuole rinunciare a tutto ciò che è eterno però
non si ha nellemo la forza di corrispondere all’invito a lasciare tutto.
Luigi: Basta sedersi sul ciglio di una strada, non muoversi
più. Tutto è fatto.
Cina: Così falliamo, se resto ferma e se non cammino!
Luigi: Come: “Se non si
cammina”? Se tu ti fermi lì … Nessuno ti obbliga stasera a dormire nel tuo
letto: resti libera immediatamente.
Emma: Per me, dire qual è la mia croce, è stato un sollievo.
Luigi: Hai potuto identificare la tua croce?
Emma: Si, nell’impazienza, nel voler presto arrivare a
conoscere le cose.
Luigi: L’impazienza nelle cose di Dio, nel cercare le cose di
Dio?
Emma: Si.
Pinuccia: Presentazione dell’argomento di oggi:
-
Che cos’è la preghiera per noi;
-
Perché è necessario pregare sempre;
-
Se riusciamo a vedere la preghiera
come approfondimento della parola di Dio.
Luigi: Cioè la preghiera è essenzialmente approfondimento della
parola di Dio. Abbiamo riconosciuto che pregare non è lavorare. È sbagliato
dire: “Chi lavora prega”. E lo conferma
anche quel monaco trappista. Pregare non è nemmeno ripetere le parole di Dio.
Per cui il cantare, il salmeggiare, il diventare un disco che ripete tante
parole, non è preghiera. La vera preghiera sta nell’approfondire le Parola di
Dio, unificare la Parole nel Padre, per mantenere sempre in noi la presenza del
Padre, perché soltanto approfondendo la stessa Parola di Dio si rimane con Dio.
Per cui la Parola di Dio è un dono che Dio dà a noi perché possiamo pregare. La
Parola di Dio è un dono che Dio dà a noi perché possiamo pregare. La Parola di
Dio ci è data per pregare, non può essere ricordata così, a memoria.
Emma: Anche per vivere.
Luigi: Ma vivere vuol dire pregare. Chi crede di vivere senza pregare
si inganna, muore. L’essenza della vita è la preghiera. Stasera abbiamo proprio
parlato di questo: che l’essenza della vita è la preghiera. Per questo il
Signore dice: “È necessario pregare
sempre”. Cioè bisogna continuamente riportare a Dio, riferire a Dio. Ma
questo riportare a Dio, riferire a Dio, richiede sempre un superamento, non
fermarsi alla superficie. La Parola di Dio arriva alla nostra superficie. Se
noi ripetiamo soltanto le parole di Dio, non preghiamo. Quel monaco diceva: “Io
mi sono accorto che magari dopo sei, sette ore di coro, mi chiedevo se avevo
pregato, e allora sentivo il bisogno della preghiera nel silenzio, singola,
individuale”. Perché? Perché si accorgeva che la vera preghiera non sta nel
ripetere o nel cantare. Si, può anche essere un aiuto per l’anima questo; però
l’essenza della preghiera non sta lì. L’essenza della preghiera sta in questo
raccoglimento personale, interiore, con il Padre; quindi approfondire la parole
che il Padre manda a noi, approfondirla fino a vederla illuminata, fatta sua
dal Padre stesso, illuminata da Lui. Bisogna portare la parola che Lui ci dona,
riportarla alla sua Presenza, in modo che Lui la faccia sua. Facendola sua ci
fa entrare in un rapporto personale. Per cui quel monaco trappista diceva: “Non
posso definire cos’è la preghiera, però dico che la preghiera è dare del “tu” a
Dio. Cosa vuol dire dare del “tu” ad una persona? Noi diamo del “tu”, veramente
“tu”, non a parole così, quando? Il vero “tu” si dà quando si appartiene
all’altra persona, quando si è dell’Altro. Ora però il fatto di essere di un
Altro, non dipende da noi. Non è che una persona per quanto desideri possa
essere dell’altro. Uno è dell’altro in quanto l’altro lo prende. Quindi
fintanto che il Padre non dice la sua parola: “Tu sei mio”, fintanto che non
dice questa sua parola su quello che noi gli offriamo, noi non entriamo nel
“tu” dell’intimità, in questo rapporto personale. Allora lì capiamo perché la
parola stessa di Dio, il Verbo di Dio, il Cristo, ad un certo momento dica: “È necessario che io me ne vada”,
appunto per dare a noi la possibilità di entrare in questa intimità col Padre,
in modo da sentire dal Padre la sua Parola: “Tu
sei mio”. Ecco, il momento in cui Lui dice: “Tu sei mio”, noi apparteniamo a Lui e incominciamo a dare del “tu”
a Lui e incominciamo a dare del “tu” al nostro Padre. Non è più un pregare il
Padre o un riferire al Padre quasi come ad una persona lontana, distante a cui
direi, quasi sotto un certo aspetto, diamo del “lei” riferendoci ad una terza
persona. Qui invece entriamo in un rapporto diretto: ci sentiamo suoi e quindi
pensati da Lui, appartenenti a Lui. In questo caso l’anima, anche se volesse
dare del “lei” non può più: dà del “tu”: e questa è preghiera.
Nino: Ci riconosciamo figli anche se imperfetti.
Luigi: E riconoscendoci figli, facciamo una cosa sola col
Figlio. Ecco, era questo l’argomento.
Pinuccia: In fondo, a questa luce, si capisce che si può dare
veramente del “tu” solo a Dio.
Luigi: Si, ma in Dio diamo del “tu” anche a tutte le creature,
perché effettivamente in Dio facciamo una cosa sola con tutte le creature. Come
Dio dà del “tu” a tutte le creature.
Pinuccia: Ma questo è possibile solo in Dio e con Dio.
Luigi: Certo, solo in Dio, con Dio.
Nino: Solamente quando abbiamo capito che ci è Padre. Quante
volte noi diciamo: “Padre nostro”,
senza pensare che Lui è realmente Padre!
Luigi: Ma Lui è realmente Padre per noi in quanto noi nasciamo
come suoi figli, non in quanto siamo autonomi. Per questo dicevo che si
richiede questa continua verifica.
Nino: Lui è sempre Padre, ma a tutti gli effetti lo diventa
solo quando noi lo riconosciamo.
Luigi: Infatti Lui dice: “Mi
dite Padre, e perché non mi ascoltate come figli? Quindi vuol dire che non
siete figli”. Di lì poi abbiamo capito cosa vuol dire quel vero “fare”. “Non colui che dice: Signore, Signore, ma
colui che fa”. Cioè in che cosa consiste quel “fare” di cui parla il
Signore? Non sta nell’agire. Il vero “fare” sta nell’approfondire la parola di
Dio. Questo è il vero “fare” che Lui chiede. Per cui: “Non chi dice: Signore, Signore! Cioè non colui che ripete tanto le mie
parole o ha sempre la mia parola sulla sua bocca”. Non sta lì. Sta invece
nel pensiero che approfondisce la mia parola per arrivare alla mia presenza.
Questo è pregare. Per cui Lui ci manda la sua Parola affinché noi la
approfondiamo con Lui e in Lui fino ad arrivare alla sua Verità: perché la sua
Parola ci rivela il suo Volto e la sua Verità.
Cina: E ci dà la vita.
Luigi: Questo approfondimento è vita. La vita non viene a noi attraverso
i doni di Dio. La vita viene a noi attraverso il nostro donarci a Dio.
Cina: Tutti e due.
Luigi: Dio dona a noi, ma se noi ci impossessiamo soltanto dei
suoi doni, noi moriamo, diventiamo egoisti: tratteniamo di suoi doni. No! Lui
ci dà i suoi doni affinché li riportiamo a Lui. La vita inizia dal momento in
cui riportiamo a Dio quello che è di Dio.
Nino: L’esemplificazione l’abbiamo nel “Padre nostro”: “Perdonaci
come noi perdoniamo”.
Emma: Questo si fa presto a dirlo, anche se lo si dice con tutto
il cuore, ma è una realtà che è difficile.
