Tra i Farisei c’era un uomo chiamato
Nicodemo, uno dei capi dei giudei. Egli venne di notte a trovare Gesù e gli
disse: “Rabbi, noi sappiamo che sei venuto da parte di Dio, come maestro;
nessuno infatti può fare i miracoli che fai tu, se Dio non è con lui”. Gesù gli
rispose: “In verità, in verità ti dico: chi non nasce di nuovo non può vedere
il Regno di Dio”. Nicodemo gli domandò: “Come può un uomo rinascere quando è
vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel seno di sua madre e nascere?”. Gv 3 Vs 1/4
Titolo: La notte di
Nicodemo.
Argomenti: Lettera di Giovanni
Belangai. La notte (antico testamento) - Nicodemo-il giovane ricco-il cieco di
Gerico - La forma umana di Cristo - Desiderare vedere il giorno di Cristo - La buona fede – La finta esaltazione
di Cristo – Cercare e trovare Dio – La notte e il giorno – L’io è principio di
nulla – La salvezza dell’uomo – La fede viene da Dio -
12/Dicembre/1976
Introduzione:
Nicodemo
appartiene a quella categoria di persone alle quali Cristo non si affida (vedi
conclusione del capitolo II), perché vengono a Lui non sospinti dalla giustizia
essenziale e quindi dal bisogno di vivere secondo Dio e dalla constatazione
della propria cecità e povertà, ma da una fede basata su miracoli, sul
sentimento o su argomenti umani, che ha sempre l’io come centro (“terreno
sabbioso”).
È
per questo che Gesù contraddice Nicodemo non appena gli rivela il motivo con
cui egli arriva da Lui, e gli parla della necessità di rinascere da Dio,
mettendolo al centro della propria vita. Questa rinascita da Dio è la
condizione per entrare e vedere il Regno di Dio, cioè è la condizione per
essere terreno solido su cui Dio può ricostruire il suo Tempio e farci
sperimentare la sua Presenza.
Il
passaggio tra i due argomenti, del capitolo II (“Cacciata dei venditori dal
Tempio”) e del capitolo III (“La notte di Nicodemo”), avviene appunto con
questo argomento della rinascita.
Luigi: Prima di commentare il versetto vorrei leggere un pensiero sulla
morte che ho trovato in un vecchio numero di un giornale mentre lo stavo distruggendo.
Avevamo accennato al pensiero di Padre Juvelain, che non c'è morte nemmeno
per un istante, non ci sono che due vite; questo articolo è in sintonia con
l’argomento: riporta il testamento di un sacerdote che è morto a ventinove
anni. L’ho trovato molto bello, e ora ve lo leggo.
“Dopo la morte di Giovanni Belangai, i genitori aprirono
la lettera scritta il 12 febbraio. Fu uno sprazzo di luce e di azzurro in mezzo
alla tristezza del lutto. Quando egli scrisse queste righe aveva udito da poco
la sentenza dalle labbra del dottore: a ventinove anni gli viene detto che
tutto è finito. Si figura di essere già lontano e si mette a scrivere come
dall’altra sponda, illuminata dal fulgore dell’eternità.
La
lettera è diretta ai genitori, ma ha il valore di un messaggio rivolto a tutti
coloro che credono.
“Miei cari genitori, è finita. La mia anima è già nelle
mani di Dio.
(Lui
aveva sigillato questa lettera, lasciando detto di aprirla solo dopo la sua
morte).
Piangerete,
piangerete molto; vi compatiranno.
Comprendo
il vostro dolore, ma fatemi bene attenzione: abbiate fede.
Una
volta passata la prima emozione, non chiudetevi nella vostra tristezza come
coloro che non hanno speranza. Ora siamo più vicini che mai. Forse qualcuno
oserà dirvi: Dio domanda i missionari e poi se li prende nel fiore dell’età?
Non è assurdo questo?
Certamente
è qualcosa di incomprensibile, però Dio sa ciò che fa, anche quando i suoi
disegni non entrano nelle nostre corte vedute.
Se
Lui ha disposto la mia dipartita, è per amore verso di me, voi e l’Africa.
Questo è assolutamente certo, perciò non lamentatevi oltre, restate tranquilli,
rassegnati e anche allegri.
Voi
avete dato vostro figlio al Signore, non avete perciò di che lamentarvi; Egli
se ne è servito nel migliore dei modi per la sua gloria e per la nostra
felicità.
Desidero
che la vostra felicità in mezzo alla prova sia una magnifica testimonianza per
le anime tiepide e incredule che vivono accanto a voi. Questa sarà per me la
gioia più ambita ed è pure ciò che il Signore desidera da voi. Chiedetegli,
esigete da Lui tutta la luce necessaria, non ve la rifiuterà. Desidero pure che
la messa che farete celebrare per me, sia la messa della S.S. Trinità, che le
campane suonino come nel giorno del mio battesimo, che durante la messa si
canti “Manda i tuoi messaggeri” e “Vivo felice”, che ci siano i fiori
sull’altare, che non portiate lutto, che il sacerdote approfitti dell’occasione
per parlare ai bambini e anche ai loro genitori della vocazione missionaria,
che non cessino di mandare i soccorsi alle missioni e che abbiano lo Spirito di
sacrificio necessario per prepararsi a questo ideale e della gioia che si prova
nel donarsi.
Offro
la mia vita con tutta la mia anima perché sorgano e fioriscano abbondanti
vocazioni missionarie, che la nostra separazione si attui nella gioia.
La gente ha così poca fede che non crede in questa
gioia, in questa Gioia Unica; la gente non crede all’essenziale, si attacca a
delle bagatelle e vive distratta in un mondo di cose futili. Niente di strano
quindi che il mondo si materializzi e si indurisca nel suo egoismo, “Se il sale
si corrompe chi lo salerà?”. Dimostrate ora, papà e mamma amati, che voi
credete; bisogna lottare contro la corrente: è vostro dovere; non lasciatevi
sfuggire questa occasione unica di rendere la vostra testimonianza. La mia
lontananza vi aiuterà a staccarvi dal mondo: che grazia grande. Ho fiducia in
voi e voi mi comprendete molto bene, vero? Sono raggiante di gioia. Alleluja!
Perché vado nella casa del mio Signore. Addio, a presto arrivederci. Che la
vostra gioia sia una gioia stabile fino alla fine. Gioia, gioia dal momento che
il Signore è con noi.
P.S.
Se il signor curato non ha nulla in contrario gli chiedo un giorno di vacanza
per i bambini delle scuole.
Il
funerale fu come egli lo aveva desiderato, attorno ai vecchi genitori arrivati
da Angioux, si riunirono tutti gli alunni e diversi confratelli del defunto e
si alternarono per portare a spalla il feretro per le vecchie strade di Saint
Moritz. Era proprio il giorno del quarto anniversario della sua ordinazione
sacerdotale. Un pallido sole di aprile accarezzava i verdi prati che
fiancheggiavano la strada del cimitero e i collegiali cantavano “Manda i tuoi
messaggeri”. Prima di interrare la salma, il provinciale dei Padri Bianchi lesse
il Testamento del Padre Giovanni Belangai, su molti occhi luccicavano lacrime
di commozione. Solo lui scendeva impavido in seno alla terra, per esservi
sepolto come il grano vivo che deve marcire per dare il cento per uno”.
Luigi: Un bel
testamento, vero? Piaciuto?
Cina: Sì,
come si sente che l’ha in sé, che è spontaneo.
Eligio: Quanti
anni aveva?
