HOME

 


Era pure là un certo uomo infermo da trentotto anni.Gv 5 Vs 5


Titolo: Un uomo infermo.


Argomenti: Superare il nostro io: condizione per passare per la Porta. La fonte della malattia spirituale, sta nel non superare l’io. L’agitarsi dell’acqua. I pensieri malati e le tenebre esteriori. Il primo segno della malattia: il peso della creazione. Il secondo segno della malattia: la paralisi. Il conflitto di pensieri. 40 simbolo della vita e del cammino verso Dio. 38 anni: l’uomo che assiste al suo disfacimento. L’ultimo atto: l’intervento di Colui che risuscita i morti. Nel nostro nulla ritroviamo il Tutto. La creatura messa in croce combacia con Cristo.  Quando la creatura arriva all’impotenza è Dio che si fa riconoscere. Bisogna che esperimentiamo il nulla che vale ciò su cui facciamo conto. Nel Regno di Dio si entra per puro amore di Dio. Avvertire l’ingiustizia di non vivere per Dio. Dio deve ridurci all’impotenza. Incarnare la Parola. Ubbidire a Dio e non al mondo.

 

 


 

19/Febbraio/1978


Dall'esposizione di Luigi Bracco:

Ricapitoliamo gli argomenti precedenti.

Siamo all’episodio della piscina di Betesda che è alle porte di Gerusalemme, anzi vicino alla porta delle pecore.

Gerusalemme è la Città di Dio e questa città rappresenta la nostra anima, poiché Dio abita in noi. La porta delle pecore è la porta che introduce a questa interiorità, “Il Regno di Dio è dentro di voi”, dice Gesù.

E la porta significa Gesù, perché Gesù dice: “Io sono la porta delle pecore”; cioè si entra nel Regno di Dio per mezzo di Gesù.

Vicino a questa porta c’è una piscina, munita di cinque portici, sotto i quali c’è una moltitudine grande di ammalati.

Ha un significato il fatto che sia proprio vicino alla porta delle pecore. Siccome per entrare nella Città di Dio bisogna passare per mezzo di Gesù e Gesù dice: “Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso”, per passare attraverso questa porta e entrare nella Città di Dio, bisogna rinnegare noi stessi, superare il nostro io: è la condizione per passare.

Ne deriva che quanti arrivano a questa porta si trovano di fronte a questa condizione (che è la nostra difficoltà) e, se non la superano, in quanto non superano il proprio io, incomincia la loro malattia. È l’argomento di stasera.

Abbiamo visto che la fonte della nostra malattia (quella spirituale, non quella naturale dei corpi) sta nel non superamento dell’io.

Stasera dovremo soffermarci su questi due punti:

-                                             la malattia dell’uomo, considerando gli affetti, i segni di essa: malattia interiore dell’uomo che non supera la porta in quanto non supera il pensiero di se stesso;

-                                             e questo lungo tempo di 38 anni, che cosa possa significare.

In ogni scena, in ogni parola c’è una lezione personale per ognuno di noi, quindi dobbiamo cercare che cosa il Signore ci voglia significare questo fatto.

Si era anche parlato che in questa piscina c’era l’acqua che ogni tanto si agitava a chi per primo si buttava era guarito.

L’acqua era agitata da un Angelo che scendeva dall’Alto, per significarci che quanto più noi ci allontaniamo dalla strada della vita (che passa attraverso la porta di Gerusalemme), tanto più la nostra vita diventa piatta, meno attraente; diventa stagnante, cioè si allontana da quella che è l’acqua della vita. Presso Dio tutto è vivo: abbiamo la sorgente.

Lontano da Dio l’acqua stagna, non dà più vita. Dio ci soccorre dall’alto mettendo qualcosa in movimento nella nostra vita che stagna (certe volte un dolore, qualcosa di nuovo, una parola che ci fa giungere).

Se ci buttiamo nella Parola che Dio ci fa giungere questa ci guarisce. In ultimo vediamo che arrivando Gesù non c’è più bisogno con Lui né del movimento dell’acqua dell’Angelo.

Lui supplisce tutto perché è l’acqua è viva. L’acqua mossa, come la sorgente, già significava Gesù (perché tutto è segno).

Con la sua venuta non abbiamo più bisogno di segni, perché abbiamo la Realtà che opera. Allora colleghiamoci con quello che abbiamo detto circa la malattia dell’uomo; già abbiamo visto che la moltitudine di malati sotto questi portici, se lo riferiamo personalmente, sta a significare tutti i nostri pensieri malati in quanto non trovano più vita in Dio e vivono soltanto più sotto le impressioni che ricevono dal mondo (i cinque portici che significano i cinque sensi).

Ecco siamo dominati da queste cose: la nostra vita è proiettata tutta nell’esterno, anzi le tenebre esteriori invadono anche il nostro mondo interiore. Naturalmente siamo in un campo di superficialità, perché la vita vera viene dal di dentro, non dal di fuori.

Ora, come l’uomo non accetta di superare il pensiero di se stesso e di entrare nella Città di Dio, (cioè non mette il suo io in periferia e non mette Dio al centro, condizione per entrare nella Città di Dio), incomincia ad avvertire il peso di ciò che prima era silenzioso: questo è il primo segno della malattia.

Cioè, quello che prima era mezzo (es. il corpo, le creature), ora ci è di ostacolo. Quando noi camminiamo verso Dio, tutto diventa mezzo positivo che ci aiuta; ma quando ci distacchiamo da Dio, tutto ci è di danno. Abbiamo fatto l’esempio del tralcio unito alla vite: quando è unito tutti gli elementi della natura, acqua, sole aria, terra, freddo, gelo, tutto contribuisce per la vita del tralcio, vita che attraverso la vite arriva al tralcio.

Ma se il tralcio si stacca, tutti questi elementi che servivano per la vita, contribuiscono a distruggerlo, a farlo marcire.

Così è per l’uomo che si stacca dalla strada della vita.

La strada della vita passa attraverso la porta che introduce nella Città di Dio: è un passaggio obbligato. Se però noi non accettiamo di mettere Dio al centro, ecco che ci ripieghiamo. Ma ripiegandoci incominciamo a sentire il peso: le cose, i mezzi che prima ci aiutavano, incominciano a farsi sentire. Già nella nostra malattia fisica succede questo: la malattia si caratterizza dal fatto che il corpo incomincia a farsi sentire, mentre invece quando stiamo bene il corpo è silenzioso, serve.

Così quando qualche pensiero incomincia a farsi sentire, cioè ci intralcia nei riguardi della vita dello Spirito, vuol dire che c’è qualcosa che non va in noi e si inaugura così uno stato di malattia spirituale: incominciamo a sentire pesanti i mezzi.

Cioè i mezzi tendono a diventare fini per noi, al posto del vero fine: avendo trascurato il vero fine, ogni cosa che incontriamo tende a sostituirsi al fine che abbiamo trascurato. Per cui ad un certo momento, tutte le cose ci attraggono, tutte le cose tendono a portarci via. Ecco, è l’azione degli elementi che sopra il tralcio staccato: tutte le cose tendono a disfare questo tralcio, a disgregarlo, perché è staccato dalla vite.

Così noi staccati dal cammino della vita, incominciamo a dover resistere a queste forze che tendono a disgregarci, a portarci via: è lo stato dell’uomo malato. Questo è il primo segno. Però dobbiamo tener presente che il non è detto che il problema che noi abbiamo scartato, il problema di mettere Dio al centro della nostra vita sia eliminato.

Ogni problema che noi non risolviamo non è di per sé eliminato dalla nostra vita. Il problema che non risolviamo ce lo ritroviamo di tanto in tanto perché ci viene ripresentato, perché ogni problema è collegato con Dio e col problema, quindi, del superamento di se stessi. Ma ci viene ripresentato in un modo sempre più pesante, perché noi ci troviamo sempre più in difficoltà: ecco l’intermittenza dell’acqua.

L’acqua che viene agitata di tanto in tanto è il problema del superamento di se stessi che si ripresenta. I problemi si superano soltanto nella misura in cui li risolviamo con Dio. Se noi li accantoniamo non li risolviamo, se noi non accettiamo di mettere Dio al centro, non risolviamo il problema con Dio. Ma questo problema di Dio ritorna, si ripresenta di tanto in tanto. Abbiamo detto che il Signore con la sua opera ci riporta nel deserto, ci riporta attraverso la situazione di dolore e ci ripresenta la sua Verità, quella Verità che noi non abbiamo affrontato, non abbiamo risolto, perché siamo rimasti in forse: Dio può darsi che ci sia o non ci sia. Non ci siamo impegnati in quello e allora il problema non è risolto per noi, per cui ritorna, ritorna sempre. Soltanto che quanto più ci trova carichi di questo fastidio di altri pesi, di altre cose del mondo che pesano su di noi, perché noi non camminiamo più nella vita.

Naturalmente, quanto più siamo carichi di altri pesi, tanto più troviamo difficoltà a risolverli se non l’abbiamo risolto quando eravamo liberi, a molto maggior ragione ci troviamo in difficoltà a risolverlo quando non siamo più liberi.

Ecco abbiamo una situazione di paralisi, il secondo segno della nostra malattia: l’incapacità di buttarci nel problema che non abbiamo risolto. Il problema si ripresenta, ma noi non ci troviamo nell’incapacità di affrontarlo, perché quel problema richiede molta disponibilità.

Qui possiamo fare un raffronto tra l’uomo sano e l’uomo malato:

-l’uomo sano è l’uomo che potrebbe, ma non vuole, e allora diventa ammalato,

-l’uomo malato invece vorrebbe, ma non può: vorrebbe buttarsi ma non può.

Abbiamo la situazione di quest’uomo che malato da trentott’anni, che tutte le volte che cercava di buttarsi arrivava sempre tardi.

Vorrebbe ma non può: non può perché non è libero.

E non è libero perché ci sono tutti gli altri elementi che pesano sopra di lui.

D’altronde quando uno non ha affrontato il problema quando era libero da tutto, cioè quando era sano, a molto maggior ragione gli risulterà difficile affrontarlo da malato.

