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« Avendo sentito dire che Gesù dalla Giudea era venuto in Galilea, andò da Lui». Gv 4 Vs 47  Primo incontro.


Titolo:  Il funzionario della corte.


Argomenti: La coscienza retta. Udire Dio che viene a noi. Dio viene mettendo in crisi le nostre sicurezze. La fede e il dolore. La parola di Dio è Dio che viene. La natura. La colpa del dimenticare Dio. Deboli nella fede e nel raccoglimento. La fede è figlia di Dio. La fede e il Pensiero di Dio. Andare incontro a Colui che viene. Il Cristianesimo è rapporto personale con Dio. La fede deve sfociare nella conoscenza. La Realtà operante in tutto è Dio. In che consiste la fede? Come nasce? Come si forma in noi? Come cresce? Come si può perdere? In che cosa conclude?


2/Ottobre/1977


 

Introduzione:

Domanda: Che cos'è la coscienza e come si forma la coscienza retta?

Luigi: Dio è presente in noi, ma non possiamo identificarlo con la nostra coscienza, altrimenti la nostra coscienza sarebbe Dio. Bisogna sempre interrogare Dio, raccoglierci nel Pensiero di Dio. Il Maestro interiore parla sempre, anche quando non ci pensiamo, anche quando non vorremmo, ma non è la nostra coscienza. La voce della coscienza può essere la voce di Dio nella misura in cui siamo in sintonia con Dio: ecco la coscienza retta. La coscienza può essere retta, incerta o sbagliata, perché è relativa al fine che uno si propone. La coscienza è una bussola e funziona perciò in base al fine che uno si propone. Per cui, bisogna metterci sempre in sintonia con Dio, allora la bussola funziona, è retta. Ma bisogna che ci sia in noi l'orientamento a Dio, la ricerca di Dio, la fame di Dio, il pensiero di Dio e allora c'è la sintonia con Dio. Il Pensiero di Dio c'è in noi, ma bisogna che noi lo vogliamo, dobbiamo averlo presente. Se siamo disorientati, Dio parla ugualmente, ma per riportarci al vero orientamento. C'è molta gente buona che va sempre in Chiesa, ma è piena di luoghi comuni, cioè di buon senso secondo il mondo, per cui intende le parole del Vangelo secondo il mondo; infatti pensa e dice: “Se tutti facessero così, come farebbe il mondo ad andare avanti!?”. Il tragico è che sono convinte di avere fede, di avere una coscienza che funziona. La maturazione della coscienza retta, avviene nella misura in cui si cerca Dio e si conosce Dio: più si conosce Dio, più si diventa sensibili per percepire le cose di Dio; più si è lontani da Dio, più ci si crede giusti e chissà dove si è.

Dall'esposizione di Luigi Bracco:

“Quel funzionario avendo sentito dire che Gesù dalla Giudea era venuto in Galilea...”. Il primo e il secondo versetto: “Andò da Lui”, sono collegati con l'episodio precedente in cui si parla che anche i samaritani, avendo sentito dire dalla donna che Gesù probabilmente era il Messia, andarono da Lui. Ogni scena del Vangelo ha una lezione personale per ognuno di noi, così pure questo funzionario che aveva sentito dire che Gesù era venuto dalla Giudea alla Galilea. Quindi, cosa vuol dire questo Gesù che viene nella Galilea? Cioè nella regione in cui ci troviamo? Ecco qui troviamo il collegamento con il tema della strada affrontato in precedenza: Gesù si fa strada in ogni avvenimento della nostra vita; Gesù viene a noi per darci la possibilità di salire a Lui. Non solo, ma poiché tutto è opera di Dio, tutto è Dio che viene a noi. Ma noi, sentiamo dire che Dio viene a noi in tutte le cose oppure sentiamo ben altri argomenti? Come mai c'è questa differenza? Cioè nell'universo tutto dice all'uomo che Dio sta venendo, che Dio si fa strada, ma l'uomo invece avverte tutt'altro; come mai? Ecco la lezione di questo funzionario che udì che Gesù veniva nella sua regione.

Nella seconda parte cercheremo di approfondire il versetto : “… e andò da Lui”.

La notizia che giunge al funzionario lo muove. Qui abbiamo la fede. La fede nasce dall’ascolto (“avendo sentito dire”) e ci muove verso (“andò da Lui”). La fede è vera fede solo se ci mette in movimento verso Dio; non è solo una credenza, ma è una ricerca di Dio, un andare verso Dio.

Pensieri tratti dalla conversazione:

Cina: Gesù entra nel nostro mondo.

Luigi: E allora quand'è che anche noi udiamo che Gesù entra nel nostro mondo, nella nostra vita? Questa è una scena che ci rivela quello che avviene nella nostra vita, perché tutto ciò che è avvenuto nel Vangelo è rivelazione di ciò che avviene nella nostra vita e che noi non avvertiamo. Per cui, più meditiamo il Vangelo con Gesù e più noi scopriamo quello che c'è nella nostra vita. Il funzionario udì che Gesù era disceso da Gerusalemme (la città di Dio, il cielo di Dio), verso la sua regione: e noi lo udiamo? E quando lo udiamo? Questo è un annuncio di tutto ciò che avviene, ma in tutto ciò che avviene, che cosa udiamo noi? Noi udiamo la radio, la televisione, gli avvenimenti nel mondo, fatti e notizie, cose fatte dagli uomini; eppure in tutti questi avvenimenti c'è Dio che viene a noi. E perché non lo udiamo?

Cina: Ci vuole la fede.

Luigi: Però con la fede si sente, si ode, ma non si vede ancora. C'è differenza tra il sentire e il vedere. Quel funzionario udì e andò per vedere. Non si giunge a vedere se non si parte; però non si può partire se non si ode l'annuncio, ed è la fede che ci conduce a sentire e a seguire l'annuncio che Dio viene.

Emma: Gesù viene nel nostro mondo ma noi siamo distratti.

Luigi: Noi siamo distratti e avvertiamo altri messaggi, perché, come ci dice Gesù, non può avvertire il messaggio di Dio chi non è pecora di Dio: “Le pecore di Dio ascoltano le parole di Dio”, ma chi non è pecora di Dio ascolta altre parole. Lui parla sempre, ma la condizione per intendere le sue parole è avere presente Lui, se noi fraintendiamo e attribuiamo le sue opere, tutto è opera sua, ad altri. Se tutto è opera di Dio, allora tutto è Parola di Dio e parla a noi di Dio, annunciando la sua venuta tra noi.

Ma cosa vuol dire che Lui viene, entra nel nostro mondo?

Ci sono due mondi, come ci sono due vite, due nascite, due cibi, due acque. C’è un mondo che ci trascende e che noi non possiamo né vedere né sperimentare, perché è superiore. E c’è un mondo inferiore a noi, che dipende da noi, è relativo a noi, per cui non lo possiamo vedere e sperimentare. Vediamo gli uomini e non Dio. Dio appartiene al mondo superiore, perché ci supera, per cui non lo vediamo. Però viene nel nostro mondo inferiore che dipende da noi e che sperimentiamo. Quand’è che viene?

Silvana: Dio che viene è il Regno di Dio che si avvicina, che si rende accessibile a noi.

Luigi: Ma quando e che cosa vuol dire questo suo rendersi accessibile a noi? Noi avvertiamo che Lui viene a noi, non in quanto si fa vedere, ma in quanto ci mette in crisi, discute cioè la nostra vita. L’invisibile entra nel mondo visibile, facendo passare tutte le cose visibili, rivelandone la vanità. Mettendo in crisi tutto ciò in cui crediamo e per cui viviamo, credendole assolute, per cui riponiamo la nostra sicurezza in esse; per esempio, in questo caso, facendo venire ammalato il figlio di questo funzionario, per creare un motivo per muoverlo verso di Lui.

Silvana: Dio è venuto nella vita del funzionario facendo ammalare suo figlio.

Luigi: Ma ci vuole la fede perché se c’è solo il pensiero dell’io, il veder passare tutte le cose e la nostra vita, ci porta alla delusione e disperazione, non alla speranza, alla ricerca di Dio.

La fede e il dolore ci spingono alla ricerca di Dio. Di per sé se fossimo in una vita ideale, senza peccato, sarebbe sufficiente la fede. La fede è essenziale; invece il dolore può non esserci. Di per sé sarebbe sufficiente la fede. La fede ci muove verso Dio, ci attrae, in quanto ci presenta Dio, e Dio, essendo il Creatore di tutto, il Principio di tutto, non può far altro che farci desiderare l’unificazione e quindi ci attrae nell’unità. Siccome però noi siamo dispersi da una molteplicità di valori e di moventi, la nostra fede non è più sufficiente, anche se crediamo di credere.

Noi crediamo veramente quando Dio è l’unico movente della nostra vita. Invece sostanzialmente la nostra vita si muove su altre fedi; la fede della realtà di ogni giorno per cui ho bisogno di mangiare, di vestirmi: noi abbiamo questi moventi. Dobbiamo osservarci nei moventi della nostra vita; crediamo veramente in Dio quando Dio diventa il movente della nostra vita. Dio allora manda il dolore, la crisi, la sofferenza, affinchè, sposata alla fede, noi ci mettiamo in movimento, alla ricerca di Colui che dal quale dipendono tutte le cose: cioè ci fa muovere nei perché. Ma il dolore di per sé, se non c’è la fede, non ci muove. È la fede che ci muove a cercare Dio, perché la fede è il primato dell’invisibile. Quando invece il primato nella nostra vita, cioè quello che motiva la nostra vita, è visibile, sostanzialmente non abbiamo fede. Per aver fede bisogna essere attratti dall’invisibile e quindi insoddisfatti dalle cose visibili, che non rispondono al nostro bisogno. Quando si è soddisfatti della realtà visibile, c’è il primato del visibile, e tendiamo ad interpretare anche le cose spirituali, invisibili, in funzione di quelle visibili. Invece l’uomo di fede vede le cose del mondo come una conseguenza delle cose dello spirito, e il primato l’ha nelle cose dello spirito.

Amalia: Mi sono chiesta: cosa vuol dire che Gesù viene a noi? Che il Verbo di Dio parla attraverso tutte le cose. Il Verbo si fa carne per parlare il nostro linguaggio, perché non possiamo salire a Dio, se Dio non discende fino a noi (nella nostra Galilea). La via per salire al Padre è Gesù: “Nessuno è salito al cielo, se non Colui che discende dal cielo”, “Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me”.

Luigi: Da che cosa ce ne accorgiamo che è Lui e che non sono più gli uomini a parlare, a fare?

È sempre la presenza del Pensiero di Dio in noi che ci fa capire che è Lui, per cui non ci accontentiamo più delle parole degli uomini. Se non abbiamo il Pensiero di Dio, noi ci accontentiamo delle parole degli uomini, in quanto le attribuiamo agli uomini e non cerchiamo più presso Dio. Siccome Dio è il Creatore e l’Operatore di tutto, ed è Lui il Protagonista di tutto, è solo il Pensiero di Dio che ci muove a cercare presso di sé le ragioni di tutto ciò che accade, perché tutto è opera sua (“Solo le pecore di Dio ascoltano le parole di Dio”). Quindi possiamo sempre partire da questo principio: tutto è opera di Dio; Dio in tutte le opere parla e parlando ci annuncia la sua venuta tra noi.

La parola di Dio è presso Dio, per cui solo se siamo presso Dio, cioè se abbiamo presente il Pensiero di Dio (e se ho presente il Pensiero di Dio ho presente che Lui è l’Operatore di tutto), possiamo leggere ed udire la Parola di Dio. In realtà, quando leggiamo la Parola di Dio, non siamo noi che leggiamo: è la Parola di Dio che arriva a noi; siamo noi che ascoltiamo. È Dio che parla, se però abbiamo presente Dio, se siamo presso Dio.

Se invece abbiamo presente gli uomini, diciamo: “Sono io che apro il Vangelo; sono io che apro la tale pagina; sono io che interpreto; sono io che medito”. Non dobbiamo dire: “Sono io che …” ma: “È Dio che …”, perché l’iniziatore è Dio: questo è il linguaggio della fede: “È Dio che mi fa aprire il Vangelo; è Dio che mi fa la grazia di pensarlo; è Dio che mi conduce a meditare così; è Dio che mi fa ascendere”. Riferire quindi sempre tutto a Dio. È Dio l’iniziatore, io sono una sua creatura alla quale Egli parla. Noi siamo di conseguenza. Dio è l’Essere e noi siamo un pensiero suo, un pensiero dell’Essere. Sostanzialmente noi siamo un “pensato” di Dio. Allora Colui che pensa a noi, ci ama. Non ci rendiamo mai sufficientemente conto di cosa vuol dire essere amati da Dio.

Essere amati da Dio vuol dire essere pensati da Dio. Quindi noi non siamo mai soli: il nostro stesso io è pensiero di Dio, non si disgiunge dal Pensiero di Dio, mai, anche quando lo bestemmiamo. Noi crediamo di essere autonomi, crediamo di essere noi a fare. No! Tu sei nel pensiero di Dio e Dio sta pensando a te. Allora se Dio sta pensando a te, riconosci che tutto quello che dici, fai è ispirato, voluto da Dio. E quando noi traviamo, bestemmiamo, quando abbiamo altre fedi, è Dio che ci conduce su sentieri sbagliati per farci toccare con mano che siamo lontani da Lui, che l’abbiamo dimenticato; allora ci porta su sentieri ciechi, nelle tenebre per farci toccare con mano che ci siamo dimenticati del suo Principio.

Amalia: Dio parla un linguaggio che sono capace di intendere.

Luigi: La capacità quindi di intendere tutto secondo Dio (e quindi di udire Dio che viene), ci viene dall’ascolto di Gesù (che è il Pensiero di Dio). Ma se non ci impegniamo ad ascoltare Gesù, cioè se non abbiamo presente il Pensiero di Dio, (“Il Verbo era presso Dio”), allora interpretiamo tutto in finzione di ciò che vediamo, perché diciamo: “Sono io” e restiamo nel mondo dipendente da noi, che ha per centro il pensiero di noi stessi. Dal momento che diciamo: “Sono io che …”, ci priviamo della possibilità di andare nel mondo invisibile, che ci trascende, e riteniamo il mondo dei segni come la realtà.

Ma il mondo invisibile è l’unica vera Realtà, di cui questo mondo è solo la significazione. Però l’intelligenza di questa significazione è solo presso Dio, se abbiamo il Pensiero di Dio quale Operatore di tutto, per cui se trascuriamo Dio, di pensare Dio, riteniamo questo mondo di segni di Dio come realtà. E quando questa realtà passa, ci troviamo dispersi, non capiamo più niente: ci eravamo sbagliati! Perché la realtà è Dio e Dio non lo possiamo vedere fintanto che non superiamo il pensiero di noi stessi e tutto il mondo dei segni. Il mondo dei segni è intellegibile solo presso Dio, cioè alla Presenza di Dio, che opera i segni. Lontano da Dio (cioè non pensando a Dio), tutti i segni non sono più intelligibili e sono fraintesi. Dio è il Principio e deve essere il Fine. Non dobbiamo confondere la realtà con ciò che vediamo e tocchiamo: non siamo noi a determinare la realtà. Anzi, quello che non vediamo e non tocchiamo è la vera Realtà e che solo presso Dio possiamo constatare.

È necessario allora compiere innanzitutto la giustizia essenziale (Dio al centro! Riferire tutto a Lui, perché Lui è il Creatore di tutto), e così si forma in desiderio di Cristo: desiderio che ci darà la possibilità di riconoscerlo. Quindi quel: “Avendo sentito dire” presuppone tutto un cammino precedente: la fede (ascolto e desiderio di chi mi parli del Padre).

Rina: Quel funzionario si mosse verso Gesù.

Luigi: Quel funzionario si mosse verso Gesù; però Gesù si rese accessibile a lui.

Dio e i suoi argomenti non sono inaccessibili e astratti. Diventano accessibili quando Lui mette in crisi le nostre realtà, quando entra cioè nei nostri motivi di vita, quando ci manda una sofferenza: “per crucem ad lucem”. Ma il dolore automaticamente non ci porta alla luce. È la fede, sposata al dolore, che ci fa correre, ci sollecita.

