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…perché l’angelo del Signore scendeva in tempo determinato nella piscina e l’acqua si agitava, allora il primo che si immergeva dopo l’agitazione dell’acqua era guarito dal suo male qualunque fosse”. Gv 5 Vs 4


Titolo: Dio ci porta nel deserto per parlarci.


Argomenti: L’incapacità di udire la parola che esce dalla bocca di Dio. Abraham Heschel.  Le due opere di Dio: attrazione (A.T.) e Parola (N.T.). L’interesse determina l’attrazione. La solitudine del deserto: condizione per poter ascoltare Dio. Il tralcio e la vite. L’acqua si agita quando siamo portati a pensare Dio. L’ascolto e il silenzio. Costretti a pensare Dio. Dio unica cosa necessaria. Il desiderio non basta. Credere alla Parola, vuol dire rischiare. La realtà è Dio che parla in tutto. Partire sulla Parola di Dio, Il prima di tutto. Per vincere il mondo bisogna rischiare. L’io: ottimo servo e pessimo padrone. L’amore è personale. La conoscenza reciproca. “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro”. L’eternità è un “tutto presente.  La conoscenza di Dio è diretta, personale e incomunicabile. L’essenza del messaggio di Cristo. La stabilità è una conseguenza della profondità. La cultura e la conoscenza.La fede e il prossimo.


 

12/Febbraio/1978


Pensieri tratti dalla conversazione:

Eligio: Pensavo al significato del “determinato”, cioè l’angelo di Dio che scende in un tempo determinato. Dio è indeterminato, cioè non condizionato da quanto di temporale, contingente condiziona il nostro operare, quindi mi è difficile pensare l’operare di Dio in tempo determinato. Dio è sempre presente ed è tutto il suo infinito presente in ogni punto: ora pensare che il suo operare sia determinato, pare escludere il suo operare e il suo dialogare con la creatura in un altro momento che non è quello determinato. Quindi mi pare che sfugga qualcosa da questo “tutto” nel dialogare di Dio con la creatura.

Luigi: È l’argomento di Amalia di domenica scorsa, che non riusciva a mettere assieme Dio che parla in tutto e Dio che parla soltanto qualche volta.

Infatti la volta scorsa ci siamo fermati su: “in attesa del movimento dell’acqua”.

Dio parla in tutto, perché opera in tutto. Se Dio opera in tutto, tutto è parola di Dio e quindi la parola è universale e allora si tratta di chiederci come mai se Dio parla in tutto, noi invece lo udiamo solo qualche volta.

L’acqua che si agita significa la parola di Dio, poiché è la parola di Dio che dà vita. Quindi quell’angelo che scende ad agitare l’acqua rappresenta la parola di Dio che viene tra noi.

Però la parola di Dio è in tutto e come mai invece soltanto in un tempo determinato, di quando in quando, c’era questo agitarsi dell’acqua per cui il primo che si fosse buttato nell’acqua era guarito?

Di qui questo concetto di tempo determinato per la parola di Dio. È un argomento da approfondire questa sera. Ne abbiamo già accennato quando abbiamo parlato dell’ora settima. L’ora settima era un’ora determinata in cui Gesù aveva parlato.

Eligio: Determinata per la creatura.

Luigi: Sì, determinata per la creatura.

Eligio: Allora il concetto di determinato si riferisce alla creatura?

Luigi: Certo.

Pinuccia: Come abbiamo visto domenica scorsa: “l’intermittenza dell’agitarsi dell’acqua” siamo noi che siamo intermittenti nell’udire Dio che parla a noi, ma Lui non è intermittente nella sua vita e nella sua parola verso di noi.

Luigi: Sì, abbiamo fatto il confronto tra “sorgente di acqua viva” e “acqua stagnante”.

L’acqua viva, cioè la parola di Dio, è nel Verbo di Dio: “L’uomo vive di ogni parola che procede dalla bocca di Dio”.

Ora per poter ascoltare la parola di Dio, bisogna essere con Dio. Se non si è capaci a restare con Dio, si scende verso l’assenza della parola di Dio; cioè Dio parla in tutto ma noi non lo sentiamo in niente: allora abbiamo l’acqua stagnante, la piscina d’acqua ferma, che non dà vita e non ci purifica e non ci lava perché è la parola di Dio che ci purifica e ci lava; ma la parola di Dio ascoltata dalla “bocca” di Dio. Ecco perché non bisogna mai staccare la parola di Dio dalla Presenza di Dio, dall’Essere di Dio.

Per questo Gesù dice: “L’uomo vive di ogni parola che procede dalla bocca di Dio”, perché se non teniamo presente Dio, rivestiamo tutte le opere di Dio, che sono parole di Dio, del pensiero del nostro io, dei nostri interessi, delle nostre intenzioni e non ascoltiamo più la parola di Dio. Oppure la rivestiamo delle intenzioni degli uomini e allora vediamo gli uomini e non vediamo più Dio; vediamo il nostro io, vediamo le preoccupazioni e non vediamo più Dio.

Pinuccia: Neppure più le sue stesse parole non le capiamo allora.

Luigi: No, perché l’intelligenza delle sue parole è presso Dio, è in Dio.

E allora noi abbiamo nell’operare di Dio due operazioni:

La prima operazione è quella di richiamarci all’attenzione di Lui, per intendere, per ascoltare le sue parole.

Dio in un primo tempo opera per liberarci dai nostri rumori, dalle nostre distrazioni e renderci attenti a Lui; è questa l’operazione significata dall’Antico Testamento, dal battesimo di giustizia del Giovanni Battista, attraverso la quale Dio ci convince che il nostro io non deve essere al centro, che il nostro io non è Dio e che quindi non dobbiamo mettere il nostro io come punto di riferimento, ma Dio. Dio vuole aiutarci a fare questo passaggio dall’io a Dio: mettere prima di tutto Dio. Soltanto mettendo Dio prima di tutto diamo fatto capaci di intendere, di ascoltare le parole di Dio. “Le mie pecore ascoltano le mie parole”. Ma chi non è pecora di Dio non ascolta le sue parole.

Quindi il Signore prima di tutto opera per attrarci nel pensiero di sé, per renderci attenti a Lui, alla sua esistenza, alla sua Verità, alla sua Presenza. Attenti a Lui, siamo fatti capaci di ascoltare e di intendere. Ma se noi non siamo attratti da Dio, non ascoltiamo le parole di Dio; noi ascoltiamo le parole di altri: “Avete un altro padre e quindi ascoltate altre parole, non ascoltate le mie parole: le mie parole non possono penetrare in voi”. Chi ci dà la possibilità di accogliere le parole di Dio è Dio stesso; per cui se tu non intendi parlare di Dio, devi guardare Dio, devi prima convincerti di Dio. Soltanto guardando Dio ascolterai le parole di Dio. Ognuno di noi ascolta le parole di colui che porta nel cuore, di colui al quale guarda: “Dov’è il tuo tesoro, ivi è il tuo cuore” e lì è anche il tuo ascolto. Ecco perché noi corriamo il rischio di chiuderci, se non mettiamo Dio prima di tutto; eleggendo un tesoro diverso da Dio, eleggiamo un padre per noi quindi condizioniamo il nostro cuore e il nostro ascolto, quindi ci chiudiamo ad ogni altra parola. Allora anche se leggiamo le parole del Vangelo, non le intendiamo o le fraintendiamo o le intendiamo come delle astrazioni, come cose lontane, come cose da intendere secondo il nostro buon senso, le nostre ragioni, ma non entriamo nello Spirito. Chi ci dà la possibilità di entrare nello Spirito è lo Spirito stesso di Dio. Allora prima di tutto bisogna passare dallo Spirito del mondo allo Spirito di Dio. Soltanto facendo questo passaggio diventiamo capaci di intendere le parole di Dio. Per questo Dio opera nel nostro mondo per convertirci da tutte le nostre distrazioni, quindi da tutti i nostri interessi diversi nel mondo, per portarci nel deserto. È la lezione del Vangelo di stamattina e anche di domenica prossima, la Trasfigurazione del Tabor: li porta in alto. Ecco, Dio porta in alto, perché? Per introdurli nella sua Verità. Ora, questo portare in alto, portare nel deserto è la stessa cosa: sostanzialmente crea una distanza tra la nostra anima e il mondo, tra la nostra anima e gli altri argomenti e le altre presenze, ci isola: “Ti condurrò nel deserto e là parlerò al tuo cuore”.

Ecco, (la seconda operazione):

-                            Dio per parlarci ci conduce nel deserto.

E cos’è questo deserto? Non più attrazione di altro.

Nel deserto c’è la solitudine: l’anima è messa in solitudine con Dio.

Qui allora possiamo arrivare a capire quell’intermittenza.