Perché da malato ci sono tante cose che glielo impediscono.

Allora arriviamo proprio all’anima della malattia, in quanto, interiorizzata, la nostra malattia diventa un conflitto di pensieri.

Cioè quando noi vorremmo applicarci al Pensiero di Dio, subito ci troviamo con altri pensieri che ci portano via.

C’è un conflitto, una contraddizione di pensieri. Per cui diventiamo incapaci a fermarci nel Pensiero di Dio, incapaci a pensare. Ecco, noi portiamo il peso di tutto l’amore che non abbiamo dato a Dio, di tutta la vita non vissuta.

Direi che pesano molto di più su di noi le omissioni, quello che non abbiamo fatto, che quello che abbiamo fatto.

Ecco, ogni amore non dato, non ci lascia liberi: si interiorizza e diventa un peso su di noi: ed è questo che ci porta via all’amore.

Così noi siamo fatti incapaci di amare, incapaci di sostare in un pensiero. E tutto questo è una conseguenza di quel distacco, cioè di quel non essere voluti passare attraverso la porta che ci introduce nella Città di Dio, che richiedeva il superamento del pensiero del nostro io.

Cioè l’ultimo stadio, l’ultimo segno della nostra malattia, lo farei consistere in questo: l’uomo deve assistere impotente al suo disfacimento, perché vede che tutto lo lacera, che tutto lo porta via, ma lui non può più fare niente.

Anche di fronte al problema di Dio. Ecco, forse qui arriviamo a questo stadio dei 38 anni.

I 38 anni rappresentano quasi tutta una vita. Generalmente la vita nella Bibbia è proprio rappresentata col 40; teniamo presente ad esempio i 40 anni nel deserto: Dio fece errare per 40 anni il suo popolo nel deserto, per estinguere tutta la generazione che non aveva creduto (per estinguere una generazione, quindi i 40 anni sono il simbolo della vita).

Il numero 40 generalmente è anche il simbolo del cammino della vita per arrivare a Dio.

Ad esempio i 40 giorni di Elia per arrivare al monte Oreb, il monte della preghiera: “…dovette camminare per quaranta giorni”.

Ad esempio i  40 giorni di Gesù di digiuno nel deserto, per prepararsi alla vita pubblica.

I 40 giorni dopo la risurrezione….. abbiamo questo 40 che ritorna sovente, in diverse forme, per rappresentare cioè il cammino della vita. Quindi questi 38 anni rappresentano quasi tutta una vita: cioè quell’uomo aveva ormai speso tutte le sue risorse, tutta la sua energia e non gli restava più alcuna speranza.

Viene qui spontaneo il confronto con l’emorroissa: aveva speso tutto il suo per guarire dal suo male, dietro medici, medicine, ecc. (e S. Marco fa notare, anzi, che era peggiorata). Ora cosa vuol dire che aveva speso tutto il suo? Aveva speso tutto quello che aveva da vivere, per vivere. Tutto il suo tempo per vivere l’aveva speso in questo, per cercare di rimediare ai suoi mali. Ecco, l’uomo malato si afferra a tutto per cercare di guarire. Ma più si afferra e più la sua situazione si aggrava. La conclusione qual è? Una situazione di disperazione: ha perso tutte le speranze.

Quei 38 anni sembra vogliano significare questa perdita delle speranze. Ormai siamo al tramonto, siamo alla soglia dei 40 anni, cioè alla fine del cammino della vita: ha tentato tante volte di buttarsi nell’acqua e non c’è stata possibilità di guarire. Ecco, è l’uomo che ormai è rassegnato alla sua fine. Per questo dico, è l’ultimo segno: i 38 anni rappresentano l’ultimo segno: è l’uomo che assiste al suo disfacimento. Ormai non lotta più, si è rassegnato, accetta tutto.

E qui abbiamo la meraviglia: quando noi crediamo che tutto sia finito, arriva Gesù.

Forse era proprio necessario toccare il nostro niente per scoprire il suo tutto.

Ecco, qui ci viene da associare il pensiero delle nozze di Cana: il Signore ci lascia sperimentare tutte le nostre risorse, tutti i nostri vini, ecc.; poi, quando tutto finisce, quando ormai sembra che la festa sia fallita, perché “…non abbiamo più vino”, Lui interviene.

La Madonna (Colei che contempla conosce il tempo), dice: “Non hanno più vino”; ormai è finito, la loro festa, la festa del mondo è finita. Quando l’uomo dice: “Ormai per me è finita, non c’è più niente”, è proprio lì che il Signore l’aspetta. Quante volte abbiamo detto che è proprio necessario fare il vuoto dentro di noi per scoprire la meraviglia della presenza di Dio. È necessario il silenzio di tutto per scoprire il tutto di Dio.

È opera di Dio: il Signore, attraverso tutti i nostri errori, ci porta a toccare con mano la nostra desolazione: ecco, vedi, tu facevi conto su quello, quell’altro, ecc. ecco, non puoi fare niente. Nel nulla nostro, nell’impotenza nostra, scopriamo l’Onnipotenza di Dio. All’ultimo atto, quando noi crediamo che tutto sia finito, la nostra vita si apre sulla meraviglia del miracolo, dell’intervento della presenza di Dio, di Colui che risuscita i morti. Dio ha la possibilità di risuscitare i morti.

Pensieri tratti dalla conversazione:

Rina: La conclusione è consolante, perché la premessa era un po’ triste e desolante.

Cina: Sono 38 anni!

Eligio: Comunque è consolante il fatto che ad un certo punto interviene Gesù, proprio quando stiamo per sancire il nostro fallimento totale.

Luigi: Anche la nostra malattia, il disfacimento, la distruzione di tutto, è opera di Dio, per portarci su quella soglia, nella quale già c’eravamo di fronte alla porta di Gerusalemme.

Per cui due sono le vie attraverso cui il Signore ci riconduce:

-                                             la prima è la via positiva: la via della vita ci porta lì;

-                                             e poi la via della delusione, per cui Dio annulla (ed è la morte) tutto quello  che ci impedisce di andare a Lui e ci fa ritrovare senza niente, davanti a Lui solo, con niente: ecco, ci ritroviamo col Tutto.

Per cui quando arriviamo al nulla ritroviamo il Tutto, gli estremo si toccano.

Eligio: Anche perché nella constatazione del proprio disfacimento, c’è un atto di umiltà, una presa di coscienza del proprio stato e quindi c’è una disponibilità massima.

Luigi: Direi, è la creatura messa in croce; praticamente è resa impotente. Quindi la croce della creatura combacia con quella del Cristo e si ritrovano. Là, in Cristo in croce, c’è il dono d’amore, qui è la creatura che resa impotente, dai suoi errori. Abbiamo l’affinità e l’affinità naturalmente unisce.

Ines: La creatura può riconoscere il suo fallimento ma non è detto che si rivolga al Signore, vero?

Luigi: Non è la creatura che si rivolge al Signore, ma è il Signore che si rivolge alla creatura. È il Signore che sorprende la creatura nel suo niente. È il Signore che sorprende la creatura nel suo niente.

Eligio: Ma forse Ines voleva dire che non necessariamente la creatura riconosce in questi avvenimenti la mano del Signore.

Luigi: Certo no, perché per riconoscerlo dovrebbe già essere col Signore. La creatura subisce, non può riconoscere la mano del Signore. La creatura malata, proprio perché malata, non riconosce perché se riconoscesse nella malattia la mano del Signore, non sarebbe più malata. La malattia è proprio data dal distacco. Il vero male è il distacco da Dio, la disunione.

Pinuccia: Però la possibilità di riconoscerlo ce l’ha, perché se decisamente non può più riconoscere Dio, allora praticamente per questa creatura non c’è più nulla da fare.

Luigi: No, ma è Dio che si fa riconoscere, quando la creatura arriva all’impotenza.

Pinuccia: Da tutti?

Luigi: Certo, da tutti. Ma che il Signore si presenti non vuol dire che la creatura Lo accolga. Il Signore non impone alla creatura l’adesione, però la mette nella situazione di aderire, cioè la toglie da tutto quello che era di ostacolo.

Pinuccia: Per cui se la creatura vuole ora può rispondere al Signore.

Luigi: Sì, certo.

Pinuccia: Allora lì si vede l’amore di Dio.

Luigi: Certo. Ma la creatura malata, nella sua malattia, non Lo può riconoscere, perché la creatura, proprio perché è malata, fa leva sulle sue risorse.

Rina: Ma può essere malata a tal punto da annegare in questa sua malattia, in questa sua disperazione? Da non poter più nemmeno alzare la testa?

Luigi: Sì, ma non importa, perché il Signore toglie tutto proprio attraverso la malattia; attraverso i nostri mali ci porta proprio alla desolazione. Cosa vuol dire desolazione? Che uno ormai non fa più conto su nulla. È lì che arriva la meraviglia.

Rina: Ma nemmeno su Dio?

Luigi: Nemmeno su Dio, perché non Lo vede e non Lo tocca, però è Dio che si ripresenta, cioè si ripresenta come Colui che essa non conosceva perché non faceva conto su di Lui.

Ines: Ma se sono disperati…

Luigi: No, direi che disperati sono prima che arrivi Gesù, perché man mano che le nostre risorse vengono meno… noi disperiamo. La malattia sta nel fatto che noi non facciamo conto su Dio. Ma noi non facciamo conto su Dio perché non l’abbiamo messo prima, ma abbiamo messo prima il nostro io. Non siamo passati per la porta. Non passare per la porta vuol dire staccarci dal cammino della vita: il cammino della vita è Lui.

Ma cosa vuol dire sostanzialmente staccarci da questo?

Vuol dire non accettare di mettere il nostro io fuori, in periferia e di mettere Dio al centro, cioè di superare noi stessi: non accettiamo questo.

Ines: E il Signore ci aspetta fino a quel punto là per vedere se noi ritorniamo a Lui.