Udiamo Dio, sollecitati da questa vita che muore. Pensiamo se per noi le cose non passassero, se non ci fosse la morte: chi si occuperebbe di Dio? Stiamo bene qui, ci sistemiamo qui, pensiamo alle creature. Ma invece c’è la morte imminente. Continuamente, tutti i giorni abbiamo il messaggio, l’annuncio: si muore! Si muore! Si muore! Vicini e lontani. Non chiedere per chi suona la campana: la campana suona per te! Perché Dio ci presenta continuamente queste scene? È proprio per sollecitarci, per dirci: non sistemarti! Sei su un vagone ferroviario, presto devi scendere! La tua sistemazione è in cielo, quindi preoccupati di correre verso il cielo! Tutto ci annuncia che Dio viene, ma noi ascoltiamo solo il parlare degli uomini. Mentre noi dovremmo udire il parlare di Dio anche nel parlare degli uomini, anche nelle bestemmie, anche nelle cose più banali e più sciocche e vane che dicono gli uomini. Noi invece le vediamo e udiamo come dipendenti dagli uomini, perché pensiamo a noi stessi, e allora attribuiamo a noi stessi il nostro io (l’altro è come me), così non riferiamo più a Dio ciò che dice. Dio, essendo la Causa di tutto, il Protagonista di tutto, dovrebbe essere Colui che noi vediamo in tutto, per cui non dovremmo mai fermarci alle cause seconde. Chi ha veramente fede non si ferma mai alle cause seconde e cerca sempre presso Dio la causa di tutto e quindi il significato. Se questo è opera di Dio, perché Dio ci presenta questo? Allora tutti i fatti, tutte le opere essendo riferibili a Dio, diventano parole per noi, ed essendo parole, ci annunciano Lui che viene. La sua parola è Lui che viene. Non è che attraverso la sua parola Lui ci dica: “Io verrò”. La sua parola ci porta già a vedere la Sua presenza, quindi ci annuncia la sua Presenza. Per cui Dio parlando a noi dice: “Oggi! Oggi!”. “Il Padre cerca adoratori in spirito e verità”: è questo il tempo, è già venuto, è nella parola di Dio stesso! Cioè elevandoci, noi troviamo la Realtà.

Eligio: “Avendo sentito dire”: presuppone l’attenzione e quindi l’interesse per Dio.

Luigi: Noi sentiamo parlare di Gesù in quanto o per la fede siamo attenti o per il dolore siamo resi attenti. Dio, attraverso il dolore, ci convoglia, per cui sentiamo parlare. Già sempre ha parlato, fin dall’inizio della nostra vita, ma noi Lo sentiamo parlare solo quando si risveglia in noi l’attenzione determinata o dalla fede o dal dolore. Tutti hanno la fede. Non c’è chi non abbia mai sentito parlare di Dio, perché Dio parla a tutti. Poiché l’uomo porta in sé questa fede, questa impronta di Dio, proietta il suo bisogno di assoluto su tutto ciò che vede e tocca: qualunque cosa creda, lo crede in modo assoluto; ama la creatura in modo assoluto e vuole che sia Dio: ma quando la creatura rivela che non lo può essere, si dispera. Ecco la crisi: è Dio che entra. Ma anche la vanità, la disperazione, il suicidio è sempre opera di Dio: è Dio che conduce per offrire una possibilità di salvezza. Bisogna sempre tener presente il Principio: tutto ciò che accade ed esiste è opera di Dio. Siamo convinti o no? Se abbiamo dei dubbi qui sopra, non andiamo avanti: bisogna fermarci qui, dobbiamo revisionare e riflettere finchè non ci convinciamo, perché questa è la pietra fondamentale che dobbiamo mettere alla base della costruzione. Se siamo convinti che tutto è opera di Dio, dobbiamo allora passare al secondo gradino: se tutto è opera di Dio, tutto è Parola di Dio rivolta all’uomo, per cui dobbiamo chiederci: che significato ha? Ma ogni passaggio presuppone sempre il collegamento con Dio, in quanto Dio è il Creatore, ma anche Colui che ci sostiene in ogni passaggio, Colui che ci fa ascendere. Se noi crediamo che Dio sia solo il Creatore e non anche Colui che ci fa fare i passaggi da una cosa all’altra, noi usciamo dalla fede, perdiamo la fede. Se noi non camminiamo nella fede, la fede si perde: non è che la fede si mantenga naturalmente: o la fede ci porta alla conoscenza, alla luce, all’amore, se no se ne va. La fede è transitoria, non rimane di per sé, da sola non sta su, per cui va coltivata. Se si riduce a cose esteriori, non è più fede, ma recitazione. La fede non è una credenza, non è abitudine, non è rito, non è tradizione. La fede è movimento verso, è il primato dell’invisibile, per cui uno è più attratto dalle cose che non si vedono che dalle cose che si vedono.

Eligio: Che rapporto c’è tra il visibile e l’invisibile? A che serve la natura?

Luigi: Serve a sollecitarci. Dio si fa cibo e il cibo ci mantiene nella possibilità di vita. La vita però inizia solo quando, superando noi stessi, ci dedichiamo a-. Quindi, si vive di cibo, ma la vita è vivere per-. “Dio che si fa cibo” vuol dire: Dio che si adegua, che entra nella nostra vita, nel nostro mondo. Tutte le cose, che sono parole di Dio, è Dio che si sottomette, che si fa natura per noi, per darci la possibilità di dedicarci a Lui, a ciò che ci trascende. Se Dio non si facesse cibo, se non si sottomettesse a noi, non ci offrirebbe del pane da assimilare nel soprannaturale.

Eligio: Allora la natura è un intralcio, se Dio facendosi cibo tende continuamente a farmi uscire dal piano naturale?

Luigi: No. Il Signore non solo è il Creatore di tutto, ma è anche Colui che ci mantiene. E come ci mantiene? In quanto parlando a noi desta in noi dei motivi d’interesse per pensarlo. Se Lui non parlasse a noi, noi ci afflosceremmo. Lui parlando a noi ci significa sempre qualche novità di Sé, qualche argomento di Sé, e quindi ci sollecita a pensarlo. Ma è Lui che ci tiene nel suo Pensiero. Ma come ci terrebbe nel suo Pensiero se non parlasse? In che modo ognuno di noi si rende presente all’altro? In quanto significa sé, parla di sé all’altro. Parlando di sé, si abbassa a livello dell’altro perché parla, però parlando invita l’altro a seguirlo nel suo pensiero, e quindi l’altro è invitato a superarsi, perché se non si supera non arriva al pensiero. La natura è già parola di Dio: è la prima rivelazione di Dio, e in quanto Parola di Dio, io non debbo fermarmi alla natura, ma raccoglierne il significato. E neppure non debbo disprezzarla, perché, come tutto ciò che esiste, è positiva. Tutto ciò che esiste, in quanto esiste è Parola di Dio. Questa parola di Dio non la dobbiamo isolare da Dio. Il nostro peccato sta in questo: che noi stacchiamo le opere di Dio, e quindi anche la natura, la nostra natura, da Dio e la riferiamo solo a noi (la consideriamo solo per quel che ci è utile o ci piace: la strumentalizziamo a noi). Qui è il peccato: “L’uomo non separi ciò che Dio ha unito”. Tutte le opere di Dio vanno sempre mantenute unite a Dio. Dio scende al nostro livello, si fa cibo per noi, si fa pane, pane che è assimilabile da noi, noi lo dobbiamo riferire a Dio, perché ci viene da Dio. Ed è questo riferire a Dio, che ci dà poi l’intelligenza. Per cui se abbiamo la possibilità di pensare a Dio è perché partiamo dalla natura, dalle opere di Dio, che si fa pane per noi. Quando diciamo: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”: dacci oggi una tua parola che ci aiuti, che mi aiuti a pensarti, perché se Tu non parli, io non sono capace a pensarti, non so come pensarti: ma se Tu mi parli, sei Tu che mi leghi.

È Lui che ci lega parlando a noi. Lui parla sempre, perché tutto è opera sua e quindi tutto è parola sua. Ma è necessario che noi raccogliamo le sue parole nel suo pensiero, e non per quel che fa comodo a noi. La moltiplicazione dei pani è stato un parlare suo a noi, ma se noi il giorno dopo lo cerchiamo per la moltiplicazione dei pani, Lui ci corregge: “Non mi dovete cercare per questo pane: c’è un altro pane”. Ecco che ci porta su di un piano superiore. Però parte sempre dal nostro livello. Se non scendesse al nostro livello, non entrerebbe in contatto con noi. Lui è in cielo e noi in terra. Lui entra in contatto con noi, proprio in quanto si abbassa al piano nostro, ci offre qualcosa che è comprensibile, assimilabile a noi, cioè sono parole nostre, parla il nostro linguaggio. Però attraverso queste parole, Lui ci conduce a pensarlo. Per cui se noi pensiamo a Dio, è proprio perché è venuto Lui prima a noi. Noi non potremmo pensare a Dio, se Lui non scendesse a parlare con noi.

Eligio: Ma la natura personale, col suo groviglio di passioni, sentimenti e pensieri che ci allontanano da Dio, non è una forza in noi che rompe questo disegno di Dio?

Luigi: No, anzi: questa povertà della nostra natura è anch’essa opera di Dio, anzi è grazia di Dio per raccoglierci in Sé. Se tutto è opera di Dio, tutto è grazia di Dio: se attualmente, oggi come oggi, noi ci troviamo così, con questi pasticci, in questo ambiente, con questi problemi, è opera di Dio. Niente avviene senza di Lui. Quindi è grazia di Dio. Il guaio è questo: che noi generalmente riteniamo tutto questo come nostro, e non lo vediamo come segno, come opera di Dio. Se noi lo vedessimo come opera di Dio, allora noi ringrazieremmo il Signore anche di questa povertà, perché attraverso alla povertà Lui ci lega. Più Lui ci fa toccare con mano la nostra miseria, più ci sollecita a  cercare presso di Sé la grazia, l’aiuto, il conforto: quindi è un legame forte. È un conforto. Per cui io preferisco sentire la mia miseria, la mia debolezza, la mia povertà, piuttosto che sentirmi ricco, in virtù, potente e forte, perché il giorno in cui uno si sente forte, si sente sicuro, è proprio il giorno in cui uno precipita perché fa conto su di sé: ormai sono sicuro, confermato. No, tu hai sempre bisogno di Dio. Gesù è stato severo con le persone sicure di sé (quel fariseo che non è stato giustificato perché non si credeva come gli altri). A Dio non fa impressione la nostra miseria, il nostro peccato, ma il nostro orgoglio e la nostra sicurezza, perché sono un ostacolo. E allora cosa diciamo? La nostra povertà, la nostra natura è grazia, è richiamo di Dio che entra nella nostra terra per dirci: guarda che senza di Me, tu non sei niente, non puoi niente. E come lo dice? Facendoci toccare con mano la nostra povertà, il nostro niente. Ma quello è richiamo di Dio: e se è richiamo di Dio è adorabile, è grazia, e dobbiamo ringraziare: grazie, Signore, anche di questa miseria che mi fai sperimentare. Perché se noi siamo convinti che tutto è opera di Dio, questo è amore di Dio che mi richiama più fortemente a Sé. Non è condanna, è misericordia.

Eligio: Qual è il rapporto tra questa natura che tende ad allontanarci e il richiamo di Dio?

Luigi: Il rapporto sta in questa sollecitazione: visto che abbiamo delle forze che ci tirano giù, queste forze che ci tirano giù, ci sollecitano ad una maggior unione con Lui. Quindi sono positive. Come la malattia del figlio di questo funzionario: è  la malattia della nostra anima, della nostra natura (il figlio è l’oggetto del suo amore, della sua vita, che se ne va, una proiezione del suo io; e lo sollecita ad andare da Gesù). Quindi anche la natura che tende a tirarci giù è opera di Dio, per richiamarci maggiormente, quasi a dirci: vedi che senza di me non puoi fare niente? quindi stai stretto a Me. E quello è grazia! Anche il temperamento con cui nasciamo (grazia preveniente). Noi essenzialmente abbiamo bisogno di restare con Dio, poiché questa è la vita eterna: il resto è tutto relativo, anche il temperamento che è grazia per sollecitarci a Lui. L’importante è questo: che tutto quanto sperimentiamo, la nostra povertà, ecc., la dobbiamo accogliere da Dio: è sollecitazione di Dio. In tutte le cose noi dobbiamo stare sempre in colloquio con Dio: questo è fede. Lui è l’Autore. Se ci stacchiamo da Lui, non siamo più in colloquio. Perché il principio è questo: sono Io in tutto, perché temete? Ero Io! Anche nella tempesta; perché allora avete paura? Il rimprovero del Signore è sempre quello. Ero Io! Quindi Lui è in tutto. Noi dobbiamo sempre avere questa presenza: è Lui! Quindi la mia povertà è Lui! È Lui che mi fa sperimentare questo; è Lui! Perché? Per sollecitarmi, per convincermi, per legarmi di più; quindi è un richiamo d’amore: hai sbagliato! (come la macchina dietro richiama quella davanti quando sbaglia in un bivio). È un richiamo a restare più vicini. Così in tutte le cose il Signore parla, continuamente, a noi: perché la possibilità di restare uniti a Lui, ce la dà Lui parlando. È Lui parlando che ci tiene uniti. Non siamo noi che restiamo uniti. È Lui che parlando ci mantiene uniti. L’unione con Lui è data dalla sua Parola: “Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di Me”. Quindi è la sua Parola che ci unisce. Siccome tutto è sua parola, allora tutto tende ad unirci. Il grave è quando cominciamo ad attribuire qualcosa di ciò che accade, non più a Lui, ma a noi, a colpe nostre, ad esempio, oppure agli altri. Allora quello diventa motivo di disunione, perché diciamo: no, lì non è Dio, sono io, sono gli altri, oppure la natura, oppure il caso, oppure ….: la colpa sta lì: nel non accettare più da Dio le cose che avvengono. La colpa sta nel dimenticare Dio (“Non separare ciò che Dio ha unito”). Se in tutte le cose, anche in quelle che sono colpevoli, noi vediamo Dio, facciamo quello che vuole Dio: ricordarci di Dio, collegare con Dio, e non attribuire ad altri ciò che è di Dio. La colpa sta nell’attribuire ad altri ciò che è di Dio. Il peccato sta nel mettere la creatura al posto del Creatore. Dio ci dice: sei convinto che tutto è opera mia e che Io sono il Creatore? E allora perché lo attribuisci agli uomini o a te stesso, o alla natura oppure al caso? Il peccato è qui. Ed è superficialità. Ecco l’errore. La superficialità che non è più tornare a Dio. Tutte le cose, venendo da Dio, devono essere da noi personalmente riportate a Dio. Se le cose si fermano a metà strada, lì c’è il peccato. E allora quello ci isola, ci fa diventare delle isole: non dialoghiamo più e possiamo diventare un inferno, perché ci chiudiamo come una conchiglia. Invece: tutte le cose vengono da Dio. Tutte le cose vanno riportate a Dio. Il fatto è questo: che è abbastanza facile ricevere tutte le cose da Dio: non è più facile riportare tutte le cose a Dio, perché per riportarle ci vuole questa trascenza, questo superamento di noi stessi. Noi restiamo abbarbicati alle nostre cose, ai nostri problemi, alle nostre questioni, li vogliamo risolvere e non torniamo a Dio. È poi questo ritorno a Dio che determina la nostra vita, perché la nostra vera vita inizia lì. Per cui diventa facile ricevere la caramella da Dio, diventa difficilissimo offrire, riportare la caramella a Dio, per ricercare il significato, presso Dio, di quello che ha voluto fare. Così pure è abbastanza facile sperimentare la nostra miseria e povertà: diventa molto difficile interpretarla in Dio, riportarla presso Dio. Ma il cerchio va sempre riportato in Dio, perché quello è vita eterna. La vita eterna è ricevere tutto da Dio e riportare tutto a Dio, perché in Dio tutto si illumina e ci unisce. Ma se noi non riportiamo a Dio, l’unione non c’è. L’unione scatta quando si riporta a Dio la cosa.