Cioè il deserto è la condizione perché l’anima sia fatta capace di ascoltare la parola di Dio. Esso è il culmine di tutta quell’opera precedente di Dio attraverso la quale ci conduce ad ascoltare la sua parola. Può essere un dolore, una disgrazia, una morte, una rovina. Se questo deserto è il culmine di tutta l’opera di Dio, avviene di quando in quando. La nostra normalità, che è distrazione da Dio, attraverso l’opera di Dio, viene a poco per colta riportata, messa a contatto con l’argomento di Dio, che è l’evento straordinario. Non è detto che, messi a contatto con l’argomento di Dio, non ci restiamo, però Dio opera per portarci su questo orizzonte, su questa soglia: la porta di Gerusalemme.

Eligio: Udendo l’aggettivo “determinato”, vuol dirci che l’anima non può restare in  permanenza dinanzi alla rivelazione di Dio a tempo pieno?

Luigi: Tutta la difficoltà nostra è che non siamo capaci a restare. Ed è per questo che  c’è quest’acqua che si agita di quando in quando.

Eligio: Non è mica tanto incoraggiante.

Luigi: No, perché ora qui abbiamo anche l’altro concetto: che chi si butta per primo viene guarito da ogni suo male. L’incapacità a permanere è un nostro male. Ma forse è bene fare una ricapitolazione per Eligio che è mancato le volte scorse. Bisogna tener presente che ogni scena del Vangelo è carica di significato per la nostra vita personale. Ora qui ci troviamo a Gerusalemme. Gesù, andando verso la Giudea, si viene a trovare nelle vicinanze di Gerusalemme, alla porta delle pecore, che era la parta settentrionale che introduceva nella Città. Ora Gerusalemme è la Città Santa che rappresenta la Città di Dio e questa Città di Dio è la nostra anima. Gesù che arriva alle porte di Gerusalemme è Gesù che arriva alle porte della nostra interiorità (ed è qui il problema: interno ed esterno). Su questa soglia c’è questa porta che è chiamata Porta delle Pecore e qui è Gesù stesso che in un altro capitolo ci rivela: “Io sono la porta delle Pecore”. Però accanto a questa porta delle Pecore, fuori Gerusalemme, c’è una piscina con cinque portici e una grande folla di malati. Anche questo è carico di significato. Tutti questi malati che sono vicino alla porta delle Pecore, rappresentano la nostra anima con tutti i suoi pensieri che non entrano, che non passano attraverso la porta delle Pecore, perché per passare attraverso essa bisogna superare noi stessi. Per entrare nella Città di Dio bisogna rinnegare se stessi. “Chi vuol venire dietro di me rinneghi se stesso”. Allora noi arriviamo, ma siamo tutti lì fermi alla soglia della Città di Dio, dell’eternità, della vita eterna. La vita eterna non è dopo morte ma è oggi: abbiamo visto che è il settimo giorno.

Abraham Heschel dice:

-                            “La vita eterna non ha origine fuori di noi (confermando quindi che la Città di Dio è dentro di noi),

-                            è radicata in noi e cresce nel più profondo di noi stessi (quindi la vita eterna è un qualcosa che cresce);

-                            così il mondo futuro non è una condizione postuma in cui l’anima penetrerà l’indomani della sua dipartita dal corpo.

-                            L’essenza del mondo futuro è il sabato eterno nel tempo: il settimo giorno è un’immagine dell’eternità”.

È un’immagine del settimo giorno eterno la settima ora in cui è stato guarito il figlio.

Ecco, ognuno di noi è lì sulla soglia della Città Santa, in attesa di entrare.

La vita, il sentiero della vita passa attraverso questa porta ed entra nella Città di Dio.

Però per passare attraverso questa porta, dobbiamo superare noi stessi, dobbiamo rinnegare noi stessi.

E qui abbiamo la difficoltà: non superando noi stessi, succede che noi ci arrestiamo sulla strada della vita.

Ma arrestarci sulla strada della vita vuol dire (poiché non si resta fermi) cominciare a decadere, vuol dire cominciare a diventare malati.

E allora questa folla di malati nella piscina, lì vicino alla porta delle Pecore, rappresenta tutta l’umanità che giunta alla porta delle pecore, non è entrata, e ha cominciato a venir malata. Rappresenta anche tutti i nostri pensieri malati che non sono passati attraverso quella porta e non hanno ricevuto Dio.

Ad esempio il tralcio staccato dalla vite, cade per terra e comincia a decadere, a disfarsi: e cos’è che lo disfa? La luce del sole, l’aria, gli elementi della terra, l’acqua, tutto lo fa morire.

Ora notiamo una cosa, che la luce del sole, la terra, l’acqua. L’aria, sono proprio quegli elementi che mantengono in vita il tralcio se è unito alla vite.

Ora succede questo, che noi disuniti da Dio diamo la causa all’aria, al sole, alla terra, all’acqua che ci disfano, che ci fanno morire e noi ci diamo da fare per eliminare l’acqua, perché l’acqua ci disfa; cerchiamo di eliminare il sole, il caldo perché mi disfa e non mi rendo conto invece che quello che mi disfa è il distacco da Dio, dalla vite.

Non attribuiamo allora fuori di noi le cause della perdita della nostra vita, ma dobbiamo cercarle dentro di noi: è il tralcio che si è staccato dalla vite; perché quegli stessi elementi che ci disfano sono gli stessi elementi che ci danno vita se siamo uniti a Dio.

Ma per non separarci dalla vita, bisogna passare attraverso la porta delle pecore. Allora in questa piscina (il cui significato è la necessità di purificazione, perché non avendo superato il pensiero del nostro io siamo diventati ammalati per cui abbiamo bisogno di purificarci nella parola di Dio, l’acqua: infatti chi si butta in questa piscina quando è mossa, rimane guarito), l’acqua rappresenta la parola di Dio. Però staccati da Dio, la parola di Dio non è più efficace e quindi diventa acqua stagnante che non guarisce.

Ecco allora abbiamo il concetto di tempo determinato: Dio, in quest’acqua stagnante che è la nostra vita che sta morendo, opera per portarci nel deserto. Dio opera per allontanarci da tutto quello che ci distrae da Lui, per metterci di fronte a Lui. Non è detto che, messi di fronte a Lui noi restiamo. Infatti non è un atto magico; non è che l’acqua agitata guarisse tutti di per sé. Qui dice: “Un Angelo scendeva (anche questo è simbolo: è l’annuncio di Dio, quindi simbolo della parola di Dio), di quando in quando per agitare l’acqua” è l’opera di Dio che scende tra noi (e che si conclude poi nel Cristo), ci porta nel suo silenzio: un distacco da tutto il nostro mondo per rimetterci a contatto con la vita; ci rimette di fronte alla porta per entrare in Gerusalemme. Ci offre la possibilità, man mano che la morte cresce in noi, di ritrovare la vita. Però è condizionato, infatti dice che: “Il primo che si butta nell’acqua non appena questa si agita”. Non basta che l’acqua sia agitata per guarirci; non è un fatto magico. Non basta essere portati nel deserto a pensare Dio per impegnarci a pensare Dio. L’acqua si agita tutte le volte che attraverso le vicende della vita noi siamo portati a pensare Dio.

Eligio: Allora il tempo determinato si riferisce solo alla creatura, per cui quando la creatura è orientata a Dio, Dio agita in permanenza le acque, non più a intermittenza.

Luigi: Diciamo, a contatto con Dio l’acqua è sempre fresca, quindi è sempre agitata, sempre nuova, è acqua di sorgente, anzi diventa una sorgente viva dentro di noi. “Chi beve l’acqua che io gli darò avrà in sé una sorgente di acqua viva fino alla vita eterna”. Avrà in se stesso una sorgente di acqua viva. La sorgente diventa viva, cioè sorgente di vita. Ora che il tempo sia relativo a noi, possiamo anche approfondirlo tenendo presente che non è sufficiente che uno parli perché noi ascoltiamo. L’ascolto è sempre determinato da due fattori: bisogna che uno parli, ma che l’altro sia in silenzio. Dio ci conduce nel deserto in questo silenzio per metterci nella possibilità di ascoltare. Noi che siamo pieni di rumore, sotto l’opera di Dio, siamo condotti da Dio nel silenzio. Dio ci conduce: ha i suoi tempi forti.

Amalia: Ecco, io vedevo il tempo determinato riferito alla creatura, però anche da parte di Dio in questo senso: una sovrabbondanza, i tempi forti che non sono di sempre.

