…perché
l’angelo del Signore scendeva in tempo determinato nella piscina e l’acqua si
agitava, allora il primo che si immergeva dopo l’agitazione dell’acqua era
guarito dal suo male qualunque fosse”. Gv
5 Vs 4
Titolo: Dio ci porta nel deserto per parlarci.
Argomenti: L’incapacità di udire la parola che esce dalla bocca di
Dio. Abraham Heschel. Le due
opere di Dio: attrazione (A.T.) e Parola (N.T.). L’interesse determina l’attrazione.
La solitudine del deserto: condizione per poter ascoltare Dio. Il tralcio e la
vite. L’acqua si agita quando siamo portati a pensare Dio. L’ascolto e il
silenzio. Costretti a pensare Dio. Dio unica cosa necessaria. Il desiderio non
basta. Credere alla Parola, vuol dire rischiare. La realtà è Dio che parla in
tutto. Partire sulla Parola di Dio, Il prima di tutto. Per vincere il mondo
bisogna rischiare. L’io: ottimo servo e pessimo padrone. L’amore è personale.
La conoscenza reciproca. “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro”. L’eternità
è un “tutto presente. La conoscenza di
Dio è diretta, personale e incomunicabile. L’essenza del messaggio di Cristo. La
stabilità è una conseguenza della profondità. La cultura e la conoscenza.La
fede e il prossimo.
12/Febbraio/1978
Pensieri
tratti dalla conversazione:
Eligio: Pensavo al significato
del “determinato”, cioè l’angelo di Dio che scende in un tempo determinato. Dio
è indeterminato, cioè non condizionato da quanto di temporale, contingente
condiziona il nostro operare, quindi mi è difficile pensare l’operare di Dio in
tempo determinato. Dio è sempre presente ed è tutto il suo infinito presente in
ogni punto: ora pensare che il suo operare sia determinato, pare escludere il
suo operare e il suo dialogare con la creatura in un altro momento che non è
quello determinato. Quindi mi pare che sfugga qualcosa da questo “tutto” nel
dialogare di Dio con la creatura.
Luigi: È l’argomento di Amalia di
domenica scorsa, che non riusciva a mettere assieme Dio che parla in tutto e
Dio che parla soltanto qualche volta.
Infatti la volta scorsa
ci siamo fermati su: “in attesa del movimento
dell’acqua”.
Dio parla in tutto,
perché opera in tutto. Se Dio opera in tutto, tutto è parola di Dio e quindi la
parola è universale e allora si tratta di chiederci come mai se Dio parla in
tutto, noi invece lo udiamo solo qualche volta.
L’acqua che si agita
significa la parola di Dio, poiché è la parola di Dio che dà vita. Quindi quell’angelo
che scende ad agitare l’acqua rappresenta la parola di Dio che viene tra noi.
Però la parola di Dio è
in tutto e come mai invece soltanto in un tempo determinato, di
quando in quando, c’era questo agitarsi dell’acqua per cui il primo che
si fosse buttato nell’acqua era guarito?
Di qui questo concetto
di tempo determinato per la parola di Dio. È un argomento da approfondire
questa sera. Ne abbiamo già accennato quando abbiamo parlato dell’ora settima.
L’ora settima era un’ora determinata in cui Gesù aveva parlato.
Eligio: Determinata per la
creatura.
Luigi: Sì, determinata per la
creatura.
Eligio: Allora il concetto di
determinato si riferisce alla creatura?
Luigi: Certo.
Pinuccia: Come abbiamo visto
domenica scorsa: “l’intermittenza dell’agitarsi dell’acqua” siamo noi che siamo
intermittenti nell’udire Dio che parla a noi, ma Lui non è intermittente nella
sua vita e nella sua parola verso di noi.
Luigi: Sì, abbiamo fatto il
confronto tra “sorgente di acqua viva” e “acqua stagnante”.
L’acqua viva, cioè la
parola di Dio, è nel Verbo di Dio: “L’uomo
vive di ogni parola che procede dalla bocca di Dio”.
Ora per poter ascoltare
la parola di Dio, bisogna essere con Dio. Se non si è capaci a restare con Dio,
si scende verso l’assenza della parola di Dio; cioè Dio parla in tutto ma
noi non lo sentiamo in niente: allora abbiamo l’acqua stagnante, la piscina
d’acqua ferma, che non dà vita e non ci purifica e non ci lava perché è la
parola di Dio che ci purifica e ci lava; ma la parola di Dio ascoltata dalla
“bocca” di Dio. Ecco perché non bisogna mai staccare la parola di Dio dalla
Presenza di Dio, dall’Essere di Dio.
Per questo Gesù dice: “L’uomo vive di ogni parola che procede
dalla bocca di Dio”, perché se non teniamo presente Dio, rivestiamo tutte
le opere di Dio, che sono parole di Dio, del pensiero del nostro io, dei nostri
interessi, delle nostre intenzioni e non ascoltiamo più la parola di Dio.
Oppure la rivestiamo delle intenzioni degli uomini e allora vediamo gli uomini
e non vediamo più Dio; vediamo il nostro io, vediamo le preoccupazioni e non
vediamo più Dio.
Pinuccia: Neppure più le sue
stesse parole non le capiamo allora.
Luigi: No, perché l’intelligenza
delle sue parole è presso Dio, è in Dio.
E allora noi abbiamo
nell’operare di Dio due operazioni:
La prima operazione è
quella di richiamarci all’attenzione di Lui, per intendere, per ascoltare le
sue parole.
Dio in un primo tempo
opera per liberarci dai nostri rumori, dalle nostre distrazioni e renderci
attenti a Lui; è questa l’operazione significata dall’Antico Testamento, dal
battesimo di giustizia del Giovanni Battista, attraverso la quale Dio ci
convince che il nostro io non deve essere al centro, che il nostro io non è Dio
e che quindi non dobbiamo mettere il nostro io come punto di riferimento, ma
Dio. Dio vuole aiutarci a fare questo passaggio dall’io a Dio: mettere prima di
tutto Dio. Soltanto mettendo Dio prima di tutto diamo fatto capaci di
intendere, di ascoltare le parole di Dio. “Le
mie pecore ascoltano le mie parole”. Ma chi non è pecora di Dio non ascolta
le sue parole.
Quindi il Signore prima
di tutto opera per attrarci nel pensiero di sé, per renderci attenti a Lui,
alla sua esistenza, alla sua Verità, alla sua Presenza. Attenti a Lui, siamo
fatti capaci di ascoltare e di intendere. Ma se noi non siamo attratti da Dio,
non ascoltiamo le parole di Dio; noi ascoltiamo le parole di altri: “Avete un altro padre e quindi ascoltate
altre parole, non ascoltate le mie parole: le mie parole non possono penetrare
in voi”. Chi ci dà la possibilità di accogliere le parole di Dio è Dio
stesso; per cui se tu non intendi parlare di Dio, devi guardare Dio, devi prima
convincerti di Dio. Soltanto guardando Dio ascolterai le parole di Dio. Ognuno
di noi ascolta le parole di colui che porta nel cuore, di colui al quale
guarda: “Dov’è il tuo tesoro, ivi è il
tuo cuore” e lì è anche il tuo ascolto. Ecco perché noi corriamo il
rischio di chiuderci, se non mettiamo Dio prima di tutto; eleggendo un
tesoro diverso da Dio, eleggiamo un padre per noi quindi condizioniamo il
nostro cuore e il nostro ascolto, quindi ci chiudiamo ad ogni altra parola.
Allora anche se leggiamo le parole del Vangelo, non le intendiamo o le
fraintendiamo o le intendiamo come delle astrazioni, come cose lontane, come
cose da intendere secondo il nostro buon senso, le nostre ragioni, ma non
entriamo nello Spirito. Chi ci dà la possibilità di entrare nello Spirito è lo
Spirito stesso di Dio. Allora prima di tutto bisogna passare dallo Spirito del
mondo allo Spirito di Dio. Soltanto facendo questo passaggio diventiamo capaci
di intendere le parole di Dio. Per questo Dio opera nel nostro mondo per
convertirci da tutte le nostre distrazioni, quindi da tutti i nostri
interessi diversi nel mondo, per portarci nel deserto. È la lezione del Vangelo
di stamattina e anche di domenica prossima, la Trasfigurazione del Tabor: li
porta in alto. Ecco, Dio porta in alto, perché? Per introdurli nella sua
Verità. Ora, questo portare in alto, portare nel deserto è la stessa cosa: sostanzialmente
crea una distanza tra la nostra anima e il mondo, tra la nostra
anima e gli altri argomenti e le altre presenze, ci isola: “Ti condurrò nel deserto e là parlerò al tuo cuore”.
Ecco, (la seconda
operazione):
-
Dio per parlarci ci conduce nel deserto.
E cos’è questo deserto?
Non più attrazione di altro.
Nel deserto c’è la
solitudine: l’anima è messa in solitudine con Dio.
Qui allora possiamo
arrivare a capire quell’intermittenza.