Luigi: È necessaria questa attesa da parte di Dio, perché noi, siccome non facciamo conto su di Lui, bisogna che esperimentiamo cosa vale ciò su cui facciamo conto, cioè che tocchiamo con mano i nostri errori. “Vogliono un loro re? Dà loro un re – dice il Signore a Samuele – tocchino con mano cosa vuol dire essere governati da un re piuttosto che da Dio”. Ecco, tocchino con mano. Loro fanno conto sulle loro risorse? Sui loro beni, ecc.? tocchino con mano. Se facesse conto su Dio non avrebbe bisogno di sperimentare: ma dal momento che non fa conto su Dio, è necessario che sperimenti il suo errore. Ecco perché dico che portiamo su di noi il peso dell’amore che non abbiamo dato. E quello ci determina tutto. E ci deve determinare fino alla morte. Per cui la morte è entrata nel mondo proprio nel momento in cui noi non siamo passati attraverso la porta. E la morte è un’azione provvidenziale, di misericordia di Dio, per farci scoprire il nulla su cui noi abbiamo puntato e il Tutto che è Lui, poiché nel nulla noi scopriamo il Tutto…

Quando uno scopre il proprio fallimento dice: “Ho sbagliato tutto!”; è lì che Dio si rivela. Ma prima io non ero convinto che fosse necessario scartare tutto per seguire Lui. Lui me lo diceva, ma io non ne ero convinto. Allora il Signore mi dice: “Prova, tocca con mano, vedi! Preferisci la creatura al Creatore? Segui la creatura, vedrai dove la creatura ti conduce!”. Quando noi abbiamo sperimentato cosa vuol dire preferire la creatura al Creatore, ecco che…. In un primo momento noi lottiamo con tutte le nostre risorse, si fa tutto il possibile per superare gli ostacoli. Ma la nostra lotta è già perduta in partenza. Noi infatti ci accorgiamo che come ci stacchiamo dal cammino della vita, la vita diventa soltanto più un resistere alle forze disgregatrici che tendono a portarci via. Diventa  un lottare giorno per giorno con tutto quello che ci porta via (di salute, di disponibilità, di tempo, ecc.) in tutto, per cui diventiamo un essere che si difende. Ma quando noi siamo in una situazione di difesa abbiamo già perso la partita. Cerchiamo soltanto di tenere una cosa che giorno per giorno ci viene portata via. Per questo dico che noi assistiamo impotenti alla nostra devastazione. C’è un ladro che dopo averci paralizzati nella nostra casa con un gas o altro, ci deruba di tutto e noi non possiamo reagire: vediamo che ci porta via ma non possiamo fare niente. Ora questa è la conseguenza del fatto che abbiamo messo l’io al centro. Cioè l’inizio, la fonte di ogni male sta nel nostro distacco da Dio, (come abbiamo visto la volta scorsa), dal cammino della vita, che richiede a noi questo superamento dell’io. D’altronde è la giustizia fondamentale, perché evidentemente nessuno di noi è Dio: la creatura non essendo Dio, deve necessariamente rispettare la centralità di Dio, cioè mettere Dio al centro di tutto e riferire sempre tutto a Dio.

Ecco perché è necessario superare se stessi: tutto quello che arriva a noi, mai metterlo come elemento determinante nella nostra vita; non dobbiamo mai lasciarci guidare dai nostri sentimenti, dalle nostre stesse impressioni, anche dalle nostre stesse conoscenze e non reagire secondo quello o vivere secondo quelle.

Tutto è opera di Dio che arriva a noi, ma arriva a noi perché noi la riferiamo a Lui. Soltanto nella misura in cui la raccogliamo in Lui, la riferiamo a Lui non viviamo. È un lavoro personale che nessuno può fare al posto nostro. È quel lavoro sacerdotale di cui si parlò la volta scorsa. Il vero sacerdote è dentro di noi; è quello che compie queste offerte: prende le offerte che Dio gli mette nelle mani (ed è tutto quello che incontriamo nella giornata), e la porta all’altare di Dio, che è la nostra mente, per offrirla a Dio, per riferirla a Dio. Soltanto nella misura in cui le dono a Dio io vivo; perché la vera vita inizia non in quello che arriva a noi, ma in quello che noi doniamo, riportiamo a Dio. La vita sta nel donare non nel ricevere. Ora, il donare, il donarsi, richiede sempre il superamento dell’io, per cui se il nostro io è molto contento nel ricevere, soffre nel donare e non si accorge invece che la vita inizia lì. Da questo la difficoltà di passare attraverso la porta perché il nostro io trova difficoltà a superarsi. Trova difficoltà proprio a  vivere, perché l’inizio della vita non sta nel ricevere doni, ma sta nel fare i doni, perché fare i doni vuol dire riportarli a Dio, riferirli a Dio. Riferendoli a Dio, offrendoli a Dio, i doni si illuminano, cioè vengono visti secondo Dio, nello Spirito di Dio, nella volontà di Dio. In questa luce cominciamo a camminare, cioè apparteniamo al Regno. Invece l’omissione, il peccato di non amare, è questo non riportare a Dio e questo ricomincia a ricadere su di noi.

E ricade su di noi in quanto tutti quelli che erano i mezzi di prima, diventano per noi i fini e cominciano a pesare su di noi.

Teresa: La volta scorsa si parlò della necessità di buttarsi come prima cosa, credere nella Parola di Dio, buttarsi nella Parola di Dio; qui sembra che l’azione sia solamente da parte di Gesù, il paralitico non si è buttato.

Luigi: Sì, ormai quando la creatura è arrivata alla situazione di disperazione, di desolazione, (ho detto: è crocifissa), non può buttarsi. La creatura crocifissa che può dire? Ha soltanto da aspettare che il Signore venga.

Teresa: Per pura misericordia di Dio.

Luigi: È puro amor di Dio! È lì che si rivela che è puro amor di Dio! Perché prima noi credevamo: “Per lo meno il Signore mi ama, perché io qualche numero ce l’ho, valgo qualcosa, oppure ho fatto la mia offerta, oppure ho dato la mia vita, mi sono buttato”. No, lì è puro amor di Dio, è proprio vero, puro amor di Dio! Ma nel Regno di Dio si entra per puro amor di Dio! Si entra mica per meriti nostri, ma per puro amor di Dio. Perché la meraviglia del cielo è questa: poter dire, poter riferire: “Signore, sei stato Tu! Tutto è stato opera tua!”. Fintanto che noi abbiamo qualcosa su cui puntiamo e crediamo che sia valido per entrare nel cielo, noi restiamo fuori del Regno di Dio.

Teresa: Ma il Signore chiede anche la nostra fede, la nostra corrispondenza.

Luigi: Ma la nostra fede e nostra corrispondenza sta in questo: nel riconoscere che tutto è dono suo! Amore puro suo! Lì sta veramente quello che il Signore chiede a noi, che noi riconosciamo che tutto è dono suo, cioè Lui ci chiede di lasciarci amare. Perché la nostra rispondenza non sta nel “mi do da fare”, ma sta nel riconoscere che Lui è tutto e che noi siamo niente e che tutto ci viene da Lui: è la cosa più difficile, perché il nostro io salta sempre fuori, in tutte le forme, anche nel bene! Invece poter dire: “Signore, sei stato Tu in tutto, io ero niente!”, effettivamente noi siamo niente. Basta solo pensare a che cosa eravamo cent’anni fa: niente! Assolutamente niente! È stata tutta opera sua e continua ad essere tutta opera sua. Noi dobbiamo poter dire: È tutta opera sua!”. Invece ad un certo momento noi cominciamo a metter su il naso e crediamo di cominciare ad essere qualche cosa. No, no, guarda che prima eri niente e continui ad essere niente, perché tutto è stato dono di Dio e tutto continua ad essere dono di Dio; quindi continua a riconoscere che tutto è dono di Dio: questa è la condizione per poter  appartenere al Regno di Dio.

Cosa vuol dire appartenere al Regno di Dio? Vuol dire poter dire: “Signore, sei tutto tu che operi”. Poterlo lodare in tutto e non riferire alla creatura.

Ines: E il superamento?

Luigi: Il superamento sta lì, il superamento sta nel poter attribuire tutto a Dio, nel poter riferire tutto a Dio, perché tutto viene da Dio e tutto va riconosciuto da Dio e tutto va aspettato da Dio. E se il Signore ci mette nell’impotenza, attribuire anche questo a Dio.

Perché il Signore ci mette in una situazione di impotenza? Perché noi facciamo conto su altro. E lui per farci entrare ci conduce all’impotenza, affinché possiamo dire: “Signore, è veramente tutto opera tua! Io credevo di poter far conto su altro, invece no, è tutto opera tua! Noi siamo qui che aspettiamo tutto da Te! La pioggia e il sole, il seme e la vita, tutto; non c’è niente che viene da noi!”. Direi, quello che Dio chiede a noi è proprio questa adesione: lasciati amare! Ci mette tutto Lui!

Damilano: Vuol dire anche che bisogna aver fiducia totale sul piano che ha su di noi?

Luigi: Certo, bisogna accettare tutto, sapere che siamo creature rispetto al Creatore. Ma creature non nel senso come generalmente pensiamo: “Lui mi ha creato, ora sono io che  mi devo dare da fare!”. No, guarda che Lui continua ad essere il tuo Creatore. Dio ti crea ogni giorno. Opera ogni giorno per te. Tutto fa. L’universo lo fa e rifà mille, miliardi di volte, sempre per te. Invece noi diciamo: “Il Signore mi ha creato, ora sono io che mi devo dare da fare!”. No, no, il Signore ha iniziato, il Signore porta a compimento l’opera perché Lui è il tuo Creatore ogni giorno e vuole essere tuo Padre di ogni giorno, di ogni momento.

Damilano: Allora ci vuole una totale disponibilità a Lui, perché noi non conosciamo il nostro futuro, ma Dio lo sa.

Luigi: Certo, è logico.

Damilano: E quindi ci vuole una fiducia e un totale abbandono a Lui.

Luigi: Certo, bisogna sempre riconoscere questo rapporto: Lui è il Tutto da cui ci viene tutto e da cui mi deve venire tutto.

Damilano: Sì, e quello che faccio, non sono io che lo faccio, ma è Dio che me lo fa fare.