Luigi:
Ventinove. Quando è andato dal medico ha voluto che glielo dicesse: tumore.
“Dottore non sono un bambino, mi dica la verità”. Il dottore
rimase incerto, alcuni attimi di silenzio e poi la decisione. “Se la prego è
segno che non ho paura della malattia e, mi pare, nemmeno della morte”. Allora
il dottore gli dice: “È una malattia che non perdona”. “Cancro forse?”. Il
dottore assentì con cenno grave. Era una condanna a breve scadenza.”
Questa
testimonianza ci parla di una morte serena, no? Si può morire invitando alla
gioia.
Eligio: C'è da
augurarsi che il trapasso sia avvenuto nello stato d’animo in cui è stata
scritta la lettera.
Luigi: La
lettera è stata scritta il dodici febbraio; mentre lui è morto ad aprile.
Dall’articolo:
“La sua forte costituzione si andava sgretolando, lo si vedeva deperire di
giorno in giorno, eppure non emise mai un lamento, né si notò in lui un minimo
gesto di ribellione. Per i suoi confratelli che si alternavano al suo capezzale
aveva solo parole piene di ammirevole serenità. Reso immobile senza poter
neppure parlare, i suoi occhi continuavano ad avere sguardi limpidi ed ardenti,
guardavano ciò che era stato lo scopo di tutta la sua vita e continuava ad
esserlo sulla soglia della morte: le missioni. Fissava senza batter ciglio con
ardore ed impaziente contentezza di colui che arriva finalmente alla meta con
la certezza che nella suprema immolazione stava la sua vittoria. E vittorioso
come era vissuto se ne volò incontro a Dio”. È mancato nel 1952.
Cina: Mi
ricordo Santa Teresina che vedeva lo sposo che viene.
Luigi: Però la
sua è stata una morte molto sofferta.
Eligio: Ha
avuto dei momenti drammatici.
Luigi: Sì, da
arrivare a dire che non sapeva che morire fosse duro così.
Pinuccia: Lì è il
Signore che dispone per ognuno.
Luigi: Certo,
però più c'è fede e più c'è serenità. Per questo che è molto importante
avere in noi certe convinzioni, approfondire, perché la realtà è questa; il
passaggio c'è, però una cosa è viverlo nel pensiero di Dio e un’altra è viverlo
nel pensiero dell’io. Bisogna aver maturato delle convinzioni, delle
certezze.
Una
cosa è vedere Dio negli avvenimenti, vedendo Dio riponi la tua fiducia in Lui;
una cosa è vedere il caso, vedere il destino, qui non c'è il pensiero
dell’Altra Persona. Invece se uno ha presente l’Altro, sa che l’avvenimento è
misurato da-, è pensato da-, per cui non ci si sente soli. Penso che quello
che forma la tragedia è proprio la solitudine, è sentirsi in balia di destini,
di leggi, di avvenimenti che ci crollano addosso; e ci si sente soli, ed è
pauroso.
Eligio: Più che
altro penso che la paura sia determinata dal non avere idee sul mondo di là. La
drammaticità della morte, il più delle volte non consiste tanto
nell’attaccamento della vita presente, ma è dovuta dalla mancanza di
certezze sulla vita dell’al di là.
Luigi: Sì,
appunto per questo sono necessarie delle convinzioni; per cui quando uno è
sicuro, anche se deve soffrire, sa che la sofferenza è una cosa che passa.
Pinuccia: Santa
Teresina ha vissuto dei momenti di notte, di buio…
Luigi: Lei ha
attraversato un momento molto buio; lei stessa diceva che non aveva elementi
per credere e che quindi faceva soltanto uno sforzo di volontà. Voleva credere
ma non aveva elementi certi su cui fondarsi per credere. Ad un certo momento si
crea quella situazione di notte in cui l’anima è scoperta, è in balia di tutto.
Proprio perché quello che dà il sostegno è il punto di appoggio: “soffro
però faccio conto su Dio”. Bisogna avere un punto di appoggio che non venga
meno.
Eligio: Più
abbiamo fede, certezza nell’esistenza di una vita nell’al di là e più la morte
diventa una liberazione.
Luigi: Sì,
comprese le cose di questo mondo. Se noi siamo convinti dell’importanza,
della validità delle cose dello Spirito, le cose di questo mondo perdono molto,
pesano meno. Mentre se tu sei molto legato alle cose di quaggiù, la minima
disgrazia, la minima cosa che ti viene sottratta scatena una tragedia, perché
la consideravi una cosa importantissima (la figura, ecc.). Se invece uno si
appoggia alle cose dello Spirito, le cose di questo mondo non vengono
annullate, però diminuiscono, diventano molto più leggere. Si arriva al punto,
come dice Gesù nel Vangelo: “Se uno ti
colpisce una guancia, tu offrigli l’altra”. Quando noi siamo molto legati e
pensiamo molto alla figura, se uno ci colpisce una guancia, vediamo solo
l’offesa che abbiamo ricevuto. “Se uno ti contende l’abito, tu dagli anche il
soprabito; se uno ti costringe a correre per cento tu va anche a duecento”,
l’anima non ha difficoltà, perché sa che si tratta di cose passeggere. Quindi
siccome Dio non può essere tolto, perché lo si possiede a livello spirituale,
non si lotta con i fratelli, non si ha motivo di contendere con i fratelli. Ma
se si ritiene che una cosa materiale sia molto importante, si ha paura che un
altro la porti via, e allora si fa la guerra. Ecco la differenza: più Dio è
posseduto anche da altri e più c'è vita, c'è comunione, c'è amore; mentre
le cose della terra, le cose che sono possedute, sono limitate, per cui se uno
ce le porta via subiamo una privazione, e scateniamo la guerra, la lotta.
È
fondamentale la convinzione dell’importanza della Verità, del prima di tutto
delle cose dello Spirito; se uno invece non ne è convinto, può parlarne ma
farà sempre conto sulle cose della terra, e quindi la sua vita sarà regolata
sulle cose della terra, del mondo.
Dall'esposizione di Luigi Bracco:
La
volta scorsa abbiamo visto nella conclusione dell’episodio della cacciata dei
mercanti dal Tempio, in cui Gesù non si affidava ad essi, l’Evangelista dice: “…perché
li conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno gli facesse conoscere l’uomo,
perché Lui stesso sapeva quello che vi era nell’uomo”.
Ora,
abbiamo visto che Gesù non si affida perché, anche se si crede in Lui per i
miracoli che fa, per i segni o per le parole che si ascoltato, avendo al centro
della propria vita, del proprio pensare, del proprio parlare, il pensiero del
proprio io, si è come quella terra sabbiosa sulla quale non si può edificare.
Affidarsi
è edificare. Dio non costruisce la sua
casa, non costruisce il suo tempio fintanto che noi non mettiamo a fondamento
della nostra vita il Pensiero di Dio.
Per
questo abbiamo la lezione antica di tutto l’Antico Testamento, quella giustizia
essenziale in base alla quale noi dobbiamo togliere il nostro io dal centro
della nostra vita e mettere il Pensiero di Dio. Sul Pensiero di Dio al centro
del nostro pensare e del nostro vivere, abbiamo quell’elemento fondamentale su
cui Dio edifica il Tempio e sul quale Dio si affida se noi siamo fedeli nel
poco, se siamo fedeli nel fare questa giustizia.