Cioè il deserto è la
condizione perché l’anima sia fatta capace di ascoltare la parola di Dio. Esso
è il culmine di tutta quell’opera precedente di Dio attraverso la quale ci
conduce ad ascoltare la sua parola. Può essere un dolore, una disgrazia, una
morte, una rovina. Se questo deserto è il culmine di tutta l’opera di Dio,
avviene di quando in quando. La nostra normalità, che è distrazione da Dio,
attraverso l’opera di Dio, viene a poco per colta riportata, messa a contatto
con l’argomento di Dio, che è l’evento straordinario. Non è detto che, messi a
contatto con l’argomento di Dio, non ci restiamo, però Dio opera per portarci
su questo orizzonte, su questa soglia: la porta di Gerusalemme.
Eligio: Udendo l’aggettivo
“determinato”, vuol dirci che l’anima non può restare in permanenza dinanzi alla rivelazione di Dio a
tempo pieno?
Luigi: Tutta la difficoltà
nostra è che non siamo capaci a restare. Ed è per questo che c’è quest’acqua che si agita di quando in
quando.
Eligio: Non è mica tanto
incoraggiante.
Luigi: No, perché ora qui
abbiamo anche l’altro concetto: che chi si butta per primo viene guarito da
ogni suo male. L’incapacità a permanere è un nostro male. Ma forse è bene fare
una ricapitolazione per Eligio che è mancato le volte scorse. Bisogna tener
presente che ogni scena del Vangelo è carica di significato per la nostra vita
personale. Ora qui ci troviamo a Gerusalemme. Gesù, andando verso la Giudea, si
viene a trovare nelle vicinanze di Gerusalemme, alla porta delle pecore, che
era la parta settentrionale che introduceva nella Città. Ora Gerusalemme è la
Città Santa che rappresenta la Città di Dio e questa Città di Dio è la nostra
anima. Gesù che arriva alle porte di Gerusalemme è Gesù che arriva alle porte
della nostra interiorità (ed è qui il problema: interno ed esterno). Su questa
soglia c’è questa porta che è chiamata Porta delle Pecore e qui è Gesù stesso
che in un altro capitolo ci rivela: “Io
sono la porta delle Pecore”. Però accanto a questa porta delle Pecore,
fuori Gerusalemme, c’è una piscina con cinque portici e una grande folla di
malati. Anche questo è carico di significato. Tutti questi malati che sono
vicino alla porta delle Pecore, rappresentano la nostra anima con tutti i suoi
pensieri che non entrano, che non passano attraverso la porta delle Pecore,
perché per passare attraverso essa bisogna superare noi stessi. Per entrare
nella Città di Dio bisogna rinnegare se stessi. “Chi vuol venire dietro di me rinneghi se stesso”. Allora noi arriviamo,
ma siamo tutti lì fermi alla soglia della Città di Dio, dell’eternità, della
vita eterna. La vita eterna non è dopo morte ma è oggi: abbiamo visto che è
il settimo giorno.
Abraham
Heschel dice:
-
“La vita eterna non ha
origine fuori di noi (confermando quindi che la Città di Dio è dentro di
noi),
-
è radicata in noi e
cresce nel più profondo di noi stessi (quindi la vita eterna è un qualcosa che
cresce);
-
così il mondo futuro
non è una condizione postuma in cui l’anima penetrerà l’indomani della sua
dipartita dal corpo.
-
L’essenza del mondo
futuro è il sabato eterno nel tempo: il settimo giorno è un’immagine
dell’eternità”.
È un’immagine del
settimo giorno eterno la settima ora in cui è stato guarito il figlio.
Ecco, ognuno di noi è
lì sulla soglia della Città Santa, in attesa di entrare.
La vita, il sentiero
della vita passa attraverso questa porta ed entra nella Città di Dio.
Però per passare
attraverso questa porta, dobbiamo superare noi stessi, dobbiamo rinnegare noi
stessi.
E qui abbiamo la difficoltà:
non superando noi stessi, succede che noi ci arrestiamo sulla strada della
vita.
Ma arrestarci sulla
strada della vita vuol dire (poiché non si resta fermi) cominciare a decadere,
vuol dire cominciare a diventare malati.
E allora questa folla di
malati nella piscina, lì vicino alla porta delle Pecore, rappresenta
tutta l’umanità che giunta alla porta delle pecore, non è entrata, e ha
cominciato a venir malata. Rappresenta anche tutti i nostri pensieri malati che
non sono passati attraverso quella porta e non hanno ricevuto Dio.
Ad esempio il tralcio
staccato dalla vite, cade per terra e comincia a decadere, a disfarsi: e cos’è
che lo disfa? La luce del sole, l’aria, gli elementi della terra, l’acqua,
tutto lo fa morire.
Ora notiamo una cosa,
che la luce del sole, la terra, l’acqua. L’aria, sono proprio quegli
elementi che mantengono in vita il tralcio se è unito alla vite.
Ora succede questo, che
noi disuniti da Dio diamo la causa all’aria, al sole, alla terra, all’acqua che
ci disfano, che ci fanno morire e noi ci diamo da fare per eliminare l’acqua,
perché l’acqua ci disfa; cerchiamo di eliminare il sole, il caldo perché mi
disfa e non mi rendo conto invece che quello che mi disfa è il distacco da
Dio, dalla vite.
Non attribuiamo allora
fuori di noi le cause della perdita della nostra vita, ma dobbiamo cercarle
dentro di noi: è il tralcio che si è staccato dalla vite; perché quegli
stessi elementi che ci disfano sono gli stessi elementi che ci danno vita se
siamo uniti a Dio.
Ma per non separarci dalla
vita, bisogna passare attraverso la porta delle pecore. Allora in questa
piscina (il cui significato è la necessità di purificazione, perché non avendo
superato il pensiero del nostro io siamo diventati ammalati per cui abbiamo
bisogno di purificarci nella parola di Dio, l’acqua: infatti chi si butta in
questa piscina quando è mossa, rimane guarito), l’acqua rappresenta la parola
di Dio. Però staccati da Dio, la parola di Dio non è più efficace e quindi
diventa acqua stagnante che non guarisce.
Ecco allora abbiamo il
concetto di tempo determinato: Dio, in quest’acqua stagnante che è la nostra
vita che sta morendo, opera per portarci nel deserto. Dio opera per
allontanarci da tutto quello che ci distrae da Lui, per metterci di fronte a
Lui. Non è detto che, messi di fronte a Lui noi restiamo. Infatti non è un atto
magico; non è che l’acqua agitata guarisse tutti di per sé. Qui dice: “Un Angelo scendeva (anche questo è
simbolo: è l’annuncio di Dio, quindi simbolo della parola di Dio), di quando in quando per agitare l’acqua”
è l’opera di Dio che scende tra noi (e che si conclude poi nel Cristo), ci
porta nel suo silenzio: un distacco da tutto il nostro mondo per rimetterci a
contatto con la vita; ci rimette di fronte alla porta per entrare in
Gerusalemme. Ci offre la possibilità, man mano che la morte cresce in noi, di
ritrovare la vita. Però è condizionato, infatti dice che: “Il primo che si butta nell’acqua non appena questa si agita”. Non
basta che l’acqua sia agitata per guarirci; non è un fatto magico. Non basta
essere portati nel deserto a pensare Dio per impegnarci a pensare Dio. L’acqua
si agita tutte le volte che attraverso le vicende della vita noi siamo portati
a pensare Dio.
Eligio: Allora il tempo
determinato si riferisce solo alla creatura, per cui quando la creatura è
orientata a Dio, Dio agita in permanenza le acque, non più a intermittenza.
Luigi: Diciamo, a contatto
con Dio l’acqua è sempre fresca, quindi è sempre agitata, sempre nuova, è
acqua di sorgente, anzi diventa una sorgente viva dentro di noi. “Chi beve l’acqua che io gli darò avrà in sé
una sorgente di acqua viva fino alla vita eterna”. Avrà in se stesso una
sorgente di acqua viva. La sorgente diventa viva, cioè sorgente di vita. Ora
che il tempo sia relativo a noi, possiamo anche approfondirlo tenendo presente
che non è sufficiente che uno parli perché noi ascoltiamo. L’ascolto è sempre
determinato da due fattori: bisogna che uno parli, ma che l’altro sia in
silenzio. Dio ci conduce nel deserto in questo silenzio per metterci nella possibilità
di ascoltare. Noi che siamo pieni di rumore, sotto l’opera di Dio, siamo
condotti da Dio nel silenzio. Dio ci conduce: ha i suoi tempi forti.
Amalia: Ecco, io vedevo il
tempo determinato riferito alla creatura, però anche da parte di Dio in questo
senso: una sovrabbondanza, i tempi forti che non sono di sempre.