Nino: È una proposta di condanna quella che noi facciamo?
Emma: Appunto!
Pinuccia: E poi va tenuto presente soprattutto quello che lei
diceva prima: questo sono nostro, questa offerta, in che cosa consiste? Non si
tratta di offrire qualcosa, ma di offrire il nostro stesso pensiero: il
dedicarsi a Dio.
Luigi: Si, perché la vera offerta che Dio chiede a noi non è il
sacrificio di qualche cosa; è molto più facile per noi svuotarci le tasche,
dare via qualcosa di noi, fare anche dei sacrifici, anche magari perdonare gli
altri, ma non è ancora questo il vero “fare”. No, il vero “fare” è questo
dedicare il nostro pensiero a Lui. Questo è il vero “fare” che Dio ci chiede:
donare a Lui il nostro pensiero. Donare vuol dire “occuparci di Dio”.
Nino: Noi non riusciamo mai a perdonare un altro tutte le
volte che Dio ce lo richiede se non abbiamo sempre il pensiero di Dio.
Pinuccia: Se noi ce lo proponessimo come fine, ci proporremmo un
modo di fare, di comportarci, mentre il fine è offrire il pensiero a Dio. Ma il
problema appunta sta nell’imparare a dare questo pensiero.
Luigi: Certo.
Pinuccia: E si impara come?
Luigi: È Lui che ce lo insegna, è Lui il Maestro, quindi si
impara guardando Lui.
Pinuccia: Fermandoci con Lui.
Luigi: Si, restando con Lui, perché noi non possiamo restare
con Lui senza fare questo. È Lui il Maestro, il vero Maestro è Lui!
Nell’essenziale è Lui il Maestro. Noi possiamo soltanto ammonirci, cioè dirci: “Devi fare …”. I nostri verbi non sono
il suo Verbo. I nostri verbi ci invitano soltanto e ci ammonisce come a fare
quel lavoro lì. Ma poi chi insegna veramente a fare (ecco il vero Verbo, a
raccogliere in Dio, ecc. è soltanto Lui. Per cui soltanto se noi personalmente
nel segreto della nostra stanza, quando nessuno ci vede, nessuno ci conosce, se
noi ci raccogliamo in Dio, ecco allora Lui ci insegna. Ma se noi non ci
raccogliamo in Dio, ecco allora Lui ci insegna. Ma se noi non ci raccogliamo in
Dio, per quante parole noi sentiamo fuori, per quanti esercizi facciamo, per
quanto ci riempiamo la testa di nozioni religiose, ecc., non basta. Questo è il
lavoro personale, a tu per tu: ecco l’entrata nel “tu”. È un lavoro personale,
perché lì si rivela l’amore, se effettivamente abbiamo amore per Dio. Quando uno
veramente ama non manda gli altri, non si mette con altri ad amare una persona;
chi ama impegna se stesso nell’amore; questo è il vero amore: quando nel
segreto pensiamo a Dio. Allora lì si impara, perché è Dio che insegna, perché
in quel segreto il Padre insegna a noi la sua lezione.
Pinuccia: Questo mettersi nel segreto, si riferisce a dei tempi
forti nella giornata o dovrebbe essere sempre?
Luigi: Ad un certo momento diventa sempre, ma perché diventi
sempre dobbiamo fare dello spazio per Dio, bisogna fare dello spazio nella
nostra giornata per Dio, per questo ascolto, personale e silenzioso. Non basta
che io reciti in coro tutte le preghiere dal mattino alla sera. No, non basta.
La vera preghiera sta in quello.
Nino: Deve diventare un’abitudine necessaria.
Luigi: Lui dice: “Come si vive”. Dice: “Noi viviamo tutti i
giorni …”, ebbene dobbiamo imparare a pregare come viviamo, cioè in
continuazione. La preghiera deve diventare vita, come si respira; deve
diventare vita.
Emma: Come ci diceva il Vescovo: che dobbiamo tutti i giorni
sempre vivere nella fede, chiedere questa fede, avere sempre il pensiero
rivolto a Dio perché ci faccia crescere nella fede, per cui la preghiera
diventa un rapporto personale.
RIASSUNTI GV 1
VS 19 Sesto incontro.
Titolo: La morte di Cristo possibilità di salvezza.
Argomenti: Dopo il peccato il Cielo si chiude per l’uomo. Uccidendo il Figlio di Dio, a
contatto con il nostro delitto ci viene ridata la possibilità di dialogare con
Lui. Cristo non risorge senza di noi. Capire che il nostro io ha ucciso Dio. Con-morire
vuol dire dimenticare noi stessi. Natan con
Davide. La somiglianza a
Cristo. Amare vuol dire
diventare pensiero dell’Altro. Lasciarsi
fare da Dio. Ristabilire l’unione
con Dio. Ciò che è avvenuto è
rivelazione per farci capire quello a cui ci conduce la Parola di Dio nella
nostra vita.
9/Ottobre/1978
Eligio: Per quale ragione Dio Padre ha dovuto sacrificare il Figlio
in modo così cruento? Mi è venuto questo problema in seguito alle riflessioni
sulla Sindone. È forse perché con la morte di Cristo si ristabilisce
l’ordine di giustizia che l’uomo ha rotto con il peccato di origine? Infatti S.
Paolo dice che “…con la morte del Cristo
resta espiata la colpa dell’umanità” (cf Rm 5,11-20). È questa la ragione?
Luigi: No, non è un problema di
giustizia.
Eligio: Però c’è stata una frattura nella giustizia,
nell’ordine…
Luigi: La frattura è nel disegno di Dio, che
nell’uomo è frustrato.
Eligio: E Dio deve sacrificare…
Luigi: No! Non è che Egli debba…; Dio
è libero. Bisogna premettere che l’opera di Dio è sempre libera, non è
necessitata nemmeno dalla sua creatura. Dio non è necessitato da nessuno.
La sua azione è libera, perché Dio è Amore.
Eligio: Ma perché Dio, che è un Essere libero, sacrifica in quel
modo il Figlio?
Luigi: Per salvare l’uomo.
Eligio: Per ristabilire la giustizia?
Luigi: No! Non per ristabilire
una giustizia, ma per riaprire all'uomo la possibilità di ritornare in Cielo,
cioè di riavere un collegamento con Dio. Il problema sostanziale sta lì, poiché
l'uomo dopo il peccato è impossibilitato a riagganciarsi con Dio. E questa
impossibilità è dovuta alla natura stessa di cui è stato dotato in vista della
sua vocazione a conoscere Dio, perché quando l'uomo devia dal suo destino, tale
natura gli fa correre dei grossi rischi.
Infatti,
siccome egli è destinato a conoscere Dio, è fatto da Dio in modo tale che
diventa figlio di ciò che fa, cioè "figlio delle sue opere", perché
solo "facendo" Dio (cioè
pensando Dio, vivendo per Dio, avendo Lui come motivo di vita), diventa figlio
di Dio, giunge a conoscere Dio ("Chi
fa la Verità, giunge alla Luce": cf Gv 3,21).
Ma
se invece "fa" altro, cioè se pensa altro, se vive per altro, se è
motivato da altro da Dio, diventa "figlio" di altro, quindi
dipendente, anzi “schiavo” (cf. Gv 8,34), e non può più liberarsene.
Poiché
è destinato a conoscere Dio, l'uomo deve essere un essere cosciente, cioè deve avere in se stesso la ragione, il motivo
di quello che fa e di quello che vuole, poiché questa è la condizione per
conoscere.
L'essere cosciente
si caratterizza da tutti gli altri per il fatto che ha in se stesso la
motivazione di ciò che vuole, per cui solo un essere cosciente può conoscere la
Verità. Un essere incosciente invece non può conoscerLa, perché è motivato da
cause esterne (infatti tutto l'universo, gli animali, ecc. che sono motivati da cause esterne, non
possono conoscere Dio). Quindi la conoscenza
presuppone la coscienza e la coscienza presuppone questa interiorizzazione di
motivazioni.