Questo
problema ci apre al discorso di Nicodemo, perché noi abbiamo la rinascita da
Dio, la creatura nuova; ecco la necessità di rinascere, di quando si parla di
due vite, di due nascite. Perché noi nasciamo in questa vita naturale nel
pensiero dell’io, ma siamo tutti quanti chiamati, vocati a nascere da Dio,
quindi a mettere Dio al centro della nostra vita. Mettendo Dio al centro della
nostra vita, inizia una vita nuova, e questa vita nuova è una rinascita. Ecco
l’argomento di Nicodemo: l’argomento della rinascita da Dio come condizione per
entrare e per vedere le cose di Dio, cioè per vedere quell’edificio che Dio
costruisce per la vita eterna dell’uomo, la sua casa, il suo tempio.
Il
Tempio, la casa, è quel luogo in cui si fa l’esperienza della presenza di un
essere; dicendo che “…se uno non rinasce da Dio non può vedere le cose di Dio”,
non può fare cioè esperienza delle cose di Dio, ci rivela la condizione per
poter entrare in quella casa in cui si fa esperienza delle cose di Dio. La
condizione è rinascere e mettere Dio centro.
Il
Vangelo ci presenta il passaggio dall’episodio della cacciata dei mercanti dal
Tempio all’episodio di Nicodemo, per farci approfondire l’argomento della
rinascita sulla quale Dio costruisce il suo Tempio, la sua casa.
Qui
è detto: “Nicodemo venne di notte a trovare Gesù”.
Poiché tutto ha valore di significato e di un significato personale per la vita
vera di ognuno di noi, anche questa “notte” nella quale Nicodemo approda
all’incontro con Gesù, ha un suo significato; e per poter riflettere sulla “notte”
di Nicodemo prenderemo in appoggio altre due notti di personaggi che troviamo
nel Vangelo
·
la notte
attraverso la quale il giovane ricco approda all’incontro con Gesù;
·
la notte
del cieco di Gerico.
In
queste notti ci sono delle anime che incontrano Gesù, ma in modo diverso; e
naturalmente gli esiti sono molto diversi.
Qui
abbiamo Nicodemo che attraverso la sua notte arriva a Gesù dicendo: “Maestro,
noi sappiamo che sei venuto da parte di Dio come un dottore”.
Abbiamo
poi il giovane ricco, e anche lui arriva dalla sua notte e incontrando Gesù gli
dice: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”
Infine
abbiamo il cieco di Gerico che anche lui nella sua notte grida: “Signore che
io veda!”.
I
risultati sono molto diversi.
La
notte è ciò che ci conduce a Gesù; la notte è il simbolo dell’Antico Testamento,
è simbolo della vita di ogni uomo e quindi è l’insieme di tutte quelle lezioni
attraverso le quali si forma in noi il bisogno di incontrare un Salvatore,
di incontrare Uno che ci apra la strada della vita.
La
nostra vita è costituita da due tempi: da una notte e da un giorno. La notte è
costituita da tutti quei fattori, da tutte quelle lezioni che noi riceviamo
senza capire, senza rendercene conto, ma che ci sospingono con tutti i problemi
(perché tutte le lezioni della notte formano in noi i problemi essenziali della
vita) verso la soluzione del vero problema; la notte forma in noi il bisogno,
la fame, la fame soprattutto della luce, fame di capire qualche cosa, di vedere
che cosa è questa vita, quale sia il senso della vita. “Viene il tempo in
cui io manderò una fame sulla terra…”, attraverso la notte, la vita di ogni
uomo, Dio manda la sua fame sulla terra e attraverso queste lezioni poco a poco
si forma in noi il bisogno di Lui.
Quindi
la notte ci prepara ad un’alba, all’incontro con un Sole, in quanto ci fa
sentire il bisogno; la notte è una sentinella che veglia e che sospira il
momento dell’aurora.
Però
noi possiamo uscire da questa notte, da questo travaglio, con stati d’animo
diversi e per questo ho voluto mettere a confronto queste tre persone che
simboleggiano gli stati d’animo attraverso cui noi possiamo arrivare ad
incontrarci con Cristo.
Alcuni
si sono incontrati malamente con Cristo; qualcuno invece si è incontrato molto
bene: “La tua fede ti ha salvato”, cioè “la tua notte ti ha portato
all’alba, ti ha portato ad incontrare la luce”, dice Gesù al cieco di Gerico.
È
evidente che la miglior uscita dalla notte è quella del cieco di Gerico, il
quale esce dalla sua notte invocando un aiuto dicendo: “Signore, che io
veda”.
Notiamo
invece che Nicodemo arriva a Gesù nella sua notte, non chiedendo di vedere, ma
dicendo: “Io vedo”.
Il
giovane ricco arriva a Gesù dicendo: “maestro buono”, ed ottiene subito
un rimprovero: “Perché mi chiami buono? Dio solo è buono!”.
Apparentemente
sembra che ci sia una contraddizione, perché Gesù è Dio; però noi vediamo
seguendo l’episodio del giovane ricco che ad un certo momento, quando dovette
scegliere tra il “buono” che gli offriva Gesù e il “buono” a cui lui era
attaccato, scelse altro da Dio. Questo ci fa capire che il suo “maestro
buono” non era vero.
Gesù
lo rimprovera perché non è autentico. Infatti quando Gesù lo ha portato alla
sua autenticità, ha rivelato che per lui “buono” erano le ricchezze, a
tal punto che non ha potuto staccarsi dalle ricchezze. “Buono” è ciò che
è desiderabile, ciò che è appetibile; ma quando Gesù gli ha presentato un altro
“bene”: “Va, vendi quello che hai, vieni e seguimi” (ecco il vero bene),
lui ha preferito un altro “bene”, non ha avuto la forza di seguire il “maestro
buono”.
Eligio: Ciò che
è buono è ciò che vale.
Luigi: Ciò che
per me vale.
Eligio: Gesù
presenta ciò che vale veramente. Il giovane ricco riteneva buono un altro
valore, quindi Gesù lo smentisce.
Luigi: Eh già!
Siccome lui si era presentato dicendo “maestro buono”, quando Gesù gli
dice: “Vieni e segui Me”, se il giovane ricco fosse stato autentico in
quel “buono”, avrebbe seguito Gesù. Invece rinunciando ha dimostrato che
per lui il “buono” era altro; quindi Gesù ha ragione a rimproverarlo: “Perché
mi dici buono? Vedi che non dovevi dirmi buono, perché il tuo buono per te è
altro”.
Per
cui abbiamo:
·
il
giovane ricco che arriva attraverso la
sua notte, ma con uno stato d’animo non autentico,
·
abbiamo
invece il cieco di Gerico che invoca la luce ed è approvato dal Signore:
“La tua fede ti ha salvato”.
Qui
Gesù rivela che l’animo autentico è quello che invoca, che esce dalla sua notte
incontro a Lui invocando la luce. Quindi se noi ci avviciniamo a Cristo cercando
la luce, con il bisogno della luce, abbiamo l’autenticità; ma se andiamo
cercando altro Gesù ci ripiomba nella notte, non si affida a noi. Infatti ad un
certo momento Nicodemo non capisce più niente. Lui è arrivato dicendo: “Io
capisco”, e ripete un po’ il concetto di “maestro buono” del giovane
ricco, “nessuno può fare i miracoli che tu fai se non viene da Dio ,dice
Nicodemo (vedete che abbiamo il ponte con l’argomento precedente: “...non si
affidava”); ma dopo qualche parola con Gesù, Nicodemo dice: “ma
come può avvenire questo?”, ecco che Gesù lo ripiomba nella notte. Lo
ripiomba in una notte che deve condurlo ad invocare la luce, perché soltanto
quando l’anima capisce l’essenzialità di cui ha veramente bisogno, della luce
che viene da Dio, può aprirsi a Gesù; per cui Gesù gli parla del bisogno della
rinascita.