Luigi: Non sono di sempre,
cioè sono quando la creatura è messa a contatto con Dio, cioè è costretta a
pensare Dio. Costretta a pensare Dio, non vuol dire però che pensi Dio. Però
Dio si presenta; ad esempio ci toglie tutto quello che ci distrae e fa rumore
attorno a noi e ci impedisce di pensare a Lui e ci porta, magari nell’agonia
(l’agonia è un tempo forte) nel dolore, nella disgrazia, nella morte di una
persona cara: sono tempi forti. Il deserto è rappresentato da questi fatti
attraverso cui Dio ci pone il problema di sé; ci porta cioè sulla soglia tra
l’umano e il divino; tra il naturale e il soprannaturale: ci porta di fronte al
trascendente. Non vuol dire che noi ci buttiamo. Tutte le opere di Dio
sono proposte; però Dio ci dà la possibilità.
Teresa: Non capisco perché
solamente il primo rimane guarito.
Luigi: Sì, perché per
essere guarito bisogna buttarsi e buttarsi come prima cosa, perché se noi
consideriamo Dio in secondo tempo, non guariamo. Bisogna invece considerare
Dio come prima cosa, come l’unica cosa necessaria: “Cercate prima di tutto il Regno di Dio”, perché se io lo metto in
second’ordine, ricado nel mio male.
Eligio: Tutti quello che sono
lì alla piscina sono attratti da una speranza di guarigione in quell’acqua;
quindi dovrebbero avere presente soltanto questa virtù salvatrice dell’acqua e
quindi non dovrebbero avere altre distrazioni e come mai c’è un solo “primo”
che si butta? Noi di fronte al pensiero di Dio, abbiamo molte distrazioni, ma
lì essi vanno solo per quello e come mai uno solo e non gli altri, se tutti
sono attenti all’acqua?
Luigi: Prima di tutto perché
non è un atto magico.
Eligio: Ma vanno però lì con
un pensiero preciso: hanno presente l’acqua per buttarsi; noi invece di fronte
al pensiero di Dio ci distraiamo facilmente.
Luigi: Sì, ma abbiamo detto
che questo agitarsi dell’acqua rappresenta un culmine: Dio attraverso il suo
operare ci porta nel deserto e ci mette di fronte a Lui. Nel deserto
praticamente non abbiamo più niente altro che ci attragga: è soltanto terra e
cielo: noi di fronte a Dio. Posti noi di fronte a Dio bisogna buttarsi a tutto
quello che è significato e quindi lezione di vita per noi, e ci dice: “Se sei
portato di fronte a Dio, buttati perché quella è la tua salvezza!”. Rappresenta
uno solo per rappresentare questo “prima di tutto”.
Eligio: Allora non è
sufficiente che io mi riconosca ammalato, che mi porti là dove la mia malattia
può essere guarita.
Luigi: No, non basta, infatti
lo vedremo in seguito: un uomo che da 38 anni è ammalato e desidera buttarsi
nell’acqua ma non guarisce perché nessuno lo buttava. Era paralizzato, non
bastava il desiderio per muoverlo. Perché uno dei caratteri delle nostre
malattie è proprio questa: la paralisi, l’impossibilità da parte nostra a
salvarci. Poi per quel paralitico ci sarà l’incontro col Cristo che è Lui
stesso l’acqua della vita, per cui non ci sarà più bisogno di buttarlo nella
piscina, ma Gesù gli dirà semplicemente: “Alzati
e cammina”.
Teresa: Avevano però tutti lo
stesso desiderio di essere guariti.
Luigi: Ma non basta il
desiderio; la persona malata desidera la guarigione, però non è perché desideri
la guarigione la creatura guarisca; la guarigione non è effetto del nostro
desiderio, altrimenti direi: sono io che con il mio desiderio e con la mia fede
mi sono guarito. No, chi ti guarisce è Dio. E allora in tutto abbiamo sempre il
dono di Dio: Dio ci offre, ci propone, bisogna però che noi ci buttiamo; perché
possiamo non buttarci in quel che Lui ci propone. Ma bisogna buttarci come
la cosa essenziale, come l’unica cosa. Ecco quel “prima di tutto”. Inoltre
qui c’era una quantità enorme di malati, che rappresenta tutta l’umanità, e
Gesù qui ne guarisce uno solo. E perché ne guarisce uno solo e non li guarisce
tutti? Sono lezioni cariche di significato, lezioni di vita per ognuno di noi.
Comunque in questo “prima di tutto”, vuol dirci che dobbiamo considerare quello
prima di tutto. Se non ci buttiamo non guariamo.
Eligio: Che significa
buttarci?
Luigi: Impegnarci con
quell’argomento che Dio ci propone, farlo nostra vita. Si è buttato quel
funzionario quando Gesù parlò: “Và tuo
Figlio vive”; lui si è buttato perché ha corso il rischio di trovarsi il
Figlio morto, ha creduto alla parola. Credere alla parola di Dio vuol dire
buttarsi, vuol dire rischiare, perché vuol dire “nascere da”. La vita nuova
nasce dalla parola di Dio che è giunta a noi. Quindi è una nascita nuova:
per questo dice che bisogna buttarsi. Non è più un vivere secondo il mondo,
secondo le nostre conoscenze, le nostre esperienze. Si è buttata Maria alla
parola dell’Angelo. Si è buttato questo funzionario: è nato dalla parola, ed è
incominciato a vivere dalla parola di Dio. Quell’ora settima inaugura la
vita nuova: diventa principio di vita eterna. La vita eterna non è il
dopo–morte, o meglio, il dopo–morte significa il dopo– morte del nostro io: il
superamento del nostro io. Allora abbiamo la nascita. Qui abbiamo il seme della
vita eterna che inizia in noi e deve crescere fino ad occupare tutto. Occupando
tutto noi diventiamo stabili in Dio,
impariamo a restare in Dio. Ecco come rimane superata quella famosa difficoltà
a restare in Dio, perché noi solo restando in Dio, realizziamo, combaciamo con
Dio che parla in tutto. Per cui Dio non parla più ad intermittenza, ma parla
in tutto nel suo Verbo. Come noi combaciamo con Dio, facciamo una cosa sola con
il Verbo di Dio, allora siccome nel Verbo di Dio, Dio parla sempre, noi in Lui
siamo sempre in ascolto di Dio. Non ascoltiamo più Dio di quando in quando,
ma ascoltiamo Dio in tutto; si realizza la promessa di Gesù: “Affinché dove sono Io siate anche voi”.
“Dove sono Io”: e dove è Lui? Lui è universale, Lui è dappertutto. I limiti
estremi sono:
-
Dio che parla in tutto;
-
Dio che parla in niente.
Noi come creature ci
troviamo in un mondo dove parlano tutti, ma Dio tace. Dio è silenzioso, Dio è
lontano: lo vediamo come un’astrazione. Dio ci chiama ad arrivare su
quell’orizzonte in cui Lui parla in tutto.
La realtà è che Lui
parla in tutto. Allora noi, non ascoltando Dio parlare in tutto, siamo fuori
dalla Realtà.
Ecco perché c’è l’insofferenza da parte nostra, c’è l’inquietudine, l’angoscia,
c’è il senso di vuoto; siamo noi che ci siamo allontanati dalla Realtà. Quanto
più ci avviciniamo alla Realtà “Dio parla in tutto”, tanto più la nostra anima
vive e noi ci sentiamo vivi. Ma per poter ascoltare Dio che parla in tutto, bisogna
imparare a restare alla Presenza di Dio, a permanere con Dio. Invece questo
oscillare tra la Presenza di Dio e la presenza di altro, ci porta
all’intermittenza, ci fa scendere verso le acque stagnanti, al non – più –
vita. Allora lì uno trova tutto vecchio, non trova più motivi di vita. La vita
perde il suo senso, non ha più significato e proviamo il fallimento. Ma il
fallimento non è presso Dio: è come il tralcio che si è staccato dalla vite per
il quale tutto concorre alla sua morte.
Pinuccia: Ci sono molti ammalati
e si butta uno solo: questo è solo per rappresentare il “prima di tutto”, ma
non è che gli altri siano esclusi, no?
Luigi: No, è il significato
che conta. Tutte le opere del Signore sono significato per la nostra vita
spirituale. Qui dobbiamo cogliere quello che il Signore vuol dirci: Egli fa la
massa e fa uno per dire a noi quello che dobbiamo mettere prima di tutto.
Altrimenti come facciamo a comprendere il “prima di tutto”? Tutto è lezione di
Dio, anche questa è una parabola di Dio, fatta con scene e, come ogni parabola
di Dio, va intesa nello Spirito. È lo Spirito che ci insegna questa fretta,
questo “prima di tutto”. Abramo si è buttato prima di tutto: “Va, parti dalla tua terra e vieni dove io
ti indicherò”: ecco la partenza prima di tutto. Così pure abbiamo l’esempio
del popolo ebraico che doveva mangiare con il bastone in mano pronto a partire
appena l’angelo sarebbe passato. E qui la piscina: “L’angelo
agitava le acque…”, bisogna essere disponibili a partire. Al Vangelo,
durante la Messa, ci si alza (una volta ci si alzava soltanto al Vangelo e
anche questo era carico di significato), per dire: perché si sta in piedi?