Luigi: Sì, è Dio che me lo fa fare. Credere questo è la condizione per poter appartenere, per poter entrare nel Regno di Dio. Altrimenti noi restiamo fuori, cioè noi stabiliamo altri principi, altri regni e ci mettiamo fuori della Realtà. Ecco perché le cose incominciano a pesare su di noi. Quando incominciano a stridere, a pesare, a farsi notare su di noi, vuol dire che noi siamo già usciti dalla Realtà, dal Regno di Dio. E allora le cose cominciano a farci resistenza. Quando invece apparteniamo al Regno di Dio, tutto è silenzioso: l’universo è una meraviglia di silenzio! Ma questa meraviglia di silenzio vuol dire che tutto è in ordine! Il Regno di Dio è ordine! Quindi tutto serve a puntino e non c’è bisogno di urti. Si urta quando c’è una volontà diversa che si vuole imporre e allora le creature si ribellano. Noi lo vediamo anche tra noi. Ma se invece c’è il rispetto della presenza di Dio in tutto, tutto serve silenziosamente perché tutto è ordinato da Dio, tutto è fatto bene. Il Signore dice: “Venite che tutto è pronto! Non preoccupatevi di niente!”. Ma noi diciamo: “lo debbo lavorare, io debbo fare, io ho i buoi, ecc.!”. No, tutto è pronto, tutto è fatto, vieni! Perché Dio ha fatto tutto, ha ordinato tutto, affinché l’anima nostra vada.

Damilano: Quindi quando ci capita qualche malattia o qualche disgrazia, è tutto un richiamo.

Luigi: Tutto, tutto è opera di Dio, perché tutto viene a noi da Dio! Noi dobbiamo prendere tutto dalle mani di Dio perché tutto viene a noi da Dio: Dio è la Realtà, e noi dobbiamo aspettarci tutto da Dio, perché questa è la Realtà. Se non riteniamo questo, usciamo dalla Realtà, evadiamo dalla Realtà, cadiamo nell’utopia e allora tutte le cose stridono, diventano pesanti su di noi, pesano su di noi.

Eligio: Damilano ha detto che una disgrazia, una malattia, un incidente viene per richiamarci che siamo fuori strada, ma non necessariamente, perché la malattia cade anche su chi è sulla strada buona…

Luigi: Sì, però intendiamo la malattia in senso spirituale. Appunto ho escluso quello che può essere malattia nel senso fisico, perché siccome facciamo tutti una cosa sola, qui, nelle malattie fisiche, siamo spettacolo anche agli altri. Il Cristo che muore in croce, non muore per Sé, muore per tutti. Siamo spettacolo gli uni agli altri, quindi bisogna accettare tutto dalle mani di Dio (le malattie fisiche in noi e negli altri). Però dobbiamo tenere presente in noi che anche la malattia (fisica) che accettiamo dalle mani di Dio, appartiene all’ordine, diventa silenziosa in noi. Invece la vera malattia (quella spirituale), è il sentire il peso di altro che mi porta via a Dio. Stavamo appunto parlando di questa malattia spirituale.

Eligio: Mi era parso invece che Damilano volesse accennare alla malattia fisica.

Luigi: Sì, in quanto dobbiamo accettare tutto da Dio.

Eligio: Perché c’è gente che scoppia di salute ed è lontana da Dio e c’è che vive nel Pensiero di Dio pur essendo ammalato.

Luigi: No, non è in questo senso che dobbiamo intenderlo. Infatti Gesù lo esclude. Quando gli chiedono: “Costui è nato cieco per colpa di chi?”, risponde: “Non ha peccato né lui né i suoi genitori, ma è nato così per la maggior gloria di Dio!”. Quindi tutto quello che è spettacolo va sempre ricevuto dalle mani di Dio, perché tutto è opera di Dio. È soltanto la persona singola che avverte la sua vera malattia, in quanto sente il peso di altro da Dio, quindi sente la difficoltà. È la persona singola che sa se ha superato se stessa e ha messo Dio al centro o se non l’ha messo. Ecco è questa è un’analisi per ognuno di noi.

Pinuccia: Ma la malattia fisica non è anche un segno, uno specchio che ci aiuta a scoprire la malattia spirituale? A fare questa analisi su di noi?

Luigi: Certo, tutto è segno, tutto è richiamo per noi, per educarci al Regno di Dio.

Cina: Se ho capito bene quello che hai detto prima, cioè che si va in due modi al Signore: in un primo modo non costretti….

Luigi: Sì, è il modo dell’uomo sano. Abbiamo l’uomo sano quando può camminare verso Dio.

Cina: E allora non costretto dai 38 anni di malattia.

Luigi: No, Dio non ha creato la malattia, Dio non ha voluto il dolore per l’uomo. Dio non ha creato la strada difficile. Dio all’inizio ha fatto tutte le cose molto buone.

Cina: Allora abbiamo tutto da guadagnare a rispondere subito e con amore.

Luigi: Certo, però l’uomo sano è l’uomo che può ma non vuole. L’uomo sano si accorge che ha del tempo, che potrebbe impegnarsi con Dio, potrebbe darsi a Dio, potrebbe pensare a Dio, però non vuole, perde tempo, si distrae. Ecco, allora inaugura la sua malattia, quindi non è più sano. Ma Dio all’inizio ha fatto tutte le cose buone e le ha fatte per l’uomo sano. Quindi la vita è quella.

Cina: Se teniamo presente quanto abbiamo udito domenica scorsa, cioè se ci buttiamo nell’acqua “prima di tutto”, questo buttarci prima di tutto non lascia venire la malattia.

Luigi: No, non ci siamo, perché l’uomo che si butta nell’acqua della piscina è già malato. Non è ancora in questo stadio perché l’uomo si ammala in modo progressivo, però è già malato. Qui il Signore ci presenta un uomo, un malato arrivato all’ultimo stadio, per darci una lezione efficace, ci porta all’ultima conseguenza. D’altronde perché ad esempio il Signore aspetta nella nostra vita ad arrivare molto tardi? Oppure anche nella vita dell’umanità: perché è arrivato tardi? Perché c’è questo tempo di attesa? Perché è necessario che la creatura esperimenti. Siccome non fa conto su Dio, è necessario che la creatura esperimenti  quanto vale ciò su cui fa conto. E il Signore la lascia sperimentare. Anzi il Signore le mette a disposizione tutto l’universo affinché tocchi con mano, esperimenti se trova la vita facendo conto su altro.

Ad esempio se tu preferisci il denaro a Dio? Ebbene, magari il Signore ti inonda di denaro: tocca con mano cosa vuol dire: faccio conto sulla carriera, sul posto di lavoro, sulla gloria del mondo! Magari il Signore ti inonda di quello, ti fa raggiungere ogni aspirazione: tocca con mano, esperimenta. Altrimenti la creatura resterebbe sempre alla finestra. Cioè avremmo la creatura che, arrivata nel Regno di Dio, sta ai vetri, perché sogna altro e allora non può restare nel Regno di Dio, è cacciata fuori, non ha l’abito.

Pinuccia: Come è possibile che un uomo, se è veramente sano, cioè orientato a Dio, cominci a diventare malato?

Luigi: Ma se uno diventa malato è proprio perché passa dalla situazione di sanità a quella di malattia, altrimenti non sarebbe più malato.

Pinuccia: Sì, praticamente si è già malati da bambini o ci fanno diventare malati?

Luigi: Questo non lo so; ma il fatto certo è questo, che se uno è malato è perché era sano ed è diventato ammalato.

Rina: Ma non pensi che siamo già nati malati?

Luigi: Può darsi benissimo che noi apparteniamo già ad un’umanità malata, però certamente all’inizio il Signore non ha fatto quello. Ora noi consideriamo le cose nel disegno di Dio. La via attraverso la quale tutti quanti arriviamo è la via della malattia. Tutti quanti perché noi in un modo o nell’altro siamo malati, dobbiamo quindi passare attraverso l’esperienza di ciò che non è Dio. Altrimenti Cristo sarebbe morto invano per qualcuno. No, nemmeno per la Madonna, anche se è nata senza peccato originale.

Pinuccia: Ma la Madonna non è passata attraverso la malattia.

Luigi: Ma è passata attraverso le conseguenze della malattia, perché subendo la morte del Figlio, ha subito tutto….

La creatura, dal momento che appartiene a questo disordine, subisce tutto. Però all’inizio Dio non ha fatto la morte, non ha fatto la malattia, all’inizio Dio ha creato tutte le cose buone, affinché la creatura potesse arrivare alle porte del Regno di Dio, passare attraverso esse direi quasi naturalmente, non automaticamente, ma naturalmente. E noi esperimentiamo, tocchiamo con mano che naturalmente non siamo Dio, perché tutto l’universo ce lo grida in faccia. Quindi naturalmente noi lo sappiamo, quindi riconosciamo che è giusto non vivere per il nostro io, non mettere il nostro io al centro. Questo lo sappiamo, quindi c’è una parte di noi che urla contro di noi il nostro errore, il nostro peccato. Ma non siamo convinti del tutto. È per questo che noi ci lasciamo trascinare da impressioni, da sentimenti, per cui ci troviamo sempre di fronte al problema della crisi, della scelta, per cui diciamo: “Sì, sì, sarebbe giusto, però…., io perdo questo, però che figura ci faccio, però gli altri cosa dicono”. Ad un certo momento è il pensiero del nostro io sull’ago della bilancia. Però una parte di noi sa ciò che sarebbe giusto: è il conflitto di Paolo, che è anche il conflitto di ogni uomo: “Come mai io vedo il giusto e faccio il male? Come mai io vedo il bene e faccio il male? Come mai il lo vedo e non lo faccio? Cosa succede dentro di me?”. Ecco, c’è una parte di noi quindi che avverte la giustizia. Se non l’avvertisse non potrebbe minimamente desiderarla. E c’è una parte di noi invece che subisce il fascino dell’io. Ecco perciò la necessità di questo superamento, questo passaggio: è un passaggio necessario che si risolve poi con la croce, la morte al nostro io; il passaggio del nostro io a Dio, come centro questo continuo riferire a lui.