Infatti
quando Nicodemo dice: “Rabbì, noi sappiamo che sei venuto da parte di Dio
come maestro; nessuno infatti può fare i miracoli che fai tu, se Dio non è con
Lui” Gesù gli risponde: “In verità, in verità ti dico: chi non nasce di
nuovo non può vedere il Regno di Dio”.
Apparentemente
sembra che Gesù non risponda all’affermazione di Nicodemo. Nicodemo dice: “Noi
sappiamo” e Gesù invece dice: “In Verità ti dico, se uno non rinasce non
può vedere il Regno di Dio”, ma andando a fondo vediamo che Gesù risponde a
tono; Nicodemo arriva dicendo “noi sappiamo”, cioè noi vediamo le opere di Dio,
e affermava un criterio di giudizio.
Si
nota anche un’intima contraddizione in Nicodemo, perché visto che sia l’interno
che l’esterno è Uno che li fa, in quanto Nicodemo arriva nella notte non
dovrebbe dire: “Noi sappiamo”. La notte esterna o la notte
nell’ambiente, è segno della notte che uno porta dentro di sé; se c’è
autenticità, ci deve essere sintonia tra quello che c’è fuori e quello che c’è
dentro, e allora quello che c'è dentro deve parlare secondo i segni. Per
cui, se io arrivo nella notte, arrivo chiedendo aiuto, conforto, ristoro,
riparo, non arrivo come uno che sa. Chi sa è un forte, è uno che è nel giorno,
che non cammina nella notte. Invece Nicodemo arrivava con una notte fuori e con
la luce dentro; apparentemente vedeva e se ne vantava, per cui c’era una
contraddizione tra l’uomo e il suo ambiente.
Per
questo Gesù lo corregge dicendogli: “Tu credi di sapere, in verità…”, e
sostanzialmente dà la risposta che diede al giovane ricco: “Perché mi dici
buono? Uno solo è buono, Dio”.
“Tu dici di sapere? No guarda, non sai!”, “Tu credi di
vedere, non guarda, non vedi!”, perché
nessuno può sapere, “nessuno può vedere se non rinasce da Dio”. È come
se Gesù avesse detto a Nicodemo: “Nessuno può vedere le cose del Regno di
Dio, nessuno può vedere la Verità, quindi anche tu non puoi vedere, e fintanto
che tu dici di vedere non puoi essere illuminato, perché soltanto rinascendo da
Dio (ecco la pietra fondamentale su cui si costruisce l’edificio) si può
vedere le cose di Dio”.
Fintanto
che invece l’uomo parte dal suo io, anche se crede di vedere, è nella notte
fonda; lui crede di vedere perché ha constatato, ha esperimentato, ma il punto
fermo di riferimento è sempre il suo io, e nel pensiero del suo io non può
vedere la Verità.
La
Verità si può vedere soltanto partendo da Dio, soltanto sempre nascendo da Dio; quindi partendo da Dio, direi guardando con l’occhio di
Dio, “sub specie aeternitatis”, guardando con il punto di vista
dell’Eternità, dell’Assoluto, incominciamo poco per volta a vedere le cose di
Dio, come vuole Dio, a valutare bene le cose, incominciamo ad entrare nella
luce. S. Giacomo dice: “Chi ha bisogno della luce la chieda al Padre della
luce e il Padre della luce che è buono, la dà e la dà anche abbondantemente”.
L’anima deve chiedere la luce; non siamo noi che facciamo la luce, la dobbiamo
ricevere dalla sorgente della luce: la sorgente della luce è Dio.
Quindi
noi dobbiamo prima di tutto toccare con mano che siamo ciechi, e se non
tocchiamo con mano che siamo ciechi prima di incontrare Cristo; incontrando
Lui, sarà Lui a portarci a toccare con mano la nostra cecità.
Per
cui, il primo lavoro che fa il Salvatore con noi, se non abbiamo ricevuto bene
la lezione dell’Antico Testamento, cioè la lezione della nostra notte, se
non abbiamo ricevuto bene la lezione di Dio in tutta la nostra vita, se
abbiamo creduto di capire, di vedere, la prima lezione che ci dà il Cristo
incontrandolo è questa: ci ripiomba nella nostra notte, ci fa toccare con
mano che non è vero quello che noi vediamo, ci riporta nella nostra cecità, “Io
sono venuto affinché quelli che vedano diventino ciechi”. Ecco la prima
opera.
Invece
se noi siamo ciechi e arriviamo attraverso la nostra notte, cioè se abbiamo
ricevuto bene la lezione della nostra notte, venendo dalla notte portiamo con
noi la notte, che è un sospiro della luce, sospiro del giorno, sospiro dell’aurora.
Allora,
se noi dalla nostra notte andiamo incontro al Cristo invocando la luce, allora
ecco che “Lui viene per dare la luce a coloro che sono ciechi”. L’uomo
cieco, l’uomo della notte, quell’uomo che porta la notte con sé, arrivando al
Cristo trova la luce; invece l’uomo che crede di avere la luce in sé,
incontrando il Cristo trova la notte affinché cominci ad invocare.
È
per questo che Gesù qui dice: “Se uno non nasce di nuovo…”; lo
invitava a non aver fiducia in quello che sapeva, ma a cercare presso di Lui la
vera luce, che è quella che cercò il cieco di Gerico: “Signore che io
veda!”.
Nel
cieco di Gerico abbiamo l’espressione più autentica del vero uomo; invece sia
nel giovane ricco che in Nicodemo non abbiamo espressioni autentiche, perché uno
dice: “Maestro buono” ma all’atto pratico dimostra che il suo bene era
un altro, e Nicodemo dice: “Noi sappiamo”, ma a confronto con Gesù
rivelerà di non sapere niente, e si sentirà dire: “Tu sei maestro in Israele
e non capisci queste cose?”. In risposta, lo vedremo nei prossimi incontri,
alla domanda di Nicodemo: “Come può un uomo rinascere quando è vecchio? Può
forse entrare una seconda volta nel seno di sua madre e rinascere?”. Qui
abbiamo una sollecitazione da parte di Nicodemo; lui non è che ponga un
problema impossibile, non è che lui non capisca, d’altronde era maestro in
Israele, lo dice Gesù stesso, e proprio in Israele si sapeva cosa volesse
dire la lezione spirituale e non la lezione naturale. Ora, Nicodemo facendo
l’obiezione circa l’impossibilità per un uomo anziano di tornare nel ventre di
sua madre e di rinascere, cosa impossibile, sollecitava una spiegazione nel
campo dello Spirito dal Cristo; quasi chiedesse: “un uomo che si è formato con
una certa mentalità, può forse cambiare mentalità?”. Cioè metteva in dubbio la
possibilità di rinascere, nel senso che uno quando si è formato come carattere,
come mentalità, come fede, non può cambiare. Nicodemo rivelava questa
impossibilità dicendo: “È forse possibile che un uomo vecchio possa ritornare
nel seno di sua madre?; non è possibile, e così non è possibile per un uomo
cambiare carattere, rinnovarsi, rinascere. La rinascita di cui tu parli non è
forse un’utopia?”.
Pensieri tratti dalla conversazione:
Domanda:
Nicodemo è la figura dell’uomo?