Quando i dieci lebbrosi furono guariti, a quell’uno solo che fa ritorno da Gesù per glorificare Dio, Gesù disse: “La tua fede ti ha salvato”. Questo ci fa capire che la salvezza non sta nel ricevere grazie non sta nell’essere guariti dalla lebbra, ma sta nel ritornare a Colui dal quale abbiamo ricevuto la grazia, per glorificare Dio. Questa è la fede che mi fa tornare a Colui che mi ha dato la grazia. Quindi, tutte le grazie arrivano a noi (Tutto l’universo è una grazia. Tutto è grazia). Ma questo non ci salva, ci può anche dannare. Bisogna riportare tutte queste cose a Dio, cioè, tutte queste cose devono diventare in noi un movimento verso Dio. Lo vediamo qui: “Avendo sentito parlare, andò”: bisogna andare. La fede vale, diventa vita, in quanto ci fa andare verso (non ci fa accontentare di credere), ci fa cercare Dio, ci porta a conoscere Dio. È un atto personale: nessuno lo può fare al posto nostro.

Pinuccia: “Avendo sentito parlare, andò”; e tutto è opera di Dio, tutto è Dio che viene a noi, nella nostra Galilea: ma per udire quest’annuncio (la buona Notizia), ci vuole il Pensiero di Dio, Creatore di tutto e che porta tutto a compimento e il desiderio di vedere il suo Volto (semplicità di pensiero e di desiderio). Quando ci dimentichiamo di Lui, quando viene meno l’attesa di Lui, allora Dio opera per risvegliare in noi l’attesa e il bisogno di Lui (si fa strada): la malattia del figlio. Ecco la funzione del dolore; per avvertire che Dio viene a noi ci vuole la fede, che è pensiero e desiderio di Dio. Non basta il dolore.

Luigi: Il pensiero di Dio, se c’è, non può non essere desiderio di Dio, non può non muoverci. Di per sé, il pensiero di Dio è motore, è movente, perché Dio è un’Unità assoluta: quindi noi non possiamo pensare Dio, Colui che opera tutto, senza desiderare di convertire tutto in opera sua, non posso farne a meno. In questo già ammetto che qui c’è Uno solo che comanda, già immediatamente questo mi muove ad interpretare tutte le disposizioni, tutte le cose che ci sono in funzione di Lui; non posso considerarle in modo autonomo o staccate: quindi mi mette in movimento: un movimento di unificazione. Per cui se abbiamo presente il Pensiero di Dio, siamo insoddisfatti fintanto che non abbiamo raccolto tutto in Lui. E creiamo il nostro purgatorio se siamo lenti in questa raccolta: perché sapere che Dio è Colui che crea tutto e avere queste altre cose separate da Lui, questa è una pena, una tristezza. La felicità sta nel vedere tutto secondo quello in cui credo. L’ideale è, avendo presente il pensiero di Dio, poter rispondere al più presto possibile alle esigenze del Pensiero di Dio, e questa unificazione: a vedere tutto secondo Dio, tutto, in modo che nulla resti fuori. Dice Gesù: “Il Regno di Dio è un Regno che cresce fino a inglobare tutto, a raccogliere tutto”: perché lì sta la nostra felicità. Invece più noi siamo lenti in questo raccoglimento, più facciamo la nostra infelicità e tristezza. È un tempo di tristezza (opera di Dio) per dirci: ma datti da fare! Corri, perché il tempo passa.

Il segno di tale tristezza è perché siamo deboli nella fede e nel raccoglimento e facciamo il nostro male, prolungando all’infinito l’attesa (è così che viene il tempo nella vita dell’uomo). Perché credendo in Dio, il semplice fatto già del Pensiero di Dio, ci mette in movimento verso. Ma noi invece ci smarriamo in tante altre cose al punto che finiamo col dimenticare dove vogliamo arrivare. È che noi siamo poco disponibili per il lavoro al quale Dio ci impegna. Allora è un’agonia che si prolunga. È un tempo di attesa che si prolunga all’infinito e facciamo il nostro danno.

Pinuccia: La fede che è Pensiero di Dio è un dono fatto a tutti, perché tutti hanno la possibilità di pensare a Dio.

Luigi: Ma il Pensiero di Dio è già desiderio di Dio. La fede che non è desiderio di Dio non è più fede, si estingue. La fede viene a noi da Dio (non è la nostra fede che ci porta a Dio): la fede è figlia di Dio. Prima della nostra fede c’è Dio. La fede è il primato dell’invisibile: non lo vediamo. Ma la fede deve sfociare nella contemplazione, nella conoscenza, nell’amore, nell’unione. Ma parte da Dio. Dio è in noi (il punto verginale); in quanto è in noi, già immediatamente ci dà la fede: fede poi che noi confondiamo, per cui riteniamo Dio la materia, la creatura, ecc., facendole assolute. Ma cosa c’è dietro questa parola “Dio”, per cui capisco cosa vuol dire (e perché un cane non la capisce?). La parola è un segno. Ma cosa c’è dietro questo segno? È questo che è in noi! Ciò che dietro per renderlo intelleggibile vuol dire che è in noi. Noi non possiamo intendere niente che non sia già in noi. La parola mi raccoglie soltanto l’attenzione ad una cosa che è già presente. Avendola già presente, questa mi mette già in movimento perché Dio diventa un centro di attrazione. Questo movimento può essere molto lento: allora ho la fede, però pasticcio con altri assoluti, mi disperdo, però c’è sempre questa fede, Dio non lo posso dimenticare in modo assoluto. Dio è stato definito come l’Essere conosciuto da tutti, che non può essere ignorato. Lo possiamo negare a parole, ma nella realtà nessuno Lo può negare. Anche chi dice: “Dio non c’è”, Lo conferma, perché uno non potrebbe negare una cosa se non la pensasse. E se la pensa c’è, la conferma. Non è la mia parola che dà valore ad una cosa che fa essere una cosa (posso dire che è bianca o nera). L’essere è indipendente dalle mie parole, per cui a parole dico: Dio non è; ma in realtà, cioè come pensiero, dico: Dio è, perché lo penso. Non posso far a meno di pensare ciò che nego, e se lo penso c’è. È una contraddizione. Una cosa che non è pensabile non si può negare, ma in quanto tu la neghi, l’affermi, perché è pensabile.

Eligio: Pensavo che rapporto c’è tra la fede e il Pensiero di Dio.

Luigi: Quindi la fede viene a noi da Dio: se non ci fosse Dio in noi, non scatterebbe. In noi c’è la presenza di Dio, il Pensiero di Dio: in un modo o in un altro, Dio si fa pensare da noi. Come si pensare, immediatamente suscita in noi questa attrazione, perché come Dio si presenta come Colui che è Creatore di tutto, suscita in noi questo desiderio (che è fede: primato dell’invisibile) di unificare tutto in Lui, di vedere tutto secondo la sua Verità. Dio ci dà la possibilità di pensare a Lui, ma non ci costringe (la possibilità di pensare è fede): per cui più penso a Dio, più sono attratto da Dio; più lo conosco, più la mia fede diventa gigante. Abbiamo perciò fede diverse. C’è anche la fede di chi ha pensato Dio soltanto in quel minuto in cui qualcuno (ed è Dio) gli parlato di Dio e poi lo ha trascurato; ma intanto il pensiero è entrato, per cui non potrà negare di averlo avuto, di averlo visto. A parole possiamo negare la realtà (es. di essere stati qui oggi, di aver visto cioè che si è presentato a noi), ma in realtà (col pensiero) non possiamo negarlo: la realtà è quella!

Cosa vuol dire questo? Che è entrato a far parte di me!

Quindi, in quanto ad un certo momento Dio mi ha fatto arrivare il suo Pensiero, questo suo Pensiero è entrato a far parte di me.

Lo posso nascondere sotto tanti altri interessi, però resta. Quando tutti questi interessi se ne andranno, dice S. Giovanni della Croce, troverete ciò che era all’inizio: Dio.

Ecco la funzione della vecchiaia, della morte: è Dio che sgretola tutta quella montagna che noi abbiamo accumulato e sotto si trova Lui, e non posso non vederlo. È Lui che si afferma, non siamo noi che Lo scopriamo: è Lui che è entrato. La fede scatta da questa presenza di Dio che in noi si trasforma in desiderio di: desiderio che può essere ostacolato, diluito, attenuato, o che invece può diventare una fame assoluta.

Il Pensiero di Dio è la condizione per poter ascoltare la Parola di Dio. Noi possiamo ascoltare le parole di tanti, ma solo i figli di Dio (cioè chi ha il Pensiero di Dio) possono ascoltare le Parole di Dio. Tutto dipende da ciò che abbiamo dentro di noi. Se noi abbiamo in noi il Pensiero di Dio, questo Pensiero di Dio ci porta ad intendere le sue parole in tutto, a vedere tutto come parola sua. È la fede in Dio che ci porta ad intendere ed affermare che tutto è opera sua. È soltanto la nostra superficialità che ce lo fa dimenticare. La superficialità è distrazione da Dio, dimenticanza (per cui 2+2=5). Quindi, pensa! Cosa vuol dire pensare? Tieni presente! Se tu tieni presente Dio, non puoi non riconoscere che tutto è opera sua. Se lo dimentichi, se Lo trascuri, non puoi fare a meno di vedere invece in tutto il caso, gli uomini, te stesso, ecc.. Quindi: pensa! Ricordati! Rappelle!

Eligio: La fede è la premessa: è Dio che opera in tutte le cose.

Luigi: Ma bisogna raccogliere in questo Pensiero di Dio: Lui si è donato (si fa pensare) e poi ci invita a raccogliere, a meditare su questo Pensiero di Dio che mi è arrivato; e allora ad un certo momento capisco: se Dio esiste, non può non essere Colui che opera in tutto, quindi tutto è opera sua. E questo è già un raccogliemento  nostro, una riflessione nostra su di Lui. E più noi raccogliamo, più siamo raccolti perché vediamo il suo Regno, Lui che opera in tutto, Lui presente in tutto. Cioè ci vuole sempre quel “ritorno”: tutto arriva a noi (Dio si fa pensare) e tutto va riportato a Dio. Più riportiamo a Dio e più questo ci unisce, ci fa raccolti, ci fa ricordare di più. E più ci ricordiamo, più la nostra fede diventa presente, diventa viva. “Se aveste fede un granellino di fede ….”: questo granellino è un pensiero di Dio: se noi lo manteniamo, diventa una cosa gigante. Perché Gesù dice che è il più piccolo fra tutti i semi? Perché in mezzo a tante voci, rumori, interessi, Dio per noi è lontanissimo, perché ci trascende, non è visibile come le altre cose; per cui noi diamo più importanza alle cose del nostro mondo, perché queste le possiamo vedere e toccare; invece Dio, che non Lo vediamo e non lo tocchiamo, Lo riteniamo quasi insignificante, mentre invece è l’Essere veramente significante e significativo, perché è Lui che dà valore e colore (come la luce) a tutte le cose. Senza di Lui, ad un certo momento tutte le cose diventano niente, anche quello che consideravano tanto importanti. È perché abbiamo trascurato Colui che veramente dà importanza alle cose.

Luigi: Allora, che cosa vuol dire raccogliere in Dio.

Amalia: Vuol dire intendere la cosa in Dio.

Luigi: Riportare a Dio vuol dire raccogliere in Dio il fatto, la cosa, che quando arriva a noi può piacerci o noi. Se noi ci fermiamo al sentimento o alla reazione che essa suscita in noi, sbagliamo. Non basta nemmeno ringraziare a parole, perché il vero ringraziamento è cercare presso Dio ciò che Dio vuol dirci attraverso tante cose. E questo è difficile. Per questo vivere è difficile. L’accogliere tutto da Dio è facile; è il ritorno che è difficile! Ma è nel ritorno a Lui che Dio si rivela e ci unisce a Sé.

Noi non dobbiamo mai fermarci al sentimento soddisfatto (che bella giornata!). Infatti Gesù rimprovera chi lo cerca dopo la moltiplicazione dei pani (Dio che dà la caramella), dicendo: “Cercate il pane dello spirito”: ecco il ritorno! = cercare il pane che resta in vita eterna. Devo cogliere la vita eterna, il significato eterno che Dio ha voluto comunicarmi oggi attraverso questo (che è una sua parola): se io mi accontento di ringraziare, non colgo oggi ciò che Dio ha voluto significarmi di Sé con questa sua parola, domani questa se ne va; e se domani io cerco di riavere ciò che ho oggi, magari domani Dio mi manda la pioggia (e anche questo è un significato eterno). Per cogliere l’eterno ci vuole il ritorno: Dio mi ha mandato questo, cosa mi vuol significare di Sé attraverso questo? Ecco l’intelligenza della cosa, con il sentimento della cosa (che non basta, perché si ferma a me). Debbo cogliere ciò che di eterno Dio mi dice (e questo è il pane vero), e questo lo colgo solo in quanto faccio questo ritorno.

Dio è come uno che parli una lingua straniera che io non capisco: se io mi fermo solo all’impressione, interpreto male. Devo invece cercare e insistere presso di Lui fintanto che non arrivo all’intelligenza di quel segno che Dio mi ha dato. Che cosa mi vuol significare attraverso questa parola straniera? Perché la natura, per quanto bella, è per me una parola straniera, fintanto che non la capisco nella mente di Dio, cioè fintanto che non colgo quello che di eterno, quindi di immutabile, Lui mi ha voluto significare attraverso questo. Altrimenti uno si ferma all’impressione piacevole e ringrazia il Signore che poi magari il giorno dopo mi manda qualcosa di brutto, e allora? Non basta ringraziare (anche se è già un primo passo quello di riconoscere in tutto la sua opera): la conclusione è quando si arriva all’intelligenza di ciò che ha voluto significare attraverso quel fatto o quella cosa. L’intelligenza è sempre eterna. Esempio di un povero mendicante e un ricco ministro = se ci fermiamo all’impressione che suscita in noi il mendicante, sentiamo una certa commiserazione facendo il confronto con il ricco. Ma se invece passiamo a cogliere il significato presso Dio, arriviamo a capire che il povero è molto più carico di significato e quindi di vita eterna, che non il ricco. Quindi abbiamo un capovolgimento di valutazione. Se mi fermo all’impressione, questa passa: domani il povero sarà un angelo e il ricco una povera creatura. Se colgo invece il significato, allora passo nella vita eterna, e allora capisco quello che Dio ha voluto significarmi attraverso il mendicante e attraverso il ricco. Allora qui passiamo a quello che è la comunione eterna, perché il significato rimane. Invece l’impressione passa; la mendicità, la miseria di questo povero passa: Lazzaro passa e diventa un angelo di luce nel seno di Abramo. E quel ricco, tanto importante sulla terra, passa e nella realtà, cioè nella vita eterna, diventa una creatura che soffre, che pena. Ecco la differenza! Ma quello che è il ricco lo vediamo nella vita eterna, lo vediamo già prima, se noi avessimo inteso il significato: non è che lui andando nella vita eterna sia diventato povero (mendicante di una goccia d’acqua), no, lo era già. Lazzaro era stato messo lì solo per arrestare quello che lui era, per offrirgli una speranza, per farlo rinsavire (era Dio che gli aveva messo davanti l’angelo), ma quello era già povero e mendicante. Quindi, se noi passiamo al significato comprendiamo che il povero è un angelo di Dio, posto lì per la nostra salvezza, e il ricco invece è la nostra miseria, quello che già siamo: quando domani noi precipiteremo, precipiteremo, perché siamo già precipitati, siamo già. Ma è solo presso Dio che si colgono questi significati; mentre invece se restiamo sul piano orizzontale, noi vediamo il ricco come una persona importante che non ha bisogno di chiedere l’elemosina, mentre il povero ha bisogno di chiederla. Ma questo è apparenza. Nella realtà invece il ricco chiede l’elemosina, perché nella realtà, cioè nello Spirito di Dio, noi vediamo che lui chiede l’elemosina di una goccia d’acqua; invece quel mendicante è nel seno di Abramo, perché ha accettato tutto dalle mani di Dio: era già nel seno di Abramo, perché apparteneva alla fede, e proprio perché apparteneva alla fede, ha accettato di recitare quella parte sulla soglia del ricco, per offrire la salvezza al ricco. Ma questo lo si coglie nello Spirito di Dio, in quanto uno raccoglie in Dio. Questa intelligenza non la possiamo cogliere se non ci raccogliamo in Dio. Il raccoglimento è il lavoro principale della vita, altrimenti non viviamo. Cogliere l’eterno vuol dire cogliere il significato presso Dio, significato che è eterno: è già ora ciò che sarà. Se mi fermo all’impressione, non colgo l’eterno. L’impressione passa, il significato rimane. Il significato è solo Dio che ce lo fa cogliere, non solo, ma è Dio stesso che ci fa capire che c’è un significato. Infatti se non ho presente il pensiero di Dio, non me lo immagino nemmeno che ci sia un significato: ci limitiamo a compatire il povero. Già il fatto d’intuire che ci sia un significato è già una conseguenza della fede, cioè del Pensiero di Dio.