Dobbiamo imparare a riferire tutte le cose a Dio, altrimenti non si entra nel cielo, non si entra nella Città di Dio.

Ines: Non si incomincia a vivere…

Luigi: No, anzi. Ma sei convinta Teresa che dobbiamo imparare ad accogliere e ad aspettarci tutto da Dio? Perché questa è la condizione per entrare nella Città di Dio. Perché nella Città di Dio c’è Uno solo che regna e c’è Uno solo che illumina, che è Dio, Uno solo. Dio è Uno solo: ecco, bisogna accogliere tutto da Dio e riferire tutto a Dio. È in questo “Uno solo” che si entra, perché si riferisce, si attribuisce tutto a Lui. La nostra gioia sta nel poter dire: “Signore, tutto è stato grazia tua, tutto è opera tua”. È lì la gioia perché uno si riconosce amato. Ma in quanto io posso attribuire qualcosa a me, dicendo per esempio: “Ah, sì, Lui mi ha voluto bene, ma io avevo questi numeri…”, io esco dall’amore. E allora c’è una pretesa, quasi a dire: “Signore, io sono giusto, io me lo merito e quell’altro no…”. e se invece preferisce quell’altro, mi offendo. Vedi che c’è sempre l’io?  E allora non siamo nel Regno di Dio. Siamo noi che ci sottraiamo all’amore e poi diciamo: “Dio non mi ama”. No, guarda che Dio ti ama. Sei tu che ti sottrai all’amore, perché attribuendo qualcosa ad altro, non vedi più, non ti riconosci più amato. Perché uno si riconosce amato nella misura in cui si sente pensato dall’Altro. Ma pensato dall’altro vuol dire che io posso attribuire tutto di me all’Altro, ma se c’è qualcosa di me che non posso attribuire all’Altro, in questo qualcosa di me, io sfuggo all’amore, non l’avverto più. Ecco, “Sono i vostri peccati che creano le distanze tra me e voi”. E allora nelle distanze noi ci sentiamo soli, ci sentiamo abbandonati, trascurati e ad un certo momento diciamo: “Dio non c’è, perché Dio non parla, non si fa sentire, non mi dà dei segni, ecc.” No, guarda che Dio ti inonda di segni, sei tu che sei fuori.

Pinuccia: E non soltanto con Dio si creano le distanze ma anche tra gli uomini.

Luigi: Certo, perché la distanza da Dio poi diventa distanza da tutto. Dio è Colui che unisce e senza di Lui non cogliamo più l’anima delle persone, l’anima delle creature. Ecco perché ci sentiamo sempre più soli, sempre più abbandonati. Cioè il mondo ad un certo momento non parla più a noi, non dice più niente. Abbiamo detto prima che la situazione dell’acqua stagnante è  il non essere più attratti da niente. Dio non ci attrae più, ma non ci attraggono più le creature per le quali noi magari abbiamo rinunciato a Dio; perché tutto diventa stagnante. Invece presso Dio tutto diventa vita: ecco, Dio pensa a noi, Dio ci ama, ma anche tutte le creature ci amano, tutto l’universo ci ama. Tutto l’universo diventa parlante per la creatura che ascolta Dio, perché Dio parla in tutto.

Teresa: E noi riusciamo ad amare tutte le creature.

Luigi: Con Dio certo, perché Dio è Colui che fa abitare tutti sotto la stessa tenda. È Dio che fa l’unione. È una beata illusione dirci a vicenda: “Vogliamoci bene, amiamoci, facciamo l’unità!”. È un beato sogno! Non dipende dalla volontà degli uomini. Gesù stesso non dice agli uomini: “Fate l’unità!”, lo dice al Padre che faccia l’unità, per dire: “Guardate che se volete essere uniti dovete guardare a Lui, perché è Lui che vi unisce, non siete voi, non sono le vostre volontà. Voi, con tutte le vostre buone volontà che mettete in gioco, potete solo dire: uniamoci! Infatti più diciamo: uniamoci, più ci dividiamo anche in casa nostra.”

Teresa: Gesù dice anche: “Amatevi gli uni gli altri”.

Luigi: Certo, ma è Lui che li dice: allora le parole che Lui dice diventano forza efficace, diventano virtù cioè è Lui che ci fa capaci di amare, se noi siamo con Lui.  È Lui che ci dà la capacità di amare. Quello che Lui dice, non lo ordina dall’esterno, ma dall’interno.

         Ma cosa vuol dire che Dio ordina dall’interno?

         Che ci dà la possibilità di fare quanto ci ordina, ci dà la possibilità di amare.

         Quando ci dice: “Ama i tuoi nemici”, è un beato sogno dire: “Beh, adesso mi metto ad amare i nemici”. Sì, posso fare l’ipocrita, posso fare il sorrisetto al nemico, ma dentro di me ce l’ho contro di lui. No, le parole che Gesù ci dice sono segni di quello che dall’interno ci fa volere, ci dà la capacità, la possibilità di volere. Per cui se noi siamo con Lui, Lui ci fa desiderare, ci fa voler bene al nemico. È Lui che ce lo fa volere. Come se siamo col Padre, Lui ci unisce: il Padre fa di tutti una cosa sola, non soltanto tra gli uomini, ma con tutte le creature, con tutto l’universo. Diventiamo tutti una cosa sola. È il Padre che fa questo, non è la nostra buona volontà. Per cui se nel Padre, nel Regno di Dio noi ci sentiamo tutti uniti, non ringraziamo la nostra buona volontà e le altre buone volontà che si sono messe d’accordo con noi, ma ringraziamo il Padre che ci ha uniti, non noi.

Ines: Altrimenti sarebbe inutile che il Padre avesse pregato il Padre di farci una cosa sola.

Luigi: Certo, altrimenti avrebbe detto: “Unitevi tra voi”. No, noi non possiamo unirci. Come noi non possiamo camminare sulla stessa strada quando abbiamo mete diverse: uno va a Cuneo e uno a Torino, come fanno a camminare insieme? Seguiamo la stessa meta allora ci troveremo insieme, anche se partiamo da strade diverse. È la meta che ci unisce. Quindi non dobbiamo preoccuparci di camminare insieme. È un errore dirci a vicenda: “Camminiamo insieme”. È il fallimento di tanti matrimoni, di tante unioni. Noi crediamo che basti la buona volontà, che basti unirci per camminare insieme. Ma siccome la vita è un cammino e la strada è sempre determinata dalla meta, se uno ha una meta diversa dall’altro, per quanto dica: “Camminiamo insieme”, dopo un’ora siamo già divisi, perché al primo bivio uno va da una parte e l’altro va dall’altra. Quello che veramente unisce è la meta. Guardiamo allo Spirito: la meta è il Padre. Se guardiamo al Padre il Padre ci unisce. Quindi non dobbiamo far leva sopra la volontà degli uomini, ma dobbiamo imparare a guardare Dio, a cercare Dio e metterlo al centro della nostra vita, cioè a passare attraverso la porta della Città di Dio. Poi Lui fa. Lui fa tutto e opera tutto; Lui non ha difficoltà ad unire le creature e a trasformare tutto l’universo e a guarirci. L’unica difficoltà che Dio può avere è questa: il rifiuto del nostro pensiero.

Noi possiamo rifiutarci, cioè possiamo non riferire a Lui. Siccome ci ha creati consapevoli, coscienti, perché ci ha creati per conoscere Lui (un essere inconsapevole non lo può conoscere), l’essere consapevole può dire: “Io sono”. La condizione per essere consapevole è poter dire: “Io sono” e perciò può mettersi al centro al posto di Dio. Dio creando l’uomo, all’inizio, ha accettato questa possibilità.

Ines: E questo può avvenire anche se l’uomo ha già sperimentato il distacco da Dio?

Luigi: Certo, Dio toglie tutti gli ostacoli, tutti gli errori che l’uomo fa. Ad esempio se dice: “Io faccio conto su questo fiore al posto di Dio”, Dio mi fa appassire il fiore. Ma che si abbia fatto appassire il fiore, non è detto che mi abbia guarito automaticamente. Mi ha tolto quell’occasione per cui io preferivo il fiore a Lui.

Pinuccia: Prima hai detto che l’uomo unito a Dio è amato da tutte le creature, quindi è amato anche da chi lo odia? Perché Gesù ha detto: “Il mondo vi odia”. Però lo prende come un amore anche questo?

Luigi: No, lo prende come amore di Dio, prendendolo dalle mani di Dio. Lo prende come amore non delle singole creature, ma come amore di Dio.

Pinuccia: Come una purificazione che Dio fa su di noi?

Luigi: Sì, e poi anche perché vede proprio che è necessario passare attraverso questo. Dal momento che il mondo è nel male, è necessario che si creino questi urti, sia per la persona stessa che è unita a Dio sia che per l’altra. L’importante è che la persona che è con Dio, prenda tutto dalle mani di Dio. Perché non è che se uno cerca Dio tutti quanti gli battano le mani.

Pinuccia: Allora vede in tutto l’amore di Dio.

Luigi: Vede in tutto l’amore di Dio, per questo vede l’amore di Dio anche in chi lo odia. Si sente amato da tutto e da tutti, anche da chi lo odia. Ad un certo momento uno ama colui che gli pesta il piede. Perché lo ama? Perché vede che Dio lo ha adoperato e dice: “Non è la creatura ma Dio che mi ha mandato a pestare un piede”. Ama quella creatura perché è stata adoperata da Dio per fare una parte malvagia, mentre magari domani sarà un santo. Però dice: “Oggi l’ha adoperata per farle fare quella parte malvagia”. Si arriva anche ad amare Giuda, perché ad un certo momento si capisce che è Dio che gli ha fatto recitare quella parte per me, perché io non diventassi un Giuda. E allora io amo anche Giuda, perché ha fatto una parte infelice, ma l’ha fatta per me, per salvarmi, affinché non cadessi in quell’errore, perché magari credendomi scelto da Dio (Giuda è stato scelto da Dio), non mi illuda dicendo: “Oh, per lo meno io appartengo a Dio, io sono stato scelto da Lui, io mi sono consacrato a Lui”. Il Signore ci può dire: “Guarda che se anche tu ti fossi consacrato a me puoi essere un Giuda, perché tra i miei dodici c’era Giuda”. Allora l’ha messo per me. L’ha messo per ognuno di noi. Allora noi amiamo anche Giuda perché ha recitato una parte per noi. Ma anche lì, le cose assumono tutto un altro aspetto solo se noi riferiamo le cose a Dio; è Dio che opera in tutto per ognuno di noi. E allora se opera in tutto per ognuno di noi, noi riferiamo a Dio ogni cosa che accade e  scarichiamo il fratello. Se scarico il fratello lo amo, perché il fratello è diventato una pedina, un bastone, un mezzo, attraverso il quale Dio mi corregge, mi aiuta, pensa a me.