Luigi: Tutti
i personaggi del Vangelo sono figure dell’uomo, perché sono lezioni personali
per ognuno di noi. Noi incontrando il Cristo possiamo essere come Nicodemo,
oppure come il giovane ricco che viene dicendo: “Maestro buono” (quante
volte anche noi diciamo: “Maestro buono, insegnaci!”); o possiamo essere il
cieco di Gerico, che, direi, è la figura più autentica, più genuina. La vera
lezione per ognuno di noi dovrebbe essere quella del cieco di Gerico, cioè
invocare la luce del Signore: “Signore, che io veda!”; perché
ognuno di noi ha bisogno di vedere. Chi vede può camminare, ma fintanto che
l’uomo non vede…
Quindi
tutti coloro che arrivano al Cristo con altri argomenti, con altri motivi, con
una luce loro, arrivano male. Siccome noi possiamo al Cristo arrivare con
motivi diversi; in tal caso Cristo ci richiama, ci sconfessa e ci ripiomba
nella notte, affinché incominciamo ad invocare la luce.
Cina:
L’argomento è collegato con quello di domenica scorsa, a conclusione del
capitolo II, dove si è visto che il Signore non può costruire la sua casa se
non trova in noi il fondamento, il Pensiero di Dio: “Non si affidava…”.
Luigi: Quel
fondamento è per noi motivo di rinascita. Fintanto che non c'è questa rinascita
non c'è il fondamento in noi. Per questo Gesù parla della necessità della
rinascita, quasi invitando a mettere il fondamento giusto. Nicodemo, arrivando
a Gesù dicendo: “Noi sappiamo”, non aveva messo il fondamento giusto; e
così è per noi quando non partiamo da Dio: non abbiamo il terreno solido, la
roccia su cui Dio possa costruire la sua casa, il suo Tempio e noi poter
esperimentare la sua Presenza.
Perché
la casa è il luogo in cui si esperimenta la presenza. La casa va costruita, ma
per costruirla bisogna che ci sia il terreno solido, e questo terreno solido
deve essere Dio e non l’io.
Qui
Nicodemo arriva dicendo: “io…”, Gesù dice: “No, se non rinasci non
puoi vedere”. Per questo dico che si collega con l’argomento precedente;
prima il Vangelo diceva che Gesù “Non si affidava…”, perché c'era il terreno
dell’io sul quale non si può costruire. E qui abbiamo uno che esprime questo
terreno dell’io sul quale non si può costruire, per cui Gesù gli dice: “No,
non posso costruire con te”. Perché l’io è instabile, Dio solo è l’elemento
stabile. D’altronde è una cosa estremamente logica: Dio è il Principio di
tutto, quindi soltanto mettendo Dio a principio della nostra vita, fondiamo la
nostra vita sull’eternità; non siamo noi principio, non siamo noi la via.
Invece
noi, quando mettiamo il nostro io al centro (anche se non diciamo “io sono
Dio” per non far ridere) ci consideriamo principio di-; d’altronde nella
nostra vita ci comportiamo come Dio, ci consideriamo autonomi.
Eligio: Nel
Vangelo è scritto che Gesù non si affidava, però è anche scritto che verrà il
giorno in cui il Figlio dell’uomo verrà dato in mano agli uomini.
Luigi: Sì, il Signore viene per salvarci e per salvarci incomincia a
formare i suoi primi discepoli, li coltiva, crea una selezione. Perché Lui
quando arriva non ci prende a braccetto e ci dice: “io sono venuto per stare
con te”, no! Lui viene, assume una forma umana perché noi capiamo solo la forma
umana, però è Dio; per cui il suo venire tra noi diventa una proposta di una
vita diversa, perché è sempre Dio che parla in Lui.
L’uomo
non può essere salvato dall’uomo; però l’uomo non può essere salvato se non per
mezzo dell’uomo. Allora ne deriva che se l’uomo non può essere salvato
dall’uomo, ma l’uomo può essere salvato soltanto per mezzo dell’uomo, soltanto
un Dio che sia uomo può salvare l’uomo.
È
necessario che ci sia la forma umana per entrare in dialogo con l’uomo, perché
l’uomo capisce soltanto questo, ma per salvare l’uomo non deve condividere la
sua mentalità.
Infatti
il Cristo è nel mondo ma non è del mondo: “Il mio Regno non è di questo
mondo”, “Io sono di lassù e voi siete di quaggiù”. Quindi il suo venire tra
noi è un assumere la nostra parola, ma non il nostro pensiero. Il suo pensiero
è un altro, per cui non condivide noi. Allora il suo parlare a noi diventa una
sollecitazione, una proposta; ci pone delle scelte, ci invita a cambiare, ci
propone altro dal modo con cui noi viviamo. Lui viene tra noi non per
condividere la nostra vita, ma per portarci nella sua Vita. Gesù ci porta
nella sua Vita nella misura in cui noi ci apriamo a Lui; dunque se noi mettiamo
Dio al centro dei nostri interessi, del nostro vivere, Lui incomincia a
costruire (es. i primi discepoli, gli apostoli, ecc.).
Però,
siccome viene per salvare tutti, dopo aver costruito i primi, Lui poi si dà a
tutti gli altri e gli altri lo uccidono. Se si fosse dato prima nelle mani di
coloro che avevano l’io a centro l’avrebbero ucciso subito, in quanto non
potevano accettare un cambiamento di vita. Fintanto che Gesù fa loro dei
miracoli, fintanto che li guarisce, fintanto che batte loro le mani, sono
contenti: “È venuto un uomo buono, un Dio buono, Osanna al Figlio di David!”,
perché Gesù dà loro dei beni; ma quando incomincia a rivelare le sue esigenze
lo mandano a morte, perché non hanno il terreno pronto per costruire.
Lui
si dà nelle loro mani per salvarli, ma sa già che lo manderanno a morte, perché
è proprio attraverso il delitto esterno che l’uomo può prendere coscienza
del delitto che porta dentro, cioè del terreno non buono. Certamente su
quel terreno Dio non può edificare. Allora Cristo si lascia uccidere perché
l’uomo capisca che è un terreno su cui Dio non può edificare.
Interlocutore: Però da
quello che tu hai spiegato, Gesù ha formato un nucleo di apostoli ai quali
rivelerà i segreti del Regno di Dio.
Luigi: Sì,
Gesù dice: “A voi che siete dentro è dato di conoscere i misteri del Regno
di Dio, ma agli altri no”…
Interlocutore: Ecco,
agli altri si consegna; questo darsi nelle mani degli uomini, vuol dire che non
si dà nelle mani di tutti gli uomini? Io direi di si, perché non possiamo
pensare che non si sia dato anche nelle mani degli apostoli, anche perché da
parte degli apostoli sono avvenuti anche dei tradimenti…
Luigi: Si,
infatti nessun uomo può dire: “Io sono innocente del sangue sparso di Gesù”.
Noi siamo colpevoli, perché in un modo o nell’altro partecipiamo a questa
schiavitù all’io, e la schiavitù dell’io, il non tener conto di Dio è un
delitto nei riguardi di Dio. Per cui noi non ci rendiamo conto, ma quando,
anche semplicemente come pensiero, trascuriamo Dio, uccidiamo Dio, facciamo
fuori Dio dalla nostra vita. E se ci viene detto: “Tu hai ucciso il Cristo”, ci
mettiamo a ridere, perché noi duemila anni fa non c'eravamo. Invece, entrando
nel Regno della verità, scoprendo la realtà dello Spirito, noi tocchiamo con
mano, scopriamo: “Sì, anch’io sono colpevole di quel sangue sparso, anch’io
partecipo di quel sangue sparso”, e non può essere in modo diverso.