II parte: “… e andò da Lui”.

 

Luigi: La notizia che giunge al funzionario lo muove. Qui abbiamo la fede. La fede nasce dall’ascolto (“avendo sentito dire”) e ci muove verso (“andò da Lui”). La fede è vera fede solo se ci mette in movimento verso Dio; non è solo una credenza, ma è una ricerca di Dio, un andare verso Dio.

La fede vera è movimento, ci fa andare. Andare vuol sempre dire partire per arrivare a-. E qual è questo luogo a cui bisogna arrivare? Si tratta del problema della fede.

-                In che consiste la fede?

-                Come nasce? Come si forma in noi?

-                Come cresce?

-                Come si può perdere?

-                In che cosa conclude?

-                In che consiste nella nostra vita questo andare incontro a Lui?

-                E quand’è che possiamo dire di esserci incontrati con Lui? di essere andati da Lui?

Cina: Andare da Lui significa perdonare gli altri, non lasciare venire la sera senza donare il perdono.

Luigi: In che cosa consiste andare da Lui?

Andare da Lui non è capire l’essenziale, non è sapere certe cose, avere una certa dottina o sapienza, e neppure non è un atto morale, ad esempio riconciliarti col prossimo.

Andare da Lui è una cosa diversa da quello che ne deriva: c’è una distinzione tra dottrina, insegnamento ed una Persona. Noi andiamo da Lui solo per sentire quello che ha da dire o da darci, o andiamo per Lui?

Noi possiamo andare da una persona per avere quello che ci può dare, oppure per sentirla parlare di (è sempre un dare), oppure andare da quella persona per quella persona: e la cosa è un po’ diversa.

Emma: La fede è un cammino che Dio ci fa fare per andare verso di Lui; però la possiamo perdere se ci sediamo.

Luigi: La fede la perdiamo quando ci fermiamo a ciò che abbiamo e non facciamo ritorno a Dio. Teniamo presente che il semplice annuncio che Dio esiste, comporta già come immediata conseguenza che Dio viene. Cioè, Colui che è, non può non essere Colui che viene. Però il fatto di capire che Lui è Colui che viene, come immediata conseguenza porta noi a partire verso di Lui. Perché? Perché sapendo che Lui viene, noi siamo sollecitati da questo pensiero (Lui viene) a partire verso di Lui? Non basterebbe aspettare, se Lui viene? Come mai quel funzionario (“avendo sentito dire”) andò? E in che consiste questo partire verso di Lui? Quando ricevo la notizia che uno domani verrà a casa mia (non è ancora Lui, ma solo la notizia che mi arriva: “avendo sentito dire…”) che cosa faccio? Aspetto o gli vado incontro? Andargli incontro non è mettermi nella strada, perché magari Lui arriva per un’altra strada, non è neppure accontentarmi di desiderare che Lui venga. Questo desiderio mi fa preparare tutte le cose (vitto, ecc.) secondo i gusti di quel tale che arriva, per ospitarlo. (per essere conforme a-= “videro la sua gloria”).

Così con Dio: “Sapendo che Dio viene”, questo pensiero che è fede, mi porta, mi sollecita ad andargli incontro. Che cosa significa spiritualmente questo andargli incontro, concretamente, praticamente nella mia vita?

Emma: È un desiderio di andargli incontro.

Luigi: Si, ma questo desiderio a cosa ci porta? Innanzitutto devo tener presente che il messaggio è questo: Colui che è, è Colui che viene. Lui viene. Se viene, io posso prepararmi ad andargli incontro o noi. Ma intanto Lui viene, anche se non preparo niente.

Questo pensiero mi sollecita ad andargli incontro per non fallire l’incontro. E in che consiste questo andargli incontro? Consiste nel preparare tutto secondo ciò che piace a Lui, fare tutto secondo ciò che piace a Lui. Ma è appunto per preparare tutto secondo Lui che ho bisogno di contemplare, di capire Lui, di raccogliere tutto in Lui: ecco in che cosa deve concretizzarsi il desiderio. Se non vado incontro personalmente, se non precedo la sua venuta mentalmente, spiritualmente, non posso preparare niente.

Sapendo che Lui viene (Lui viene e quindi occuperà tutto, Lui viene a prendere posto), questa notizia fa sorgere il bisogno di preparare tutto conforme a Lui. Se Lui viene, allora è necessario che tutto sia conforme a Lui; ma perché sia tutto conforme a Lui, io debbo conoscerLo, debbo cioè arrivare alla sua gloria, debbo desiderare di vedere tutto secondo la sua gloria: questo è andargli incontro!

Perché se non vedo tutto secondo la sua gloria, non gli vado incontro, non ho la vera fede. La vera fede non è solo Pensiero di Dio, ma è desiderio della gloria di Dio; è il primato dell’invisibile. L’invisibile che deve calare nel nostro mondo visibile.

Noi possiamo avere due direzioni nei riguardi dell’invisibile, di Dio: o tendiamo ad interpretare tutte le cose spirituali in funzione della materia, degli uomini, del mondo, e questa è una direzione sbagliata, è peccato; oppure interpretiamo tutte le cose del mondo secondo l’invisibile, ed è la direzione giusta. La fede ci porta a questo atto di giustizia (non è ancora vedere): dare a Dio ciò che è di Dio. Tutto è di Dio, quindi devo riportare tutto a Lui. La fede di Abramo gli fu imputata come giustizia. Questo è preparare la sua venuta: dare a Dio ciò che è di Dio. In questo consiste il partire verso di Lui.

Silvana: Sentire è conseguenza di un’attesa.

Luigi: Partire sulla parola udita, allora, è lasciare il nostro mondo, le nostre certezze, il nostro modo di vedere, per trovare è stare con Colui che mi parla. Fede è aderire al Pensiero di Dio; e l’adesione al Pensiero di Dio ci porta al desiderio della sua gloria, di vedere tutto secondo Dio. La fede ci sostanzia in questo desiderio, nel primato dell’invisibile. Nella nostra vita pratica a che cosa diamo il primato? Se lo diamo a Dio, allora siamo mossi dalla fede.

Silvana: Questa fede nasce dalla parola. Si mantiene, si custodisce in quanto s’incrementa; ma la si può perdere.

Luigi: La fede è partire oggi sulla parola, per andare incotro a Lui. Incontro a Lui: cioè si va incontro ad una Persona! Perché noi possiamo credere di camminare verso Dio, di essere con Dio, e lo trasformiamo un po’ in una dottrina, in una cultura, in un determinato modo di essere, in principi morali. Ma non è quello! Lui è un Essere personale.

Una cosa è andare incontro ad un Essere personale, e una cosa è formarsi una certa struttura di conoscenze relative a Lui. È una cosa diversa.

Una cosa è raccoglierci nel Pensiero di Lui, e una cosa è mettersi lì a meditare (anche se è una cosa buona, ma non è ancora l’essenziale, quell’andare incontro a Lui).

È importante tenerlo presente, perché è proprio il Pensiero di Lui che mi dà la possibilità di superare il pensiero del mio io, perché soltanto la presenza di una Persona, di un Altro da me, mi dà la possibilità di dimenticare me, perché noi da soli, non possiamo dimenticarci, superarci: per quanti sforzi facciamo, ricadiamo sempre su noi stessi. È la presenza dell’Altro che dà a me la possibilità di vivere per l’Altro.

Amare l’Altro vuol dire pensare all’Altro, ma pensando all’Altro mi dimentico di me stesso, perché non posso pensare contemporaneamente a due persone, è assurdo, ecco perché il nostro pensiero è essenzialmente unitario! Se pensiamo a noi, tendiamo a trasformare tutto, anche Dio, nel pensiero dell’io, per cui Dio diventa una creazione mia; se invece pensiamo a Dio, tendiamo ad assorbire tutto, anche il nostro io, in Dio; quindi Dio dà a noi la possibilità di superarci (è Dio! è grazia di Dio!). Ma la presenza personale che ci dà questa possibilità, non una teoria, né una cultura, né una dottrina morale.

Il Cristianesimo è essenzialmente un rapporto personale con Dio, non una dottrina o sapere certi dogmi, no! Ma è proprio quel rapporto a tu per tu con l’Altro. Ed è questo rapporto a tu per tu con l’Altro che dà a noi la possibilità di uscire, di superarci per far vivere l’Altro, per far essere l’Altro, per glorificare l’Altro, per vedere tutto secondo Lui, cioè: per andare incontro a Lui, incontrarci con Lui.

Rina: Solo se partiamo dal nostro mondo e andiamo verso di Lui (cioè se cerchiamo di vedere tutto in Lui), noi ci rendiamo capaci di ricevere la guarigione, la vita.

Luigi: Questo figlio ammalato è la nostra anima malata; l’essenza della nostra malattia è la dispersione, per cui tutto ci domina, ci trascina, ci porta via, e noi non siamo più padroni della nostra anima, che è malata, paralitica, idropica, che si gonfia, ecc.. Lui ci guarisce!

Ecco perché non dobbiamo cercare di guarire prima per poi andare da Lui guariti: ci porremmo un problema senza possibili soluzioni.

Bisogna invece andare da Lui per essere guariti. Non bisogna quindi aver paura di andare da Lui con tutta la nostra povertà addosso, con tutta la nostra miseria, con tutti i nostri dubbi, perché è Lui la certezza, è Lui che illumina, è Lui che guarisce! È sempre Lui!

Andare vuol sempre dire lasciare: ci vuole il distacco, se no si ha solo l’impressione di andare, ma si resta fermi: come il bambino che si mette a cavallo della scopa, immagina di andare avanti, ma resta fermo. Così, la maggior parte della nostra vita è questo star sopra la scopa: crediamo di andare avanti, ma restiamo sempre allo stesso posto, perché non vogliamo lasciare.

Ma andare verso Dio richiede un partire da, un lasciare per occuparci di.

È sempre questo tendere a.

La vita sta in questo ritorno, in questo vivere per-. Si vive per-, in quanto si lascia, si trascura, si dimentica di tante cose che magari agli occhi del mondo sono importanti. Così come Maria di Magdala che spezza il vaso di profumo: agli occhi del mondo è sprecare la nostra vita, infatti quel vaso di profumo rappresenta la nostra vita; bisogna avere il coraggio di spezzare questo vaso di profumo per offrirlo a Gesù, ecco, per andare.

La vera fede fa conto su Dio, crede nell’impossibile.

La fede nasce dall’ascolto della Parola: “Avendo sentito dire”. Dio parla, se noi ci fermiamo all’ascolto, allora nasce in noi la fede, cioè nasce in noi il desiderio di vedere quello di cui Dio ci parla. Quindi sostanzialmente la fede è un desiderio di vedere.

Ecco perché la fede deve sfociare nella contemplazione, nella conoscenza, nella gloria di Dio, è se non sfocia lì o non ci fa sentire il desiderio di conoscere Dio, quello che noi crediamo di credere non è fede.

La fede viene da Dio, Dio parla, ma non in modo automatico, poiché richiede l’ascolto.

Per questo c’è sempre una componente soggettiva della fede, perché noi possiamo non ascoltare, possiamo far rumore, disturbare l’ascolto.

Cina: Isaia dice che la Parola di Dio è come la pioggia che non ritorna al cielo…

Luigi: … senza aver fecondato la terra, ma nella misura in cui la terra ascolta la Parola; infatti la pioggia scendendo sulla terra può anche creare il fango, se non è assorbita da essa.

Amalia: La vera fede ci fa andare.

Luigi: Andare vuol dire partire da-, per arrivare a-: ci fa partire dal nostro mondo, dalla nostra mentalità, per arrivare al Pensiero di Dio, a quest’unico pensiero.

Ma bisogna partire anche dalle cose che già sappiamo anche nei riguardi di Dio. Bisogna sempre partire, perché Dio ci annuncia sempre cose superiori. Dio è infinitamente superiore a noi e ci supererà sempre, eternamente, quindi sarà sempre una sorgente di novità continua; ed essendo una sorgente di novità, ci invita sempre a superarci: conferma le cose vecchie e ci dà cose nuove. Ma in quanto ci dà cose nuove, ci invita a superare quelle vecchie. Quelle vecchie sono superate, ma mai smentite, perché in Dio c’è l’unificazione: quindi non smentisce mai quello che ha dato prima. Però c’è sempre il superamento da parte nostra, per cui non dobbiamo sederci, mai addormentarci: ci mantiene in vita proprio quel superamento.

Con Dio non c’è la stasi, non c’è l’esaurimento. Con le creature umane invece all’inizio abbiamo un rapporto di vita, perché la persona si presenta come novità e la novità ci attrae, ma poi ci si accorge che ad un certo punto quella persona non ha più niente da dirci, per cui cessa il rapporto vita, il rapporto amore; possiamo restare con essa per abitudine o fedeltà, ma non ha più niente da dirci. Perché ci sia sempre qualcosa da dirci, bisogna che ci sia sempre un dislivello, che l’Altro abbia sempre qualcosa da riversare in noi: Dio è proprio l’Essere (ecco perché dobbiamo sempre guardare a Lui) che ha sempre qualcosa da riversare in noi. Ma proprio perché ha sempre qualcosa da riversare in noi, ci chiede sempre il superamento di tutto quello che ha già riversato in noi, e lì è il rapporto vita.

Il rapporto vita è sempre questo superamento per cercare presso di Lui lo spirito, l’intenzione, il significato di ciò che Lui ci ha annunciato. C’è sempre quindi il dono (l’annuncio), e il ritorno (l’intelligenza), e si conclude la vita, e diventa una vita eterna, perché non dice una volta: “Tu oggi sei mio figlio, oggi ti ho generato”. Quest’oggi per Lui è eternità, il chè vuol dire che è continuità: quindi eternamente, continuamente Lui ci genera: è una nascita continua.

La creazione in Dio è continua. La nascita in Dio anche è continua. Non è quindi come noi sulla terra, nel mondo, dove le cose avvengono una volta tanto, noi nasciamo una volta sola, ogni giorno è singolare in sé e passa. Invece con Dio no, abbiamo l’eternità.

Amalia: Ascoltando Cristo, Lui ci conduce al Padre, perché il Pensiero di Cristo è il Padre. È Cristo che ci porta a questa unità di pensiero. Si dovrebbe realizzare in noi quello che dice San Paolo: “Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me”.

Luigi: È Cristo che ci conduce al Padre (“Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me”). Andando al Padre, nel Padre, si è generati dal Padre: qui abbiamo la nascita nuova dal Padre e allora abbiamo l’unione con Cristo, perché due esseri che nascono dallo stesso Essere, si uniscono e formano una cosa sola: non c’è separazione, per cui formeremo una sola cosa con Cristo, e allora è Cristo che vive in noi. Si resta assorbiti dal Superiore. Ma questo avviene soltanto andando al Padre. Perché soltanto andando al Padre, nel Padre si ha la nascita nuova, perché Lui diventa Padre nostro. Cosa vuol dire Padre? Lui che genera noi. E nel Padre allora scopriamo che quello che è in noi è il Figlio, il Figlio del Padre (il Padre genera il Figlio). E allora noi e il Figlio formiamo una cosa sola, perché due esseri nell’eternità, nell’assoluto, generati dallo stesso Essere, formano una cosa sola. Si realizza la preghiera di Gesù. Gesù prega il Padre di fare di tutti una cosa sola, perché è il Padre che fa, non sono gli uomini. Per questo non invita gli uomini ad essere una cosa sola, ad abbracciarsi a vicenda: non possono farlo, perché ciascuno ha una sua direzione. È il Padre che unisce, il che vuol dire che soltanto se noi guardiamo al Padre e ci fermiamo con Padre, dal Padre allora riceviamo questa unione, questa unità.