Ora, proprio il fatto che l’uomo abbia la possibilità di
avere in se stesso la motivazione del suo agire, pensare e parlare, significa
che corre il rischio di mettere altri motivi all’infuori di Dio, per cui
anziché diventare figlio di Dio, diventa figlio di altro. Infatti il motivo che
portiamo in noi (perché i motivi dobbiamo averli dentro di noi, e questi sono o
Dio o il nostro io), diventa nostro padre. Allora: se l’uomo mette come
motivazione qualche cosa all’infuori di Dio, l’uomo diventa figlio di questo
altro motivo, e questo lo separa da Dio. A causa di questa separazione da Dio,
di questa lontananza da Dio, non può più riferire le cose a Dio, quindi
precipita dal Cielo di Dio. Dopo il peccato il Cielo si chiude per l’uomo
(cf Gen 3,24): infatti dopo il peccato l’uomo non ragiona più con Dio, perché
in conseguenza di un altro motivo da Dio, l’uomo viene a trovarsi inglobato in
un susseguirsi di cause. Per cui, l’uomo vedendosi dipendente da tutte queste
altre cause, prima di occuparsi di Dio deve sempre soddisfare queste altre
cause. Ecco allora, gli si crea attorno tutta una problematica di mondo, in
conseguenza del suo distacco da Dio; ed è qui che l’uomo non ha più tempo per
Dio, non è più in colloquio con Dio, non è più in dialogo con Dio.
Ora, se noi teniamo presente che la motivazione
essenziale per la salvezza dell’uomo è il dialogo con Dio, è la Presenza di
Dio, l’unione con Dio, a questo punto l’uomo è rovinato. Dal momento che
l’uomo si fa figlio di altro da Dio, la partita è chiusa; l’uomo da solo, nel
modo più assoluto, non può più ritornare in Cielo, perché si chiude in una
conchiglia. Tutti i suoi ragionamenti sono sempre relativi a tutto un mondo che
è ormai staccato, separato da Dio: per lui Dio sono i suoi idoli, Dio sono
delle causalità seconde, ma che per lui sono causalità assolute, che lo
determinano in tutto.
Ecco, dopo il peccato l’uomo è figlio di ciò che ha messo
al posto di Dio. Naturalmente la lontananza da Dio gli crea una problematica
infinita in tutto questo mondo inferiore, perché se la figliolanza di Dio è
liberatrice per l’uomo, la figliolanza da altro di inferiore a Dio, crea
all’uomo un’infinità di catene, di schiavitù, di affanni, di preoccupazioni, di
ansie. Ora, sono proprio queste ansie, queste preoccupazioni che
impediscono all’uomo di alzare gli occhi al Cielo; cioè non è più in dialogo
con Dio, non è più unito a Dio. E anche se capisce, se riconosce l’esistenza di
Dio, non ha la presenza di Dio, quindi
non può dialogare con Dio; perché dialoga con altre cause, con
altri elementi.
Ecco, qui entra in causa l’opera di Cristo, del
Figlio di Dio; perché l’uomo, di per sé, si trova nell’impossibilità di
ricollegarsi con Colui che ha trascurato, perché è figlio di qualcosa
d’inferiore. Ecco, a questo punto soltanto se Uno discende dall’Alto può
salvare l’uomo, ma discenda dall’Alto ad una certa condizione: alla
condizione di lasciarsi uccidere; cioè soltanto discendendo dall’Alto Cristo
può offrire a quest’uomo inferiore, che è chiuso, staccato da Dio, la
possibilità di unione, cioè di ristabilire il colloquio con il Cielo, ma ad una
sola condizione: presentarsi morto.
Quindi
non è il problema di ristabilire la giustizia con il Padre, con Dio.
Luigi: Se tu osservi, nel
piano della creazione, noi abbiamo tutto un processo di interiorizzazione:
cioè, si parte da esistenti che sono mossi da cause esterne e si passa via via
a esistenti in cui queste cause esterne diventano sempre più vicine e interiori
all'esistente stesso, fino ad arrivare all'uomo che è il termine, il vertice di
tutta l'opera creatrice, in cui abbiamo la causa che è intima: ora, soltanto a
questo punto qui abbiamo l'essere che ha la possibilità di conoscere, perché
qui abbiamo la coscienza.
Abbiamo
cioè nella creazione un processo di interiorizzazione delle motivazioni: nel
campo della materia la causa è sempre esterna; nel campo vegetale ed animale
abbiamo già delle cause che pur essendo sempre esterne, trovano un certo
riscontro in un’attività interiore; nell'uomo infine abbiamo
l'interiorizzazione della causa, della motivazione esterna: il che vuol dire
che Dio è venuto ad abitare dentro l'uomo e vuole diventare il motivo della
nostra vita, del nostro agire.
Eligio: Ma c’è tutta una teologia che parla di questa giustizia
da ristabilire…, per riparare ad un’offesa recata a Dio.
Luigi: Sì, d’accordo, però non è valida. Non possiamo tenere
valide queste affermazioni, perché Dio non può essere offeso, perché Dio è un
Assoluto che in Sé non può essere offeso. L’offesa avviene nell’uomo. E quando
avviene questa offesa nell’uomo?
Avviene quando l’uomo si separa da
Dio. Allora, separato da Dio, l’uomo si trova nell’impossibilità di
ricollegarsi con Dio. L’uomo non si può
ricollegare con una Causa superiore che ha trascurato, perché diventa figlio di
una causa inferiore. E questa figliolanza lo condiziona in tutto; perché
come noi diventando figli di Dio, viviamo in una certa pace, in una certa luce,
in una certa verità e quindi spaziamo liberi, così se noi diventiamo figli di
altro inferiore a Dio, ne subiamo tutte le conseguenze. E quali sono queste
conseguenze?
Queste conseguenze sono un carico di
catene e di preoccupazioni che ci impediscono di alzare gli occhi al Cielo.
Trascurando Dio ci chiudiamo in una prigione, e quando uno è chiuso in una
prigione si trova nell’impossibilità di evadere, di ritornare nel mondo di
prima. Noi non ci rendiamo conto, ma separandoci da Dio ci chiudiamo in una
prigione di cui ci viene tolta la chiave per uscirne.
Ora, soltanto se Uno viene
dall’esterno, ma dal mondo di Dio, “nessuno
può salire in Alto se non Colui che discende dall’Alto”(Gv 3,13), possiamo
essere liberati e salvati. Però, il fatto di entrare nella nostra prigione, per
l’Altro vuol dire lasciarsi condizionare dalla nostra prigione, cioè lasciarci
uccidere. Però, Colui che viene dall’Alto,
lasciandosi chiudere nella nostra prigione, quindi assumendo la nostra morte,
offre a noi la possibilità di dialogo con Lui morto. Ma Lui morto è
sempre Dio; quindi Lui morto ristabilisce il rapporto di unione con la Divinità.
Noi avendo esperimentato il nostro delitto col Cristo, esperimentiamo l’errore
del nostro io, la colpa che portiamo in noi nell’avere il nostro io al centro,
per cui abbiamo ora l’opportunità di ravvederci; infatti questa
constatazione ci dà la possibilità di collegarci con la nostra Vittima,
perché Egli si è fatto figlio nostro, cioè è entrato nel nostro mondo, si è
fatto figlio delle nostre opere; ma, siccome le nostre opere non più amore
ma sono delitto, affermazione dell’io, noi affermando l’io su questo Figlio di
Dio, constatiamo la morte. “Facciamolo
fuori, così l’eredità sarà nostra” (Mc 12,7; Lc 20,14). Il problema è tutto
lì; perché chiusi nel nostro io, tutto quello
che c’impegna nei riguardi di Dio noi lo facciamo fuori, perché il nostro io è
possessivo e ama in modo possessivo, quindi tende ad escludere tutto ciò che lo
sollecita ad adeguarsi ad una autorità diversa.