E uno si sente amato, anche attraverso Giuda, da Dio.

Se invece noi non pensiamo a Dio ma riferiamo all’io, allora vediamo tanti altri nostri io e diciamo: “Quell’altro mi è eccessivamente simpatico e quell’altro invece mi è nemico”. Ecco ma è in quanto siamo sul piano orizzontale: io e gli altri (Dio è messo fuori), allora naturalmente tutto si disfa.

Eligio: Stavo pensando che pur nelle condizioni di malattia, anche nello stadio più avanzato come in questo paralitico che è da 38 anni che aspetta, c’è un qualcosa che la creatura può e deve assolutamente fare. E mi pare che sia quello di riconoscere nella sua autonomia da Dio la causa della sua malattia.

Se arriva a questo punto, trova Gesù alle porte della sua anima. Quindi sostanzialmente questo paralitico invocava Dio.

Luigi: Certo.

Eligio: Ma non è neanche lui che gli dice: “Buttami nella piscina”, ma è Lui che lo guarisce. Quindi non è tanto con le nostre iniziative o capacità che possiamo rimediare ad uno stato di malattia, ma possiamo soltanto risalire alla causa della malattia, riconoscendo la centralità del nostro io come causa della stessa. Dopo di che troviamo Gesù che ci conduce.

Luigi: Io direi che nemmeno questo è possibile, riconoscere cioè la causa, perché riconoscere la causa è già luce e grazia.

Eligio: E allora sarebbe automatico l’intervento di Gesù?

Luigi: L’intervento di Gesù è automatico.

Eligio: Ma non ha un limite nella mia libertà l’intervento di Gesù?

Luigi: Sì, certo, ma l’intervento di Gesù è automatico non nel senso che mi guarisce, ma nel senso che arriva a me: cioè l’iniziativa è di Dio. È Dio che viene.

Eligio: Ma io sono immerso nelle iniziative di Dio. Dio mi precede, prima che io rientri nel mondo.

Luigi: Quindi anche il capire la fonte della malattia è già grazia di Dio, è già luce di Dio, cioè di richiede già una certa appartenenza a Dio.

Eligio: Però ci è facile attribuire la malattia alla cattiveria degli altri, al caso, alle circostanze, ecc.

Luigi: Certo, e noi facciamo così.

Eligio: E no, io invece devo riconoscere nell’aver posto al centro del mio vivere il pensiero di me la vera causa della mia malattia. Solo a quel punto lì sento Gesù alle porte della mia anima.

Luigi: Gesù arriva quando ci ha messo in una situazione d’impotenza, almeno, stando alla scena qui: abbiamo quest’uomo che ormai è ridotto all’impotenza, non può più fare niente. E nota che quando Gesù (lo vedremo poi) gli dirà: “Vuoi essere guarito?”, lui non dice mica: “Io spero in Dio, ho fatto male, ho fatto conto su altro!”, anzi lui conferma ancora che fa conto sugli uomini perché dice: “Non c’è nessuno che mi butti!”, egli non riconosce il Cristo. Così anche quando guarirà il cieco nato, Gesù in un primo tempo lo guarisce senza essere riconosciuto; poi lo incontra in un secondo tempo, quando gli altri lo hanno fatto fuori, l’hanno cacciato. Allora, cacciato, lo incontra e gli dice: “Credi tu nel Figlio dell’uomo?”, “E chi è?”, “Colui che parla con te”. Ecco, allora è disponibile, ma è disponibile in quanto ha perso gli altri.

Così abbiamo questa situazione di vuoto in sostanza, di isolamento, perché io faccio conto su altro e più sono nell’errore e più faccio conto su altro. Per cui c’è il rischio (ecco che c’è una parte che dipende dalla creatura), che la creatura si intestardisca talmente nel suo errore da rifiutare altro aiuto, anche se non ha più nessuna altra speranza. Per questo dico che non viene automatica la guarigione, perché richiede che la creatura perlomeno si apra a Colui che le viene incontro e che gli dice: “Vuoi essere guarito?”. Lo vedremo in seguito quando il Signore gli dirà: “Vuoi?”: ecco la partecipazione! Il Signore vuole che la creatura sia consapevole di quello che le vuole dare: “Vuoi?”.

Eligio: Ma deve anche avere coscienza della causa che gli ha prodotto il male.

Luigi: La coscienza della causa è dono di grazia, e presuppone la luce.

Eligio: Indubbiamente.

Luigi: Ma se sono malato la luce non ce l’ho.

Ines: Ma rispondendo così quel malato ha poi mica dimostrato tanta speranza in Gesù.

Luigi: No, non aveva speranza. Ma il Signore arriva a noi proprio quando non abbiamo più alcuna speranza, quando siamo ridotti al lastrico, a zero. È lì che abbiamo la sorpresa.

Teresa: Ma quando questo paralitico non aveva nessuna speranza in sé, perché era paralitico e sapeva che non poteva muoversi.

Luigi: Certo, è lì la situazione: l’impotenza. Dio ci riduce all’impotenza.

Teresa: Però se ha continuato a stare lì tanti anni qualche speranza l’aveva ancora che qualcuno l’avrebbe aiutato, se no si sarebbe fatto portare via.

Luigi: Quando Gesù gli chiederà: “Vuoi essere guarito?” lui cosa risponde? “Signore io non ho nessuno che mi butti”. Quasi  dire: “Se mi vuoi buttare tu!”; ma bisogna aspettare il movimento dell’acqua: io non ho nessuno che mi butti quando l’acqua è mossa”. Cosa rivela in questo: “Non ho nessuno che mi butti”?, che ormai ha perso tutto!

Eligio: Ma è implicita in lui una richiesta di guarigione certamente. Come quando uno va dal medico e gli dice: “Non c’è più niente che mi faccia bene” si aspetta qualcosa dal medico che gli faccia bene.

Luigi: Sì, implicito è questo, che il Signore gli aveva chiesto: “Vuoi?”, vuol dire che richiede questa partecipazione, ma non in quanto l’altro abbia riconosciuto la causa dei suoi mali. Perché se lui riconoscesse la causa dei suoi mali, è libero, è sano.

Teresa: Il fatto che si sia fermato tanto tempo lì vicino alla salvezza….

Luigi: Noi siamo sempre vicino alla salvezza. Ho detto però che se non entriamo quando siamo vicini alla porta, a molto maggior ragione, non ce la facciamo quando siamo malati. Siamo sempre vicini alla salvezza perché il Regno di Dio è vicino.

E vicino cosa vuol dire? Che è accessibile. Però sono gli arresti che portiamo dentro di noi, (perché noi diventiamo figli delle nostre opere) che ci impediscono di entrare. E se noi abbiamo rifiutato di entrare quando tutto ci favoriva l’entrata, a molto maggior ragione rifiutiamo ora. Non ce la facciamo, perché come uno cerca di buttarsi, immediatamente sorge un impedimento: “Io adesso non posso, ho i buoi, ho la casa, ho la moglie, ho i campi, non posso; ho altro che preme su di me e mi impedisce di buttarmi; mi butterò dopo!”. Ma ormai un altro si è già buttato, quindi la mia guarigione non arriva. Ho delle remore con me. E quali sono queste remore? Sono proprio quelle cose su cui io ho fatto conto per non far conto su Dio, per cui io ho fatto leva su altro, sperando di ricevere da questo altro più vita, perché se non ho aderito a Dio è perché ho ritenuto che fosse più valido per me altro. È quest’altro che sorge, (quando io cerco di buttarmi per guarire), per impedirmi di guarire, di buttarmi. Me lo impedisce. Ed è per questo che uno deve essere ridotto all’impotenza. D’altronde per poter riconoscere l’Onnipotente io devo essere ridotto all’impotenza, perché fintanto che io faccio leva su altro, non posso aderire all’Onnipotente: ho altre potenze in me.

Cina: Penso che il deserto fiorirà.

Luigi: Giusto, il deserto fiorirà; ma bisogna che sia deserto, perché se si crede giardino prima deve essere ridotto a deserto.

Eligio: Pensavo ancora: quale atteggiamento deve prendere questo paralitico per avere la guarigione? Perché ci sarà pure una risposta positiva; non è un fatto passivo: perché Gesù non ci guarisce contro la nostra volontà o mentre noi pensiamo ad altro o siamo indifferenti alla nostra malattia.

Luigi: Contro la nostra volontà non ci guarisce. Infatti Lui chiede: “Vuoi essere guarito?”.

Eligio: Quindi ci sarà una partecipazione.

Luigi: La partecipazione sta lì: “Vuoi essere guarito?”.

Ines: Però il malato la risposta non la dà.

Luigi: La risposta del malato è: “Io non ho nessuno”.

Eligio: Dire non ho nessuno è come dire: “Voglio essere guarito!”.