Amalia: È necessario l’ascolto del Cristo.

Luigi: È necessario l’ascolto del Cristo per arrivare al Padre. L’ascolto non è visione. Bisogna distinguere, perché se Dio ci ha fatto con un volto così, con orecchi, occhi e bocca, è perché ha un significato eterno. Tutto ha un significato eterno.

Quindi c’è la Parola che arriva a noi. La Parola non è visione, ma se la Parola è ascoltata, ci porta alla fede e ci fa desiderare di vedere quello che abbiamo sentito: il Padre.

Allora restando nella Parola, il Figlio ci porta a vedere: ecco il Padre. Dal Padre poi abbiamo la nascita nuova e quindi l’unione col Figlio.

Amalia: La fede è far conto su Dio, essere convinti che la salvezza ci viene solo da Lui, per cui si cerca Lui.

Luigi: Addirittura la fede ci porta a questa convinzione: che la Realtà operante in tutto è Dio, per cui non ci fermiamo più alle altre realtà che per noi non sono più realtà: la Realtà operante in tutto è Dio. È Lui il Protagonista di tutto. Quando uno è convinto che Dio è il Protagonista di tutto non si ferma più alle altre cose. Tutto diventa segno di Lui, Parola di Lui; ed essendo tutto Parola di, si riferisce sempre tutto a Dio.

La fede ci porta proprio a questa passione per il Padre che è poi la passione del Figlio: passione per vedere tutto nel Padre: la gloria. È il desiderio dell’invisibile, questa passione per l’invisibile.

Ma non si può avere la passione per una cosa, se questa cosa qui non si è scoperto che è reale.

Fintanto che siamo convinti che la realtà è questo mondo che tocchiamo e vediamo e Dio invece è un’astrazione, non possiamo avere la passione per Dio, e quindi non siamo mossi dalla fede.

La nostra fede coincide sempre con quello che noi riteniamo reale. Non possiamo  credere a quello che non riteniamo reale. Soltanto che la nostra fede, proprio per la nostra vocazione, è sempre assoluta, per cui ciò che noi riteniamo reale, lo riteniamo reale in assoluto, per cui diventa una tragedia: in un primo tempo ci affatichiamo per rendere assoluto ciò che manifesta che non lo è; poi quando scopriamo che non lo è, triboliamo per tenerlo su, per trattenerlo, con una conclusione vana ed inutile, per cui quando ci troveremo davanti a Dio, capiremo che non ne valeva la pena, perché tutto era solo segno.

Amalia: La fede è vita.

Luigi: Il giusto vive di fede: per giustizia (poiché Dio è Dio e, se vogliamo essere giusti dobbiamo aderire a Lui che parla), entra in noi la fede (adesione) ed entra in noi il desiderio di vedere tutto secondo Lui, di realizzare questa unità, di fare tutto come piace a Lui: ecco l’andare incontro a Colui che viene. Ed è questo che ci porta a questa passione per l’invisibile, per vedere tutto nel cielo di Dio, in modo da far trovare preparato, tutto secondo Lui, quando Lui verrà. Ecco perché la fede nasce dall’ascolto, da questo atto di giustizia. Ma questo desiderio si può perdere se noi non lo coltiviamo e incrementiamo tutti i giorni. Tutte le cose che ogni giorno arrivano a noi devono contribuire ad aumentarlo. Le tante parole di cui Dio ci inonda devono farci sentire tanto bisogno di andare verso di Lui per avere l’intelligenza di quello che Lui dice: quindi incrementiamo la fede. Se invece non la incrementiamo la perdiamo perché siamo dispersi da altri desideri.

La fede è una strada, destinata a passare, che conclude nella contemplazione, nell’amore, nella permanenza.

La creatura, che è estremamente mutabile, attraverso la fede è legata all’Immutabile, e più si avvicina a Lui, più partecipa di questa sua fedeltà e immutabilità. Ma da sola non ce la farebbe: più si agita, più diventa instabile.

Eligio: La fede è incrementata da Dio.

Luigi: La fede è incrementata da Dio, ma in quanto noi raccogliamo quello che Dio opera, cioè in quanto noi continuiamo nell’ascolto. Se noi non raccogliamo, le cose continuano a venire a noi da Dio, ci inondano, ma la nostra fede muore, perché la molteplicità delle opere, dei segni di Dio, ci porta alla dispersione, perché tutto ci attrae, ma noi non lo vediamo più in Dio.

Per mantenere la fede, tutte le cose che arrivano a noi, anche gli argomenti, problemi del mondo, devono essere continuamente interpretati secondo Dio. Non basta che non ce ne interessiamo: questi problemi devono essere ricevuti e visti nel significato di Dio, altrimenti, ad un certo momento, ci indeboliscono la fede, creano il dubbio e ci portano via (il mondo è entrato e noi la fede non l’abbiamo più). Finchè siamo in cammino, siamo deboli e quindi soggetti a vederci portar via la fede. Tutto il mondo è opera di Dio, ma può diventare un bombardamento alla cittadella della nostra fede, se noi non lo riceviamo da Dio e non cerchiamo di riferirlo e interpretarlo in Dio.

La fede nasce dall’ascolto, perché Dio parlando rivela il suo Verbo (ognuno di noi parlando rivela il suo pensiero: e anche questo è un segno). Noi arriviamo a cogliere il pensiero dell’altro nella misura in cui ci fermiamo nella conversazione.

Bisogna perciò restare nell’ascolto, fino ad arrivare al Pensiero del Padre, cioè al Verbo di Dio. Per cui, appena Lui parla suscita in noi interesse, la fede, però bisogna permanere.

Pinuccia: La fede è la possibilità di pensare a Dio.

Luigi: Ci può essere Pensiero di Dio e non avere la fede. La fede è desiderio, passione per, che  mi fa superare tutte le cose che si vedono: primato di Dio su tutto il resto.

Se non c’è questo primato, crediamo di aver fede ma intanto facciamo i nostri affari, pensiamo a noi. E perché andiamo in Chiesa, pensiamo di avere il pensiero di Dio e, come gli Apostoli, gli chiediamo di aumentare la fede, ma non l’abbiamo: “Se aveste solo anche un granello di fede!”, ci risponde Gesù. Non abbiamo fede. E possiamo illuderci.

La fede è passione per Dio: è quello che ci unifica, che ci impedisce di fermarci per strada; altrimenti  noi ci divertiamo e ci lasciamo distrarre da tutto quanto succede.

Fede è essere pressati dalla meta, dal volerla raggiungere a tutti i costi, in modo che si trascura tutto ciò che si vede per strada, perché si vuo arrivare (es. del viaggio a Torino, della persona gravemente ammalata in casa).

La fede, questo primato, ci libera da tutto e ci fa andare là.

La fede è questa pressione qui: essere pressati da una cosa che ci sta sommamente a cuore e che ci impedisce di fermarci al resto; se non ci impedisce di fermarci ad altro, non è fede.

Il mondo invisibile si annuncia a noi per mezzo del mondo visibile e ci attira a Sé: se ubbidiamo a questa attrazione e partiamo dal nostro mondo visibile, la fede cresce. La fede ci mette in questo continuo movimento fino ad arrivare a Colui che il mondo visibile ci annuncia.

Pinuccia: Quindi quand’è che possiamo dire di essere arrivati a Lui?

Luigi: Quando si vede tutto in Lui. È un rapporto personale e se ne ha solo una verifica interna, una certezza interiore (perché Dio è certezza), continuamente convalidata da tutto. La certezza è certezza in quanto tutto comprova quello. Il dubbio invece è conflitto di due cose che sono presenti e non unificate (Dio e la sofferenza). Il dubbio nasce da una unificazione non avvenuta, da un difetto di raccoglimento in Dio. Ecco perché non raccogliendo in Dio noi seminiamo il dubbio in noi e sgretoliamo la fede che poco per volta se ne va.

Se raccogliamo è grazia di Dio, perché noi non possiamo raccogliere senza il Pensiero di Dio; ma se non raccogliamo è difetto nostro. Ecco perché la mancanza di fede è sempre una proiezione di noi stessi nella creatura.

Pensieri conclusivi:

Silvana: Importanza di partire sulla parola udita, per non perdere la fede nella parola udita.

Luigi: Se si parte si deve pagare il distacco, ma è proprio questo che potenzia la fede. Tanto più si paga per una cosa, tanto più questa diventa preziosa. Ciò che abbiamo è moneta che Dio ci dà nella mani per compare il campo (= la fede) in cui c’è il Tesoro.

Eligio: La lezione del funzionario: umiltà e prudenza.

Amalia: Per arrivare al Pensiero di Dio, bisogna stare in ascolto. C’è fede se c’è il primato di Dio su tutto.

Emma: Il primato dell’invisibile sul visibile: è la fede.

Rina: La base, la condizione per iniziare il cammino della fede: vedere in tutto l’opera di Dio, Dio che parla in tutto, anche nella cose banali.

Luigi: È la partenza della fede; se non c’è questa convinzione non si parte. Tutto è opera di Dio. Intanto Dio, essendo Infinito, l’Infinito è perfetto e non fa niente di banale.

L’Infinito è Infinito in tutte le sue espressioni, anche nelle minime: le fa perfette (in un granello di sabbia possiamo trovare un infinito di perfezione), perché l’Essere perfetto non fa perfette solo le cose grandi. Basta un filo d’erba per sprofondarci nell’Infinito. Una foglia, l’occhio di un bambino, qualunque cosa, è un infinito; basta osservarli ed uno si apre sull’infinito. La banalità è grossolanità, è osservazione superficiale.

Presso Dio non c’è niente di banale: tutte le cose hanno una carica infinita di vita.

Siamo noi che siamo banali e superficiali; una cosa vista già due o tre volte crediamo di conoscerla e non ci attrae più. Così una persona, ma non la conosciamo affatto.

È nel pensiero dell’io che noi banalizziamo tutto, rendiamo tutto abitudinario, per cui scade l’attrazione.

Ma presso Dio tutto è di una profondità infinita, perché tutto è parola sua. Nel Pensiero di Dio tutto ha una profondità talmente grande che ci attrae immensamente, per la bellezza e la meraviglia che porta con sé.

Se noi sapessimo per esempio, che l’incontro più banale, l’avvenimento più banale arriva a noi da milioni di anni luce, preordinato da tutta l’eternità da Dio, da tutta la creazione, ma noi abbiamo una profondità immensa, ma non ce ne rendiamo conto. Così pure, il fatto di muovere la mano, richiede la partecipazione di tutto l’universo stellato, ma non me ne rendo conto, e credo di essere io: per cui è Dio che muove la mano, perché senza la partecipazione delle stelle, noi non possiamo muovere niente. Quindi in ogni minima cosa, c’è tutto l’universo che partecipa: noi crediamo di essere noi. Anche per l’esistenza di una pietruzza, c’è tutto l’universo che partecipa, perché in un punto dell’universo c’è tutto l’universo, e quindi tutta l’opera di Dio: è di una profondità immensa, e invece noi vediamo solo un punto. È il Pensiero di Dio che fa attenti a ci fa riportare tutto a Dio, per arrivare a Dio.

Amalia: Ammettere che tutto è opera di Dio può essere solo una parola.

Luigi: No, ammettere che tutto è opera di Dio non può essere solo parola, perché è una convinzione che deriva dal Pensiero stesso di Dio: ma all’inizio dobbiamo credere anche se non capiamo. Il fatto stesso di aderire a Dio, il Pensiero stesso di Dio, già ci fa capire che è il Creatore di tutto. Noi non capiamo come Lui possa fare tutto e possa far giungere a noi le sue opere che sono misteriose. Però per il Pensiero stesso di Dio che è Creatore di tutto, tutto dobbiamo riferire a Lui, attribuire a Lui: noi non capiamo come lì ci possa essere la mano di Dio, se uno ci dice che lì c’è la mano di Dio; ma se noi non crediamo, lì cadiamo in peccato. “Se non crederete che Io sono, morirete nel vostro peccato”.

Amalia: È una questione di volontà.

Luigi: È un atto di giustizia, un atto di pensiero, non è volontà. Dire: “Credo che tutto è opera di Dio”, è una conseguenza del Pensiero di Dio: Dio è Colui che ha in Sé la ragione di tutto ciò che esiste. È il concetto stesso di Dio, a meno che si dica la parola “Dio”, senza un pensiero dietro: allora tutto è fasullo, perché ci manteniamo solo su delle parole.

Ma è diverso se aderiamo al pensiero: ma noi non possiamo aderire ad un pensiero, senza sapere che cosa intendiamo per quel pensiero. Pensiero di Dio è Colui che ha in Sé la ragione di tutto, quindi debbo escludere che ci sia qualcosa che non abbia in Lui la ragione, che non sia giustificato in Lui, perché in questo caso esisterebbe qualcosa non voluto da Dio, e allora ci sarebbero due princìpi, due dèi: è un assurdo! Dio è Colui dal quale viene tutto.

Per cui ci può essere solo la diminuzione, la privazione, ma in noi, non in Dio. In Dio però anche questa diminuzione è contemplata, perché la partecipazione alla sua gloria, alla sua conoscenza richiede da parte nostra, poiché siamo esseri coscienti, questo atto consapevole, che può anche non esserci, e allora la privazione, che è contemplata come condizione per poter partecipare alla sua conoscenza.

La parola di Dio che arriva a noi è un annuncio (non è ancora visione) e richiede a noi quest’atto di giustizia, perché è Dio che si presenta e si presenta già con le carte per convincerci, per cui se noi non aderiamo, cadiamo in peccato! “Morirete nel vostro peccato” è non credere che Lui è. Lui si annuncia: “Io sono”. Si presenta. Cosa vuol dire si annuncia? Mica lo dice a parole, ma si fa pensare da noi. È proprio questo pensiero che scopre ciò che Egli è: e questa scoperta mi porta come conseguenza che tutto è opera sua. In ogni passaggio posso non aderire: posso non fare il passaggio “tutto è opera sua”, oppure comportarmi come se non fosse tutto opera sua, a seconda se la cosa mi piace o no. Siccome diventiamo figli delle nostre opere, creiamo le distanze, perché ciò che ho fatto non tenendo presente Lui, ma attribuendolo ad altri, mi crea una frattura tra la mia anima e Lui, allora io non sento più la sua presenza, non mi sento più in unione, perché ho fatto qualcosa non secondo Lui. E avvertire questo è grazia sua, che mi dice: “Vedi, ora stai scontando il fatto di non avermi tenuto presente, per cui sei caduto nella schiavitù delle tue opere che non sono le mie opere”. È il fatto di fare qualcosa non secondo Lui, cioè non tenendo presente Lui, che crea le distanze.

“Non è che io sia andato lontano da voi, ma sono le vostre colpe che hanno creato le distanze tra voi e me”.  Quindi è un fatto personale, soggettivo.

È sufficiente che noi ci fermiamo nel Pensiero di Dio per immediatamente capire (ed è Dio che ci convince) che tutto è opera sua.

Isaia: “A che cosa mi avete assomigliato? Sono Io che creo tutto: Io creo la luce, Io creo le tenebre, Io faccio il bene, Io faccio il male che soffrite, Io sono tutto… è tutto opera mia, non c’è un altro Dio”.

Quando la Parola di Dio ci porta a considerare questo, noi diciamo: “Amen”, “È così”, “Non può essere in modo diverso”. È solo la nostra superficialità e grossolanità che ci fa credere in Dio e poi credere che ci siano altri.

La Parola di Dio che giunge a noi ci porta nella profondità, ci libera dalla nostra superficialità e ci fa considerare ciò che non avevamo considerato. Ci conduce a pensare ciò che non avevamo pensato e che sapevamo. La Parola di Dio ci porta a questa coerenza con Dio, a questa unificazione in Dio; ci porta a fare ciò che noi per superficialità non facciamo. Noi cadiamo sempre nel molteplice, perché siamo inconstanti, volubili, non sappiamo stare. Con Dio invece bisogna saper stare e saper stare vuol dire unificare tutto. E per unificare vuol dire attribuire tutto a Lui, perché se attribuisco una parte a Lui e una parte ad altri, creo divisione, e nella divisione: “Ogni casa divisa non può star su, ogni regno diviso non regge”.