Perché devi essere pronto a partire sulla parola. Ad esempio il funzionario che
parte sulla parola, perché soltanto partendo sulla parola si nasce dalla
parola, perché soltanto partendo sulla parola si nasce dalla parola, si
incomincia la vita nuova. Ecco il “prima di tutto”. Abbiamo parecchie altre
lezioni: così il servo che deve vegliare all’arrivo nella notte del padrone,
affinché appena arriva subito gli apra, perché è proprio l’attesa che rende la
creatura capace di accogliere. Invece se noi non siamo in attesa, non possiamo
accogliere Colui che viene. Ecco anche il pane che deve essere mangiato ha
bisogno della fame. È tanta la fame e quindi l’attesa, la veglia, che rende la
creatura capace di nutrirsi del pane, altrimenti se il pane arriva quando uno
non ha fame, lo disprezza; quante volte incontriamo dei pezzi di pane per la
strada! Perché? Perché c’è gente che non ha fame. Quindi quello che rende
capace di accogliere la Vita, è la vigilanza. “Siate vigilanti, dice Gesù, come
un servo, perché il padrone viene come un ladro nella notte”. Ecco, è
sempre questo “prima di tutto”, questo vegliare, questo attendere come la cosa
principale per la nostra vita, come il malato che attende quel movimento
dell’acqua, perché era la cosa che gli era più necessaria.
Damilano: Perché si rischia
buttandosi nella vita? Cosa si rischia?
Luigi: Quel funzionario, per
esempio, rischiava di trovare il Figlio morto, perché lui si allontanava
dall’unica speranza, dal medico. Infatti Gesù si rifiuta di andare con lui, non
va, non scende e gli dice: “Va”. Ora
tu ti immagini di andare da un professore e invocarlo che venga a curare una
persona che ti sta a cuore e che è malata, e quell’altro si rifiuti e ti dica: “Va, il tuo malato è guarito”, sembra
chiaro quello che rischia. Partendo rischia di trovare quella persona morta,
perché non ha portato con sé colui che la poteva guarire. Quindi vivere secondo
la Parola di Dio vuol dire superare le nostre sicurezze, (“la fede vince il mondo”): ma per vincere il mondo bisogna
rischiare. Ora, di fronte alle occasioni del mondo, prova ad affermare la
fede e poi ti accorgi quello che rischi. Perché se tu hai la madia piena e vedi
un povero, ti è più facile dare un pezzo di pane, ma se tu hai solo un pezzo
di pane e incontri un povero, se tu devi ubbidire alla fede, voglio vedere
quello che rischi: io lo do all’altro, ma io domani muoio di fame. Ecco
il rischio, perché bisogna far conto su Dio, e far conto su Dio non vuol
dire far conto sulla madia, sul mio capitale, sulle persone che ho attorno, sui
mezzi, sulle mie risorse. No, perché se faccio conto su quello, non faccio
conto su Dio. Quindi è soltanto Dio che libera, ma per liberare ti fa
rischiare. Devi far conto su Dio che non vedi, perché la visione viene dopo che
uno ha rischiato, prima non viene. Prima
vedo solo quello che perdo e vedo che domani sono alla fame: il rischio sta lì.
Teresa: Il rischio sta nel non
tener conto delle prudenze umane.
Luigi: Se non si supera se
stessi è tutto assurdo. Bisogna imparare a far conto su Dio perché la vita
eterna è far conto su Dio, è riferire tutto a Dio; altrimenti non entriamo
nella Città di Dio, cioè di fronte alla porta ci ritiriamo. E ritirandoci è il
tralcio che si stacca dalla vite e quindi comincia a morire.
Eligio: Ma è possibile questo
superamento?
Luigi: Se il Signore lo
propone è perché ci è possibile.
Eligio: Ma l’io, il seguire
l’io non è normale, naturale?
Luigi: Sì, è normale, è
naturale. Il nostro io è naturale.
Pinuccia: Naturale vuol dire che
Dio l’ha fatto così?
Luigi: Certo, è naturale,
perché il nostro io non è che sia cattivo: è creatura di Dio, però va superato
come tutte le creature, perché è creatura. Non dobbiamo metterlo al centro,
perché il nostro io diventa cattivo quando lo mettiamo al centro. Cioè il
nostro io è un ottimo servitore e un pessimo padrone, come il denaro, come
tutte le creature. E come dobbiamo superare l’attrazione delle creature,
l’attrazione del denaro, l’attrazione di quello che piace, l’attrazione dei
sentimenti, (li dobbiamo superare e riferirli sempre a Dio, riportarli a Dio),
così anche per il nostro io: è una creatura come tutte le creature e va
superata, perché: “Io sono il tuo
Signore. Uno solo è il Signore tuo Dio. Non avrai altro Dio”. Ora quando
noi mettiamo una creatura al centro, entriamo nel sacro e ne facciamo un idolo.
Ora il nostro idolo può essere il denaro, può essere una carriera, il posto di
lavoro, l’uomo, e può essere il nostro io: è fuori posto ed ecco allora che è
cattivo. Di per sé tutte le creature sono buone, ma tutte le creature sono
servitrici di Dio. E cosa vuol dire essere servitrici di Dio? Vanno sempre
riportare a Dio: ecco il Signore è Dio! Non dobbiamo quindi staccare nulla
da Dio: ecco l’autonomia, il peccato originale: il considerare una cosa
separata da Dio. Per cui diciamo: “Ah,
questa cosa qui è buona!”, no, un momento, portala a Dio per vedere se è
buona, non darla per scontato; tutte le cose vanno sempre riportate a Dio,
sempre raccolte in Dio, non dobbiamo mai dare niente per scontato. Non dobbiamo
mai dire: “Ah, io di questa cosa qui sono proprio convinto!”.
No, non basta che tu sia convinto, vedi in Dio, cerca in Dio, medita con Dio,
raccogli in Dio. C’è sempre un passaggio tra la cosa che arriva a noi e la
volontà di Dio. Ogni cosa arrivando a noi crea una certa impressione o
sentimento, magari anche di bontà, un certo fascino; non dobbiamo fermarci a
questi ma andare oltre; è un fatto che va dal nostro io a Dio, ed è un
tratto personale che ognuno di noi personalmente soltanto può fare, non c’è
nessuno che lo possa fare al nostro posto. È la vera opera sacerdotale:
questo consacrare, questo portare ciò che arriva a noi a Dio per vederlo in
Dio. “Chi con me raccoglie e riceve
mercede di vita eterna”: quindi entra nella vita eterna, cioè entra nella
Città di Dio. Ricapitolando, il concetto di porta, di Gerusalemme, di questa
piscina con malati, di quest’acqua che si agita di tanto in tanto, di questo
angelo che scende, di questa guarigione per il primo si butta, è chiaro?
Cina: È tutta da fare,
questa raccolta!
Rina: È bello questo lavoro
sacerdotale che ognuno di noi deve compiere, vero?
Luigi: Sì, e non c’è nessuno
che possa farlo al posto nostro, perché è personale. È come l’amore, e l’amore
è personale: noi possiamo delegare un altro ad amare al nostro posto, è un
fatto essenzialmente personale. Per cui, ecco, la nostra vita è proprio
personale. È quella famosa pietra di cui parla l’Apocalisse con sopra un nome
che conosce solo colui che la riceve. Per cui siamo tutti chiamati ad un
rapporto personale con Dio e Dio ci tratta ognuno personalmente come se
fossimo soli al mondo, come se non ci fosse nessun altro. Dobbiamo convincerci
di questo!
Pinuccia: (Continuazione lettura riassunto della domenica 11/12 –
lettura già iniziata nella domenica 29/1).
“Voi se non vedete miracoli e prodigi non
credete”: che cos’è che rimprovera Gesù? Quand’è che anche noi vogliamo
vedere i miracoli? andiamo sempre alla ricerca di novità, di cose
straordinarie, quando non ci preoccupiamo di restare e approfondire ciò che Dio
ci dà. La vita non sta nel vagare di cosa in cosa, ma nel restare; ma non
possiamo restare in ciò che non ci preoccupiamo di approfondire. Possiamo
essere uomini che non amano applicarsi, ma soltanto essere intrattenuti. Beati
coloro che cercano di vedere ciò che credono e non hanno sempre bisogno di
essere stimolati a credere o che vanno continuamente alla ricerca di motivi per
credere! Quand’è che anche noi facciamo questo per credere, cioè quand’è che
noi andiamo alla ricerca di motivi nuovi per credere, invece di credere? Il
credere è l’inizio di una vita nuova, perché credere vuol dire vivere per,
camminare verso. Cercando sempre dei nuovi motivi per credere, noi non viviamo
mai. Una volta che uno ha capito che credere è vivere per l’essenziale,
non bisogna frustrare questa segnalazione da parte di Dio cercando sempre cose
nuove per credere, altrimenti è come quando leggiamo la segnalazione di una
strada e non la seguiamo e cerchiamo ancora altre segnalazioni, cercando magari
altre mille persone che ci indichino e che ci confermino che quella è la strada
e noi non partiamo mai, non camminiamo. Se invece siamo semplici, basta che una
persona sola ci dia una segnalazione e noi aderiamo, la seguiamo e non andiamo
più a cercare altri che ci confermino che quella è la strada, così come quando
entriamo in una città straniera: ci fidiamo della segnalazione che ci dà una
persona. Una volta che abbiamo capito che la strada è quella, la si deve
seguire. Chi non sa deve fidarsi della segnalazione e se sbaglia non è più responsabile.