Luigi: Non sono di sempre, cioè sono quando la creatura è messa a contatto con Dio, cioè è costretta a pensare Dio. Costretta a pensare Dio, non vuol dire però che pensi Dio. Però Dio si presenta; ad esempio ci toglie tutto quello che ci distrae e fa rumore attorno a noi e ci impedisce di pensare a Lui e ci porta, magari nell’agonia (l’agonia è un tempo forte) nel dolore, nella disgrazia, nella morte di una persona cara: sono tempi forti. Il deserto è rappresentato da questi fatti attraverso cui Dio ci pone il problema di sé; ci porta cioè sulla soglia tra l’umano e il divino; tra il naturale e il soprannaturale: ci porta di fronte al trascendente. Non vuol dire che noi ci buttiamo. Tutte le opere di Dio sono proposte; però Dio ci dà la possibilità.

Teresa: Non capisco perché solamente il primo rimane guarito.

Luigi: Sì, perché per essere guarito bisogna buttarsi e buttarsi come prima cosa, perché se noi consideriamo Dio in secondo tempo, non guariamo. Bisogna invece considerare Dio come prima cosa, come l’unica cosa necessaria: “Cercate prima di tutto il Regno di Dio”, perché se io lo metto in second’ordine, ricado nel mio male.

Eligio: Tutti quello che sono lì alla piscina sono attratti da una speranza di guarigione in quell’acqua; quindi dovrebbero avere presente soltanto questa virtù salvatrice dell’acqua e quindi non dovrebbero avere altre distrazioni e come mai c’è un solo “primo” che si butta? Noi di fronte al pensiero di Dio, abbiamo molte distrazioni, ma lì essi vanno solo per quello e come mai uno solo e non gli altri, se tutti sono attenti all’acqua?

Luigi: Prima di tutto perché non è un atto magico.

Eligio: Ma vanno però lì con un pensiero preciso: hanno presente l’acqua per buttarsi; noi invece di fronte al pensiero di Dio ci distraiamo facilmente.

Luigi: Sì, ma abbiamo detto che questo agitarsi dell’acqua rappresenta un culmine: Dio attraverso il suo operare ci porta nel deserto e ci mette di fronte a Lui. Nel deserto praticamente non abbiamo più niente altro che ci attragga: è soltanto terra e cielo: noi di fronte a Dio. Posti noi di fronte a Dio bisogna buttarsi a tutto quello che è significato e quindi lezione di vita per noi, e ci dice: “Se sei portato di fronte a Dio, buttati perché quella è la tua salvezza!”. Rappresenta uno solo per rappresentare questo “prima di tutto”.

Eligio: Allora non è sufficiente che io mi riconosca ammalato, che mi porti là dove la mia malattia può essere guarita.

Luigi: No, non basta, infatti lo vedremo in seguito: un uomo che da 38 anni è ammalato e desidera buttarsi nell’acqua ma non guarisce perché nessuno lo buttava. Era paralizzato, non bastava il desiderio per muoverlo. Perché uno dei caratteri delle nostre malattie è proprio questa: la paralisi, l’impossibilità da parte nostra a salvarci. Poi per quel paralitico ci sarà l’incontro col Cristo che è Lui stesso l’acqua della vita, per cui non ci sarà più bisogno di buttarlo nella piscina, ma Gesù gli dirà semplicemente: “Alzati e cammina”.

Teresa: Avevano però tutti lo stesso desiderio di essere guariti.

Luigi: Ma non basta il desiderio; la persona malata desidera la guarigione, però non è perché desideri la guarigione la creatura guarisca; la guarigione non è effetto del nostro desiderio, altrimenti direi: sono io che con il mio desiderio e con la mia fede mi sono guarito. No, chi ti guarisce è Dio. E allora in tutto abbiamo sempre il dono di Dio: Dio ci offre, ci propone, bisogna però che noi ci buttiamo; perché possiamo non buttarci in quel che Lui ci propone. Ma bisogna buttarci come la cosa essenziale, come l’unica cosa. Ecco quel “prima di tutto”. Inoltre qui c’era una quantità enorme di malati, che rappresenta tutta l’umanità, e Gesù qui ne guarisce uno solo. E perché ne guarisce uno solo e non li guarisce tutti? Sono lezioni cariche di significato, lezioni di vita per ognuno di noi. Comunque in questo “prima di tutto”, vuol dirci che dobbiamo considerare quello prima di tutto. Se non ci buttiamo non guariamo.

Eligio: Che significa buttarci?

Luigi: Impegnarci con quell’argomento che Dio ci propone, farlo nostra vita. Si è buttato quel funzionario quando Gesù parlò: “Và tuo Figlio vive”; lui si è buttato perché ha corso il rischio di trovarsi il Figlio morto, ha creduto alla parola. Credere alla parola di Dio vuol dire buttarsi, vuol dire rischiare, perché vuol dire “nascere da”. La vita nuova nasce dalla parola di Dio che è giunta a noi. Quindi è una nascita nuova: per questo dice che bisogna buttarsi. Non è più un vivere secondo il mondo, secondo le nostre conoscenze, le nostre esperienze. Si è buttata Maria alla parola dell’Angelo. Si è buttato questo funzionario: è nato dalla parola, ed è incominciato a vivere dalla parola di Dio. Quell’ora settima inaugura la vita nuova: diventa principio di vita eterna. La vita eterna non è il dopo–morte, o meglio, il dopo–morte significa il dopo– morte del nostro io: il superamento del nostro io. Allora abbiamo la nascita. Qui abbiamo il seme della vita eterna che inizia in noi e deve crescere fino ad occupare tutto. Occupando tutto  noi diventiamo stabili in Dio, impariamo a restare in Dio. Ecco come rimane superata quella famosa difficoltà a restare in Dio, perché noi solo restando in Dio, realizziamo, combaciamo con Dio che parla in tutto. Per cui Dio non parla più ad intermittenza, ma parla in tutto nel suo Verbo. Come noi combaciamo con Dio, facciamo una cosa sola con il Verbo di Dio, allora siccome nel Verbo di Dio, Dio parla sempre, noi in Lui siamo sempre in ascolto di Dio. Non ascoltiamo più Dio di quando in quando, ma ascoltiamo Dio in tutto; si realizza la promessa di Gesù: “Affinché dove sono Io siate anche voi”. “Dove sono Io”: e dove è Lui? Lui è universale, Lui è dappertutto. I limiti estremi sono:

-                            Dio che parla in tutto;

-                            Dio che parla in niente.

Noi come creature ci troviamo in un mondo dove parlano tutti, ma Dio tace. Dio è silenzioso, Dio è lontano: lo vediamo come un’astrazione. Dio ci chiama ad arrivare su quell’orizzonte in cui Lui parla in tutto.

La realtà è che Lui parla in tutto. Allora noi, non ascoltando Dio parlare in tutto, siamo fuori dalla Realtà. Ecco perché c’è l’insofferenza da parte nostra, c’è l’inquietudine, l’angoscia, c’è il senso di vuoto; siamo noi che ci siamo allontanati dalla Realtà. Quanto più ci avviciniamo alla Realtà “Dio parla in tutto”, tanto più la nostra anima vive e noi ci sentiamo vivi. Ma per poter ascoltare Dio che parla in tutto, bisogna imparare a restare alla Presenza di Dio, a permanere con Dio. Invece questo oscillare tra la Presenza di Dio e la presenza di altro, ci porta all’intermittenza, ci fa scendere verso le acque stagnanti, al non – più – vita. Allora lì uno trova tutto vecchio, non trova più motivi di vita. La vita perde il suo senso, non ha più significato e proviamo il fallimento. Ma il fallimento non è presso Dio: è come il tralcio che si è staccato dalla vite per il quale tutto concorre alla sua morte.

Pinuccia: Ci sono molti ammalati e si butta uno solo: questo è solo per rappresentare il “prima di tutto”, ma non è che gli altri siano esclusi, no?