Luigi: Qui siamo nella stessa situazione di quel funzionario che ha il Figlio ammalato e va da Gesù e gli dice: “Signore, discendi a guarire mio Figlio”, cioè volendo che scenda, fa conto sull’uomo, sul taumaturgo, su uno che lo possa guarire, purché scenda. Ma Gesù non scende, perché avrebbe approvato la sua mancanza di fede. Lui aveva fede nel medico: “Vieni, imponi le tue mani, guariscimi il Figlio”. E Gesù per guarirgli il Figlio prima guarisce lui: “Va, tuo Figlio vive”, gli dice la parola. Cioè gli crea le condizioni interiori per ricevere la vita. Allora il funzionario, ricevendo la vita dentro di sé la Parola di Dio, perché credette, ha trovato il figlio guarito. Ha aperto il suo cuore, la sua anima alla vita e allora ha trovato la sua vita fuori. Allora anche il figlio guarisce. Il che vuol dire che il figlio era malato perché lui era malato. Cioè, il padre era malato interiormente. E allora il figlio fuori era malato perché il padre lo era dentro. Il Signore fa fuori di noi lo specchio della nostra anima, per curare noi. E così abbiamo la stessa situazione qui, con questo paralitico. Qui abbiamo Gesù che dice: “Vuoi?”. Perché chiede questo? perché il Signore non opera per atti magici, ma chiede l’adesione, affinché l’uomo sappia chi è che lo guarisce. E l’altro gli dice in sostanza la stessa cosa del funzionario: “Signore, io non ho nessuno che mi butti!”. Il funzionario che dice: “Vieni!”, dice la stessa cosa che dice il paralitico: “Ho bisogno di uno”, perché l’uno e l’altro fanno conto sull’uomo. E Gesù anche con il paralitico interviene con la parola. Lo guarisce con la Parola, come ha guarito il funzionario con la parola.

Pinuccia: Ma il funzionario è partito sulla parola, ha aderito. E qui non si vede l’uomo che parte sulla parola.

Luigi: Sì, è partito, perché ha preso il suo giaciglio e se l’è portato in giorno di sabato.

Eligio: Comunque vorrei vedere in chiave personale questo dialogo con Gesù, Gesù ci dice: “Vuoi essere guarito?”, gli rispondo di sì e Lui mi guarisce. Con ciò automaticamente non resto sempre guarito, potrei di nuovo diventare ammalato.

Luigi: Sì.

Eligio: E allora che cosa fa la creatura?

Luigi: Debbo seguire quello che Lui mi dice. Perché  se Lui mi dice: “Vuoi essere guarito?” chiede la mia adesione. L’iniziativa è di Dio. E la risposta sta in questo: che la creatura si rende disponibile ad aderire alla parola che l’altro gli dice.

Eligio: Cioè la ragione di questa domanda (che mi chiedo sovente) è questa: che cosa devo fare? Lo so che il più delle volte la risposta è un non fare. Ma non è concepibile per la creatura uno stato di vuoto soprattutto mentale. Il non far niente non consiste in questo vuoto, vero?

Luigi: No, non è un vuoto. E allora in che cosa consiste questo non fare? Che è poi il vero fare, da parte della creatura? La creatura non deve far conto su altro che su Dio e quindi mettersi a disposizione per la parola che Dio le dice, perché Dio parla. Dio non è uno che ci inviti a non fare niente, ma a camminare secondo la sua Parola, nella sua Parola.

Eligio: Lui mi dice: “Vuoi essere guarito?”, io rispondo di sì, e allora da quel momento….

Luigi: Prendi il tuo letto e cammina: e poi ti accorgerai che cosa succede camminando col tuo letto, perché, per ubbidire alla parola, ad un certo momento, tutto l’universo scoppia in aria; perché la parola che dà vita mette tutto l’universo in movimento. Ma è questa parola incarnata. Vedi, il funzionario ha incarnato la parola del Cristo. Voleva che il Cristo (c’era in lui la pretesa) fosse sceso con lui a guarirgli il figlio. Ma il Cristo gli dice una parola: “Và, tuo Figlio vive”. E lui ha incarnato la parola, e la parola incarnata, ha portato la vita.

E qui è lo stesso: “Prendi il tuo lettuccio e cammina”.

Ha incarnato la parola: ha preso il suo letto e ha camminato e lì ha incominciato a far sorgere un vespaio perché camminava in un giorno proibito col suo letto addosso.

E allora era in conflitto con la legge. Vedi ad un certo momento cosa succede?

Tutto il mondo entra in conflitto con lui.

Ma tutto il mondo che entra in conflitto con lui lo mette in vita, gli fa affermare, testimoniare la vita e lo fa diventare sempre più vivo perché incomincerà a dialogare, incomincerà ad affermare lo Spirito, incomincerà a credere: è tutta una vita nuova che cresce.

Ma tutto da che cosa è partito? Dalla Parola di Gesù.

Eligio: Dall’aver incarnato la sua parola.

Luigi: Sì, dall’aver incarnato la parola. È sempre la parola che semina vita.

Damilano: Sarebbe come dire: prendi il tuo peso, il lavoro che ti viene presentato?

Luigi: O che Dio ti presenta. Però se si incomincia a camminare sulla parola di Dio, non si approva più niente degli argomenti del mondo. Per cui quando gli altri gli diranno: “Buttalo via, tu non puoi mica portare il letto, è sabato!”, lui ubbidisce a Gesù. Non ubbidisce più. E come mai non ubbidisce? Non ubbidisce all’autorità del mondo, addirittura ai sacerdoti, ai farisei, ma risponde: “Colui che  mi ha guarito mi ha detto: prendi il tuo lettuccio e cammina. Ed io cammino!”. Ecco, vedi? Ormai appartiene ad un Altro, non appartiene più al mondo! È lì la meraviglia operata dal Cristo: non appartiene più al mondo!

Rina: Ma Eligio forse voleva qualcosa di più pratico.

Eligio: No, perché guarda che è pratico “incarnare la parola”: supero positivamente il mio io non tanto in quanto lo voglio, ma in quanto faccio mia la parola di Gesù.

Rina: Ma per passare la porta delle pecore ci vuole questo superamento.

Eligio: Sì, ma proprio nell’incarnare la Parola c’è il superamento più che nel dire: voglio superarmi; perché ad un certo punto affermerei il mio io dicendo che voglio superarmi.

Luigi: Questo episodio io lo vedo come la continuazione dell’episodio precedente del funzionario. È sulla stessa linea. Lo approfondisce di più, ma è sulla stessa linea, nello stesso Spirito. Per cui Dio guarisce, dà vita con la sua parola che si incarna nell’uomo, se l’uomo vuole. Intanto l’uomo non si rendeva conto cosa vuol dire essere guarito.

Rina: Questa Parola tu riesci a vederla?

Eligio: Quando sto attento a Dio sì, avendo presente Gesù come modello di vita.

Luigi: E poi c’è questo. Se incarniamo la parola, uno cammina appartenendo ad un Altro, non più al mondo, per cui verso il mondo si comporta in un modo del tutto diverso, non può più condividere il mondo, non si sente più del mondo, appartiene ad un Altro, appartiene ad un grande Amore, in modo che ha l’anima che canta di un amore e non appartiene più a nessuno e si comporta verso tutti in un modo molto, molto diverso.

Eligio: È efficacissimo proprio il termine “incarnare la parola”. Se mi dice: “Và”, vado; se mi dice: “Vieni”, vengo. Cioè il tradurla in vita.

Luigi: Cioè il buttarsi nella parola udita. Ecco la piscina, questo è incarnare.

Eligio: In questo senso intendevo la risposta come iniziativa della creatura; arriva la sollecitazione: “Va”, vado: cioè una risposta immediata, l’incarnazione della parola.

Luigi: Sì, sì, è l’incarnazione della parola.

Teresa: È anche un muoverci da parte nostra. Ad esempio il Signore mi fa capire ciò che è più importante e io parto.

Luigi: Sì, giusto. Quando Gesù dice: “Non preoccuparti del mangiare, del vestire…. Cerca prima di tutto il Regno di Dio”, ecco, lì mi fa una proposta e se incarno la sua parola, accetto la sua parola, incomincio a partire su questo “prima di tutto”. Il che vuol dire che incomincio ad escludere il resto. Ecco che uno nasce da una parola: la parola diventa motivo di nascita, una vita nuova. Quando mi dice: “Non discutere con tuo fratello, se vuol portarti via l’abito tu cedigli anche il soprabito”, mi offre, mi fa una proposta. Bisogna vedere ora se io parto su quella parola. Ma se parto su quella parola, allora tutto il mondo cambia e il deserto fiorisce. È lì la novità, la bellezza della vita. Lui la sua Parola me la fa arrivare comunque. Me la fa arrivare quando arrivo sano alla porta di Gerusalemme.

Io fallisco? Me la fa arrivare dopo avermi portato nella situazione di impotenza.

Il Signore dice: “Passeranno i cieli e la terra, ma le mie parole non passeranno”.

Il che vuol dire che le sue parole Lui me le fa arrivare, comunque sia. E opera in tutto perché io possa essere nella situazione ideale per accoglierla. Non è detto però che automaticamente io le accolga, no, perché Lui stesso dice: “Vuoi?”. Ci vuole questa adesione: l’adesione al tutto di Dio e al niente nostro. Dio ci dà questa possibilità: di aderire al suo tutto.

Eligio: Quindi quello che dobbiamo fare è essere aperti, aderire, cercare di capire quello che Lui ci significa con i suoi segni.

Luigi: Sì.

Pinuccia: Cioè approfondire la parola: si può dire che “incarnare la parola” significa approfondirla?

Luigi: …..ma siccome noi approfondiamo lentamente, il Signore ci blocca attorno con un mucchio di tentazioni, cioè ci mette tutto un mondo di tentazioni contrarie: ora di fronte a queste tentazioni, noi dobbiamo resistere, dobbiamo rispondere. Come la tentazione di Gesù: “Buttati, dì che queste pietre diventino pane”. No, lo Spirito di Dio mi chiama dall’interno e mi costringe ad approfondire di più, e Dio muove tutto l’esterno affinché io corra di più.