Chi non sa, deve aderire, se è semplice; ma l’importante è camminare. Credere
vuol dire appunto camminare per andare a vedere ciò che la segnalazione ci
annuncia. Attraverso le sue opere, Dio ci segnala che c’è qualcosa da vedere:
credere è andare. Noi possiamo sprecare la vita cercando segnalazioni che già
ci sono date, cercando conferme di queste segnalazioni.
Luigi: Forse qui ci è chiaro perché Gesù si rifiuta di dare dei segni
tutte le volte che glieli chiedono e dice: “Se
non accoglierete il Regno di Dio come un bambino, non potrete entrare”. Quindi
ogni pretesa, ogni richiesta di segni, viene frustata da parte di Dio, perché i
segni già ce li dà, la segnalazione c’è: non andare quindi a cercare e a
chiedere altri segni.
Pinuccia: (continuazione della lettura)
Si cammina sulle parole di Gesù. Lui ci dà le sue parole, perché
camminiamo solo se restiamo nelle sue parole. Noi restiamo in Lui nella misura
in cui restiamo nelle sue parole. Per cui dobbiamo camminare sulle sue parole
senza vagare da un sentiero all’altro, senza cercare continuamente motivi per
partire.
Luigi: Forse per cercare motivi per non partire.
Pinuccia: Anche. La strada presuppone sempre in noi
la volontà di raggiungere un fine, perché se non abbiamo nessun fine da
raggiungere non ci serve la strada. Dobbiamo chiederci: “Voglio veramente arrivare là? A Dio? Allora seguo veramente la strada”.
Altrimenti perdiamo tempo a cercare la strada, ma non ci interessa arrivare
alla meta. Ecco, la meta è questa: conoscere Dio come Lui ci conosce. Camminare
è approfondire la parola che Lui ci dice. La parola approfondita conduce e ci
svela un volto. La parola di Dio ha questo segreto: più è approfondita e più ci
apre un sipario, rivelandoci Colui che è. Non dobbiamo subordinare il nostro credere
alla ricerca di novità e di motivi per credere. Basta la novità che Lui ci dà. La parola che giunge
a noi, presenta tutta la garanzia della Verità per essere creduta. Se siamo
come un bambino aderiamo, se no sprechiamo tanto tempo della vita per informarci
se quella è veramente la strada. L’unica garanzia che la strada è giusta è
quella di camminare. Perché seguendo quella parola, noi stessi riceviamo quella
luce e quella garanzia che è vera.
Eligio: La garanzia è quella di camminare ma non comunque e dovunque.
Pinuccia: No, camminando su quella parola che ci è
annunciata. Se uno ci indica una strada noi capiamo se è quella giusta se
arriviamo dove vogliamo andare; camminando, man mano che camminiamo, abbiamo la
garanzia che è vera.
Teresa: Hai letto: se camminiamo arriviamo a conoscere Dio come Lui ci
conosce?
Pinuccia: Sì, arriviamo alla meta. La meta è quella.
Teresa: Ma noi non possiamo conoscere Dio come Lui conosce noi.
Luigi: Siamo chiamati a conoscere così, siamo creati per quello. San Paolo stesso dice: “Affinché lo conosciamo come Lui ci
conosce”. Infatti perché abbiamo questo desiderio?
Teresa: Mi sembra che saremmo altri “Dio”.
Luigi: Infatti siamo chiamati a diventare questo, siamo chiamati a fare
una cosa sola con Dio.
Teresa: Ma noi non potremo mai arrivare a conoscere Lui come Lui conosce
noi.
Eligio: Ma questo va inteso come impegno, non come punto di arrivo, così
come quando dice Gesù: “Siate perfetti
come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”, ma non con questo noi diventiamo
“dèi”.
Luigi: Ma Gesù dice proprio: “Fa
che siano tutti una cosa sola”, e vuole che siamo con Lui una cosa sola. È
proprio questo dislivello tra Lui che conosce noi e noi che non conosciamo Lui
come Lui ci conosce, che ci mette in movimento.
Pinuccia: È questo “come”, forse, che va chiarito: che cosa intende per
questo “come”? cioè Lui conosce tutto di noi: vuol dire che anche noi dobbiamo
conoscere tutto di Dio?
Luigi: Come Lui conosce noi.
Pinuccia: Allora è diverso: non come tutto quello che Lui è.
Luigi: No, come Lui conosce noi.
Pinuccia: Allora la cosa è diversa: vuol dire conoscere “quanto”, “in che
modo” Dio ci conosce?
Teresa: Dio di noi conosce tutto, ma noi non possiamo conoscere tutto di
Dio.
Luigi: No, è conoscere Lui come Lui conosce noi.
Pinuccia: E quindi non finisce di essere un conoscere noi stessi? Se io
arrivo a conoscere tutto quello che Dio conosce di me, finisco di conoscere me.
Luigi: No, perché Lui conoscendo tutto di me, crea in me una situazione di
insufficienza. Portiamoci sul piano dell’amore: una persona che ami, infonde
nell’altro il desiderio di amare come è amato. E fintanto che non c’è
quell’uguaglianza, c’è una situazione di movimento e di insufficienza non è
soddisfatto. Ma cos’è che crea questa insoddisfazione? È il fatto di sapere che
l’altro mi ama di più di quello che io lo amo.
Pinuccia: Ma Dio ci amerà sempre di più.
Luigi: Ora, siccome l’amore è effetto di conoscenza…. Ecco, se lo
riportiamo sul piano dell’amore, forse ci è più possibile intenderlo. L’amore è
soddisfatto in quanto c’è uguaglianza di conoscenza: il bicchiere colmo….
Pinuccia: Conoscere Lui come Lui ci conosce allora vuol dire conoscere il
suo amore per noi, quanto Lui ci ama?
Eligio: Forse il “come” vuol indicare un certo modo di amare, cioè amare
in sé, non per gli attributi. Dio non ci ama perché siamo belli, o brutti, sani
o malati o altro.
Luigi: Comunque c’è sempre questa meta. Per esempio, “Il Padre manda la sua pioggia sui buoni e sui cattivi, fa splendere il
sole sui giusti e sugli ingiusti, quindi anche voi amate i vostri nemici…”.
È sempre questo “come” che mette in movimento, perché se noi per esempio non
conoscessimo l’amore di Dio, noi non saremmo sollecitati a superare noi stessi,
non saremmo sollecitati ad amare come Lui ama, cioè ad amare anche gli ingiusti,
anche i nemici, perché “Dio che è Padre buono, manda la sua pioggia sui buoni e
sui cattivi”. Ma dicendomi questo, sollecita ognuno di noi ad amare come Lui
ama. Nel “come” abbiamo una proposta quindi abbiamo un desiderio e abbiamo
un’uguaglianza. Ora, nel dislivello siamo sollecitati dall’uguaglianza. È
l’uguaglianza che ci mette in movimento e ci fa desiderare e quindi ci rende
insoddisfatti, inquieti fintanto che non arriviamo a quella meta lì. È il suo
amore, la Carità di Cristo che ci muove: “Caritas Christi urget nos”, quella
che ci preme”. E come ci preme? Ecco, perché ho bisogno di arrivare a
quell’uguaglianza: vasi comunicanti; abbiamo dislivelli che tendono ad
uguagliarsi. La meta è quella, ma è la meta che ci mette in movimento. È la
perfezione di Dio che ci fa desiderare la perfezione, è la vita di Dio che ci
fa desiderare la vita. Perché siamo inquieti? Perché siamo insoddisfatti? Ma è
la sua eternità che ci fa desiderare l’eternità. Quindi se Dio non ci avesse
chiamati a questo “come”, a questa uguaglianza, noi non lo desidereremmo
nemmeno. Saremmo contenti di mangiare così come fanno gli animali, perché
l’animale non desidera mica un’uguaglianza. Quindi c’è un contatto tra la
nostra anima e Dio e in questo contatto Dio rivela quello che Egli è, come Egli
conosce, come Egli ama, e sollecita quindi noi: “Io sono sulla vetta, quindi
sali”. Quindi noi siamo chiamati: la vocazione sta lì. Dio ci presenta la meta.