Luigi: No, è il significato che conta. Tutte le opere del Signore sono significato per la nostra vita spirituale. Qui dobbiamo cogliere quello che il Signore vuol dirci: Egli fa la massa e fa uno per dire a noi quello che dobbiamo mettere prima di tutto. Altrimenti come facciamo a comprendere il “prima di tutto”? Tutto è lezione di Dio, anche questa è una parabola di Dio, fatta con scene e, come ogni parabola di Dio, va intesa nello Spirito. È lo Spirito che ci insegna questa fretta, questo “prima di tutto”. Abramo si è buttato prima di tutto: “Va, parti dalla tua terra e vieni dove io ti indicherò”: ecco la partenza prima di tutto. Così pure abbiamo l’esempio del popolo ebraico che doveva mangiare con il bastone in mano pronto a partire appena l’angelo sarebbe passato. E qui la piscina: “L’angelo agitava le acque…”, bisogna essere disponibili a partire. Al Vangelo, durante la Messa, ci si alza (una volta ci si alzava soltanto al Vangelo e anche questo era carico di significato), per dire: perché si sta in piedi? Perché devi essere pronto a partire sulla parola. Ad esempio il funzionario che parte sulla parola, perché soltanto partendo sulla parola si nasce dalla parola, perché soltanto partendo sulla parola si nasce dalla parola, si incomincia la vita nuova. Ecco il “prima di tutto”. Abbiamo parecchie altre lezioni: così il servo che deve vegliare all’arrivo nella notte del padrone, affinché appena arriva subito gli apra, perché è proprio l’attesa che rende la creatura capace di accogliere. Invece se noi non siamo in attesa, non possiamo accogliere Colui che viene. Ecco anche il pane che deve essere mangiato ha bisogno della fame. È tanta la fame e quindi l’attesa, la veglia, che rende la creatura capace di nutrirsi del pane, altrimenti se il pane arriva quando uno non ha fame, lo disprezza; quante volte incontriamo dei pezzi di pane per la strada! Perché? Perché c’è gente che non ha fame. Quindi quello che rende capace di accogliere la Vita, è la vigilanza. “Siate vigilanti, dice Gesù, come un servo, perché il padrone viene come un ladro nella notte”. Ecco, è sempre questo “prima di tutto”, questo vegliare, questo attendere come la cosa principale per la nostra vita, come il malato che attende quel movimento dell’acqua, perché era la cosa che gli era più necessaria.

Damilano: Perché si rischia buttandosi nella vita? Cosa si rischia?

Luigi: Quel funzionario, per esempio, rischiava di trovare il Figlio morto, perché lui si allontanava dall’unica speranza, dal medico. Infatti Gesù si rifiuta di andare con lui, non va, non scende e gli dice: “Va”. Ora tu ti immagini di andare da un professore e invocarlo che venga a curare una persona che ti sta a cuore e che è malata, e quell’altro si rifiuti e ti dica: “Va, il tuo malato è guarito”, sembra chiaro quello che rischia. Partendo rischia di trovare quella persona morta, perché non ha portato con sé colui che la poteva guarire. Quindi vivere secondo la Parola di Dio vuol dire superare le nostre sicurezze, (“la fede vince il mondo”): ma per vincere il mondo bisogna rischiare. Ora, di fronte alle occasioni del mondo, prova ad affermare la fede e poi ti accorgi quello che rischi. Perché se tu hai la madia piena e vedi un povero, ti è più facile dare un pezzo di pane, ma se tu hai solo un pezzo di pane e incontri un povero, se tu devi ubbidire alla fede, voglio vedere quello che rischi: io lo do all’altro, ma io domani muoio di fame. Ecco il rischio, perché bisogna far conto su Dio, e far conto su Dio non vuol dire far conto sulla madia, sul mio capitale, sulle persone che ho attorno, sui mezzi, sulle mie risorse. No, perché se faccio conto su quello, non faccio conto su Dio. Quindi è soltanto Dio che libera, ma per liberare ti fa rischiare. Devi far conto su Dio che non vedi, perché la visione viene dopo che uno ha rischiato, prima non viene.  Prima vedo solo quello che perdo e vedo che domani sono alla fame: il rischio sta lì.

Teresa: Il rischio sta nel non tener conto delle prudenze umane.

Luigi: Se non si supera se stessi è tutto assurdo. Bisogna imparare a far conto su Dio perché la vita eterna è far conto su Dio, è riferire tutto a Dio; altrimenti non entriamo nella Città di Dio, cioè di fronte alla porta ci ritiriamo. E ritirandoci è il tralcio che si stacca dalla vite e quindi comincia a morire.

Eligio: Ma è possibile questo superamento?

Luigi: Se il Signore lo propone è perché ci è possibile.

Eligio: Ma l’io, il seguire l’io non è normale, naturale?

Luigi: Sì, è normale, è naturale. Il nostro io è naturale.

Pinuccia: Naturale vuol dire che Dio l’ha fatto così?

Luigi: Certo, è naturale, perché il nostro io non è che sia cattivo: è creatura di Dio, però va superato come tutte le creature, perché è creatura. Non dobbiamo metterlo al centro, perché il nostro io diventa cattivo quando lo mettiamo al centro. Cioè il nostro io è un ottimo servitore e un pessimo padrone, come il denaro, come tutte le creature. E come dobbiamo superare l’attrazione delle creature, l’attrazione del denaro, l’attrazione di quello che piace, l’attrazione dei sentimenti, (li dobbiamo superare e riferirli sempre a Dio, riportarli a Dio), così anche per il nostro io: è una creatura come tutte le creature e va superata, perché: “Io sono il tuo Signore. Uno solo è il Signore tuo Dio. Non avrai altro Dio”. Ora quando noi mettiamo una creatura al centro, entriamo nel sacro e ne facciamo un idolo. Ora il nostro idolo può essere il denaro, può essere una carriera, il posto di lavoro, l’uomo, e può essere il nostro io: è fuori posto ed ecco allora che è cattivo. Di per sé tutte le creature sono buone, ma tutte le creature sono servitrici di Dio. E cosa vuol dire essere servitrici di Dio? Vanno sempre riportare a Dio: ecco il Signore è Dio! Non dobbiamo quindi staccare nulla da Dio: ecco l’autonomia, il peccato originale: il considerare una cosa separata da Dio. Per cui diciamo: “Ah, questa cosa qui è buona!”, no, un momento, portala a Dio per vedere se è buona, non darla per scontato; tutte le cose vanno sempre riportate a Dio, sempre raccolte in Dio, non dobbiamo mai dare niente per scontato. Non dobbiamo mai dire: “Ah, io di  questa cosa qui sono proprio convinto!”. No, non basta che tu sia convinto, vedi in Dio, cerca in Dio, medita con Dio, raccogli in Dio. C’è sempre un passaggio tra la cosa che arriva a noi e la volontà di Dio. Ogni cosa arrivando a noi crea una certa impressione o sentimento, magari anche di bontà, un certo fascino; non dobbiamo fermarci a questi ma andare oltre; è un fatto che va dal nostro io a Dio, ed è un tratto personale che ognuno di noi personalmente soltanto può fare, non c’è nessuno che lo possa fare al nostro posto. È la vera opera sacerdotale: questo consacrare, questo portare ciò che arriva a noi a Dio per vederlo in Dio. “Chi con me raccoglie e riceve mercede di vita eterna”: quindi entra nella vita eterna, cioè entra nella Città di Dio. Ricapitolando, il concetto di porta, di Gerusalemme, di questa piscina con malati, di quest’acqua che si agita di tanto in tanto, di questo angelo che scende, di questa guarigione per il primo si butta, è chiaro?

Cina: È tutta da fare, questa raccolta!

Rina: È bello questo lavoro sacerdotale che ognuno di noi deve compiere, vero?

Luigi: Sì, e non c’è nessuno che possa farlo al posto nostro, perché è personale. È come l’amore, e l’amore è personale: noi possiamo delegare un altro ad amare al nostro posto, è un fatto essenzialmente personale. Per cui, ecco, la nostra vita è proprio personale. È quella famosa pietra di cui parla l’Apocalisse con sopra un nome che conosce solo colui che la riceve. Per cui siamo tutti chiamati ad un rapporto personale con Dio e Dio ci tratta ognuno personalmente come se fossimo soli al mondo, come se non ci fosse nessun altro. Dobbiamo convincerci di questo!

Pinuccia: (Continuazione lettura riassunto della domenica 11/12 – lettura già iniziata nella domenica 29/1).

“Voi se non vedete miracoli e prodigi non credete”: che cos’è che rimprovera Gesù? Quand’è che anche noi vogliamo vedere i miracoli? andiamo sempre alla ricerca di novità, di cose straordinarie, quando non ci preoccupiamo di restare e approfondire ciò che Dio ci dà. La vita non sta nel vagare di cosa in cosa, ma nel restare; ma non possiamo restare in ciò che non ci preoccupiamo di approfondire. Possiamo essere uomini che non amano applicarsi, ma soltanto essere intrattenuti. Beati coloro che cercano di vedere ciò che credono e non hanno sempre bisogno di essere stimolati a credere o che vanno continuamente alla ricerca di motivi per credere! Quand’è che anche noi facciamo questo per credere, cioè quand’è che noi andiamo alla ricerca di motivi nuovi per credere, invece di credere? Il credere è l’inizio di una vita nuova, perché credere vuol dire vivere per, camminare verso. Cercando sempre dei nuovi motivi per credere, noi non viviamo mai. Una volta che uno ha capito che credere è vivere per l’essenziale, non bisogna frustrare questa segnalazione da parte di Dio cercando sempre cose nuove per credere, altrimenti è come quando leggiamo la segnalazione di una strada e non la seguiamo e cerchiamo ancora altre segnalazioni, cercando magari altre mille persone che ci indichino e che ci confermino che quella è la strada e noi non partiamo mai, non camminiamo. Se invece siamo semplici, basta che una persona sola ci dia una segnalazione e noi aderiamo, la seguiamo e non andiamo più a cercare altri che ci confermino che quella è la strada, così come quando entriamo in una città straniera: ci fidiamo della segnalazione che ci dà una persona. Una volta che abbiamo capito che la strada è quella, la si deve seguire. Chi non sa deve fidarsi della segnalazione e se sbaglia non è più responsabile. Chi non sa, deve aderire, se è semplice; ma l’importante è camminare. Credere vuol dire appunto camminare per andare a vedere ciò che la segnalazione ci annuncia. Attraverso le sue opere, Dio ci segnala che c’è qualcosa da vedere: credere è andare. Noi possiamo sprecare la vita cercando segnalazioni che già ci sono date, cercando conferme di queste segnalazioni.