Però uccidendo il Figlio di Dio
noi ci troviamo a contatto con l’opera nostra (delitto), con un morto, ma che è
sempre Dio. Qui ci viene ridata la possibilità di dialogare con Lui, ed è
questo che ci salva.
Eligio: Quale valore può avere, per
l’uomo, la constatazione che chi viene messo in Croce, dopo tre giorni
risusciterà?
Luigi: Ecco, qui c’è un’altra cosa da tener presente, perché Colui
che muore per causa nostra non risorge senza di noi, cioè non risorge se
noi non con-moriamo con Lui.
Ecco
perché è molto importante capire, di fronte alla Sindone, che la lezione della Passione di Cristo è personale, per
ognuno di noi, cioè capire che Lui muore “per causa mia”, perché
fintanto che non capiamo questo non entriamo nella dinamica salvatrice. Dobbiamo
arrivare a capire che il nostro “io” ha ucciso Lui, che il nostro “io” è
delitto, perché soltanto comprendendo
questo, noi accettiamo di morire all’“io”; invece prima di arrivare a
capire questo, non accettiamo di morire a noi stessi.
Fintanto che in noi c’è
anche solo il dubbio che il nostro “io” possa essere valido, che il nostro “io”
possa fare qualche cosa di bene, che il nostro “io” si possa affermare, noi non
entriamo ancora nel processo della salvezza. Ma Dio,
attraverso tutte le lezioni della vita, poco per volta, opera su di noi per
portarci, personalmente, di fronte al frutto del nostro delitto, ci porta a
constatarlo, per liberaci. Ma constatando questo, siccome nessuno può
disgiungere Cristo da Dio, nasce il problema: ma come è possibile? Non
riusciamo a giustificare la cosa. Invece riusciamo a giustificarci se facciamo
fuori le creature. Magari noi “uccidiamo” (uccidere = far fuori dalla propria
vita) tante creature, però sempre con una certa giustificazione, proprio perché
queste non sono Dio. Abbiamo sempre delle ragioni, per esempio: “quel tale mi
ha fatto un torto; quel tale è un delinquente; quel tale era un concorrente
mio, ecc.”; e queste sono le nostre motivazioni.
Ma Cristo invece non Lo
possiamo disgiungere da Dio; eppure è morto. Ecco, la
problematica nasce lì: come mai è morto?
Cristo è Dio, in nessun
modo Lo possiamo “staccare” da questa Verità (come non possiamo staccare la Sindone dal corpo del Cristo).
Essendo Lui Dio noi non abbiamo delle ragioni con le quali giustificare il
nostro delitto. Certo, possiamo fare gli indifferenti, possiamo scherzarci
sopra, fare i superficiali, ma continuiamo a non avere un motivo sufficiente
che ci giustifichi.
Di fronte a Dio che ci dice: “Il tuo destino è conoscere Dio”(cf Gv
17,3), noi possiamo alzare le spalle, ma non ci giustifichiamo. E tutti i
rifiuti che noi facciamo non giustificati ci mettono in colpa.
Il
Cristo, anche morto, non può essere disgiunto da Dio, perché Lui muore proprio
per il problema di Dio tra noi. Lui è venuto soltanto per parlare del problema
di Dio, non ha trattato nessun altro argomento; per
cui non si disgiunge dalla motivazione Divina, eppure il nostro io Lo uccide, ed è lì il momento attraverso cui Lui ci lega a
Sé.
Siccome noi diventiamo
figli delle nostre opere, noi uccidendo uno lo
facciamo opera nostra; ma come lo facciamo opera nostra restiamo uniti,
restiamo legati. Ecco perché noi non possiamo separarci dai nostri peccati. Dal
momento che noi facciamo il peccato, quel peccato ci domina; umanamente non
possiamo più separarci. Uccidendo noi restiamo uniti alla nostra vittima,
perché la nostra vittima diventa opera nostra. Noi diventiamo figli
delle nostre opere e non ci separiamo più. Ma Cristo morto in Croce è Dio;
quindi con la sua morte ci stabilisce nuovamente in un legame con Lui («Questo è il mio Sangue versato per voi,
per la nuova ed eterna alleanza» Lc
22,20). Ecco come avviene il processo
della salvezza! Egli ci offre la possibilità di essere salvati ristabilendo
di nuovo un legame tra noi e la Divinità.
Eligio: Però bisogna avere coscienza di averLo ucciso.
Luigi: Per questo dico che fintanto che noi non arriviamo a quel
rapporto diretto: “Lui è morto per me!”, fintanto che non arriviamo a
constatare questo, quindi a domandarci: “ma che cosa c’è di me che L’ha
ucciso?” noi non ci assumiamo la responsabilità del suo Sangue sparso, quindi
restiamo fuori dal processo di Salvezza.
Se invece crediamo a ciò che ci viene annunciato, allora
iniziamo ad interrogarci per arrivare a capire: “perché è morto?”; c’è stata la
figura di un Pilato che l’ha condannato, c’è stata la figura di un Erode, di un
Caifa, di un Anna, di un Pietro, c’è stata la figura di un Giuda; ma cosa
significano? cosa rappresentano?
Ecco, allora incominciamo a capire che non sono le
figure che interessano, ma sono le motivazioni che hanno mosso queste figure a
fare questo delitto; e le motivazioni sono sempre figlie dell’io: il
pensiero della carriera, il pensiero dell’orgoglio offeso, il pensiero
dell’essere maestri, il pensiero del denaro, ecc.. Ora, sono queste
motivazioni che incominciano a farci dubitare di noi, della nostra giustizia,
della nostra onestà, della nostra virtù, ecc.; ed è lì che incominciamo
a scoprire che Lui probabilmente è morto per qualche cosa che noi portiamo in
noi di delittuoso.
Eligio: È arrivare alla consapevolezza del delitto che è
difficile…
Luigi: Certo, è quella consapevolezza alla quale è condotto
Davide dal Profeta Natan. Infatti Davide uccide Uria, marito di Betsabea, per
possedere la sua moglie, ma ritiene di averne il diritto in quanto lui è il Re:
“Io sono Re, quindi posso…, ho diritto sui miei sudditi”.
Ma ad un certo momento arriva il Profeta che gli narra
una parabola alla fine della quale Davide pronuncia un giudizio di condanna
sull’operato di un uomo; al ché il profeta gli dice: “quello che tu condanni
sei tu!”:
«Il Signore
mandò il profeta Natan a Davide e Natan andò da lui e gli disse: «Vi erano due
uomini nella stessa città, uno ricco e l`altro povero. Il ricco aveva bestiame
minuto e grosso in gran numero; ma il povero non aveva nulla, se non una sola
pecorella piccina che egli aveva comprata e allevata; essa gli era cresciuta in
casa insieme con i figli, mangiando il pane di lui, bevendo alla sua coppa e
dormendo sul suo seno; era per lui come una figlia. Un ospite di passaggio
arrivò dall’uomo ricco e questi, risparmiando di prendere dal suo bestiame
minuto e grosso, per preparare una vivanda al viaggiatore che era capitato da
lui, portò via la pecora di quell’uomo povero e ne preparò una vivanda per
l’ospite venuto da lui». Allora l’ira di Davide si scatenò contro quell’uomo e
disse a Natan: «Per la vita del Signore, chi ha fatto questo merita la morte.
Pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto una tal cosa e non
aver avuto pietà». Allora Natan disse a Davide: «Sei tu quell’uomo!…».(2 Sam 12,1-7)
“Sei tu!”.
Ecco, tutto quello che è avvenuto è una rivelazione di tutta l’opera che Dio
fa con ognuno di noi; cioè il dialogo che fa il profeta Natan con Davide
è rivelazione del dialogo che fa Dio con ognuno di noi per condurci alla
coscienza del nostro delitto.
Noi ci crediamo innocenti
di-, ma Lui attraverso le parabole della nostra vita ci conduce a scoprire il
nostro deicidio. Infatti non siamo noi che arriviamo a scoprire di aver
ucciso, ma è Dio che attraverso le lezioni della nostra vita, dialogando con
noi, ci porta a questa scoperta.