E se ci presenta la meta Dio non inganna; teniamo presente che Dio è fedele,
Dio non prende in giro la creatura. Perché se Lui presentasse una meta e
sapesse che la creatura non può assolutamente arrivare a quella meta,
prenderebbe in giro la creatura. No, presenta la meta, la offre e rende il
cammino accessibile: quindi la creatura può. Tutto è grazia di Dio, si capisce,
è opera di Dio e la creatura sarà infinitamente riconoscente a Dio perché è
stata tutta grazia sua; però la creatura può, è chiamata. Quando il Signore
dice: “Siate perfetti come è perfetto il
Padre vostro”, non prende mica in giro. “Il
Padre vuole donarsi tutto, quindi tu sappilo”.
La
creatura, sapendo, desidera. Se non lo sapessimo, non potremmo desiderarlo. Noi
non possiamo desiderare una cosa che non sappiamo. Se desideriamo è perché
sappiamo. Se tu cerchi è perché già Dio si è donato a te, altrimenti tu non lo
cercheresti nemmeno. Quindi c’è movimento. Un corpo non può essere mosso da un
altro che sia completamente staccato, che sia assente. Se c’è un movimento è
perché c’è l’attrazione dell’altro, quindi c’è una presenza già dell’altro.
Se
noi siamo in movimento è perché già c’è la presenza di Dio in noi, già Dio si è
donato e si è donato con quella pienezza alla quale Lui ci chiama, altrimenti
noi non sentiremmo nemmeno il desiderio.
Pinuccia: Ma la pienezza è l’infinito, no? Non ci sono misure.
Luigi: E noi siamo chiamati a quest’infinito. Certo, non ci sono misure.
Noi siamo chiamati a combaciare con quest’infinito, con l’infinito di Dio e non
ci sono misure. È proprio la bellezza di non esserci misure. Per questo
diciamo: “non è creatura qui!”. Noi
siamo chiamati a partecipare, ad entrare nell’eternità. Ma l’eternità è un
“tutto presente”. Non è il passato, presente o futuro, non è un divenire: è
un recupero universale di tutto. Noi non ce ne rendiamo conto di quali
meraviglie siamo chiamati a partecipare, perché è un tutto presente.
Quindi
è un recupero non soltanto di qualcosa di noi, ma è un recupero di tutta la
creazione, di tutto l’universo in Dio. È un ritrovare tutto, non è un perdere
niente: si va verso un più non verso un meno. Non c’è niente di perso in Dio,
si perde tutto perdendo Dio. Ma in Dio si ha Dio e si recupera tutto
l’universo.
Pinuccia: Come il tralcio e la vite.
Luigi: Certo.
Eligio: Quindi Dio ci impegna in un’attività conoscitiva che è molto
diversa da quella che noi siamo soliti usare nelle nostre cose. Cioè per noi le
nostre conoscenze precedono per analogie, per similitudini, per rapporti.
Luigi: Ah, sì, è una conoscenza del tutto diversa.
Eligio: Cioè Dio mi chiama a conoscerlo in Sé, quindi non mi servono
l’emotività, i rapporti la similitudine.
Luigi: È tutta un’altra forma di conoscenza. È una conoscenza molto
diversa ed è una certezza.
Eligio: Questo però non vuol dire che noi possiamo esaurire Dio come
oggetto di conoscenza, mentre Lui esaurisce noi come oggetto di conoscenza.
Luigi: No, col suo infinito Lui è sorgente di vita infinita. Non è
finito.
Eligio: Però dovremmo procedere con lo stesso metodo in questa conoscenza
con cui Dio procede nei nostri confronti, cioè conoscere in sé, non conoscere
per rapporti. Ecco, Dio ci chiama a questo modo di conoscenza.
Luigi: Certo, non è per rapporti, non è secondo le nostre conoscenze,
perché secondo i nostri rapporti noi non conosciamo mai bene e mai con
certezza.
Eligio: Quindi quando noi definiamo Dio per similitudine sbagliamo sempre.
Luigi: Si capisce, perché la vera conoscenza è un rapporto intimo e
personale. Ed è un rapporto che è infinito, che non si esaurisce mai. Le nostre
conoscenze si esauriscono, invece Dio no, Dio è una sorgente di vita infinita
che non si esaurisce mai. È proprio questo combaciare all’infinito “come” che
diventa vita infinita, perché Dio non è una statua di cui una volta conosciuta
e analizzata si possa dire: “Beh, ora
l’ho capita, ho esaurito!”. No, Dio è Vita infinita e quanto più noi
combaciamo con il Suo infinito tanto più diventiamo vita infinita.
Eligio: E si stabilisce la comunione attraverso questo processo di
conoscenza.
Luigi: Certo.
Eligio: Ma è una conoscenza totalmente diversa, similare cioè al modo di
procedere che Dio ha con noi.
Luigi: È una conoscenza nettamente diversa, non è una conoscenza per
analogie. Ad esempio: “Conosco le
creature, quindi Dio sarà così”.
Eligio: E non in relazione al mondo che ci circonda o alle creature che
noi conosciamo.
Luigi: No, perché così, attraverso le creature, noi lo conosciamo
indirettamente. Invece attraverso le creature siamo sollecitati a prendere
contatto con Lui.
Eligio: Quindi si tratta di una conoscenza diretta e personale.
Luigi: Si capisce. Ed essendo personale è incomunicabile. Poiché è
personale diventa incomunicabile. Cioè la possiamo annunciare gli uni gli altri
così, ma non comunicare, perché la comunicazione è sempre diretta tra Dio è
l’anima. Quindi tra noi e gli altri possiamo ammonirci, sollecitarci, aiutarci
a liberarci dalle passioni del mondo, dalla polvere del mondo: ma la vera
conoscenza è riservata al rapporto tra l’anima e Dio.
Eligio: Quindi il “come”, credo si riferisca a questo tipo di conoscenza,
diretta e personale.
Luigi: Sì.
Teresa: Allora il “come” vorrebbe dire “nel modo”?
Luigi: Sì.
Eligio: Cioè nel modo in cui Dio conosce noi, noi dobbiamo conoscere Lui.
Luigi: Non è il “modo” come intendiamo noi…
Eligio: Non è il nostro modo di conoscere le cose, la materia, una
disciplina, ecc.
Luigi: E neanche Dio, cioè neanche nel senso che molte volte noi
ragioniamo o conosciamo Dio, riflettendo sulle creature: è una conoscenza
diversa.
Eligio: Ecco perché i teologi che vogliono fare della teologia una scienza
umana non possono farci conoscere Dio e talvolta presentano un Dio deformato.
Pinuccia: E allora con Cristo che è
nostro intermediario, mediatore che ci rivela il Padre e ci mette in relazione col
Padre, dobbiamo pure avere una conoscenza e un rapporto personale e diretto con
Lui, ma anche con il Padre. Però è Gesù che ci fa conoscere il Padre.
Luigi: Certo, ma ad un certo momento Lui dice: “Adesso me ne vado”.
Pinuccia: Come uomo però…
Luigi: Quante volte si è detto che Gesù ci conduce alla sorgente e ci
dice: “Adesso bevi, Io mi metto da
parte”?
Pinuccia: Ma dopo lo ritroviamo.
Luigi: Ma certo, però ci dice: “Bevi”. Cioè Lui vuole che noi stessi
attingiamo al Padre come Lui attinge. “Affinché
dove sono Io siate anche voi”. Bisogna approfondire bene queste parole:
“Affinché dove sono Io siate anche
voi”. Perché sono parole divine che non dobbiamo trascurare: “Io vado a prepararvi un posto affinché
siate anche voi dove sono io, affinché possiate partecipare della mia gloria”:
la sua gloria è il Padre. Quindi ci invita a prendere diretto contatto con il
Padre; infatti ad un certo momento prega il Padre, prega per noi. perché?
Affinché guardiamo direttamente il Padre, e ci consegna al Padre: “Fintanto che
io ero con loro li custodivo nel tuo nome, adesso custodiscili tu”. Perché dice
questo: “Custodiscili tu”? Mica lo dice al Padre, perché il Padre non ha
bisogno di essere sollecitato dal Figlio, che è in tutto il Verbo del Padre. Lo
dice quindi per noi, quasi a dirci: “Guardate, fino adesso c’ero io, d’ora
innanzi ci sarà l’Altro che avrà cura di voi, quindi guardate a Lui”. come Gesù
sulla croce dice a Giovanni: “Ecco tua madre”. Allora uno sa che d’ora innanzi
è affidato all’altro, quindi si affida all’altro. Poiché Gesù lo ha affidato
all’altro, guarda all’Altro. Per questo Gesù dice: “Finora li ho custoditi io, adesso custodiscili tu”. E tutti quelli
che lo ascoltano dicono: “Ora guardiamo
al Padre, perché ci ha affidati al Padre”.
Eligio: E allora da quel momento comincia quel processo di conoscenza
“come”.
Luigi: Si capisce.
Eligio: Altrimenti finché noi siamo legati a quel Gesù storico e fisico
siamo ancora sempre in quella conoscenza tipicamente umana che non ci porta al
di sopra del nostro io, perché è relativa all’io.