È logico che più uno cerca Dio, più si forma la convinzione, perché vede come Dio regna, e più vede, più partecipa di questo e si arriva a quella fede che è poi visione, certezza. Però già il fatto di non credere che Dio opera in tutto, lì siamo già in colpa, perché è superficialità.

Pinuccia: Difficile è rimanere in questa convinzione.

Luigi: Bisogna arrivare a vedere l’opera di Dio, la bellezza e la grandezza di Dio in tutto, anche in ciò che apparentemente è brutto o cattivo, perché in tutto c’è la mano di Dio.

Ma bisogna anche tener presente che tutto ciò che Lui ci presenta, ce lo presenta affinchè abbiamo a testimoniare lo Spirito, la fede, non perché lo sottoscriviamo. Così ci presenta uno che proclama l’aborto, devo testimoniare la vita. Se mi presenta uno che nega Dio, è perché io affermi lo Spirito. Solo testimoniando ciò di cui ci ha convinti, noi lo possediamo. E allora Dio ci mette davanti a prove che sono apparenti negazioni di Lui, tentazioni.

Lui dà la fede, e Lui dà l’occasione di negare la fede, affinchè non neghiamo la fede, ma testimoniamo la fede, perché testimoniando la fede, la possediamo. Perché il primo dono noi non lo possediamo (ce lo dà gratuitamente) e non lo possediamo se non partecipiamo personalmente. Ma non possiamo partecipare personalmente se non siamo occasionati, e non siamo occasionati se non siamo in tentazione di fare in modo diverso.

È proprio la tentazione di fare in modo diverso che ci dà la possibilità di affermare quel dono che uno ha ricevuto.

Se lo affermiamo diventa nostro. Dio si dona così. Arriva a dare tutto se stesso ( perché la meta è poi quella), mettendoci nell’occasione, e quindi tentandoci, a negare tutto Lui.

Nell’occasione di negare Lui, noi facciamo Lui (“Chi fa la verità giunge alla luce”) Dio ci dà il possesso di Sé.

Ma noi non arriviamo al possesso se non affermiamo il dono di Dio. “Chi avrà arrossito di me, anch’io arrossirò di lui”.

Ecco, l’uomo non arriva a possedere la luce, Dio non lo conosce. Dio non lo conosce, perché: “tu non mi hai conosciuto nella prova”. La prova è prova in quanto è rischio, altrimenti non c’è.

Rina: Non è facile…

Luigi: Non è facile, perché non è facile la vita con Dio, perché Dio è un infinito. La porta è stretta. È facile ricevere i doni, ma vivere, affermare lo spirito è difficile, perché richiede sempre il superamento dell’io.

L’importante è non credere che ciò che non mi è gradito non è voluto da Dio. Noi poi chiamiamo male ciò che non ci è gradito, ciò che non è secondo il nostro modo di pensare, di essere: no, perché Dio ci mette nella tentazione, nell’occasione di camminare e superare noi stessi, proprio mettendoci nelle difficoltà. Dio ci chiede continuamente di superare noi stessi e tutte le nostre conoscenze.

Pinuccia: Uccidere è male.

Luigi: Uccidere è male, ma è voluto da Dio. Cristo è stato ucciso, e non è stata volontà del Padre? Dio vuole quello perché è il mezzo per salvare. È Dio che mette quest’intenzione di uccidere. È Dio che ha mandato a morte suo Figlio, e come? Scatenando tutti i nemici contro, in modo che l’uccidessero, perché se Lui non lo avesse voluto, non sarebbe morto. Quando Gesù dice: “Non la mia volontà sia fatta, ma la Tua”, su che cosa discute? Questa tua! Non ha detto: “Non la mia volontà sia fatta ma quella dei miei uccisori”. Il dialogo è stato tra il Figlio e il Padre: quindi in tutto Lui vedeva la volontà del Padre, l’azione del Padre; per cui se ad un certo momento arrivano i soldati, Giuda, ecc.: è il Padre che manda! Quindi non la mia volontà, ma la tua, la tua. E Lui ha accettato la morte perché Volontà del Padre.

“Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio…”, quindi abbiamo una decisione da parte di Dio.

Certo, se non ci fosse stato il peccato, se non ci fosse stato il rischio di morte per l’uomo, Dio non avrebbe sacrificato suo Figlio, è logico. Però data la situazione di morte dell’uomo, fu necessario questo, per salvare l’uomo. “Senza spargimento di sangue non c’è redenzione possibile”, dice San Paolo. Questo spargimento di sangue che redime è voluto da chi? È voluto da Dio. Dio per salvare colui che muore, sparge il sangue innocente, ma è Dio che sparge il sangue innocente.

Pinuccia: La fede è ascolto.

Luigi: La fede è figlia dell’ascolto, nasce dall’ascolto, è parola rivelata; la fede è un cammino essenzialmente di ascolto (nasce, cresce, arriva a compimento nell’ascolto) e di desiderio. L’ascolto è un richiamo a far conto su Dio, per tenermi unito a Dio. Il desiderio è un richiamo alla meta: l’incontro con Lui.

Cina: Il funzionario va a Gesù per chiedere la guarigione per suo figlio.

Anche noi per guarire dalla nostra dispersione, dobbiamo partire e andare da Lui che ci guarisce. Ma per camminare in questa strada, non dobbiamo dividere ciò che Dio ha congiunto.

Luigi: Lui si fa strada per me, attraverso la sua parola mi dice: “Vado per essere guarito”, allora Lui si fa strada. Cioè tutte le cose che Egli fa, buone e cattive, devo prenderle dalle sue mani, perché sono strada che mi aiutano ad andare dove Lui mi ha detto di andare ed io voglio andare. Per cui bisogna essere attenti non solo alla meta, ma ad accogliere tutto, perché la strada è Lui. Quindi non dire: “Questo non lo accetto da Dio”; anche se non capisci, perché è proprio se ti mette in difficoltà che ti fa camminare.

Gesù lava i piedi a Pietro che non capisce, eppure: “Se tu non ti lasci lavare i piedi da me, non potrai aver parte”. Capirai poi dopo, però bisogna accettare per fede, perché è Lui, è Lui che fa. Anche Giovanni Battista non capisce: “Ma lascia fare”, e battezza Gesù; lo fa anche se non capisce, per fede, perché è opera di Dio: è accettando che arriviamo poi a capire. L’ascolto ci conduce a vedere, se rimaniamo in ascolto.

È la fede che ci sospinge ad attribuire tutto a Dio. Se non abbiamo la fede, non possiamo attribuire tutto a Dio, ma solo qualcosa. Ma dev’essere una fede forte che smuove anche gli alberi. La fede rende possibile l’impossibile. Se noi non attribuiamo tutto a Dio e quindi non siamo mossi da Dio, è debolezza di fede. E così non riceviamo le lezioni, perché in quanto non le attribuiamo a Dio, queste scorrono senza incidere su di noi, passano, non ci toccano (perché diciamo che è opera del tale, della società). Ma se dico che è opera di Dio, mi obbliga ad una catarsi, ad una purificazione. È Dio che spiritualizza, in quanto però accettiamo tutto.


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« Avendo sentito dire che Gesù dalla Giudea era venuto in Galilea, andò da Lui». Gv 4 Vs 47  Secondo incontro.


Titolo:  Il problema centrale è quello della fede.


Argomenti: La necessità dell’assenza di Dio. I 10 lebbrosi: ritornare a Dio. Il segno, è segno in quanto rappresenta Dio e rappresenta noi. Imparando a fare quello che fa Dio,  possiamo rimanere uniti a Dio. Il sacrificio del superamento dell’io. I due modi di andare a Gesù.


9/Ottobre/1977


Pensieri tratti dalla conversazione con Luigi Bracco:

Luigi: Proporrei di restare sull’argomento di domenica scorsa cioè: “Avendo sentito dire che Gesù era venuto in Galilea, andò da Lui”; per cercare di approfondire ancora qualche aspetto. Il problema centrale è quello della fede.

Eligio: “Nessuno è profeta nella sua patria” dice Gesù; pensavo che la patria di Dio è l’anima umana. E come mai Gesù dice questo?

Luigi: Perché Dio non è accolto in casa sua; nel Prologo di San Giovanni si dice: “Egli venne nella sua casa ma i suoi non l’accolsero”. Infatti da Adamo in poi, dal primo uomo fino a noi, tutti hanno peccato. Eccetto Maria, che è tutta creatura nuova, tutta opera di Dio, è l’Immacolata Concezione, cioè creatura nuova. L’uomo deve sperimentare il rifiuto di Dio, l’assenza di Dio, per scoprire Dio.

Gesù viene in Galilea, nella patria che l’ha rifiutato. Colleghiamoci con il passo: “Venne nella sua casa e i suoi non l’accolsero; ma a quanti l’accolsero …”; però c’è sempre un’azione di rifiuto. Ma è proprio attraverso il rifiuto che uno può rinsavire, riaccogliendo Colui che ha rifiutato perché a costo di lasciarsi uccidere, Lui rimane, tra coloro che lo uccidono. Gesù morto tra noi è ancora motivo di salvezza. Ma Lui morto, ci fa toccare con mano la nostra solitudine: “Eravamo con Dio e non lo sapevamo. Adesso stiamo toccando con mano cosa vuol dire essere senza Dio”. Siccome Lui ci fa toccare con mano l’assenza di Dio per recuperarci, la sua morte è ancora motivo di salvezza per noi se ci apriamo; se attraverso la sua morte, capiamo che il permanere nel nostro io è peccato. Perché la causa della sua morte è il pensiero del nostro io autonomo. Noi, pensando a noi stessi, siamo il motivo della morte di Dio: perché è rifiuto. Toccando con la mano l’assenza, la morte di Dio, scopriamo che il permanere del pensiero del nostro io è motivo di uccisione, di delitto. Ecco, quello mi dà la possibilità di rinsavire, cioè di morire a me stesso. È necessario che Cristo muoia affinché noi capiamo; è necessario che Cristo muoia affinché ognuno di noi tocchi con mano che il vivere nel pensiero del nostro io, è il motivo di uccisione di Dio, di privazione di verità. Fintanto che non siamo convinti che la vita vissuta nel pensiero del nostro io è motivo di delitto di Dio, noi continuiamo a vivere nel pensiero del nostro io. Abbiamo bisogno di sperimentare, di toccare con mano le conseguenze del pensare a noi stessi per superare questo posto di blocco. In un primo tempo della creazione, constatiamo quello che dicono gli altri; in un secondo tempo entriamo noi in gioco, arriviamo a prendere coscienza del pensiero del nostro io, è una fase della nostra maturazione che è la premessa per arrivare a prendere coscienza di Dio; perché solo un essere cosciente, consapevole, ha la possibilità di conoscere Dio. Nel momento in cui arriviamo a prendere coscienza del pensiero del nostro io, ecco che ci fermiamo a questo posto di blocco, cominciamo a vivere nel pensiero del nostro io. Ci fermiamo ad una tappa intermedia nel processo di maturazione verso Dio. La salvezza, non sta nel ricevere doni da Dio, ma sta nel ritornare a Dio. È la lezione del lebbroso guarito; tutti i dieci lebbrosi hanno ricevuto il dono della guarigione, ma solo quello che è tornato a ringraziare è stato salvato. San Paolo dice: “Se anche avessi il dono della fede da spostare i monti, se non ho la carità, nulla mi giova”. La carità è ritornare a Dio, la fede che si volge ad amare, la fede che ritorna, che ti fa tornare. Tutta l’umanità ha ricevuto doni da Dio; “uno” solo ritorna. Questo “uno” significa che la fede si vive personalmente. Questo “unico”, ed era uno straniero, vedendosi guarito, sente il bisogno di tornare a rendere gloria a Dio, rappresenta l’individualità, la ribellione al gruppo, colui che si assume la responsabilità di ubbidire al bisogno della fede e si distacca da quello che fanno tutti: abbiamo un ritorno personale. Il ritorno a Dio è sempre personale perché richiede il superamento dell’io; fintanto che siamo nel pensiero del nostro io, incontriamo il Signore ma restiamo col gruppo, andiamo avanti. No, bisogna staccarsi perché si richiede il superamento dell’io. Quel “uno” su dieci rappresenta il ritorno personale, la vita personale. La salvezza non sta nel ricevere doni, ma nel ritornare a Colui che ci fa i doni.

Teniamo presente questo fatto: la vita è comunione con-, e la nostra vita attuale è possibilità di comunione, per cui non si deve vivere per mangiare, perché il mangiare ci offre la possibilità di vivere ma non ci fa vivere.

Approfondiamo allora che cos’è che ci unisce, che ci mantiene uniti. Ciò che ci unisce non sono i doni che riceviamo, ma sono i doni che che facciamo.

Dio, dando se stesso a noi, si unisce a noi, ma il ricevere i doni non è per noi motivo sufficiente per unirci a Lui. Noi non ci uniamo a Dio fintanto che non ritorniamo a Dio i doni che abbiamo ricevuto da Lui.

È il ritorno che diventa difficile. Per questo uno su dieci ritorna. Ricevere i doni è facile, ritornare a Lui è difficile. Mangiare è facile, ritornare a Lui è difficile. Mangiare è facile, vivere è difficile perché vivere vuol dire donare, donare soprattutto noi stessi, il nostro pensiero. Dio fa continuamente dei doni a noi, e se noi li ritorniamo a Dio, questo scambio continuo di doni, da Dio a noi, da noi a Lui, stabilisce e mantiene l’unione e ci introduce nella vita. Ma se noi ci arrestiamo ai doni, non ci uniamo a Dio.

Eligio: “Dio non potrebbe esistere se non fosse Lui stesso unione”, dice S. Giovanni della Croce.

Luigi: Dio, donando se stesso a noi, si unisce a noi; ma fuori da Dio, non è quello un motivo sufficiente per unirci a Lui. Noi ci uniamo a Dio solo per quello che facciamo dono a Dio. Dio donandoci i doni si unisce a noi, ma noi non ci uniamo a Lui fintanto che non ridoniamo i doni, ricevuti da Lui, a Lui. È questo ritorno che diventa difficile. Ecco perché solo uno su dieci è tornato a ringraziare. Ricevere doni è facile, tutti i dieci hanno ricevuto i doni, ritornare a Colui che ci ha fatto il dono è molto difficile. Per cui mangiare è facile, vivere è difficile perché vivere vuol dire donarsi e donarsi vuol dire fare dono, dono soprattutto di noi stessi, del nostro pensiero. Più ci doniamo a Dio e più siamo uniti a Lui: è questa circolarità di doni. Dio continuamente fa doni a noi, se noi continuamente facciamo doni a Dio, in questo scambio continuo di doni, da Dio a noi e da noi a Dio, ci unisce: questo è l’elemento che unisce, l’elemento di comunione che ci introduce nella vita. Se noi ci arrestiamo ai doni che riceviamo, non ritorniamo i doni a Dio, non ci uniamo a Dio.

Rina: Il ringraziare non è sufficiente.

Luigi: No, il ritornare non è solo ringraziare a parole. Rendere gloria è conoscere, è unificare, è raccogliere in Dio. Perché Dio opera in tutte le cose, non per significarci idee, creature, ma per parlarci di Sé. Noi dobbiamo sempre passare dal segno a Lui, a che cosa di Lui mi dice questo segno: ecco il ritorno! Che mi unisce e rinsalda l’unione con Dio. Tutto va riportato a Dio, per cercare l’eterno nel tempo, l’assoluto nel relativo; (parabola del povero Lazzaro e del ricco Epulone). La fede ci fa continuamente desiderare di vedere nelle cose che passano l’eterno, l’assoluto di Dio. Invece nel pensiero dell’io, noi tendiamo a trasformare tutte le cose che passano in assolute ed eterne, perché, essendo segno di Dio, ci attraggono, perché sono buone e belle a vedersi. Da qui tutta la fatica della vita per mantenerle.

Se invece ho la fede, ho presente Dio, le lascio passare e cerco il significato, che cosa vuol dirmi Dio in Sé, attraverso quella cosa che magari me la presenta solo per un quarto d’ora: è un annuncio di un qualcosa di Sé.

Raccogliendo l’annuncio, passiamo alla conoscenza di Dio, alla vita eterna: “Avendo sentito dire … andò”.