Dio
dialoga sempre con noi, anche se noi siamo lontani da Lui;
noi siamo in prigione, siamo separati da Lui, ma Lui non è separato da noi. Dio
è presente universalmente. Cosa vuol dire questo?
Vuol dire che Dio è
libero, quindi essendo libero, la sua Presenza non dipende da noi. Quindi non
è che in conseguenza del nostro peccato Lui si separi da noi, no! Siamo noi che
peccando ci separiamo da Lui. Dio è presente, è il Presente, ed essendo
presente Lui continua a dialogare con ognuno di noi. Ma cosa vuol dire dialogare
con noi? Condurre noi nella sua conversazione; e conversare vuol dire portare a
toccare con mano qualche cosa. Come fa il Profeta con Davide: conversa con
Davide, e conversando lo conduce a toccare con mano: “sei tu!”.
Chi è che ha ucciso il
Cristo?
Magari noi ci riteniamo
infinitamente lontani, non fosse altro che per i duemila anni che ci separano
dal Cristo; ma Dio attraverso la sua opera elimina i duemila anni, e ci
conduce su quell’orizzonte in cui ci dice: “sei tu!”.
Ma cosa c’è in noi di così
delittuoso da portaci addirittura a uccidere Dio?
Ecco, siamo condotti a
scoprire che ciò che uccide Dio è il nostro “io” autonomo, cioè l’“io” separato
da Dio.
Fintanto che noi non arriviamo
a capire questo, non entriamo nel processo della salvezza della morte del
Cristo. E siccome il Cristo c’è, presto o tardi noi siamo condotti davanti alla
Croce; cioè arriveremo tutti sul Calvario di fronte al Cristo; tutti!
È molto significativa la
vicenda di quella donna convertita dal Cristo di Fiesole, quando, in preda alla
disperazione, voleva suicidarsi; è rivelatrice di come ad un certo momento
noi stessi, magari arrivando di fronte al suicidio, proprio nel momento
più critico della nostra vita siamo condotti sul Calvario a fissare i nostri
occhi negli occhi del Cristo. È lì che viene la conversione, ed è li che
capiamo che la morte che portiamo dentro di noi è la Morte di Cristo, per cui
ci sentiamo in sintonia, e allora ci sentiamo uniti. L’unione è già
liberatrice. Come tu scopri l’unione con-, già sei libero dalla tua
angoscia, quindi svanisce desiderio di non più esistere. Quella donna che prima
aveva un tormento immenso dice: “Ho provato una pace infinita”. Ecco, questo è
trovare l’Altro!
Ora, fintanto che noi non
arriviamo alla convinzione che la morte che portiamo in noi è quella Morte, per
cui accettiamo di morire a noi stessi con Lui (“con-morire” dice San Paolo), non entriamo nel processo di
salvezza. Fintanto che noi non impariamo a “con-morire”, Cristo resta lì,
appeso a quella Croce, quasi come nostro giudice. Ecco, pur essendo venuto
come nostro Salvatore, se non cerchiamo di capire, Lui resta lì; perché è
Colui che dice: “non mi hai ancora capito”.
Eligio: Potresti
spiegare con altre parole il “con-morire”?
Luigi: Con-morire vuol dire dimenticare noi stessi e
tutto il mondo che è in relazione al nostro io, perché il nostro io è
legato a tutto un mondo di cui si è fatto centro, e questo con-morire,
spiritualmente, è un dimenticare, è un superare, andare oltre.
Eligio: Pensavo
invece che il con morire volesse dire stabilire un rapporto di somiglianza,
quindi un dover interiormente passare anche noi attraverso le tappe della
Passione di Gesù.
Luigi: Proprio
ieri sera dicevamo che non dobbiamo stabilire il rapporto di somiglianza; il
problema non è cercare di somigliare o di imitare, perché la somiglianza sarà
poi una conseguenza che viene da un amore, non da una imitazione. Amando,
diventi simile. Nessuno di noi deve farsi il proposito di essere simile ad un
tale, perché non potrebbe; altrimenti reciterebbe.
Eligio: Intendevo
dire attraverso un processo di amore.
Luigi: E già, ma
qual è questo amore? L’amore è morte a noi stessi, perché la sostanza dell’amore è proprio dimenticare se stessi
per vivere per l’Altro, per far essere l’Altro: “far essere”. Ecco, vedi
che arriviamo al “fare Dio”! Bisogna “fare” Dio.
Ora, il constatare il
delitto che portiamo in noi ci unisce alla nostra vittima, a Dio e questa
unione col Cristo ci porta a morire a noi stessi e a incominciare a vivere per
Dio.
È
vivendo per Dio che Cristo risorge, che Lo si ritrova. Ma
Egli risorge dopo che noi siamo morti, che abbiamo accettato cioè di
dimenticare noi stessi per pensare all’Altro, per pensare a Dio. Pensando a
Dio ritroviamo il Cristo Risorto, cioè entriamo nel processo della
Salvezza, e inauguriamo una Vita nuova. Qui si inaugura una Vita nuova; ed è
una vita non più vissuta nel pensiero dell’io, ma vissuta nel Pensiero di Dio.
Ecco, qui adesso l’io è morto.
A questo punto abbiamo la
creatura che incomincia a diventare pensiero di Dio. Ecco, la creatura che
ha accettato di morire a se stessa nasce come pensiero di Dio, e qui siamo
nell’Amore; perché amare vuol dire pensare all’Altro, diventare
pensiero dell’Altro. Diventando pensiero dell’Altro si diventa simili
all’Altro, ma ripeto: “è l’Altro che mi fa simile a Sé”. È Dio che ci fa
simili, ma ci fa simili (“…a immagine e
somiglianza” Gen 1,26) nella misura in cui guardiamo a Lui. Più guardiamo a
Lui e più cresciamo a Sua immagine; ma è Lui che ci fa.
Noi non dobbiamo avere il
proposito di essere simili a Dio; il problema di Adamo e di Eva è proprio stato
quello: “…sarete simili a Dio” (cf
Gen 3,5). Ecco l’errore! Porre cioè la somiglianza prima dell’amore, disgiunta
dall’amore. Allora abbiamo il problema del demonio; il demonio vuole essere
simile a Dio; egli si propone di essere simile. No! il problema non sta
nell’essere simile. Chi ti fa simile a Dio è Dio; ma solo se tu ami Dio, cioè
se tu diventi tutto pensiero di Dio. Infatti noi siamo destinati a diventare
tutto pensiero di Dio, diventando in tal modo figli di Dio. Il Figlio di Dio è
tutto Pensiero del Padre. Ecco, è proprio questo essere tutto Pensiero del
Padre che fa simile al Padre.
Nei versetti seguenti di
questo capitolo troveremo: “Il Padre ama
il Figlio e gli mostra tutto quello che fa”(Gv 5,20): ecco l’amore che Lo
fa simile. È Dio che creando fa simile. “Facciamo
l’uomo…”, ed è un “facciamo” che
non è avvenuto un tempo, ma è un “facciamo”
eterno. Per cui la creatura eternamente si riconosce fatta dal Padre;
quindi non è la creatura che vuole essere simile a-, ma è il Padre che la fa
simile a Sé; e qui nella creatura abbiamo questa dipendenza totale: è tutta
dipendente da-.
Teresa: La
creatura è fatta ma non finita, cioè…
Luigi: No! Non è
fatta. È un “facciamo” continuo, cioè
ogni giorno il Signore dice: “facciamo
l’uomo”. Noi siamo in formazione; e bisogna mantenerci in questa situazione
di formazione.
Ora, cosa vuol dire mantenerci
in situazione di formazione?
Vuol dire
mantenerci in questo rapporto di dipendenza; cioè bisogna
sempre pensare Lui, perché pensando Lui
siamo fatti da Lui. Allora l’anima di questo sta nell’unione con il
Pensiero dell’Altro, sta nel portare in noi il Pensiero dell’Altro, e non avere
il pensiero del nostro io.