Luigi: Certo, è necessaria questa conoscenza relativa all’io perché il
Signore scende a parlare nel nostro io: siamo creature sotto i portici, malati,
in attesa del movimento dell’acqua. Gesù viene tra noi, lì tra le nostre malattie
e quindi naturalmente deve parlare il nostro linguaggio, però non viene per
confermarci nelle nostre malattie, ma viene per liberarcene e quindi poco per
volta Lui ci conduce a conoscere il Padre fino ad affidarci a Lui, altrimenti
lo Spirito di Verità non può venire in noi.
Ecco la vera conoscenza. È lì tutta la meraviglia dell’opera del Cristo.
Per cui facciamo un errore grossissimo, per esempio quando ci fermiamo al
Cristo sociologico, politico, che viene a portare la giustizia nel mondo. È
tutto un errore, perché non cogliamo l’essenza del messaggio del Cristo che sta
proprio in questo portarci al Padre. Tutta l’opera del Cristo, il suo messaggio
centrale stanno qui. Se noi dimentichiamo questo noi falsifichiamo tutto: ci
viene a mancare l’anima, così come non cogliamo l’anima di tutte le opere di
Dio se ci fermiamo soltanto all’apparenza. Ecco perché noi abbiamo la
possibilità di rivestire del nostro io tutte le opere di Dio e lo stesso
Cristo, quindi possiamo travisare tutto. Quante volte abbiamo sentito dire che
tutto il discorso del Cristo si riassume nel discorso delle beatitudini. Ma non
è vero! Quello è soltanto la porta, anzi è ancora il portico di avvicinamento
alla porta. È tutt’altro che l’essenza del messaggio del Cristo. Il messaggio
del Cristo dobbiamo coglierlo quando ci parla del Padre: è lì, perché Lui è
venuto per parlarci del Padre.
Cina: Stamattina nella spiegazione del Vangelo il sacerdote ha detto la
stessa cosa: che Gesù è venuto a portarci la conoscenza del Padre e che deve
essere questa la nostra preghiera.
Eligio: Così pure è stato detto molto chiaramente nella conversazione di
due domeniche fa, quando si parlò del nostro atteggiamento come deve essere di
fronte agli ammalati e in casi difficili. È un concetto nuovo.
Pinuccia: Continuazione della lettura riassunti: La
garanzia della validità di questa strada ce l’abbiamo in noi stessi, camminando
su questa strada, sulla Parola.
Luigi: Per cui anche lì, la certezza è incomunicabile, perché è
un’esperienza che si fa camminando con Dio, seguendo Dio.
Eligio: E allora perché dici che l’abbiamo in noi stessi quasi fossimo
autonomi da stabilire il criterio di validità o meno?
Luigi: Ah, no, la garanzia viene a noi da Dio, ce l’abbiamo solo seguendo
Dio, cioè diventa stima, per cui ciascuno ha in sé il criterio di Verità.
Pinuccia: Mentre cammina rimane confermato che quella è la strada buona.
Luigi: Sì, Dio conferma.
Pinuccia: (continuazione lettura riassunto): e se
noi invece non la seguiamo, rimaniamo nel dubbio e allora andiamo sempre alla
ricerca di novità ed informazioni. Quindi l’importante, una cosa da farsi, è
approfondire, restare.
Luigi: Direi: approfondire per restare, perché fintanto che siamo
in superficie, siamo superficiali, non restiamo. L’incostanza, la volubilità è
una conseguente della superficialità. La stabilità è una conseguenza della
profondità. Quindi se vogliamo diventare stabili dobbiamo approfondire nella
misura in cui approfondiamo, diventiamo stabili. Perché Dio è stabilità, ma è
stabilità in quanto è profondità. Ecco perché c’è l’interiorizzazione: se
viviamo soltanto nelle cose esteriori, siamo superficiali. Nella superficialità
abbiamo la volubilità e nella volubilità quindi tutta la nostra insoddisfazione
di vita, perché abbiamo tanti nomi, non siamo più un’unità vivente. Nella
molteplicità dei nomi, la casa si disfa, non sta su, la nostra vita resta
divisa.
Teresa: Può ancora succedere di approfondire molto e non restare?
Luigi: No, quanto più approfondisci, l’approfondimento aiuta. Cioè la
permanenza è nella vita eterna, la meta è la conoscenza eterna di Dio. Ma
fintanto che siamo in cammino noi siamo sempre soggetti a questa volubilità. Il
Signore stesso dice: “Lo Spirito Santo vi
condurrà a vedere la Verità tutta intera e vi convincerà di tutto quello che vi
ho detto, ve lo farà ricordare”. È tutto il lavoro dello Spirito Santo,
perché il Cristo ci porta a questa meta, ma poi in questa meta troviamo lo
Spirito Santo che è Lui che convince: “Vi
convincerà della giustizia, vi convincerà del peccato”.
Cina: Se una persona ha la disgrazia di essere superficiale allora il
Signore la può cambiare?
Luigi: Non c’è niente di impossibile presso Dio. Nessuno di noi davanti a
Dio può dire: “Io sono così e non posso mutare”.
No, ognuno di noi ha un bagaglio da portarsi dietro, di preoccupazioni, di
natura, siamo fatti in un modo piuttosto che in un altro. Nessuno però deve
dire: “Il mio carattere è questo, io sono
fatto così e non posso cambiare”. No, se sei fatto così, ti cambi, perché con
Dio tutto è possibile e Dio ci cambia avessimo anche un carico ereditario
in infelice, non importa. Guarda Dio, Dio ti trasforma. Dio è vita eterna.
Anzi, più il nostro carico è infelice e più sale la nostra lode a Dio,
perché: “Guarda Dio. Da un po’ di terra
che ero, da un essere disprezzabile quale ero, Tu mi hai portato a sedere con
te sul tuo trono”. Ecco, è la lode alla Madonna: “Ero niente”. E allora è
tutta grazia di Dio. Se invece uno dicesse: “Ah, io ho questi numeri”, ecco, proprio
questo gli impedisce di entrare nella luce di Dio. Invece no.
Teresa: Eppure ci sono tante persone, teologi, che sanno tante cose ma non
rimangono, come mai?
Luigi: Un momento, già Eligio aveva affermato che c’è conoscenza e
conoscenza. Noi a volte la chiamiamo conoscenza e invece è soltanto cultura: è
conoscenza nel pensiero dell’io, non è conoscenza di Dio. La conoscenza di Dio
è una cosa molto, molto diversa. È una conoscenza intima e personale, non è
cultura, ma rapporto personale, è un’esperimentazione personale di Dio. Un
bambino o un analfabeta può conoscere molto di più di tanti che studiano tanto.
La
bellezza di Dio è questa: che si comunica a tutti. Lui non chiede cultura,
intelligenza, ecc. Lui chiede soltanto umiltà che guarda a Lui. chiede questo:
l’attenzione a Lui.
Quando
la Bibbia parla di umiltà, di timore di Dio, intende questa attenzione. Ma se
noi fossimo infarciti di cultura,
dicessimo anche tante preghiere, conoscessimo tante preghiere, pregassimo da
mattina a sera, a parole con la bocca, ma il nostro pensiero fosse lontano da
Dio, servirebbe assolutamente a niente, anzi, sarebbe negativo perché non ci
sarebbe l’umiltà attenta a Lui. perché noi possiamo vantarci della nostra
ricchezza e di essere virtuosi come quel fariseo che prega: “Grazie Signore, perché io non sono come gli
altri”, e Gesù dice che non aveva capito niente della preghiera. Invece il
pubblicano che diceva: “Signore, abbi
pietà di me che sono un povero peccatore”, quello ha capito qualche cosa.
La conoscenza di Dio è una cosa meravigliosa, perché non è condizionata da dati
umani: Dio si può comunicare al bambino, alla vecchietta, all’analfabeta; non
ha bisogno dei nostri mezzi di comunicazione. Ed è logico, ed è bellissimo
questo, è la grandezza di Dio.
Cina: È detto anche nell’inno di San Paolo sulla carità: “Se conoscessi tutte le lingue…. e non
avessi la carità sarei un cembalo…”
Luigi: Sì, ma questo è puro dono di Dio. Dio chiede quest’apertura
all’anima. Anzi, Lui dice che i bambini sono molto più aperti all’ascolto
del Padre di tanti adulti.
Pinuccia: E questa apertura sarebbe l’approfondimento?
Luigi: L’apertura è la condizione, che ci conduce ad approfondire è Dio.
Cioè nella misura in cui noi restiamo in ascolto di Dio. Dio si riversa in noi,
Lui è profondità. Quindi abbiamo questo processo di interiorizzazione. Per
questo quanto più uno prende contatto con Dio, tanto più ama il silenzio. Ama
il silenzio perché si trova con la persona amata, con Uno che lo impegna molto.
Abbiamo già detto molte volte che Dio non ci dice: “Non preoccuparti del mangiare e del vestire”, perché abbiamo a
starcene seduti su una poltrona a fare niente, ma perché abbiamo ad essere più
disponibili, perché Lui impegna a tempo pieno.