Noi alla conclusione,  se il Signore ci darà la grazia di arrivare alla conclusione, ringrazieremo Dio per tutto ed in tutto, perché Lui ci ha creato, ha mosso il nostro interno, ha mosso tutto il mondo esterno per portarci a quella conclusione. Loderemo Dio per tutto. “L’anima mia magnifica il Signore”, eternamente lo si dirà. Ma non a parole, ma con piena consapevolezza di quello che significa: “L’anima mia magnifica il Signore”. E non magnificherà altro perché è stato un dono di misericordia, di meraviglie, ecc. “Lui non ricorda le mie pene passate”, ecco, “Lui vuole che io lo chiami amico”. È bellissimo questo! Ed effettivamente è così: l’anima riconosce che è stato tutto dono di Dio, tutto è stato opera sua. È lì che veramente la creatura loda Dio. Noi diciamo: “loderemo”. Come loderemo? La creatura loda proprio perché ha questa riconoscenza: riconosce questa verità, quindi non attribuisce niente ad altro. “Signore, è stato tutto opera tua!”. È una meraviglia l’opera tua!

Damilano: Mi colpisce pensare che Dio che è Onnipotente ci lascia liberi, ci rispetta.

Luigi: Guarda che soltanto Colui che è Onnipotente può lasciare liberi gli altri. Noi siccome siamo impotenti, strumentalizziamo gli altri e li rendiamo schiavi: proprio perché siamo noi schiavi e impotenti. Se noi fossimo onnipotenti, lasceremmo perfettamente liberi gli altri. È la nostra debolezza che rende schiavi gli altri: non è possibile per noi rispettare gli altri perché abbiamo bisogno degli altri. È solo l’Onnipotente che può concedersi questo “lusso” di lasciar liberi perfettamente gli altri. E più noi ci avviciniamo al Signore, più partecipiamo di questo tesoro di Onnipotenza, lasciamo liberi gli altri, non strumentalizziamo più nessuno. Ecco allora la legge dell’amore che comincia ad operare.

Rina: Quindi il Signore non ci giudicherà tanto sul male che abbiamo compiuto, ma su quell’amore che non abbiamo dato.

Luigi: Sì, sulle omissioni, sull’amore non dato. Anche Teilhard de Chardin  dice che il vero male sta nella disunione da Dio: il non riportare a Dio è il vero male. D’altronde è logico. Invece noi chiamiamo male il rubare, l’atto impuro, l’uccidere, ecc. No, tutto questo ti piomba addosso anche se tu fossi un santo, se non ti mantieni unito a Dio. Perché queste sono tutte lezioni di Dio. È logico, se viene meno la vita ci abbarbichiamo a tutto il resto, e allora dobbiamo fare la guerra con tutti, perché tutti cercano di portarci via qualcosa che per noi è vitale. Quindi il vero male sta nel trascurare Dio, nel dimenticare Dio, nel non amare Dio, cioè è un difetto d’amore.

Pinuccia: Teilhard de Chardin scrivendo il suo libro “La messa sul mondo”, intendeva la Messa come questo riferire tutto a Dio?

Luigi: Sì, ma il libro è venuto fuori dal fatto che un giorno lui, trovandosi in un deserto senza niente, ha celebrato la Messa lì, senza altare e senza mezzi.

Teresa: Se noi fossimo veramente uniti a Dio non solo non ce la prenderemmo a male con chi ci ruba, ma anzi ringrazieremmo chi ci spoglia.

Luigi: Sì, perché ci aiuta. È un aiuto che Dio ci dà, perché togliendoci tante cose, ci rende più disponibili. “Beati i poveri dello Spirito”: la creatura più è disponibile per Dio e più è nella vita. Perché la creatura si ammala e diventa impotente? Perché non riesce ad essere disponibile. Dio è infinito e richiede da parte della creatura una disponibilità infinita. La creatura deve combaciare con l’infinito di Dio per poter vivere con Dio.

Ma ci vuole una disponibilità totale al pensiero di Dio. Ora è Dio che fa combaciare con il Suo Infinito la sua creatura. È Dio che lo fa se la creatura si lascia fare. Noi passiamo da un nulla all’infinito. Partiamo da un cuore grettissimo, piccolissimo, che si abbarbica a tutto; ma se la creatura si lascia fare, fa crescere questo amore all’infinito, fino a combaciare con l’Infinito di Dio. Per cui in noi c’è una potenza immensa nel pensiero dell’io, perché è un io che è chiamato ad espandersi all’infinito per combaciare con l’Assoluto, per diventare assoluto.

Però c’è un rischio altrettanto grosso: quello di affermarci assoluti. In noi c’è una potenza che è più forte di tutte le bombe atomiche del mondo: possiamo distruggere tutto e distruggeremo tutto nel pensiero dell’io, appunto perché il nostro io è fatto, è creato a immagine e somiglianza di Dio, fatto appunto per combaciare con Dio, per specchiarsi in Dio; quindi abbiamo un’anima che è fatta per diventare infinita come Dio, eterna come Dio. Allora più il Signore ci toglie degli ostacoli e più noi dovremmo ringraziare il Signore, perché espande l’anima; io ero abbarbicato a quello e il Signore me l’ha portato via e intanto la mia anima si è allargata, l’ha fatta crescere. Per cui quello che a noi sembra sia un danno, agli occhi di Dio invece è una grazia.

Cina: Io dico che 38 anni sono lunghi…

Luigi: Per arrivare a toccare il fondo.

Eligio: Hai detto bene che la natura quando è in ordine è in silenzio…

Luigi: Sì, è una meraviglia il silenzio che c’è nel Regno di Dio. Pensiamo semplicemente al silenzio che c’è nel nostro corpo quando sta bene. È una meraviglia di ordine, allora il nostro pensiero è libero. Ecco la meraviglia del corpo quando sta bene: anche questo è segno di Dio, allora possiamo pensare, applicarci, fare, parlare, ecc., il nostro corpo serve fedelmente e ci viene dietro.

Eligio: È nella testa che è difficile il silenzio.

Luigi: La testa per essere nel silenzio deve essere con Uno solo, con Dio, e allora lì abbiamo il silenzio di tutto.

Eligio: E invece il più delle volte è moltitudine…

Luigi: E poi il più delle volte questo rumore della mente si ripercuote sul corpo e allora il corpo comincia a far rumore, a farsi sentire e allora tutto diventa disordinato: le creature si fanno sentire e avviene tutto quello che abbiamo detto prima.

Eligio: Sono malattie psicosomatiche.

Luigi: Sì, perché si riflette anche tutto il mondo, tutte le creature. Tutte le cose dovremmo accoglierle da Dio e allora c’è unità di pensiero.

Eligio: Hai detto molto bene che se c’è unità di pensiero, anche il corpo ha una risposta unitaria.

Pinuccia: Non è sempre detto, perché anche una persona santa può essere malata.

Luigi: Certo, ma lì abbiamo un’altra funzione: quella di spettacolo per gli altri, perché si partecipa all’azione redentrice di Dio. Comunque però la persona che spiritualmente è unita a Dio, anche nella malattia, ha un silenzio tutto suo particolare anche se sente il dolore; perché se uno accetta tutto dalle mani di Dio, quindi anche il suo dolore, il suo male, rientra nell’ordine. L’importante è sempre l’unione con Dio. Il principio del bene è questo, ed è anche il principio dell’armonia. Per cui quel dolore, quella malattia, rientra nella volontà di Dio, la si accetta dalle mani di Dio, quindi rientra nell’ordine: cioè uno si sente pensato da Dio, si sente amato. L’importante è non sentirci soli, perché la solitudine siamo noi che ce la creiamo.

Pinuccia: Magari non sempre ci è dato di approfondire o elaborare qualche pensiero, però ci è sempre dato di pensare a Dio?

Luigi: Sì; perché il pensiero di Dio è più forte di tutte le creature e di tutti i nostri mali.

Pinuccia: Anche dei mali più lancinanti?

Luigi: Certo, anzi quante volte, proprio nei dolori lancinanti uno invoca il Signore, lo prega: l’anima non si stacca mai dal Signore.

Pinuccia: E la vera unione a Dio è questa? Cioè sta nel pensare a Lui?

Luigi: È nel pensare a Lui. È un’unione attuale proprio nel senso che è consapevole. Richiede la consapevolezza, quindi richiede il pensiero. Il Signore chiede soltanto: “Pensa a me e poi io penso a tutto”. E proprio quello che noi possiamo sottrarre e che più facilmente sottraiamo è il pensiero.

Pinuccia: È l’unica cosa perché il resto se lo prende tutto.

Luigi: Certo, il pensiero è l’unica cosa che possiamo sottrarre a Dio.

Teresa: Ma magari uno vorrebbe stare, però…..

Luigi: Ma anche queste sono lezioni del Signore, per farci toccare con mano la nostra debolezza, per farci sperimentare il nostro nulla e quindi il bisogno, quando abbiamo un po’ di tempo di approfondire. Perché noi abbiamo la possibilità di restare nella misura in cui approfondiamo; è la profondità che ci fa restare. Se noi siamo superficiali, ce lo possiamo sognare di restare con Dio! La nostra superficialità ci condanna. Ma come mai sei superficiale? Perché quando il Signore ti dava la possibilità di stare con lui, tu andavi altrove, e allora ti sei condannato alla superficialità. Con Lui si resta in quanto si approfondisce. Il restare è una conseguenza dell’approfondimento. Come il camminare insieme è una conseguenza della stessa meta, così il permanere è una conseguenza della profondità. Noi in superficialità siamo instabili, volubili, siamo trascinati a destra e a sinistra….

Teresa: Si approfondisce sui libri, ma si può anche approfondire…

Luigi: No, si approfondisce nell’anima non sui libri. Con l’anima anche la povera vecchietta analfabeta approfondisce il Signore, si mantiene col Signore.

Pinuccia: Se raccoglie..

Luigi: Ma certo…

Pinuccia: L’approfondimento è raccogliere?

Luigi: Sì, raccogliere. Ed è il Signore che offre mille spunti, perché Lui parla. Le parole del Vangelo Lui ce le mette dentro, anche se non siamo capaci di leggere. Ma se siamo capaci di leggere e preferiamo leggere i romanzi, allora il Signore ci fa toccare con mano la nostra superficialità. Il Signore ci dice: “Quando il ti ho dato il tempo per essere fedele, tu dove sei andato?”. Dimostriamo che il nostro cuore è altrove e allora indubbiamente riveliamo la nostra superficialità.