Quindi, fintanto che noi
siamo nel pensiero dell’io, sollecitiamo la morte del Cristo, annunciamo la
morte del Cristo, consumiamo la morte del Cristo, fintanto che Lui ci conduce
sul suo Calvario (soli con Lui solo) a dialogare la sua morte, a toccare con
mano il frutto del nostro io.
Teresa: Lui
non ci salva senza la nostra partecipazione.
Luigi: La
nostra partecipazione sta nel “sempre guardare Lui”; cioè: guardando Lui che
ci sta facendo, noi partecipiamo. Egli ci sta facendo; noi non siamo ancora
fatti, siamo in gestazione, siamo nel seno della madre, quindi non siamo ancora
nati. Ecco, noi dobbiamo soltanto sempre mantenerci attenti a Lui che ci sta
facendo, non dobbiamo voler essere
autonomi, non dobbiamo voler essere noi a farci.
È Lui che
ti sta facendo, quindi mantieniti esposta alla sua Luce, mantieniti esposta al
suo sguardo, lascia fare a Lui; allora, accetta tutto quello
che ti capita perché in tutto c’è la sua Mano che ti sta facendo: ti sta
facendo!
Dio non ci “fa” soltanto
attraverso fatti interiori, ma Egli ci sta “facendo” attraverso tutto quello
che accade anche esteriormente, perché tutto è opera sua. Quindi tutti gli
avvenimenti che accadono intorno a noi, anche le notizie che giungono a noi da
lontano, rappresentano la “mano di Dio che ci sta facendo”. È per questo che il
punto fondamentale della fede è quello di accogliere tutto dalla mano di Dio.
Quindi non respingere niente, non rifiutare niente, perché tu rifiuteresti
proprio quel colpo di pennello o quel colpo di scalpello dell’Artista
attraverso il quale ti sta disegnando, ti sta facendo. Quindi non respingere
nulla perché in tutto c’è la mano di Dio che ti sta facendo. Lasciati fare. È
Lui che ti conduce, non sei tu che devi camminare. Lui sa.
L’importante quindi è
mantenerci aperti a Lui, e non chiuderci. E per non chiuderci bisogna
evitare tutto quello che procede da noi autonomamente: ad esempio le parole
inutili, le parole vane, cioè tutto quello che nasce da noi separato da Lui.
A causa della nostra
superficialità noi riteniamo che una parola detta o non detta sia niente, ma in
realtà una parola fa precipitare un universo. Noi non ci rendiamo conto, ma
una parola sola fa precipitare un universo. È che noi giudichiamo secondo la
nostra materialità, la nostra grossolanità; infatti a noi sembra che un
elefante sia molto più importante di una formichina, ma agli occhi di Dio le
cose sono molto diverse. “Le tue parole
ti giustificheranno e le tue parole ti condanneranno”, dice Gesù (Mt
12,37).
“Le tue parole…”. Ecco
l’importanza, il peso di una parola! Dio ha fatto tutto l’universo con la
sua Parola.
Noi non ci rendiamo conto
dell’importanza enorme del nostro parlare, come anche dell’importanza dei nostri
pensieri. Noi diamo molta importanza alle nostre azioni: se metti una bomba
sotto un edificio sembra che tu abbia fatto chissà che cosa…, forse agli occhi
di Dio quello è niente, o meglio: è opera sua, una lezione per noi. Se invece
dici una parolina o se hai anche solo un pensiero non secondo Dio, lo riteniamo
niente, ma invece agli occhi di Dio ha
un valore enorme: è questa la vera bomba; e questo perché un semplice pensiero
muove tutto.
Ora, pensa che è bastato un
semplice pensiero per rovinare tutta l’umanità: “sarete simili a Dio”. È bastato questo semplice pensiero per
rovinare tutto.
Siccome diventiamo figli
delle nostre opere, basta un “semplice” desiderio, un “semplice” pensiero nostro,
una “semplice” parola nostra, staccata da Dio, che quella ci chiude in prigione;
e abbiamo già bisogno che Cristo venga a morire per noi, per quella
“semplice” parola. Agli occhi nostri è una “semplice” parola, ma in realtà
ha sconvolto tutta la nostra vita, al punto che abbiamo già bisogno del
sacrificio del Cristo, della morte Cristo, perché quella già ci ha separati da
Dio. E una volta che si è separati da Dio noi precipitiamo sempre di più.
Infatti se non siamo stati capaci a restare uniti a Dio nella condizione
ottimale, quando non c’era ancora niente di nostro, pensiamo quando incomincia
ad esserci qualche cosa di nostro, quindi quanto per noi diventi difficile,
cioè assurdo, impossibile ristabilire l’unione con Dio.
Solo Dio
può ristabilire l’unione con noi. Ma a quale prezzo?
Al prezzo
della sua Morte; non può essere in modo diverso. Quindi la
sua Morte non è per soddisfare Dio, ma è per ristabilire nella nostra rovina
un’unione con Lui. Perché Lui resta continuamente unito a noi, anche se noi
siamo nella rovina. Siamo noi che ci troviamo nell’impossibilità di ristabilire
l’unione con Lui, perché tutte le volte che facciamo un tentativo per riunirci
con Dio, per ricollegarci con Dio, per pensare Dio, siamo continuamente
ricacciati giù dalle nostre opere; e non possiamo salire, perché il pensiero di
tutti i frutti del nostro io ci ricaccia continuamente giù. Ecco, noi tocchiamo
con mano questa impotenza.
Si resta
invece uniti con la morte di Dio. È una cosa importantissima
questo concetto della Morte di Dio tra noi, perché Lui morto è ancora sempre
il Dio tra noi; ma Lui morto è ormai opera nostra. È questo il concetto che
va capito: Dio morto non è più opera di Dio,
ma è opera nostra; si è fatto figlio nostro (Cristo si definisce “figlio dell’uomo”). Ora, siccome
diventiamo figli delle nostre opere, Lui morto, essendo opera nostra, ha ormai
stabilito un’unione indissolubile con noi, come noi restiamo indissolubilmente
uniti a quello che facciamo. Quindi Dio morendo per causa nostra stabilisce
un’unione indissolubile e attraverso
questa unione indissolubile ci ridà la possibilità del dialogo con Lui:
ecco la salvezza che ci offre.
Eligio: Ma questa
unione indissolubile esiste soltanto quando si ha la consapevolezza di essere
gli uccisori di Cristo?
Luigi: Sì,
certo, è questo il punto. Intanto Lui ormai, essendo stato ucciso, appartiene al nostro mondo; cioè
essendosi fatto “figlio dell’uomo”,
ed avendo noi verso di Lui fatto qualche cosa, ormai appartiene al nostro
mondo; noi possiamo anche non renderci conto, ma ormai Lui è lì.
Io posso non rendermi conto
di aver fatto un guaio, però ormai il guaio c’è, e presto o tardi sarò
costretto a fissare gli occhi in quel guaio, perché c’è, è la realtà, ormai è
entrato nel mio mondo, e una volta che è entrato appartiene.
Ora, perché Dio sia entrato
nel nostro mondo è necessario che noi L’abbiamo fatto opera nostra; e noi
L’abbiamo fatto opera nostra, perché ad un certo momento ci è convenuto farLo
opera nostra, non fosse altro che per ucciderLo. Ci è convenuto ucciderLo,
per liberarci: “per aver l’eredità”,
per avere il possesso della “vigna”;
ci è convenuto, ma noi non ci siamo resi conto che uccidendoLo per convenienza,
L’abbiamo fatto opera nostra, e facendoLo opera nostra, Lui ci ha legati a Sé.
Noi non possiamo più
staccarci dal delitto. Chi uccide è legato alla sua vittima.