Indubbiamente
c'è la fase in cui Dio opera per concessione, ma questo avviene dall’inizio
della creazione; il Verbo patisce violenza dall’inizio della creazione, già da
Adamo ed Eva. Però in Cristo abbiamo la rivelazione, l’evidenziazione di
quello che avviene nella vita di ogni uomo. Ogni uomo uccide Dio, però è
soltanto evidenziato in Cristo. Ecco, l’uomo prende coscienza perché incomincia
a meditare su quell’argomento e si domanda: “Come mai?”. Cristo è venuto per
rivelare il mistero che ogni uomo porta già dentro di sé e i rapporti che
passano in ogni uomo tra la sua anima e Dio. È li che si scopre la verità;
allora quella è “soltanto” rivelazione d’una realtà, la realtà interiore.
In
quanto questo delitto avviene interiormente, siamo poi condotti a scoprire che
noi siamo partecipi di quel sangue sparso. Altrimenti diciamo: “No, quel fatto è
avvenuto duemila anni fa e duemila anni fa io non c'ero, quindi non posso
essere ritenuto responsabile per questo”. No, ciò che è avvenuto duemila anni
fa è rivelazione di un fatto attuale che avviene nella nostra vita.
Come
avviene questo delitto nei confronti di Dio? Trascurando Dio! E questo avviene
tra la mia anima e Dio. Tutte le volte che io faccio prevalere il mio io nei
riguardi del pensiero di Dio, nei riguardi delle opere di Dio, delle parole di
Dio, delle lezioni di Dio, io faccio fuori Dio (come nella parabola dei
vignaioli) dalla mia vigna, dalla mia città, dai miei affari, dai miei
interessi, dalle mie abitudini; se non tengo conto di Dio, uccido Dio.
Interlocutore: Ma il
giusto che è vissuto prima del Cristo storico, che ragionamento poteva fare?
Eppure il Cristo è venuto anche per lui.
Luigi: Penso
che vada visto in questa luce: “Abramo desiderò vedere il mio giorno, lo
vide ed esultò di gioia”, dice Gesù. Tutto l’Antico Testamento lo
sintetizziamo in Abramo: la fede. Ora, la fede dell’uomo a che cosa lo porta?
Lo porta a desiderare il giorno di Dio. La fede è tutta la notte attraverso cui
si approda all’alba. Nella notte si invoca la luce di Dio.
Ora,
la fede porta l’uomo a mettere Dio al centro. Mettendo Dio al centro l’uomo
scopre la sua impotenza, e quindi il bisogno di una mano dal cielo. “Abramo
desiderò vedere il mio giorno, lo vide ed esultò di gioia”. La fede
ci porta a desiderare e a capire che Dio interverrà.
Interlocutore: La fede
di Abramo però non ha l’aspetto traumatizzante dell’uccisione di Gesù, che
invece sperimentiamo noi nel nostro peccato. Prima della venuta di Cristo non
potevano avere questo punto di riferimento…
Luigi: Abramo
rappresenta la fede, è il padre di tutti coloro che credono; quindi vuol dire
che la fede deve far maturare l’uomo in quei termini. Abramo desiderò vedere,
quindi tutti coloro che credono desiderarono vedere. Se Abramo rappresenta la
fede (“…desiderò veder il mio giorno”), tutti coloro che credono desiderano
vedere “il mio giorno”. La fede deve portarci a scoprire, a toccare con
mano che il nostro io al centro ci porta al delitto, direi che ci porta ad
intuirlo. La fede ci deve portare nella speranza e ci deve fare intuire. Il
problema della fede fa maturare in noi certi bisogni e anche certe convinzioni,
anche la coscienza di operare un uccisione. Anche se un fatto è avvenuto prima
di Cristo, fa comunque parte di questo universo; la fede non potrebbe pensare
una cosa se questa cosa non avvenisse. La fede è un’intuizione di cose che
avverranno perché se fosse intuizione di una cosa che non avverrà è fasulla.
La fede è intuizione di un fatto che avverrà, non soltanto di un segno….
Interlocutore: No, io
stavo pensando all’importanza di questo segno esteriore: o è necessario, o non
è necessario….
Luigi: È
necessario. Tra la nostra fede di oggi che pensa il Cristo vissuto duemila anni
fa e la fede di uomini che sono vissuti duemila anni prima, e che attraverso la
fede intuiscono, non vedo una grande differenza.
Interlocutore: Cioè
già intuirono la morte del Cristo?
Luigi: Certo,
perché nel processo dell’opera di Dio, quando noi crediamo in Dio, cosa ci fa
fare questo credere in Dio? Ci fa pensare a Dio e alle opere di Dio; ma queste
opere di Dio ci confrontano sempre con la situazione in cui ci troviamo (“Ma
guarda in che pasticcio mi trovo, Signore; dico che voglio fare il bene e
faccio il male!”). La fede ci porta a capire che se Dio non interviene
in nostro aiuto, noi non usciamo dalla notte. La fede è già una sostanza di
cose che avverranno, ma queste cose che avverranno sono promessa di Dio; la
fede non potrebbe pensare un fatto futuro se quel fatto non avvenisse. Siccome
la fede ci fa pensare a un fatto che avverrà, non vedo granché differenza tra
noi, che oggi pensiamo a un fatto che è avvenuto, e quegli altri che pensavano
ad un fatto che sarebbe avvenuto: perché è sempre la fede che ci conduce li. La
fede di noi che guardando indietro vede quello che è avvenuto e lo interpreta,
e la fede di quelli che guardando avanti sperano, non sono molto differenti,
perché se è fede vera, in quanto è opera di Dio, deve vedere l’opera di Dio.
L’opera di Dio è una realtà, non è un sogno, perché viene da Dio.
La
morte di Cristo in croce è un avvenimento che ci fa meditare, quindi siamo
sollecitati da-; gli altri passano da una loro situazione a una situazione di
fede che porta alla speranza, e questa fede fa ragionare con Dio: Dio che opera
in tutto, Dio che ci ha creati, Dio che ci salverà. La fede ci fa capire che la
salvezza ci viene solo da Dio; forse non vediamo “come”, ma capiamo che senza
Dio noi non possiamo uscirne.
Interlocutore: I
profeti preannunciavano già che il Messia sarebbe venuto…
Luigi: Si, ma
siamo sempre nel campo della fede. Infatti come fecero a intuire la venuta del
Messia? È la fede.
Ma
la fede non è creazione nostra, la fede viene da Dio. E la fede cosa ci
fa dire? La fede ci fa dire il Cristo, la fede ci fa vedere l’opera di Dio,
perché la fede ci fa credere che tutta la salvezza viene da Dio, non dall’uomo:
ci fa sperare in Dio, ci fa far conto su Dio. Già tutto l’Antico Testamento fa
leva su Dio, non fa leva sull’uomo. Quindi bisogna far leva su Dio, avere
speranza in Dio e constatare il nostro niente; perché tutta la conclusione
dell’Antico Testamento sta nel confessare il nostro niente, la nostra povertà e
il tutto di Dio. E quando noi confessiamo il nostro niente e il tutto di Dio,
passiamo al Cristo.
Interlocutore: Anche
se non so che si è incarnato?