Luigi: Forse qui ci è chiaro perché Gesù si rifiuta di dare dei segni tutte le volte che glieli chiedono e dice: “Se non accoglierete il Regno di Dio come un bambino, non potrete entrare”. Quindi ogni pretesa, ogni richiesta di segni, viene frustata da parte di Dio, perché i segni già ce li dà, la segnalazione c’è: non andare quindi a cercare e a chiedere altri segni.

Pinuccia: (continuazione della lettura)

Si cammina sulle parole di Gesù. Lui ci dà le sue parole, perché camminiamo solo se restiamo nelle sue parole. Noi restiamo in Lui nella misura in cui restiamo nelle sue parole. Per cui dobbiamo camminare sulle sue parole senza vagare da un sentiero all’altro, senza cercare continuamente motivi per partire.

Luigi: Forse per cercare motivi per non partire.

Pinuccia: Anche. La strada presuppone sempre in noi la volontà di raggiungere un fine, perché se non abbiamo nessun fine da raggiungere non ci serve la strada. Dobbiamo chiederci: “Voglio veramente arrivare là? A Dio? Allora seguo veramente la strada”. Altrimenti perdiamo tempo a cercare la strada, ma non ci interessa arrivare alla meta. Ecco, la meta è questa: conoscere Dio come Lui ci conosce. Camminare è approfondire la parola che Lui ci dice. La parola approfondita conduce e ci svela un volto. La parola di Dio ha questo segreto: più è approfondita e più ci apre un sipario, rivelandoci Colui che è. Non dobbiamo subordinare il nostro credere alla ricerca di novità e di motivi per credere. Basta  la novità che Lui ci dà. La parola che giunge a noi, presenta tutta la garanzia della Verità per essere creduta. Se siamo come un bambino aderiamo, se no sprechiamo tanto tempo della vita per informarci se quella è veramente la strada. L’unica garanzia che la strada è giusta è quella di camminare. Perché seguendo quella parola, noi stessi riceviamo quella luce e quella garanzia che è vera.

Eligio: La garanzia è quella di camminare ma non comunque e dovunque.

Pinuccia: No, camminando su quella parola che ci è annunciata. Se uno ci indica una strada noi capiamo se è quella giusta se arriviamo dove vogliamo andare; camminando, man mano che camminiamo, abbiamo la garanzia che è vera.

Teresa: Hai letto: se camminiamo arriviamo a conoscere Dio come Lui ci conosce?

Pinuccia: Sì, arriviamo alla meta. La meta è quella.

Teresa: Ma noi non possiamo conoscere Dio come Lui conosce noi.

Luigi: Siamo chiamati a conoscere così, siamo creati  per quello. San Paolo stesso dice: “Affinché lo conosciamo come Lui ci conosce”. Infatti perché abbiamo questo desiderio?

Teresa: Mi sembra che saremmo altri “Dio”.

Luigi: Infatti siamo chiamati a diventare questo, siamo chiamati a fare una cosa sola con Dio.

Teresa: Ma noi non potremo mai arrivare a conoscere Lui come Lui conosce noi.

Eligio: Ma questo va inteso come impegno, non come punto di arrivo, così come quando dice Gesù: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”, ma non con questo noi diventiamo “dèi”.

Luigi: Ma Gesù dice proprio: “Fa che siano tutti una cosa sola”, e vuole che siamo con Lui una cosa sola. È proprio questo dislivello tra Lui che conosce noi e noi che non conosciamo Lui come Lui ci conosce, che ci mette in movimento.

Pinuccia: È questo “come”, forse, che va chiarito: che cosa intende per questo “come”? cioè Lui conosce tutto di noi: vuol dire che anche noi dobbiamo conoscere tutto di Dio?

Luigi: Come Lui conosce noi.

Pinuccia: Allora è diverso: non come tutto quello che Lui è.

Luigi: No, come Lui conosce noi.

Pinuccia: Allora la cosa è diversa: vuol dire conoscere “quanto”, “in che modo” Dio ci conosce?

Teresa: Dio di noi conosce tutto, ma noi non possiamo conoscere tutto di Dio.

Luigi: No, è conoscere Lui come Lui conosce noi.

Pinuccia: E quindi non finisce di essere un conoscere noi stessi? Se io arrivo a conoscere tutto quello che Dio conosce di me, finisco di conoscere me.

Luigi: No, perché Lui conoscendo tutto di me, crea in me una situazione di insufficienza. Portiamoci sul piano dell’amore: una persona che ami, infonde nell’altro il desiderio di amare come è amato. E fintanto che non c’è quell’uguaglianza, c’è una situazione di movimento e di insufficienza non è soddisfatto. Ma cos’è che crea questa insoddisfazione? È il fatto di sapere che l’altro mi ama di più di quello che io lo amo.

Pinuccia: Ma Dio ci amerà sempre di più.

Luigi: Ora, siccome l’amore è effetto di conoscenza…. Ecco, se lo riportiamo sul piano dell’amore, forse ci è più possibile intenderlo. L’amore è soddisfatto in quanto c’è uguaglianza di conoscenza: il bicchiere colmo….

Pinuccia: Conoscere Lui come Lui ci conosce allora vuol dire conoscere il suo amore per noi, quanto Lui ci ama?

Eligio: Forse il “come” vuol indicare un certo modo di amare, cioè amare in sé, non per gli attributi. Dio non ci ama perché siamo belli, o brutti, sani o malati o altro.

Luigi: Comunque c’è sempre questa meta. Per esempio, “Il Padre manda la sua pioggia sui buoni e sui cattivi, fa splendere il sole sui giusti e sugli ingiusti, quindi anche voi amate i vostri nemici…”. È sempre questo “come” che mette in movimento, perché se noi per esempio non conoscessimo l’amore di Dio, noi non saremmo sollecitati a superare noi stessi, non saremmo sollecitati ad amare come Lui ama, cioè ad amare anche gli ingiusti, anche i nemici, perché “Dio che è Padre buono, manda la sua pioggia sui buoni e sui cattivi”. Ma dicendomi questo, sollecita ognuno di noi ad amare come Lui ama. Nel “come” abbiamo una proposta quindi abbiamo un desiderio e abbiamo un’uguaglianza. Ora, nel dislivello siamo sollecitati dall’uguaglianza. È l’uguaglianza che ci mette in movimento e ci fa desiderare e quindi ci rende insoddisfatti, inquieti fintanto che non arriviamo a quella meta lì. È il suo amore, la Carità di Cristo che ci muove: “Caritas Christi urget nos”, quella che ci preme”. E come ci preme? Ecco, perché ho bisogno di arrivare a quell’uguaglianza: vasi comunicanti; abbiamo dislivelli che tendono ad uguagliarsi. La meta è quella, ma è la meta che ci mette in movimento. È la perfezione di Dio che ci fa desiderare la perfezione, è la vita di Dio che ci fa desiderare la vita. Perché siamo inquieti? Perché siamo insoddisfatti? Ma è la sua eternità che ci fa desiderare l’eternità. Quindi se Dio non ci avesse chiamati a questo “come”, a questa uguaglianza, noi non lo desidereremmo nemmeno. Saremmo contenti di mangiare così come fanno gli animali, perché l’animale non desidera mica un’uguaglianza. Quindi c’è un contatto tra la nostra anima e Dio e in questo contatto Dio rivela quello che Egli è, come Egli conosce, come Egli ama, e sollecita quindi noi: “Io sono sulla vetta, quindi sali”. Quindi noi siamo chiamati: la vocazione sta lì. Dio ci presenta la meta. E se ci presenta la meta Dio non inganna; teniamo presente che Dio è fedele, Dio non prende in giro la creatura. Perché se Lui presentasse una meta e sapesse che la creatura non può assolutamente arrivare a quella meta, prenderebbe in giro la creatura. No, presenta la meta, la offre e rende il cammino accessibile: quindi la creatura può. Tutto è grazia di Dio, si capisce, è opera di Dio e la creatura sarà infinitamente riconoscente a Dio perché è stata tutta grazia sua; però la creatura può, è chiamata. Quando il Signore dice: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro”, non prende mica in giro. “Il Padre vuole donarsi tutto, quindi tu sappilo”.