Teresa: Però questa permanenza in ascolto, non è già un restare?
Luigi: Sì, certo, è già un restare.
Teresa: Ma è difficile restare in ascolto.
Luigi: È logico, però più uno si ferma in ascolto (bisogna tendere lì),
tanto più Dio si riversa, si fa conoscere. Quanto più uno conosce, tanto più
allora diventa stabile. E ad un certo momento arriva al cielo; la conoscenza di
Dio diventa tale per cui non si può più scappare, anche se lo di volesse. L’attrazione
della Verità Dio prende talmente l’anima
che, anche se volesse, non può più scappare, non può più dimenticare, non
può più trascurarla. Non può più. Per cui noi partiamo da una situazione in cui
facciamo molta difficoltà ad ascoltare per cinque minuti, a fermarci in
raccoglimento cinque minuti e siamo chiamati ad arrivare a una stabilità tale
(ed è tutta grazia di Dio, è tutta opera di Dio), dalla quale anche volessimo
non possiamo più allontanarci.
Pinuccia: Non può più perché non lo vuole.
Luigi: Non lo vuole, si capisce; è Lui stesso che non lo vuole perché ha
in se stesso il criterio di Verità. Noi siamo instabili in quanto siamo confusi
e crediamo che quello per noi sia un bene, per cui Dio è cosa buona, ma anche
quello è una cosa buona, anche quello è giusto, anche quello mi farebbe
piacere. Ecco siamo incerti e questo ci
rende instabili. Dopo, quando abbiamo raggiunto quello che desideravamo,
capiamo che abbiamo fatto un errore, ma lo capiamo dopo. Invece nella verità
no: nella verità è tutto diverso. Nella Verità uno è illuminato dalla Verità
e vede le cose nella verità: “Il Padre
ama suo Figlio e gli fa vedere tutto quello che Egli fa”. È bellissimo questo. Gesù lo dice
per insegnare a noi la meta alla quale siamo chiamati, come figli. Ecco, il
Padre fa vedere al Figlio quello che fa, ecco perché uno non scappa più: perché
vede quello che Dio fa.
Cina: Ci porta ad una presenza.
Luigi: Sì, è la presenza eterna, non è più presenza nel tempo, ma è una
presenza eterna, che non va più via. È lo scopo della nostra vita di cui si
parlava ieri sera con quell’austriaca: lo scopo della nostra vita è lì, lo
scopo della nostra vita è Dio, non sono gli altri. Bisogna sempre mettere
ben chiaro questo, non bisogna mai confondere. Lo scopo è Dio. Siamo stati creati
per Dio, non per gli altri. L’uomo di per sé è più grande di tutta l’umanità,
di tutta la società, di ogni problema.
Teresa: Quell’austriaca diceva che bisogna stare uniti a Dio per poter
amare gli uomini, invece….
Luigi: Invece la meta non è quella, perché altrimenti la meta sarebbe di
stare uniti agli uomini.
Eligio: Questa è una conseguenza.
Luigi: Sì, è una conseguenza, quindi un mezzo: ma la meta è Dio.
Pinuccia: E non è neppure un mezzo necessario, perché si potrebbe anche
dire: “Io amando gli uomini, arrivo a
Dio”. Ma non è indispensabile, vero?
Luigi: No, no; abbiamo visto che il rapporto tra l’anima e Dio è sempre
personale. Il prossimo è un banco di prova, ma il rapporto tra l’anima e Dio è
sempre personale, intimo. Per questo non dobbiamo mai confondere: la società,
il gruppo, le istituzioni, l’umanità intera è sempre inferiore all’uomo, alla
persona singola. Dio ha creato tutto l’universo per la persona singola, per
l’uomo. Per questo non bisogna mai sacrificare (sarebbe un errore gravissimo)
l’uomo all’istituzione, al prossimo, alla società, alla politica, no. La
politica deve essere subordinata all’uomo, la società, l’istituzione deve
essere subordinata all’uomo, non viceversa.
Damilano: Perché allora Gesù ci mette sempre davanti questo comando
dell’amore per il prossimo? Non poteva dirci soltanto: “Ama Dio, se ami Dio non puoi non amare il prossimo”?
Luigi: Sì, quello è il banco di prova. Il prossimo è un banco di prova
perché noi possiamo ingannarci. Noi possiamo dire in noi stessi: “Io amo, io conosco!”. Ecco allora il
banco di prova: “Se tu hai conosciuto
Dio, tu ami anche il nemico”. È un po’ l’esercizio della regola: facendo
l’esercizio, il problema, verifichiamo se abbiamo capito o no la regola. Così
allora il Signore fa con noi: fintanto che noi non abbiamo capito, anche se
noi crediamo già di aver capito, ci mette di fronte a difficoltà, per
dirci: “Guarda che tu credi di aver
capito, invece non hai capito niente”.
Pensieri
conclusivi:
Eligio: A me è piaciuto molto quel chiarimento sui “come” conoscere Dio,
che mi ha fatto vedere le ultime illusioni sulle nostre iniziative di arrivare
a Dio attraverso l’elaborazione di concetti, di culture, di esperienze sociali
(a parte il fatto che a queste ultime già non ci credevo più); ma pensavo
all’apporto della filosofia, per esempio per conoscere Dio. Invece no, è un
modo diverso.
Rina: Un po’ aiuterà, no?
Luigi: Sì, va bene, all’inizio, ma: “Nessuno
può venire al Padre se non per mezzo di Me”. E d’altronde, guarda, facciamo
l’esperienza: proviamo ad aprire dei testi di filosofia, teologia, proviamo,
mica il Signore ce lo proibisce. San Paolo stesso ci dice: “Provate tutto, gustate tutto e trattenete ciò che è buono”. E
facciamo il confronto con quello che ci dice Cristo. Magari Cristo ci presenta
degli argomenti che ci impegnano molto, sono talvolta difficili, però vi
troviamo della sostanza. Proviamo invece a leggere quei testi: dobbiamo
scorrere centinaia di pagine e perdere tanto tempo per trovare forse una
scintilla di quel fuoco che divampa tra la pagine del Vangelo. Come la Signore
Curie che analizzava tonnellate di materiale per trovare un pochino di radio.
Mentre abbiamo un’abbondanza enorme di vita nella Parola del Cristo.
Rina: Sant’Agostino e Santa Monica quando hanno raccolto la Verità per
un attimo, di che cosa stavano parlando?
Luigi: Della vita eterna. Conversavano assieme, dimenticando questo,
dimenticando quell’altro, ad un certo momento hanno colto per un istante…..
Eligio: Fu un’intuizione.
Pinuccia: Il Tabor.
Luigi: Un raggio di luce che il Signore fa arrivare e che ferisce,
per dirci: “Vedi, quello che c’è da
vedere? E vedi che c’è da vedere? E vedi che c’è da restare?”. Ma noi non
sappiamo restare. Però vediamo per un attimo e ne restiamo feriti. Perché se il
Signore non ci ferisse, noi non potremmo nemmeno desiderarlo. Allora il Signore
ci ferisce prima con la sua luce per rendersi desiderabile e poi dice: “Adesso datti da fare!”, cioè adesso c’è
il prezzo da pagare. Ogni cosa ha un suo prezzo soltanto pagando il quale noi
possiamo arrivare a possedere quello che il Signore ci ha presentato. Cioè, ci
ha presentato un campione: “Ecco, la
merce è questa, se la vuoi!”.
Amalia: Mi è piaciuto questo pensiero: il restare con Dio è una conseguenza
dell’approfondimento. Quindi se siamo volubili, dobbiamo fermarci e
approfondire.
Pinuccia: Ho colto ora il collegamento tra l’argomento di stasera e gli
appunti letti: cioè questo “buttarsi per primo” è poi questo deciderci a
credere e camminare.
Eligio: Direi si annuncia, perché una cosa è l’annuncio attraverso cui ci
voca, ci chiama e allora Lui scende sul nostro terreno; ci porta poi nel
deserto, appunto attraverso problemi nostri, mettendoci di fronte a crisi,
difficoltà, ecc. per entrare in colloquio. Annuncio quindi proposta. Di lì c’è
tutto un cammino.
Damilano: Pensavo che questa settimana ho sentito alla Radio Vaticana che le
varie culture umane, teologiche, hanno inquinato il messaggio cristiano.
Parlava dei maestri di “inquinamento”.
Luigi: È che la Parola di Cristo, approfondendola, ad un certo momento
diventa talmente semplice perché unificante, che diventa sorgente di gioia.
Nella semplicità, nella luce, uno prova proprio la gioia.
Damilano: La nostra difficoltà sta proprio lì, che non siamo semplici.
Dovremmo partire da come siamo.
Luigi: Certo, ma è Dio che ci fa semplici. Quanto più noi approfondiamo la conoscenza di Dio, la Parola di Dio, tanto più Lui ci fa semplici, non siamo noi che possiamo essere semplici.