Eligio: È
comunque un passaggio di una grande profondità…
Luigi: Sì, noi
da soli assolutamente non possiamo arrivarci, perché è il Profeta, quindi la
Voce di Dio, che parlando a noi ci conduce, poco per volta, a questa
constatazione. “Sei tu che hai fatto
quello; per cui Lui è morto per te”; e non ne usciamo di lì. Però non deve essere
un processo mentale che dobbiamo fare noi, ma è Dio che ci conduce lì, che ci
conduce a constatare questo delitto. Lui
è morto per te, quindi sei tu che hai fatto questo; ecco, adesso
arrangiati, sii conseguente…; il Signore dice: “adesso te l’ho fatto toccare con mano”; cioè, il Profeta una volta
detto: “sei tu quell’uomo”, ha svolto la sua funzione.
Eligio: Mi sembra
molto più chiaro per Davide, di quanto non lo sia invece per noi; eppure è
necessario giungere a questa presa di coscienza.
Luigi: Ma anche
lì, vedi, dobbiamo sempre tener presente che tutto quello che è avvenuto, non è
avvenuto per Davide, perché Davide sono io, Davide è ognuno di noi; quello
che è avvenuto è rivelazione di quello che avviene nella vita di ognuno di noi,
perché altrimenti non sarebbe avvenuto. Quello che Dio ha fatto, lo ha fatto
per ogni uomo; perché in ogni uomo che viene dopo, si riassume tutta l’opera di
Dio. E tutta l’opera di Dio precedente è rivelatrice all’uomo dell’opera
stessa di Dio.
Eligio: Tutto
quello che Dio ha fatto, L’ha fatto per noi, per rivelare la nostra situazione
interiore rispetto a Lui; ma questo solo nel male o anche nel bene? Si parla di
Davide, si parla dei delitti, e tutto si riassume in noi…
Luigi: Tutto!
Anche la Madonna, anche il Cristo.
Cina: Anche i
lavoratori della vigna?
Luigi: Certo,
tutto è lezione personale per ognuno di noi, anche questa parabola dei
lavoratori della vigna.
«“Ascoltate
un’altra parabola: C’era un padrone che piantò una vigna e la circondò con una
siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi l’affidò a dei vignaioli
e se ne andò. Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei
vignaioli a ritirare il raccolto. Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo
bastonarono, l’altro lo uccisero, l’altro lo lapidarono. Di nuovo mandò altri
servi più numerosi dei primi, ma quelli si comportarono nello stesso modo. Da
ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto di mio figlio! Ma
quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede; venite,
uccidiamolo, e avremo noi l’eredità. E, presolo, lo cacciarono fuori della
vigna e l’uccisero. Quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei
vignaioli?”. Gli rispondono: “Farà morire miseramente quei malvagi e darà la
vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo”. E Gesù disse
loro: “Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno
scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile
agli occhi nostri? Perciò io vi dico: vi sarà tolto il Regno di Dio e sarà dato
a un popolo che lo farà fruttificare. Chi cadrà sopra questa pietra sarà
sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà» (Mt 21,33-46).
Anche questa parabola, come
tutte le parole di Dio, va intesa in chiave personale. Invece generalmente si
dà ad essa questa interpretazione: “quella vigna rappresenta il popolo ebreo,
invece noi siamo venuti dopo, quindi noi siamo quelli che sono subentrati.
Cristo è la pietra scartata dal popolo ebreo, ecc.” , ma non è così! Tutta
l’opera che Dio fa, la fa per ognuno di noi, perché Lui opera per salvare.
E la salvezza è personale. Non si salva un
popolo ma la persona. Non dobbiamo allora condannare il popolo ebreo come
scartato da Dio e pensare che un altro popolo (noi) sia ora subentrato a
quello. No! Il popolo ebreo è un popolo graditissimo a Dio, dice S. Paolo.
Perché ora Dio dovrebbe preferire noi, il nostro popolo, al popolo ebreo? Non
è mai il popolo che manca, ma è la persona che manca. Dio dialoga e parla
con ognuno di noi, e adopera il popolo come scena, cioè adopera il popolo per
rappresentare la situazione della nostra anima in rapporto a Lui. Quindi il
popolo ebreo è stato un popolo di attori per ogni uomo; e non per l’umanità, ma
per ogni uomo.
Quindi quella “vigna” è una lezione personale per
ognuno di noi, perché ognuno di noi, ad un certo momento, preferisce avere “l’eredità” piuttosto che avere il
Signore. Allora diciamo: “facciamo fuori Dio e così possiamo finalmente
occuparci di quello che vogliamo noi: dei nostri interessi, dei nostri affari,
ecc.”, cioè di questi prodotti dell’io
staccato da Dio. Noi vogliamo fare fuor Dio dalla nostra vita perché almeno non
abbiamo più uno che ci contesti.
“Facciamolo fuori”, perché
così non abbiamo più uno che ci viene continuamente a chiedere i “frutti”, cioè che ci viene a
sollecitarci dicendoci: “ti devi occupare di Dio”.
“Facciamolo fuori”,
dimentichiamolo! Fu questa la gioia di Simone de Boudoir (…una filosofa), che
il giorno in cui riuscì a far fuori Dio provò una grande felicità, una grande
gioia. “Mi sono liberata”, disse, perché il pensiero di Dio era per lei un
disturbo, un pungolo nella sua vita. Riuscendo a liberarsene (“non faccio più conto di Lui”), potè
seguire ciò di cui era interessata.
Così facendo non ci
accorgiamo di quello che succede: non ci accorgiamo di inaugurare la nostra
morte. “Facciamolo fuori, così la vigna
sarà nostra”. Invece no! perché proprio facendoLo fuori perdiamo la “vigna”.
Noi
crediamo di far fuori Dio e di possedere la terra, ma la condizione per
possedere la terra è proprio quella di avere Dio. La terra
si può possedere soltanto guardando il Cielo. Noi diciamo: “non guardiamo il
Cielo così avremo la terra”, ma così facendo noi perdiamo il Cielo e perdiamo
la terra.
Ecco, dobbiamo capire bene
che ogni fatto è una lezione, ma una lezione personale per ognuno di noi.
Allora, come a Davide che riteneva di aver raggiunto il suo scopo, venne il
Profeta (il Profeta rappresenta la Voce di Dio) che con la sua parola lo fa
crollare dalla sua tranquillità, così anche a noi quando crediamo di aver
raggiunto il nostro scopo arriva il Profeta: ci arriva la Voce di Dio che ci
sconvolge tutto. Ecco, proprio il giorno in cui tu dirai: “finalmente sono in
pace”, incomincia ad affacciarsi la tragedia nella tua vita. Perché?
Perché Dio interviene. Dio
manda la sua Voce, la sua Parola per dire: “guarda
che quel tale che condanni sei tu!”. Così fu per i Farisei: essi ritenevano
che i vignaiuoli della parabola andavano messi a morte; ma Gesù disse loro: “quei
vignaiuoli siete voi!”. Ecco come la Parola di Dio porta a constatare
la realtà: “sei tu!”.
Ora, quello che è avvenuto
è rivelazione per farci capire quello a cui ci conduce la Parola di Dio nella
nostra vita. La Parola di Dio nella nostra vita ci conduce a constatare
questo: “Vedi? quello sei tu! Quello che tu vedi, la morte del Cristo, è il
prodotto tuo. Il Cristo morto è per te!” . Dio opera per farci toccare con
mano questa verità. Ma perché ci conduce a costatare il “sei tu che hai ucciso
Cristo!”?
Dio ci porta a constatare
il nostro deicidio per liberarci. Infatti Dio non opera per svergognarci, Dio
non opera per rovinarci, ma Dio opera per salvarci. E siccome è necessario
passare attraverso questa morte del nostro io (ecco il con-morire), Dio opera
per farci toccare con mano che quello che noi crediamo vita è morte per noi.
Quell’io che noi curiamo tanto è motivo della nostra rovina, è la causa a
motivo della quale noi abbiamo interrotto il dialogo con Dio, quindi con la
Vita Eterna. E allora Dio, attraverso le sue parole, conducendoci a toccare con
mano questo, ci libera, perché per liberarci deve convincerci, altrimenti noi
non ci liberiamo. Fintanto che noi non siamo convinti di un certo male che
portiamo addosso, noi non ci preoccupiamo di liberarci. Il giorno in cui siamo
convinti allora ci diamo da fare.