Luigi: Anche
se non so che si è incarnato! Perché io faccio conto solo su Dio; io non so
come Dio realizzerà, però so che è opera di Dio, è tutta opera di Dio. Perché
la fede mi fa dipendere da-, mi fa constatare il mio niente e mi fa dipendere
tutto da Dio. In quanto dipendo da Dio, invoco: “…desiderò vedere il mio
giorno”. E perché non desiderò vedere il proprio giorno, un giorno del suo
tempo? E cos’è questo “mio giorno”? Il giorno di Dio, la salvezza di
Dio: Gesù è salvezza di Dio. Ora, quando uno crede nella salvezza di Dio,
spera nella salvezza di Dio, è a contatto con Cristo. Il tempo non conta
niente; per noi non conta niente che Cristo sia vissuto duemila anni fa o
cinque minuti fa: non c'è nessuna differenza, perché il piano della fede ci fa
far conto su-. La parola di Dio scavalca i tempi, scavalca i secoli. Il
messaggio che ci porta il Cristo, in quanto parola di Dio, ha l’importanza di
un’attualità; Dio ci potrà sempre dire: “Io ti avevo fatto giungere un
messaggio, questa notizia, questa informazione”. Ora, l’informazione che
giunge a noi, non è legata al tempo; io non posso giustificarmi dicendo: “Ma
questa notizia è di duemila anni fa”. No, se io nella fede la ricevo da
Dio, la notizia di duemila anni fa è attuale, e mi lega, mi rende responsabile
come se Dio attualmente venisse e mi dicesse: “Fa questo!”; non c'è
nessuna diversità. È un’attualità in quanto la accetto dalle mani di Dio; se
l’accetto dalle mani degli uomini, mi scindo nel tempo e perde tutta la sua
efficacia: “una cosa che è avvenuta duemila anni fa non interessa, mentre
l’uomo che si presenta oggi interessa”. Se invece sono nella fede, in quanto
sono nella fede, la fede mi fa accogliere tutto dalle mani di Dio. Facendomi
accogliere tutto dalle mani di Dio, le cose escono dal tempo e mi rendono
responsabile. Dio mi dirà: “Io ti avevo fatto arrivare questa informazione”;
e io non potrò dire: “Ma Signore, era un’informazione vecchia!”. A Dio
non si può dire che una sua informazione è vecchia.
Ci
sentiremo dire: “tu sapevi che era stato detto questo e tu come ti sei comportato?”.
La fede ci fa prendere le cose dalle mani di Dio. La fede è sempre questo
rapporto diretto tra l’anima e Dio. Quindi in quanto noi riceviamo tutto da
Dio, constatando la nostra impotenza, la fede ci fa sperare tutto da Dio; abbiamo
cioè l’anima preparata ad accogliere il Messia. Chi si ritiene nulla dice: “Aspetto
tutto da Dio; la salvezza mi viene da Dio”. Io non devo far conto, sperare
la mia salvezza o dalle medicine, o dagli uomini o dai potenti, o dal denaro, o
dalle istituzioni, o dalle strutture. La salvezza la devo aspettare solo da
Dio! Sono con Cristo, perché Cristo è la salvezza di Dio. Chi spera la salvezza
solo da Dio ha l’anima preparata per il Regno di Dio. Quindi questo è il giorno
di Dio.
Interlocutore: Chi ha
sperato la salvezza di Dio prima di Cristo, poteva pensare o sperare in un Dio
incarnato? O era sufficiente sperare in una salvezza generica non identificata
in una persona concreta?
Luigi: No, è
necessaria la fede specifica, perché non possiamo evacuare l’opera di Dio, saremmo
in malafede, perché è una realtà. Teniamo sempre presente quello che dice Gesù:
“Abramo desiderò vedere il mio giorno“; “desiderò”, quindi sentiva il
bisogno di -, di vedere questo aiuto di Dio, questa salvezza di Dio; ma come?
In cielo? No, sul piano in cui lui si trovava. E come una persona che sta
affogando nel mare: dove desidera la salvezza? Nel mare! Perché fintanto che
l’altro è sul poggiolo, lontano, non può salvarlo! Quindi la salvezza ognuno se
la aspetta là dove sta venendo meno, dove sta morendo. Allora, in quanto noi
desideriamo il giorno di Dio, è perché ci troviamo in una situazione di
rischio, di morte. Stiamo affogando, quindi sospiriamo, ma questo giorno di Dio
“come” lo desideriamo? Lo desideriamo nella situazione in cui ci troviamo. Ora,
se noi siamo soffocati dalla materia, la salvezza di Dio la cerchiamo nel guaio
di materia in cui ci troviamo, nel mondo in cui soffochiamo; non sappiamo
“come” si realizzerà, però la nostra fede che fa dipendere tutto da Dio, e ci
fa far conto sulla salvezza di Dio, la invoca nel luogo in cui siamo.
Bisogna
tener presente che, se anche vediamo Cristo nel nostro mondo, c'è poi la fase
successiva in cui San Paolo dice: “Se anche abbiamo conosciuto Cristo nel
corpo, adesso non lo conosciamo più tale”; per cui arriva il momento in cui
bisogna passare oltre a quella che è la materialità, anche se l’aiuto ci viene
da questa materialità. Allora la speranza del “tutto opera di Dio” (perché Gesù
dice: “Abramo desiderò vedere e vide”, ci deve portare ad intuire, a
vedere l’aiuto di Dio che cala nella situazione in cui ci troviamo.
Comunque
è indispensabile la funzione salvifica del Cristo storico; per cui, sia
per chi muore senza aver conosciuto il Cristo, sia per i bambini non
battezzati, sia per chi è vissuto prima del Cristo, bisogna pensare che ci
sia, in quanto facciamo tutti una cosa sola, che ci sia un momento, forse
subito dopo la morte, in cui si viene a vedere quello che sarà, perché quello
che sarà è già quello che è. L’incarnazione è già, è fuori dal tempo,
perché è opera di Dio. Man mano che noi attraverso la fede usciamo dal tempo,
riusciamo a percepire quello che appartiene all’opera di Dio, al disegno di
Dio; è l’opera di fede che ci fa intuire l’incarnazione. Poiché “Abramo lo
vide”: desiderò vederlo (ma non restò nel piano del desiderio, della
speranza) e lo vide. Ma come fece a vederlo?
Evidentemente
se uno fa conto solo su Dio, può vedere le opere di Dio. La fede lo porta a
vedere le opere di Dio, e vedendo le opere di Dio ecco Dio che salva!
Osserviamo
Simeone: tutta la sua vita è stata proiettata nel desiderio di vedere la
salvezza di Dio e quando la vide: “Ora lascia che il tuo servo se ne vada,
perché ha visto..”. Questo ci fa capire che la fede ci conduce a vedere;
non dice soltanto: “Desiderò vedere…”. Gesù dice anche: “Quanti re e profeti
desiderarono vedere, non videro”, “Abramo desiderò vedere, e vide”, quindi
vuol dire che la fede porta l’uomo a vedere. Non è un sogno la fede, non è una
fantasia, ma è opera di Dio; e in quanto opera di Dio, ciò che mi fa pensare la
fede è realtà, appartiene alla realizzazione delle opere di Dio. Ed è su questa
realtà che bisogna far leva. Per cui Abramo esultò di gioia, perché ha capì,
vide che Dio lo avrebbe salvato; avrebbe operato Lui quello che la creatura
non può operare.
Oltre
a questo, noi dobbiamo sempre tener presente che Dio non fa preferenze di
persone, quindi non ha preferito noi rispetto a quelli che vissero prima di
Cristo. La nostra è una situazione di sviluppo rispetto a quelli di duemila anni
fa, perché anche tutta la storia dell’umanità è una rivelazione continua di
Dio, così come la vita di ogni uomo. Abbiamo una situazione di responsabilità,
però tutte le creature agli occhi di Dio sono messe tutte sullo stesso
piano, quindi hanno tutti la possibilità di giungere al Cristo, alla salvezza
di Dio.