La creatura, sapendo, desidera. Se non lo sapessimo, non potremmo desiderarlo. Noi non possiamo desiderare una cosa che non sappiamo. Se desideriamo è perché sappiamo. Se tu cerchi è perché già Dio si è donato a te, altrimenti tu non lo cercheresti nemmeno. Quindi c’è movimento. Un corpo non può essere mosso da un altro che sia completamente staccato, che sia assente. Se c’è un movimento è perché c’è l’attrazione dell’altro, quindi c’è una presenza già dell’altro.

Se noi siamo in movimento è perché già c’è la presenza di Dio in noi, già Dio si è donato e si è donato con quella pienezza alla quale Lui ci chiama, altrimenti noi non sentiremmo nemmeno il desiderio.

Pinuccia: Ma la pienezza è l’infinito, no? Non ci sono misure.

Luigi: E noi siamo chiamati a quest’infinito. Certo, non ci sono misure. Noi siamo chiamati a combaciare con quest’infinito, con l’infinito di Dio e non ci sono misure. È proprio la bellezza di non esserci misure. Per questo diciamo: “non è creatura qui!”. Noi siamo chiamati a partecipare, ad entrare nell’eternità. Ma l’eternità è un “tutto presente”. Non è il passato, presente o futuro, non è un divenire: è un recupero universale di tutto. Noi non ce ne rendiamo conto di quali meraviglie siamo chiamati a partecipare, perché è un tutto presente.

Quindi è un recupero non soltanto di qualcosa di noi, ma è un recupero di tutta la creazione, di tutto l’universo in Dio. È un ritrovare tutto, non è un perdere niente: si va verso un più non verso un meno. Non c’è niente di perso in Dio, si perde tutto perdendo Dio. Ma in Dio si ha Dio e si recupera tutto l’universo.

Pinuccia: Come il tralcio e la vite.

Luigi: Certo.

Eligio: Quindi Dio ci impegna in un’attività conoscitiva che è molto diversa da quella che noi siamo soliti usare nelle nostre cose. Cioè per noi le nostre conoscenze precedono per analogie, per similitudini, per rapporti.

Luigi: Ah, sì, è una conoscenza del tutto diversa.

Eligio: Cioè Dio mi chiama a conoscerlo in Sé, quindi non mi servono l’emotività, i rapporti la similitudine.

Luigi: È tutta un’altra forma di conoscenza. È una conoscenza molto diversa ed è una certezza.

Eligio: Questo però non vuol dire che noi possiamo esaurire Dio come oggetto di conoscenza, mentre Lui esaurisce noi come oggetto di conoscenza.

Luigi: No, col suo infinito Lui è sorgente di vita infinita. Non è finito.

Eligio: Però dovremmo procedere con lo stesso metodo in questa conoscenza con cui Dio procede nei nostri confronti, cioè conoscere in sé, non conoscere per rapporti. Ecco, Dio ci chiama a questo modo di conoscenza.

Luigi: Certo, non è per rapporti, non è secondo le nostre conoscenze, perché secondo i nostri rapporti noi non conosciamo mai bene e mai con certezza.

Eligio: Quindi quando noi definiamo Dio per similitudine sbagliamo sempre.

Luigi: Si capisce, perché la vera conoscenza è un rapporto intimo e personale. Ed è un rapporto che è infinito, che non si esaurisce mai. Le nostre conoscenze si esauriscono, invece Dio no, Dio è una sorgente di vita infinita che non si esaurisce mai. È proprio questo combaciare all’infinito “come” che diventa vita infinita, perché Dio non è una statua di cui una volta conosciuta e analizzata si possa dire: “Beh, ora l’ho capita, ho esaurito!”. No, Dio è Vita infinita e quanto più noi combaciamo con il Suo infinito tanto più diventiamo vita infinita.

Eligio: E si stabilisce la comunione attraverso questo processo di conoscenza.

Luigi: Certo.

Eligio: Ma è una conoscenza totalmente diversa, similare cioè al modo di procedere che Dio ha con noi.

Luigi: È una conoscenza nettamente diversa, non è una conoscenza per analogie. Ad esempio: “Conosco le creature, quindi Dio sarà così”.

Eligio: E non in relazione al mondo che ci circonda o alle creature che noi conosciamo.

Luigi: No, perché così, attraverso le creature, noi lo conosciamo indirettamente. Invece attraverso le creature siamo sollecitati a prendere contatto con Lui.

Eligio: Quindi si tratta di una conoscenza diretta e personale.

Luigi: Si capisce. Ed essendo personale è incomunicabile. Poiché è personale diventa incomunicabile. Cioè la possiamo annunciare gli uni gli altri così, ma non comunicare, perché la comunicazione è sempre diretta tra Dio è l’anima. Quindi tra noi e gli altri possiamo ammonirci, sollecitarci, aiutarci a liberarci dalle passioni del mondo, dalla polvere del mondo: ma la vera conoscenza è riservata al rapporto tra l’anima e Dio.

Eligio: Quindi il “come”, credo si riferisca a questo tipo di conoscenza, diretta e personale.

Luigi: Sì.

Teresa: Allora il “come” vorrebbe dire “nel modo”?

Luigi: Sì.

Eligio: Cioè nel modo in cui Dio conosce noi, noi dobbiamo conoscere Lui.

Luigi: Non è il “modo” come intendiamo noi…

Eligio: Non è il nostro modo di conoscere le cose, la materia, una disciplina, ecc.

Luigi: E neanche Dio, cioè neanche nel senso che molte volte noi ragioniamo o conosciamo Dio, riflettendo sulle creature: è una conoscenza diversa.

Eligio: Ecco perché i teologi che vogliono fare della teologia una scienza umana non possono farci conoscere Dio e talvolta presentano un Dio deformato.

Pinuccia:  E allora con Cristo che è nostro intermediario, mediatore che ci rivela il Padre e ci mette in relazione col Padre, dobbiamo pure avere una conoscenza e un rapporto personale e diretto con Lui, ma anche con il Padre. Però è Gesù che ci fa conoscere il Padre.

Luigi: Certo, ma ad un certo momento Lui dice: “Adesso me ne vado”.

Pinuccia: Come uomo però…

Luigi: Quante volte si è detto che Gesù ci conduce alla sorgente e ci dice: “Adesso bevi, Io mi metto da parte”?

Pinuccia: Ma dopo lo ritroviamo.

Luigi: Ma certo, però ci dice: “Bevi”. Cioè Lui vuole che noi stessi attingiamo al Padre come Lui attinge. “Affinché dove sono Io siate anche voi”. Bisogna approfondire bene queste parole: “Affinché dove sono Io siate anche voi”. Perché sono parole divine che non dobbiamo trascurare: “Io vado a prepararvi un posto affinché siate anche voi dove sono io, affinché possiate partecipare della mia gloria”: la sua gloria è il Padre. Quindi ci invita a prendere diretto contatto con il Padre; infatti ad un certo momento prega il Padre, prega per noi. perché? Affinché guardiamo direttamente il Padre, e ci consegna al Padre: “Fintanto che io ero con loro li custodivo nel tuo nome, adesso custodiscili tu”. Perché dice questo: “Custodiscili tu”? Mica lo dice al Padre, perché il Padre non ha bisogno di essere sollecitato dal Figlio, che è in tutto il Verbo del Padre. Lo dice quindi per noi, quasi a dirci: “Guardate, fino adesso c’ero io, d’ora innanzi ci sarà l’Altro che avrà cura di voi, quindi guardate a Lui”. come Gesù sulla croce dice a Giovanni: “Ecco tua madre”. Allora uno sa che d’ora innanzi è affidato all’altro, quindi si affida all’altro. Poiché Gesù lo ha affidato all’altro, guarda all’Altro. Per questo Gesù dice: “Finora li ho custoditi io, adesso custodiscili tu”. E tutti quelli che lo ascoltano dicono: “Ora guardiamo al Padre, perché ci ha affidati al Padre”.

Eligio: E allora da quel momento comincia quel processo di conoscenza “come”.

Luigi: Si capisce.

Eligio: Altrimenti finché noi siamo legati a quel Gesù storico e fisico siamo ancora sempre in quella conoscenza tipicamente umana che non ci porta al di sopra del nostro io, perché è relativa all’io.