Il Pensiero di Dio ci trasforma quella cosa bella, buona, vera e che ci attrae, in segno di Sé, in Parola, in significato e quindi mi fa sentire il bisogno di cercare presso Dio di capirlo. È questo ritorno dei doni che ci unisce. Però siccome siamo fermi al posto di blocco dell’io, tutte le cose diventano per noi motivo di arresto: ecco che allora uccidiamo Dio, lo facciamo fuori: “Così l’eredità sarà nostra”. Ci teniamo più alla vigna che al padrone della vigna, perché nel pensiero del nostro io, Dio è Colui che tende a portarci via tutto.

Il segno, è segno in quanto rappresenta Dio e rappresenta noi. ma ci vuole il Pensiero di Dio per leggerlo.

Ad esempio di fronte ad un ubriacone, una prostituta, un ladro, col Pensiero di Dio vediamo lo specchio della nostra anima; invece nel pensiero dell’io ci riteniamo diversi da loro e ringraziamo Dio come il fariseo che dice: “Non sono come loro”.

E di Dio che cosa ci rivelano questi segni? Che Lui è il Medico, la Salvezza.

Proprio facendoci vedere lo specchio di ciò che siamo, ci invita a rivolgerci a Lui, perché è Lui che mi guarisce. Ci fa capire che se noi siamo tutto questo, è proprio perché ci siamo dimenticati di Lui. Egli perciò ci mette di fronte a ciò che siamo dimenticando Lui.

Se arrivo al delitto, è perché mi sono dimenticato di Lui; se lo metto in croce, è perché mi sono dimenticato di Lui. Questi segni mi fanno conoscere Dio, in quanto mi fanno capire che Lui mi fa diverso da quello che sono. Mi invitano a unirmi di più a Lui.

Dio attraverso tutte le sue opere ci invita, ci richiama a Sé.

Perché Dio crea tutte le cose? Perché non siamo capaci a restare con Lui, perché siamo instabili. Che cosa ci impedisce di restare con Lui? Perché non facciamo ciò che fa Lui. Infatti Gesù dice: “Il Padre non mi lascia mai solo, perché faccio sempre ciò che piace a Lui”. Soltanto facendo ciò che piace a una persona, io posso restare unito a quella persona, altrimenti mi disunisco; anche se siamo vicini fisicamente, in una stessa famiglia, in uno stesso gruppo, si diventa lontanissimi. Perché la condizione per restare uniti è sempre questo ritorno, cioè sempre fare l’Altro, non fare noi. Quindi solo imparando a fare quello che fa Dio, noi possiamo rimanere uniti a Dio. Ma noi, essendo creature, non siamo capaci a fare quello che fa Dio, per cui siamo molto instabili. Per cui Dio ci rivela se stesso e noi immediatamente ce ne dimentichiamo. Non che noi ignoriamo Dio. Dio è Colui che nessuno può ignorare. Ma noi non siamo capaci a restare con Dio. Allora Egli si abbassa, assume l’aspetto di una formichina, perché la formica sono capace di guardarla, ma Dio non sono capace di guardarlo. Diventa il segno, si fa segno. Sono capace di osservare per esempio la prostituta, che ad un certo momento Egli mi presenta, per dirmi ciò che sono, ma io non sono capace ad osservare la sua santità. È per questo che Dio si abbassa a livelli diversi, livello osservabili nel pensiero del mio io: la pietruzza, il tramonto, il monte, l’albero. Sono tutti segni di Dio, sono concessioni di Dio, ma concessioni che non durano, quindi sono lezioni, ammonimenti, richiami, inviti. Per cui più raccogliamo in Dio, più diventiamo capaci di restare con Dio, perché diventiamo capaci di fare ciò che fa Dio, fino a generare il suo Verbo: la lezione eterna. Se siamo con Dio, con Lui generiamo il Verbo di Dio e allora c’è l’unione: questo nella vita eterna. Ma più raccogliamo i segni, per quel che noi raccogliamo, restiamo raccolti.

Ognuno può stare unito nella misura in cui ha raccolto. “Ognuno avrà ciò che avrà voluto avere, ciò che avrà raccolto”. Siccome ciò che ci unisce è ciò che doniamo a Dio, ognuno di noi avrà soltanto ciò che avrà donato. Invece ciò che non avrà donato, lo perderà, perché quello diventerà motivo di disunione. Per cui più ci affrettiamo a dona a Dio, a riportare a Dio, e più realizziamo, o meglio, Dio realizza, questo trait d’union, questo legame. Legame che ad un certo momento diventa fortissimo, perché tutto ci unisce, non c’è più niente che ci disunisce. Mentre nel pensiero dell’io invece tutto diventa motivo di disunione da Dio. Non è il mondo che è perverso o le creature, ma sono io che non riporto a Dio, per cui tutto mi diventa occasione di dispersione, e perdo. Se invece noi raccogliamo molto in Dio, tutto quello che raccogliamo nella vita, essendo parola di Dio, diventa motivo di unione.

Noi non potremmo unirci a Dio se Dio non parlasse (è la parola di Dio che ci unisce); ma non basta che Dio parli, perché Dio parla: bisogna che la parola venga da noi raccolta in Dio. Per cui tutto il parlare di Dio diventa motivo di unione. Al limite estremo, non c’è più nessuna creatura che, nessun fatto, nessun avvenimento, nessuna idea che ci possa distogliere da Dio. Cosa dice San Paolo? “Che cosa mai mi potrà separare da Cristo? Né le passioni, né il mondo, né le potenze, più niente mi può staccare da Lui”, perché tutto è di Dio. D’altronde, è logico, perché tutto è opera di Dio e Dio parla per unirci, non per disunirci.

E come mai Dio parla per unirci e noi siamo disuniti? Siamo nella sua casa e come mai lo rifiutiamo? È perché siamo fermi al posto di blocco dell’io.

Questo superamento dell’io è opera di Dio, ma richiede da parte nostra sacrificio e penitenza, perché diventiamo figli delle nostre opere. Costa! “Sforzatevi di entrare per la porta stretta”.

Non è che il mondo sia fatto male per cui la porta per arrivare a Dio è stretta e larga è la porta che conduce alla perdizione.

Se tutte le cose ci disperdono, ci divertono e non ci convertono, pur essendo creature di Dio, non è perché siano fatte male: Dio ha fatto tutte le cose per convertirci. E allora come mai? È che noi diventiamo figli delle nostre dispersioni, per cui tutto quello che ho unito a Dio, diventa per me motivo di disunione.

Se tutto quello che unisco diventa per me motivo di unione e quindi di accelerazione, tutto quello che non unisco a Dio, diventa per me motivo di disunione, perché divento figli di queste opere di disunione. Per cui, quando capisco l’errore, questo mi costringe ad un lavoro, ad una fatica enorme.

La difficoltà nel superare il posto di blocco è dovuta alla scarsa conoscenza di Dio. Quando arriveremo alla conoscenza di Dio, alla vita eterna, scopriremo Dio come Colui che ci era sommamente sconosciuto, come Colui che è stato trascurato, “Tardi ti ho conosciuto” dice Sant’Agostino, cioè scopriremo il nostro peccato. Ma Dio non è l’inconoscibile.

Nel pensiero dell’io noi non possiamo certamente conoscere Dio. E il punto di riferimento per superare l’io è la parola di Dio, perché la parola di Dio, giungendo a noi, ci parla di Dio, ci comunica Dio (Dio essendo l’Essere può parlarci solo di Sé). La parola è comunicazione di un pensiero. Il pensiero lo riceviamo: noi sappiamo che Dio esiste.

Infatti noi di fronte alle cose relative, sentiamo il mistero; non potremmo sentirlo, se già non conoscessimo il mistero; non scopriremmo il relativo, se non avessimo già presente l’Assoluto. La difficoltà è questa.

Noi chiamiamo Dio “l’Inconoscibile”, perché chiamiamo “conoscibile” quello che vediamo e tocchiamo. Chiamiamo Dio “Inconoscibile” perché non sappiamo come fare; perché per noi è ignoto. Noi non scopriremmo il relativo, il temporaneo, se non avessimo già un piede posato sulla riva dell’eterno.

Noi tutti soffriamo la temporaneità delle cose, proprio perché abbiamo già un piede nell’eterno. E cosa vuol dire avere già un piede nell’eterno? Vuol dire essere agganciati, cioè avere presente. Ma è solo nella conoscenza vera e totale che avremo la vera libertà; attualmente, non avendo una conoscenza completa, ci crediamo liberi, ma non lo siamo e il giorno in cui scopriamo di aver sbagliato, scopriamo di esserci lasciati ingannare e illudere da altro, perché non conosciamo ancora la Verità, e per questo ci troveremo di fronte allo “Sconosciuto”.

Se conoscessimo la Verità, certe scelte non le faremmo. Ci crediamo di essere liberi a farle, ma invece ci lasciamo attrarre da ciò che appare bello e conveniente, che ci fa fare bella figura. Libero, invece è colui che, consapevole della Verità, sceglie, sapendo. Ma colui che sceglie senza sapere, non è libero, e dovrà rimangiarsi tutto di fronte alla Verità. “Piangeranno dinanzi a Lui tutte le genti”, perché capiranno di aver sbagliato, di aver trascurato Colui che non dovevano trascurare: quindi lo sapevano, non era un ignoto. Noi ci sentiamo il colpa in quanto trascuriamo una colpa che sappiamo. Dio ci dirà sempre: “Ero Io, ero Io” e noi non potremo dire: “Non è vero” perché sappiamo. Posso dire soltanto che non è vero quando non so. Quindi c’è una conoscenza iniziale in noi, perché Dio si dona a noi.

La chiarezza è già una meta (vedere), ma la fede non è chiarezza, non è vedere. La fede arriva a noi attraverso l’udito, non attraverso l’occhio, attraverso cioè la parola che giunge a noi e che ci annuncia una cosa che ancora non vediamo. Ma noi dobbiamo rimanere in ciò che udiamo e non in ciò che vediamo. Per arrivare a vedere, dobbiamo superare l’io, per tornare. È nel ritorno che si arriva a vedere. Bisogna credere per arrivare a vedere. Quindi è necessario ascoltare, ma è anche necessario rimanere in ciò che si è udito. La fede è permanenza in ciò che si è udito, invece l’amore è permanenza in ciò che si è visto.

Per arrivare a vedere devo rimanere in ciò che ho udito. Se la fede non mi raccoglie in questo desiderio di vedere, se ne va. Dio parla a noi fino a un certo esaurimento; ad un certo momento esaurisce i suoi doni, donando tutto Se stesso. Noi perdiamo la fede, perché non la seguiamo, non la coltiviamo, cioè non ci raccogliamo in Dio. per rimanere in ciò che ho udito, devo tendere, avere il desiderio di giungere a vedere. Se noi non raccogliamo, perdiamo la fede.

Quindi ci deve essere il desiderio di chiarezza, il desiderio di arrivare a vedere, perché questo è fede, è lo scopo della fede. Ma non dobbiamo subordinare la fede alla chiarezza: “Se non vedo, non credo”, ma devo accettare, devo credere per arrivare a vedere, e quindi credere anche a ciò che non capisco per arrivare a capire. Ecco l’umiltà della creatura: perché in tutto mo parla un Altro.

Allora, se io aderisco, è Dio che mi conduce a vedere, alla chiarezza. Se io ascolto, perché è Lui il Maestro. Quando Lui dice: “Uno solo è il vostro Maestro”, cosa vuol dirci? Tu resta in questa presenza qui, non disperderti dietro a tanti altri maestri. L’errore che noi facciamo è quello di saltare da un sentiero all’altro, non di seguire un sentiero, cioè di avere tanti maestri, senza approdare a nulla. Invece il Signore ci dice: “No, non date a nessuno il nome di maestro, perché il Maestro è uno solo”, il ché vuol dire: “Restate sempre nell’ascolto della mia parola perché sono Io che vi condurrò al Padre, sono Io che vi condurrò a vedere”.

Più conosco la Verità, più facile diventa superare il posto di blocco, anzi ad un certo punto diventa un divertimento superarlo; non è più faticoso, anzi non c’è più il posto di blocco. Il posto di blocco è all’inizio: il superamento si fa per fede e nella notte, ubbidendo alla parola di Dio. La parola di Dio che giunge a me, mi pone il problema di Dio, e lo stesso concetto di Dio che la parola di Dio mi presenta, mi impegna a riferire a Dio. Ma l’unione con Dio non si sente in quest’opera di raccolta. Quando io ho riportato a Dio, comincio a sentire, ma dopo che ho raccolto. Il sentire è una conseguenza. Ma in un primo tempo invece c’è il sacrificio, la penitenza. Più noi ci troviamo in un ambiente poco raccolto in Dio, e più noi ci troviamo schiavi di tanti legami per cui il sacrificio è tanto per raccoglierci in Dio. È facile sedermi su una poltrona e leggere il giornale o guardare la televisione, ma è difficilissimo mettermi a pregare e a raccogliermi in Dio. come mai? Siamo sempre lì: la porta che conduce alla perdizione è larga, mentre la porta che conduce a Dio è stretta, perché mi trovo con un carico di dispersione, poiché mi sono divertito tanto nel pensiero del mio io. Noi purtroppo ci avveleniamo sapendo di avvelenarci e non possiamo più liberarci, pur sentendo il peso delle cose: perché in un primo tempo le cose che abbiamo fatto con gioia, poi ce le dobbiamo portare con tristezza. Non possiamo farne a meno, non possiamo buttarle via. Bisogna affrontare questa penitenza, questo sacrificio per poterci superare, attraverso la fede.

La fede ci propone un atto di giustizia. Proponendoci Dio come Colui che opera in tutto, come Protagonista di tutto, mi impegna a riferire tutto a Dio: è giustizia. Per cui se un avvenimento lo attribuisco ad una creatura, sono ingiusto, non attuo la fede. Il Signore ci dice: “Ero Io! Perché quel fatto l’hai attribuito alla creatura? Quando quella creatura ti pestava un piede, ero Io che te lo pestavo!”. Non attribuire a Dio ciò che è di Dio è ingiusto. Questa ingiustizia ricade su di noi, non su Dio: come ricade? Faccio esperienza della distanza da Dio, della sofferenza.

 

Noi non saremmo attratti da Dio, se Dio non si fosse già a noi presentato (in certi attimi di trasfigurazione), però non ne abbiamo il possesso. Il superamento della fede è l’unico modo di conoscenza, ma ci vuole un atto di umiltà e non aver la pretesa di capire prima. E questo costa. Ma la luce non viene da noi, ma dall’alto, per cui nella misura in cui noi ci portiamo in alto, siamo illuminati. Cosa vuol dire “portarci in alto?”. Vuol dire: prima di capire queste cose qui in basso, andate direttamente a Dio”. Se c’è una colpa da imputare alle creature non è quella di tendere in alto, ma di non tendere abbastanza in alto. Gesù dice: “Non preoccupatevi di questo o di quello: cercate prima di tutto il regno di Dio, con la povertà che avete addosso, con la miseria che avete addosso, con la prostituzione che portate addosso, ma andate subito in alto”. Cioè, è inutile che cerchiamo di raccogliere a valle, di sintetizzare, per vedere tutto da un unico punto di vista tutte le cose che ci sono in vallata. È una fatica inutile, perché si finisce di correre dietro alle cose che ci scappano. Portati in alto! Non preoccuparti di unificare adesso, di vedere tutto unificato qui a valle ma va in cima al monte! Da lassù vedrai tutto raccolto in un unico punto di vista. L’importante è andare in alto, non raccogliere qui in basso. “Cerca Dio!”, la luce discende dall’alto; è un processo di deduzione. Dall’alto vediamo tutto raccolto.

 

Da soli non possiamo portarci in alto: “Senza di me fate niente”. Portarci in alto significa raccoglierci nel Pensiero di Dio, conoscere Dio sulla parola di Dio. È Dio che mi sollecita, è Dio che vuole, è la sua volontà. È soltanto con Gesù, con la sua parola, che possiamo portarci in alto.