Ora, Dio opera per portarci
a questa convinzione.
Quindi Dio non opera per
ristabilire un senso di giustizia in senso astratto, per ristabilire
quell’equilibrio… No! Egli opera per la Salvezza perché qui siamo in una
situazione di morte. Gli uomini stanno morendo, si stanno rovinando. Morire
vuol dire perdersi eternamente. Ecco, Dio interviene per salvare l’uomo; ma per
salvare l’uomo deve farsi figlio dell’uomo, perché l’uomo conosce solo più le
sue opere. Quando uno è preso soltanto dal problema del suo io, c’è una sola
soluzione per interessarlo: intervenire nel suo io, intervenire nei suoi
argomenti, perché fintanto che uno gli parla di altri argomenti, questi è
staccato e non può capire, perché è soltanto preso dal problema del suo io. Ma
entrare entrare negli argomenti dell’io, cioè il farsi figlio di-, farsi
oggetto dei suoi interessi, vuol dire praticamente lasciarsi uccidere, farsi
figlio dell’altro. Per Dio è un lasciarsi uccidere, perché si sottomette
all’“assoluto” dell’uomo, alla “divinità” dell’uomo, alla volontà dell’uomo. Si
fa figlio dell’uomo. Tu pensa: il Dio che è Padre di tutti si fa figlio
dell’uomo, per salvare l’uomo!
Eligio: Forse la
difficoltà sta nel fatto che noi diamo molta più importanza all’azione
esteriore che non al pensiero. Sul piano teoretico non è difficile pensare al
deicidio, ma sul piano pratico sembra una mostruosità impossibilie. Ecco,
l’errore nostro sta nel sopravalutare l’azione esteriore e dare molto meno peso
al pensiero.
Luigi: Sì, noi
sopravalutiamo sempre l’azione esterna, però lì è presto capito l’errore che
facciamo, perché di fronte a qualcuno che ci dice: “sei tu che hai ucciso il
Cristo”, noi diciamo: “ma no, io sono lontano duemila anni dal Cristo, come
faccio ad aver ucciso il Cristo”. Vedi allora che ci sono dei valori
completamente rovesciati rispetto a Dio.
Rina: Allora
noi dobbiamo coltivare questo complesso di colpa?!
Luigi: No! È Dio
che ce lo coltiva questo complesso di colpa.
Noi dobbiamo soltanto
sapere che Dio ci condurrà a toccare con mano, anche se attualmente non
possiamo accettarlo, che noi siamo colpevoli del Sangue di Cristo. Dobbiamo
sapere che dovremo arrivare a questa consapevolezza (ed è Dio che ci conduce),
perché soltanto lì, scoprendo questo, noi incominciamo a superare, a morire
a noi stessi, quindi a superarci e a vivere per l’Altro.
Quindi in Dio i valori sono
rovesciati: umanamente parlando è assurdo che noi siamo colpevoli di quel
Sangue, perché siamo infinitamente lontani da allora. Eppure il Signore ci fa
capire, e ce lo dice in tutti i modi, che noi siamo legati a quella morte.
Allora vedi che ci sono dei valori che sfuggono a noi? Perché se guardiamo le
cose dal punto di vista umano diciamo: “no, è assurdo, io non ho ucciso
nessuno”; eppure un giorno Dio ci farà capire che noi abbiamo ucciso Qualcuno;
addirittura abbiamo ucciso suo Figlio.
Quindi la Realtà più
imponente, più grande a noi sfugge. Noi diamo molto valore, molta importanza a
delle cose materiali, a delle azioni fatte o non fatte, e diamo pochissima
importanza alle parole, ai pensieri. Invece il vero mondo si svolge nel
campo dei pensieri, nel campo delle stesse parole. È lì che noi riveliamo se
siamo fedeli a Dio oppure no, se noi uccidiamo Dio oppure no.
Pinuccia B.: Comunque
la problematica della necessità, dopo il peccato della Morte di Cristo per la
nostra salvezza, è legata al fatto che l’uomo, proprio perché è fatto per
conoscere Dio, ha una natura speciale, fatta apposta per questo suo destino.
Luigi: Sì,
l’avere in sé il motivo del proprio vivere è un dono granDioso perché è ciò che
ci fa coscienti, ma è anche un rischio tremendo, perché ci può separare
eternamente da Dio. Il fatto di avere in noi stessi i motivi del nostro vivere
ci può unire eternamente a Dio, ma ci può separare eternamente da Dio, se il
motivo che portiamo in noi è diverso da Dio, perché diventiamo figli di esso. Il motivo che portiamo in noi è nostro padre.
Pinuccia B.: Però l’avere
in noi la motivazione del nostro agire è l’unica condizione per essere
coscienti e conoscere Dio.
Luigi: Bisogna
però essere sempre motivati da Dio, perché bisogna avere Dio come Padre. E
dobbiamo vigilare, perché noi abbiamo sempre in noi il motivo di quello che
facciamo; anche quando noi parliamo a vanvera, siamo fasulli, abbiamo ancora in
noi il motivo. Noi siamo sempre motivati.
Pinuccia B.: Ma questo
però è solo dell’essere razionale?!
Luigi: Certo, è
solo dell’essere uomo, persona. La caratteristica della persona è quella di
avere in se stessa la ragione di quello che fa. L’essere impersonale invece
è sempre motivato da fatti esterni. Ecco perché quando noi siamo motivati da
fatti esterni ci sentiamo offesi; il principio di autorità esterno ci offende,
perché viene dal di fuori, non l’abbiamo dentro.
Comunque ciò che va tenuto
molto presente è questo: se noi abbiamo un motivo diverso da Dio, quello ci può
separare eternamente da Dio. Invece se abbiamo Dio come motivazione, niente
ci può separare da Lui. Per cui il fatto di avere in noi stessi il motivo del
nostro vivere, del nostro agire, del nostro pensare, delle nostre scelte, può
diventare motivo di unione eterna, ed essendo eterna è capace di superare
qualsiasi altro argomento. Ma può anche diventare motivo di rovina eterna,
di distacco eterno.
È ciò che portiamo dentro
di noi che determina tutto. È per questo che non c’è niente nell’ambiente
che possa condizionare le ragioni intime, che portiamo dentro di noi (cf Mt
15,11). Tanto è vero che quando uno ha un amore, riesce a reggere tutte le
ragioni esterne. Questo lo si può vedere in una stessa famiglia dove i figli,
quando hanno un amore, riescono a superare tutte le difficoltà della famiglia
stessa per realizzarlo. Perché le ragioni che abbiamo in noi superano tutto;
e questo ci fa capire che l’unione che si stabilisce diventa eterna, cioè vince
tutte le altre ragioni. Ma proprio per questo, se la ragione che abbiamo in noi
è Dio, questa vince tutte le altre ragioni e l’unione con Lui è Vita eterna; ma
se non è Dio, proprio perché la ragione che portiamo in noi vince tutte le
altre ragioni, questa può separarci eternamente da Dio e portarci nella
morte eterna.
Pinuccia B.: Quindi la
ragione della necessità della morte del Cristo per essere salvati è molto più
profonda, e non è certamente per soddisfare la giustizia divina o per espiare o
riparare un’offesa.
Luigi: Quella è
una teologia che viene dal Medio Evo, ma è per far capire a noi la gravità del
male che portiamo in noi quando siamo autonomi e quindi l’importanza di morire
al nostro io.
Eligio: Eppure
sovente si sente dire che il Figlio di Dio ha espiato tutte le nostre colpe. Ma
allora, se così fosse, che parte può avere l’uomo nel processo di salvezza?
Luigi: Quel
“espiare” da parte di Cristo (di cui parla anche S. Paolo) va inteso come un
darci la possibilità della salvezza: possibilità, perché Colui che muore per causa nostra non risorge senza di noi.