Luigi: Certo, è necessaria questa conoscenza relativa all’io perché il Signore scende a parlare nel nostro io: siamo creature sotto i portici, malati, in attesa del movimento dell’acqua. Gesù viene tra noi, lì tra le nostre malattie e quindi naturalmente deve parlare il nostro linguaggio, però non viene per confermarci nelle nostre malattie, ma viene per liberarcene e quindi poco per volta Lui ci conduce a conoscere il Padre fino ad affidarci a Lui, altrimenti lo Spirito di Verità non può venire in noi.  Ecco la vera conoscenza. È lì tutta la meraviglia dell’opera del Cristo. Per cui facciamo un errore grossissimo, per esempio quando ci fermiamo al Cristo sociologico, politico, che viene a portare la giustizia nel mondo. È tutto un errore, perché non cogliamo l’essenza del messaggio del Cristo che sta proprio in questo portarci al Padre. Tutta l’opera del Cristo, il suo messaggio centrale stanno qui. Se noi dimentichiamo questo noi falsifichiamo tutto: ci viene a mancare l’anima, così come non cogliamo l’anima di tutte le opere di Dio se ci fermiamo soltanto all’apparenza. Ecco perché noi abbiamo la possibilità di rivestire del nostro io tutte le opere di Dio e lo stesso Cristo, quindi possiamo travisare tutto. Quante volte abbiamo sentito dire che tutto il discorso del Cristo si riassume nel discorso delle beatitudini. Ma non è vero! Quello è soltanto la porta, anzi è ancora il portico di avvicinamento alla porta. È tutt’altro che l’essenza del messaggio del Cristo. Il messaggio del Cristo dobbiamo coglierlo quando ci parla del Padre: è lì, perché Lui è venuto per parlarci del Padre.

Cina: Stamattina nella spiegazione del Vangelo il sacerdote ha detto la stessa cosa: che Gesù è venuto a portarci la conoscenza del Padre e che deve essere questa la nostra preghiera.

Eligio: Così pure è stato detto molto chiaramente nella conversazione di due domeniche fa, quando si parlò del nostro atteggiamento come deve essere di fronte agli ammalati e in casi difficili. È un concetto nuovo.

Pinuccia: Continuazione della lettura riassunti: La garanzia della validità di questa strada ce l’abbiamo in noi stessi, camminando su questa strada, sulla Parola.

Luigi: Per cui anche lì, la certezza è incomunicabile, perché è un’esperienza che si fa camminando con Dio, seguendo Dio.

Eligio: E allora perché dici che l’abbiamo in noi stessi quasi fossimo autonomi da stabilire il criterio di validità o meno?

Luigi: Ah, no, la garanzia viene a noi da Dio, ce l’abbiamo solo seguendo Dio, cioè diventa stima, per cui ciascuno ha in sé il criterio di Verità.

Pinuccia: Mentre cammina rimane confermato che quella è la strada buona.

Luigi: Sì, Dio conferma.

Pinuccia: (continuazione lettura riassunto): e se noi invece non la seguiamo, rimaniamo nel dubbio e allora andiamo sempre alla ricerca di novità ed informazioni. Quindi l’importante, una cosa da farsi, è approfondire, restare.

Luigi: Direi: approfondire per restare, perché fintanto che siamo in superficie, siamo superficiali, non restiamo. L’incostanza, la volubilità è una conseguente della superficialità. La stabilità è una conseguenza della profondità. Quindi se vogliamo diventare stabili dobbiamo approfondire nella misura in cui approfondiamo, diventiamo stabili. Perché Dio è stabilità, ma è stabilità in quanto è profondità. Ecco perché c’è l’interiorizzazione: se viviamo soltanto nelle cose esteriori, siamo superficiali. Nella superficialità abbiamo la volubilità e nella volubilità quindi tutta la nostra insoddisfazione di vita, perché abbiamo tanti nomi, non siamo più un’unità vivente. Nella molteplicità dei nomi, la casa si disfa, non sta su, la nostra vita resta divisa.

Teresa: Può ancora succedere di approfondire molto e non restare?

Luigi: No, quanto più approfondisci, l’approfondimento aiuta. Cioè la permanenza è nella vita eterna, la meta è la conoscenza eterna di Dio. Ma fintanto che siamo in cammino noi siamo sempre soggetti a questa volubilità. Il Signore stesso dice: “Lo Spirito Santo vi condurrà a vedere la Verità tutta intera e vi convincerà di tutto quello che vi ho detto, ve lo farà ricordare”. È tutto il lavoro dello Spirito Santo, perché il Cristo ci porta a questa meta, ma poi in questa meta troviamo lo Spirito Santo che è Lui che convince: “Vi convincerà della giustizia, vi convincerà del peccato”.

Cina: Se una persona ha la disgrazia di essere superficiale allora il Signore la può cambiare?

Luigi: Non c’è niente di impossibile presso Dio. Nessuno di noi davanti a Dio può dire: “Io sono così e non posso mutare”. No, ognuno di noi ha un bagaglio da portarsi dietro, di preoccupazioni, di natura, siamo fatti in un modo piuttosto che in un altro. Nessuno però deve dire: “Il mio carattere è questo, io sono fatto così e non posso cambiare”. No, se sei fatto così, ti cambi, perché con Dio tutto è possibile e Dio ci cambia avessimo anche un carico ereditario in infelice, non importa. Guarda Dio, Dio ti trasforma. Dio è vita eterna. Anzi, più il nostro carico è infelice e più sale la nostra lode a Dio, perché: “Guarda Dio. Da un po’ di terra che ero, da un essere disprezzabile quale ero, Tu mi hai portato a sedere con te sul tuo trono”. Ecco, è la lode alla Madonna: “Ero niente”. E allora è tutta grazia di Dio. Se invece uno dicesse: “Ah, io ho questi numeri”, ecco, proprio questo gli impedisce di entrare nella luce di Dio. Invece no.

Teresa: Eppure ci sono tante persone, teologi, che sanno tante cose ma non rimangono, come mai?

Luigi: Un momento, già Eligio aveva affermato che c’è conoscenza e conoscenza. Noi a volte la chiamiamo conoscenza e invece è soltanto cultura: è conoscenza nel pensiero dell’io, non è conoscenza di Dio. La conoscenza di Dio è una cosa molto, molto diversa. È una conoscenza intima e personale, non è cultura, ma rapporto personale, è un’esperimentazione personale di Dio. Un bambino o un analfabeta può conoscere molto di più di tanti che studiano tanto.

La bellezza di Dio è questa: che si comunica a tutti. Lui non chiede cultura, intelligenza, ecc. Lui chiede soltanto umiltà che guarda a Lui. chiede questo: l’attenzione a Lui.

Quando la Bibbia parla di umiltà, di timore di Dio, intende questa attenzione. Ma se noi  fossimo infarciti di cultura, dicessimo anche tante preghiere, conoscessimo tante preghiere, pregassimo da mattina a sera, a parole con la bocca, ma il nostro pensiero fosse lontano da Dio, servirebbe assolutamente a niente, anzi, sarebbe negativo perché non ci sarebbe l’umiltà attenta a Lui. perché noi possiamo vantarci della nostra ricchezza e di essere virtuosi come quel fariseo che prega: “Grazie Signore, perché io non sono come gli altri”, e Gesù dice che non aveva capito niente della preghiera. Invece il pubblicano che diceva: “Signore, abbi pietà di me che sono un povero peccatore”, quello ha capito qualche cosa. La conoscenza di Dio è una cosa meravigliosa, perché non è condizionata da dati umani: Dio si può comunicare al bambino, alla vecchietta, all’analfabeta; non ha bisogno dei nostri mezzi di comunicazione. Ed è logico, ed è bellissimo questo, è la grandezza di Dio.

Cina: È detto anche nell’inno di San Paolo sulla carità: “Se conoscessi tutte le lingue…. e non avessi la carità sarei un cembalo…”

Luigi: Sì, ma questo è puro dono di Dio. Dio chiede quest’apertura all’anima. Anzi, Lui dice che i bambini sono molto più aperti all’ascolto del Padre di tanti adulti.

Pinuccia: E questa apertura sarebbe l’approfondimento?

Luigi: L’apertura è la condizione, che ci conduce ad approfondire è Dio. Cioè nella misura in cui noi restiamo in ascolto di Dio. Dio si riversa in noi, Lui è profondità. Quindi abbiamo questo processo di interiorizzazione. Per questo quanto più uno prende contatto con Dio, tanto più ama il silenzio. Ama il silenzio perché si trova con la persona amata, con Uno che lo impegna molto. Abbiamo già detto molte volte che Dio non ci dice: “Non preoccuparti del mangiare e del vestire”, perché abbiamo a starcene seduti su una poltrona a fare niente, ma perché abbiamo ad essere più disponibili, perché Lui impegna a tempo pieno.