E questo anche per coloro che non conoscono il Gesù storico. Quando arriva la parola: “Cerca prima di tutto il regno di Dio”, lì è il Verbo di Dio che parla: lì è il Cristo, lì è Gesù. Anche se uno non lo sa. Infatti Gesù lo conosciamo non per determinati aspetti fisici. Gesù è il Verbo, la parola di Dio che parla. Ovunque c’è la parola di Dio che parla all’uomo, lì è il Cristo, lì è il Verbo di Dio. Che poi abbia un fisico piuttosto che un altro, non importa. Nell’Incarnazione abbiamo il Verbo che parla nell’uomo, in quel fisico. Cristo è il Verbo di Dio. Guai a disunire l’uomo Gesù da Dio, Cristo, dal Figlio di Dio. Per cui è uomo, ma è vero Dio: non possiamo disunire, non possiamo vedere solo l’uomo: in quell’uomo c’è il Figlio di Dio. Per cui è uomo, ma è vero Dio: non possiamo disunire, non possiamo vedere solo l’uomo: in quell’uomo c’è il Figlio di Dio.

Oltre al Cristo storico, fisico, c’è il Figlio di Dio in noi: il Maestro interiore. Se non c’è l’ascolto del Maestro interiore, anche se facessimo tutti i giorni la Comunione a Messa, se leggessimo il vangelo tutti i giorni, non capiremmo niente del Cristo.

Dio non è subordinato a nessun uomo e può adoperare qualsiasi mezzo per arrivare a noi. La Verità è talmente libera, che può utilizzare anche i mezzi che la bestemmiano, per arrivare alla creatura. Dio è talmente potente che può trasformare anche la bestemmia in una rivelazione di Dio. È qui che si rivela l’onnipotenza di Dio che può arrivare a noi attraverso ogni cosa, attraverso un delinquente, un bambino, un albero, un fiore. La creatura non deve legare la parola di Dio a nessun canale, a nessun mezzo, come se le dovesse arrivare solo da quel canale, ma deve stare attenta perché Dio le parla in tutto e in tutti, fosse anche in una foresta, perché Dio vuole che tutti si salvino e giungano a conoscere la verità che si fa udire.

La verità si annuncia a tutti, ma non tutti partono.

Questo funzionario è pressato da un motivo di vita: il figlio malato che rappresenta la sua anima che sta morendo.

Nel lebbroso guarito abbiamo qualcosa di più: è la fede che si volge ad amare.

Abbiamo due modi di andare a Gesù:

-                     sospinti da una ragione di vita (i dieci lebbrosi)

-                     oppure, dopo aver ricevuto il dono, si sente il bisogno di ritornare a dare gloria a Dio (è un motivo più puro).

Sono lezioni diverse che Dio ci mette davanti per istruirci.

Gesù rimprovera il funzionario: “Se voi non vedete non credete” e i nove lebbrosi: “E gli altri nove?” perché tutti sarebbero dovuti tornare a ringraziare. Ma al lebbroso che torna dice: “La tua fede ti ha salvato”. La fede che torna è la fede che salva. Non basta la fede che riceve. La fede che salva è quella che ci fa ritornare a rendere gloria a Dio: cioè andare in alto, ritornare a Dio, conoscere Dio, riconoscere Dio in tutto.

Il rimprovero che Gesù fa al funzionario è diretto all’ambiente ostile del popolo di Israele che lo ha rifiutato come Messia.

Portarci in alto vuol dire stare in ascolto, cioè seguire quello che si è ascoltato tenendo presente che l’annuncio arriva senza di noi. Vuol dire restare in ciò che si è ascoltato, perché la parola arriva e si fa sentire anche se non la vogliamo sentire, per cui se siamo addormentati ci risveglia. Come l’esempio di Samuele nel tempio: “Samuele, Samuele”, “Parla o Signore che il tuo servo ti ascolta”.

Il Verbo parla a noi attraverso molti segni che sono delle concessioni. Nell’Incarnazione abbiamo la presenza della persona del Verbo mentre nella creazione, nell’albero, nella formica non c’è. E allora la presenza la dobbiamo trovare dentro di noi, il Verbo di Dio parla dentro di noi e se non ascoltiamo il Verbo di Dio, non possiamo trovare la parola di Dio fuori di noi, anche se Dio parla fuori di noi. Nel giudizio Dio ci dirà: “Ero Io che parlavo con te in tutto” e non lo potremo smentire, perché era proprio Lui che parlava in tutto e in tutti. E come mai non lo abbiamo capito? Perché non abbiamo ascoltato il Verbo dentro di noi, perché è la persona che parla non sono i segni.

In Cristo, il Verbo non si identifica con l’Uomo, però in Cristo abbiamo la Presenza Personale. Nei segni, invece, abbiamo solo il segno della Presenza Personale: “Ero Io in quel segno; ero Io che operavo per te, che parlavo per te”. Però non possiamo mai identificare il segno con Dio. L’albero non è Dio, Cristo invece è Dio. Però anche in Cristo non devo fermarmi all’uomo, ma devo passare al Verbo, perché in Lui c’è l’Unica Persona, quella del Verbo. Non devo fermarmi ad alcuni aspetti umani della sua vita. Per questo Gesù dice: “È necessario che Io me ne vada”, ma devo andare dove Lui va, fino al Padre. Questo vuol dire seguire Gesù. qui si rivela la Persona. Se mi fermo, Lui va lontano. Per questo Gesù dice: “Dove sono io, voi non potete venire”, è solo con Lui che si va. Quindi la Persona è qualcosa di diverso, non solo la presenza fisica.

Nei segni non si può parlare di Incarnazione. Il segno è una cosa, l’Incarnazione è un’altra. Il segno è un segno di Dio, mi parla di Dio; l’Incarnazione è parola di Dio, è Persona. Cristo è uomo di Dio, ma è una Persona sola. La Persona è la parola di Dio, è il Verbo di Dio, è Colui che Dio genera. Qui abbiamo la Presenza eterna: il Verbo. Gli altri sono segni transitori, ma non sono la Persona. La Persona è dentro di noi, altrimenti non potremmo intendere i segni. In Gesù, invece, la Persona è presente dentro di noi e fuori di noi, cioè è presente anche nella presenza fisica di Gesù, anche nell’Uomo Gesù.

Non dobbiamo disprezzare niente perché Dio arriva a noi attraverso tutto e tutti. Come arriva a noi, arriva al selvaggio nella foresta con tanti segni sacri. Non dobbiamo scartare niente perché: “Ero io in tutto!”, ci dirà Dio. L’importante è raccogliere tutto in Dio, per giustizia, in modo da rendere gloria a Dio, cioè arrivare a conoscerlo.

È la parola di Dio che ci fa esistere e ci fa vivere, ma ci fa vivere nella misura in cui noi ci applichiamo a Lui, in cui riportiamo a Lui i doni, ci doniamo a Lui.

Ma bisogna che Dio parli, se no noi non viviamo se non abbiamo nulla da riportare a Lui, ci afflosciamo. Ma Dio ci dirà: “Io ti spezzavo il pane tutti i giorni e tu lo disprezzavi”. Se noi lo raccogliamo, il giorno diventa un giorno di vita, perché ci fa conoscere qualcosa di Dio. Sant’Agostino dice che Dio premia i suoi doni: ce li fa e poi ci invita a riportarli a Lui. Quindi tutto è dono suo: la vita, la conoscenza, la vita eterna.

I segni manifestano l’amore di Dio per noi che si abbassa a parlare un linguaggio accessibile a noi, perché solo attraverso questo linguaggio possiamo essere recuperati, perché non siamo capaci a capirne un altro. Sono segni. Il segno è un movimento in noi, non in Dio per cui è appropriamo dire: “Dio mi parla nel ladro, nella prostituta”, che dire: “Dio si fa ladro, prostituta, ecc.”.

Noi non siamo nella vita eterna, perché non siamo capaci a fare ciò che fa Lui. Il desiderio di comprendere le parole di Dio è già vivere, perché è già un donarci. Il solo fatto di fermarci ad ascoltare è già un donarci.

Ci doniamo a Dio non in quanto lavoriamo o facciamo qualcosa per i fratelli, perché il lavoro o il servizio ai fratelli, può nascondere un nostro tornaconto. Ciò che conta è il motivo che ci spinge a farlo. Intanto il proposito non deve essere quello di fare qualcosa per i fratelli, perché siamo stati creati per Dio: bisogna mettere a posto i valori e avere sempre ben presente il fine per il quale siamo stati creati: Dio mi ha creato perché lo conosca, perché impari a vivere con Lui. Infatti Gesù dice: “I poveri li avrete sempre con voi, non sempre avrete me”. Tutto l’universo è una scuola di preghiera, di unione, di convivenza con Dio. Infatti nella vita eterna, noi convivremo con la verità di Dio. Chi ci conduce a questa meta è Lui, quindi non dobbiamo disprezzare nulla, ma imparare a rispettare tutto, perché in tutte le cose Dio ci aiuta: non sono io che devo imparare, ma è Dio che mi guida, è Lui il Maestro; quindi devo rispettare tutte le cose che Lui fa. In questo punto subentra il ruolo del fratello, che è opera di Dio. Dio, attraverso il fratello, come attraverso la formichina, mi aiuta ad imparare a convivere con Lui, con la sua verità: quindi non disprezzare nulla. L’errore che noi facciamo nel pensiero del nostro io, che certe cose le abbracciamo troppo, e sono quelle che ci convengono, e alla fine viviamo per esse; e altre invece le prendiamo a calci e magari sono proprio quelle con le quali Dio ci sta dando delle lezioni, che ci uniscono molto a Lui. Un giorno lui ci dirà: “Ero io, che ti aiutavo e tu hai rifiutato l’aiuto perché pensavi che non ti convenisse”. Dobbiamo iniziare ogni giorno con questa disponibilità: accettare tutto, ciò che ci fa piacere e ciò che non ci fa piacere, sapendo che in tutto c’è la mano di Dio che opera non per insegnarmi a prodigarmi verso i fratelli, non per farmi conoscere certe idee o certe creature, ma opera per insegnarmi a convivere con la sua presenza, a fare ciò che Lui fa, perché solo lì noi potremo essere uniti a Lui. Perché altrimenti, se già fossimo nell’eternità, non potremmo restare, dovremmo scappare, perché non abbiamo imparato le lezioni in anticipo.

Se vivo alla presenza di Uno che opera in un certo modo, e se voglio restare alla sua presenza, non mi posso accontentare di vederlo agire, ma devo cercare di arrivare a capire il suo pensiero, altrimenti gli sono vicino solo fisicamente, materialmente. Quindi non basta accettare, ma è necessario cercare di capire il significato delle opere di Dio. Ecco l’importanza del pensiero che mi conduce a capire il pensiero dell’Altro, e che mi permette di stare sempre vicino all’Altro: il pensiero è eterno.

E questo avviene anche con le creature. La presenza fisica non basta perché è lo spirito, il pensiero che unisce, a condizione che io conosca il pensiero dell’altro. Anche se l’altro cambia luogo di lavoro, ad esempio, so qual è il pensiero che lo guida e che è un solo pensiero. Solo se ho presente quest’unico pensiero che è proprio dell’altro, posso essere unito a lui. Così anche con Dio, perché in ogni cosa, in ogni rapporto, Dio significa Se stesso.

Ciò che udiamo è Dio che ce lo fa udire per farsi conoscere. Permanere in quello vuol dire desiderare di conoscere quello che Dio vuole significare in quella parola.

Dio che viene è Dio che già è. Lui si annuncia e ci annuncia che viene, ma noi dobbiamo andargli incontro prima che Lui venga, precedere la sua venuta. Bisogna cioè morire al nostro io, prima di morire fisicamente. Lui viene, anche se noi ci allontaniamo da Lui, anziché andargli incontro. Non è che Lui si sposti, ma viene a prendere possesso del suo regno, ma se non abbiamo preceduto la sua venuta, non abbiamo la possibilità di accoglierlo (come il pane che non trova la fame). È necessario avere il desiderio di conoscere Dio, cioè la fame: è così che gli andiamo incontro. Dio parla (ecco il concetto del sentito dire), se abbiamo il desiderio di conoscerlo, andiamo verso di Lui e scopriamo che Lui è presente. Se invece aspettiamo che Lui prenda possesso delle sue cose, Lui ci caccerà fuori, perché non abbiamo il desiderio di Lui.

La misericordia di Dio è tutta l’opera di Dio che si annuncia e che risveglia in noi il desiderio. Noi lo conosciamo nella misura in cui lo desideriamo. Per questo Gesù dice: “Beati i poveri”, perché sono coloro che sospirano, che piangono perché non conoscono ancora Dio. Invece: “Guai a voi che siete soddisfatti”, perché non hanno fame di conoscere Dio, e allora si siedono, si arrendono. Dio opera per suscitare in noi il bisogno di conoscerlo, perché è il bisogno, la necessità che ci mette in movimento. Lui viene prima che noi moriamo e se ci lascia ancora sulla terra lo sa Lui il perché.

La sua misericordia è continua in ogni uomo, in ogni creatura; anche la prostituta, l’ubriacone, il delinquente, sono opera di Dio, misericordia di Dio che è buono verso di noi. Come il povero Lazzaro è misericordia verso il ricco epulone. Più abbiamo presente Dio, più vediamo la sua misericordia in tutto. I santi piangevano per la misericordia di Dio, perché davanti alle sue opere di misericordia, toccavano con mano di essere i più grandi peccatori. Invece più siamo lontani da Dio e meno vediamo la misericordia di Dio e meno siamo attratti, credendoci sempre più autosufficienti, autonomi. Infatti dire: “Sono io che faccio, sono io che mi mantengo” è effetto di lontananza da Dio.

L’autonomia è segno di lontananza da Dio, è conseguenza dell’aver dimenticato Dio. La dimenticanza è superficialità, ingiustizia, perché Dio parla. Quindi non fare attenzione a Colui che parla, è un’ingiustizia. La dimenticanza è anche la povertà che il Signore ci fa toccare con mano per dirci: “Cammina! Datti da fare! Stai raccolto nel mio Pensiero! Sii presente al mio Volto! Io parlo con te e tu dove sei?”. Se guardo altro, offendo Dio.

Cosa significa avere presente il Volto di Dio?

È la difficoltà di Sant’Agostino: come posso pensare Dio? La persona si esprime nel volto: un semplice pensiero si traduce nell’espressione dell’occhio. Il volto è la conformazione del pensiero. Quindi il Volto del Padre è il Figlio. La Parola che parla a noi è il Volto del Padre: “Chi ha visto me ha visto il Padre”, dice Gesù. Vedere la Parola è già vedere il Padre. Non potremmo pensare Dio, se Dio non si facesse pensare. Nella Parola di Dio che ascoltiamo, c’è la Presenza. Così non posso pensare ad una cosa senza il pensiero di quella cosa: il pensiero di quella cosa è il volto di quella cosa. Il pensiero di quella cosa è spirito.

Raccogliere una cosa vuol dire raccogliere l’eterno che racchiude quella cosa.

Ad esempio l’episodio del povero Lazzaro e del ricco epulone. Gesù stesso raccoglie quella scena e ce la spiega, facendoci capire che quello che sarà è già adesso. Nell’eternità vedremo Lazzaro nel seno di Abramo, ma lo è già ora, perché accetta con fede la parte che Dio gli affida. Il ricco epulone sarà lui il mendicante (di una goccia d’acqua), ma in realtà lo è già ora. Cogliere ciò che sarà, ma che già è, questo è raccogliere l’eterno nelle cose, negli avvenimenti, raccoglierli nel Pensiero di Dio. Andare oltre l’apparenza. Anche la Bibbia, quando ci parla al futuro: il futuro è già oggi. Tutto ciò che vediamo è specchio dell’unione nostra con Dio. Raccogliendo i segni di Dio in Dio, diventiamo capaci di restare con Dio: più raccogliamo più rimaniamo raccolti.

In Dio abbiamo un capovolgimento di valori:

Lazzaro diventa ricco nel seno di Abramo mentre il ricco diventa mendicante. Ma era già così prima. Il capovolgimento c’è già quando Gesù dice: “Beati voi che piangete, beati i poveri”. Nella realtà, c’è già questa situazione, è già così. Per cui quando Dio mi presenta un ladro, mi presenta lo specchio della mia anima che ruba a Dio. Se colgo questo avvertimento, entro nell’eternità.