Teresa: Però questa permanenza in ascolto, non è già un restare?

Luigi: Sì, certo, è già un restare.

Teresa: Ma è difficile restare in ascolto.

Luigi: È logico, però più uno si ferma in ascolto (bisogna tendere lì), tanto più Dio si riversa, si fa conoscere. Quanto più uno conosce, tanto più allora diventa stabile. E ad un certo momento arriva al cielo; la conoscenza di Dio diventa tale per cui non si può più scappare, anche se lo di volesse. L’attrazione della Verità  Dio prende talmente l’anima che, anche se volesse, non può più scappare, non può più dimenticare, non può più trascurarla. Non può più. Per cui noi partiamo da una situazione in cui facciamo molta difficoltà ad ascoltare per cinque minuti, a fermarci in raccoglimento cinque minuti e siamo chiamati ad arrivare a una stabilità tale (ed è tutta grazia di Dio, è tutta opera di Dio), dalla quale anche volessimo non possiamo più allontanarci.

Pinuccia: Non può più perché non lo vuole.

Luigi: Non lo vuole, si capisce; è Lui stesso che non lo vuole perché ha in se stesso il criterio di Verità. Noi siamo instabili in quanto siamo confusi e crediamo che quello per noi sia un bene, per cui Dio è cosa buona, ma anche quello è una cosa buona, anche quello è giusto, anche quello mi farebbe piacere. Ecco siamo incerti  e questo ci rende instabili. Dopo, quando abbiamo raggiunto quello che desideravamo, capiamo che abbiamo fatto un errore, ma lo capiamo dopo. Invece nella verità no: nella verità è tutto diverso. Nella Verità uno è illuminato dalla Verità e vede le cose nella verità: “Il Padre ama suo Figlio e gli fa vedere tutto quello che Egli fa”. È bellissimo questo. Gesù lo dice per insegnare a noi la meta alla quale siamo chiamati, come figli. Ecco, il Padre fa vedere al Figlio quello che fa, ecco perché uno non scappa più: perché vede quello che Dio fa.

Cina: Ci porta ad una presenza.

Luigi: Sì, è la presenza eterna, non è più presenza nel tempo, ma è una presenza eterna, che non va più via. È lo scopo della nostra vita di cui si parlava ieri sera con quell’austriaca: lo scopo della nostra vita è lì, lo scopo della nostra vita è Dio, non sono gli altri. Bisogna sempre mettere ben chiaro questo, non bisogna mai confondere. Lo scopo è Dio. Siamo stati creati per Dio, non per gli altri. L’uomo di per sé è più grande di tutta l’umanità, di tutta la società, di ogni problema.

Teresa: Quell’austriaca diceva che bisogna stare uniti a Dio per poter amare gli uomini, invece….

Luigi: Invece la meta non è quella, perché altrimenti la meta sarebbe di stare uniti agli uomini.

Eligio: Questa è una conseguenza.

Luigi: Sì, è una conseguenza, quindi un mezzo: ma la meta è Dio.

Pinuccia: E non è neppure un mezzo necessario, perché si potrebbe anche dire: “Io amando gli uomini, arrivo a Dio”. Ma non è indispensabile, vero?

Luigi: No, no; abbiamo visto che il rapporto tra l’anima e Dio è sempre personale. Il prossimo è un banco di prova, ma il rapporto tra l’anima e Dio è sempre personale, intimo. Per questo non dobbiamo mai confondere: la società, il gruppo, le istituzioni, l’umanità intera è sempre inferiore all’uomo, alla persona singola. Dio ha creato tutto l’universo per la persona singola, per l’uomo. Per questo non bisogna mai sacrificare (sarebbe un errore gravissimo) l’uomo all’istituzione, al prossimo, alla società, alla politica, no. La politica deve essere subordinata all’uomo, la società, l’istituzione deve essere subordinata all’uomo, non viceversa.

Damilano: Perché allora Gesù ci mette sempre davanti questo comando dell’amore per il prossimo? Non poteva dirci soltanto: “Ama Dio, se ami Dio non puoi non amare il prossimo”?

Luigi: Sì, quello è il banco di prova. Il prossimo è un banco di prova perché noi possiamo ingannarci. Noi possiamo dire in noi stessi: “Io amo, io conosco!”. Ecco allora il banco di prova: “Se tu hai conosciuto Dio, tu ami anche il nemico”. È un po’ l’esercizio della regola: facendo l’esercizio, il problema, verifichiamo se abbiamo capito o no la regola. Così allora il Signore fa con noi: fintanto che noi non abbiamo capito, anche se noi crediamo già di aver capito, ci mette di fronte a difficoltà, per dirci: “Guarda che tu credi di aver capito, invece non hai capito niente”.

Pensieri conclusivi:

Eligio: A me è piaciuto molto quel chiarimento sui “come” conoscere Dio, che mi ha fatto vedere le ultime illusioni sulle nostre iniziative di arrivare a Dio attraverso l’elaborazione di concetti, di culture, di esperienze sociali (a parte il fatto che a queste ultime già non ci credevo più); ma pensavo all’apporto della filosofia, per esempio per conoscere Dio. Invece no, è un modo diverso.

Rina: Un po’ aiuterà, no?

Luigi: Sì, va bene, all’inizio, ma: “Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di Me”. E d’altronde, guarda, facciamo l’esperienza: proviamo ad aprire dei testi di filosofia, teologia, proviamo, mica il Signore ce lo proibisce. San Paolo stesso ci dice: “Provate tutto, gustate tutto e trattenete ciò che è buono”. E facciamo il confronto con quello che ci dice Cristo. Magari Cristo ci presenta degli argomenti che ci impegnano molto, sono talvolta difficili, però vi troviamo della sostanza. Proviamo invece a leggere quei testi: dobbiamo scorrere centinaia di pagine e perdere tanto tempo per trovare forse una scintilla di quel fuoco che divampa tra la pagine del Vangelo. Come la Signore Curie che analizzava tonnellate di materiale per trovare un pochino di radio. Mentre abbiamo un’abbondanza enorme di vita nella Parola del Cristo.

Rina: Sant’Agostino e Santa Monica quando hanno raccolto la Verità per un attimo, di che cosa stavano parlando?

Luigi: Della vita eterna. Conversavano assieme, dimenticando questo, dimenticando quell’altro, ad un certo momento hanno colto per un istante…..

Eligio: Fu un’intuizione.

Pinuccia: Il Tabor.

Luigi: Un raggio di luce che il Signore fa arrivare e che ferisce, per dirci: “Vedi, quello che c’è da vedere? E vedi che c’è da vedere? E vedi che c’è da restare?”. Ma noi non sappiamo restare. Però vediamo per un attimo e ne restiamo feriti. Perché se il Signore non ci ferisse, noi non potremmo nemmeno desiderarlo. Allora il Signore ci ferisce prima con la sua luce per rendersi desiderabile e poi dice: “Adesso datti da fare!”, cioè adesso c’è il prezzo da pagare. Ogni cosa ha un suo prezzo soltanto pagando il quale noi possiamo arrivare a possedere quello che il Signore ci ha presentato. Cioè, ci ha presentato un campione: “Ecco, la merce è questa, se la vuoi!”.

Amalia: Mi è piaciuto questo pensiero: il restare con Dio è una conseguenza dell’approfondimento. Quindi se siamo volubili, dobbiamo fermarci e approfondire.

Pinuccia: Ho colto ora il collegamento tra l’argomento di stasera e gli appunti letti: cioè questo “buttarsi per primo” è poi questo deciderci a credere e camminare.

Eligio: Direi si annuncia, perché una cosa è l’annuncio attraverso cui ci voca, ci chiama e allora Lui scende sul nostro terreno; ci porta poi nel deserto, appunto attraverso problemi nostri, mettendoci di fronte a crisi, difficoltà, ecc. per entrare in colloquio. Annuncio quindi proposta. Di lì c’è tutto un cammino.

Damilano: Pensavo che questa settimana ho sentito alla Radio Vaticana che le varie culture umane, teologiche, hanno inquinato il messaggio cristiano. Parlava dei maestri di “inquinamento”.

Luigi: È che la Parola di Cristo, approfondendola, ad un certo momento diventa talmente semplice perché unificante, che diventa sorgente di gioia. Nella semplicità, nella luce, uno prova proprio la gioia.

Damilano: La nostra difficoltà sta proprio lì, che non siamo semplici. Dovremmo partire da come siamo.

Luigi: Certo, ma è Dio che ci fa semplici. Quanto più noi approfondiamo la conoscenza di Dio, la Parola di Dio, tanto più Lui ci fa semplici, non siamo noi che possiamo essere semplici.