Interlocutore: In
sostanza la fede non è mai un prodotto dell’uomo.
Luigi: No,
infatti noi possiamo perdere la fede come prodotto nostro. La fede viene da
Dio, ma non è un capriccio di Dio; per cui Dio la fede la dà, ma noi possiamo
perderla. Perdere la fede è un prodotto dell’uomo.
La
vera fede è opera di Dio, quindi se noi vogliamo la fede dobbiamo cercarla
presso Dio. Cercando Dio, da Dio si ottiene la fede. Se non ho fede o
per lo meno la mia fede è debole, se la voglio rinforzare o se la voglio avere,
devo cercare Dio. Cercando Dio, Dio dona la fede. Più uno cerca Dio e più
trova la fede. Ma la fede è già intuizione, perché viene da Dio; direi: la
fede ci porta alla conoscenza, quindi ci fa vedere.
Gesù
stesso dice: “Vedrete le cose future…”.
Interlocutore: La fede
è già un complimento grandissimo….
Luigi: Non è
un complimento, è un introduzione alla luce. Dio dice a s. Agostino: “Tu non mi
cercheresti se non mi avessi già trovato”. Verrebbe da dire: “Ma no, Signore,
se ti cerco è perché non ti ho ancora trovato”, invece da parte di Dio è così:
“Se tu mi cerchi è perché mi hai già trovato”.
Nella
Verità constateremo che in quanto cerchiamo Dio è perché l’abbiamo già trovato.
Siccome ci misuriamo sempre su noi stessi o sul mondo, diciamo: “Se io cerco è
perché non ho ancora trovato”; invece in Dio se io cerco è perché ho già
trovato. Si tratta solo di individuare il motivo di ricerca, e si scopre che
c'era già; perché se lo cerchiamo è perché Dio si è già fatto trovare da noi.
Quindi
la fede ci porta a desiderare, a scoprire le opere di Dio che poi avverranno.
Pensando Dio noi sappiamo che nella nostra vita arriverà un giorno in cui
moriremo, che dovremo lasciare molte cose; attualmente certi valori ci sembrano
molto importanti agli occhi nostri, secondo la fede invece non valgono niente,
perché la fede ce li fa vedere nel futuro e nel futuro le cose terrene se ne
andranno via. Ecco, la fede ci fa già vedere le cose future, ci fa vedere i
valori quindi ci fa vedere le cose secondo Dio. La fede è testimonianza di Dio
in noi; per questo dico che viene da Dio, perché è segno di Dio in noi. In
quanto è segno di Dio, ci fa vedere le cose secondo Dio; invece se non abbiamo
fede, noi vediamo le cose secondo il nostro io, come le vede il mondo; per cui
diciamo: “Questa cosa è molto importante”. Vai a parlare di valori secondo Dio
a uno che non ha la fede, e ti dirà: “Ma no, sei matto? Quello che conta è il
denaro, è la carriera…”; questo è un ragionamento non secondo la fede. Se uno
ha la fede, la fede lo conduce a vedere le cose secondo Dio; allora, vedendo le
cose secondo Dio, capisce i veri valori e nel futuro avrà ragione. Perché
effettivamente quei valori che aveva squalificato nel futuro saranno
squalificati. Quell’altro invece che non si comportava secondo la fede, dovrà
constatare che quei valori su cui ha fondato la sua vita erano valori falsi.
Per cui chi si regola secondo la fede nel futuro avrà ragione, mentre colui
che non si comporta secondo la fede, nel futuro sarà smentito.
Ora,
vedere le cose future nella loro Verità, è vedere il giorno di Dio, è vedere
la salvezza di Dio; perché più noi ci proiettiamo nel futuro secondo la
fede, e più noi capiamo che il vero valore è solo Dio e che la salvezza viene
solo da Dio. Ecco quello che ci porta a fare la fede: e qui abbiamo il Cristo.
Questa
realtà non è soltanto una fantasia, un’astrazione, perché la fede viene da Dio
e siccome tutto quello che viene da Dio è realtà, la salvezza di Dio è realtà.
Se
io non spero di salvarmi per le mie opere, o per le mie virtù, o per i miei
impegni ma faccio conto su Dio, perché la salvezza viene da Dio, il futuro mi
darà ragione. Se invece se faccio conto su altro il futuro mi sconfesserà, mi
farà toccare con mano che ho sbagliato. Come Gesù che ha fatto toccare con mano
a Nicodemo, che è partito con un piede sbagliato dicendo: “Noi sappiamo…”.
Anche il giovane ricco che dice a Gesù: “Maestro buono”, tocca con mano
il suo errore; anche quando vanno per cercare di farlo re, Gesù scappa perché
non vuole essere fatto re per motivi (anche se poi dice: “Io sono re”).
È li che vediamo la grandezza della divinità; perché qualunque uomo, se si
sente dire: “Tu sei buono…”, sarebbe stato al gioco, perché sarebbe
stato esaltato. Si vede il segno della divinità, perché Cristo non si lascia
esaltare dagli uomini; gli uomini si lasciano esaltare dagli uomini, ma
Cristo no. Quando volevano farlo re perché aveva moltiplicato i pani, Lui si
rifiuta, perché vuole essere conosciuto per quello che è; oppure quando il
giovane ricco gli dice: “Maestro buono”, Lui gli risponde: “No, uno
solo è buono, è Dio”. Soltanto chi è nella Verità può vedere il Regno di
Dio; altrimenti l’uomo si lascia esaltare e quindi si lascia poi ingannare,
perché l’uomo è ingannato dalle creature.
Interlocutore: Allora
perché diciamo: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli”’?
Luigi: Bisogna
dare gloria a Dio. Forse bisogna approfondire il concetto di esaltare. Se ad
esempio un uomo le dice: “Interlocutore sei una bella donna”, tu ti puoi
esaltare. Con Cristo è lo stesso. Noi ci lasciamo esaltare dai complimenti,
perché crediamo di essere quello che dice l’altro, e invece siamo tutt’altro!
Ora, è proprio nei confronti di questa esaltazione che sbagliamo tutto, perché
crediamo di essere quello che appare agli altri, oppure quello che gli altri
dicono, magari per ingannarci perché sanno che esaltandoci possono sfruttarci o
strumentalizzarci. Ma già nella Bibbia è scritto: “Attento a colui che ti
loda”. Cristo invece rivela la sua divinità nel non voler essere
esaltato.
Interlocutore: Gesù
non si lascia esaltare con lo Spirito con cui noi potremo esaltare un’altra
creatura: il giovane ricco esaltando Gesù, vuole una conferma che è nella
strada giusta; allora Gesù non accetta quell’esaltazione.
Luigi: A
quelli che credono per il miracolo che hanno visto Gesù non si affida; vedi che
non si lascia esaltare?!
Interlocutore: O
credono a Lui come Dio.
Interlocutore: Lui non
è venuto per farsi fare re su un piano umano…
Interlocutore: C'è nel
Vangelo un esempio di esaltazione che Gesù accetta?
Luigi: Si
lascia anche lodare, ad esempio con il cieco nato; però Lui chiede sempre la
fede (fede intesa come il superamento dell’io). Sul piano umano noi esaltiamo
per strumentalizzare, quindi in fondo c'è sempre un malanimo; quando esaltiamo
una persona è perché ci conviene nel pensiero dell’io, quindi siamo sul piano
della falsità. Dio non si sottomette a questa falsità, perché Dio viene per
farci sottomettere noi a Dio, non per lasciarsi sottomettere. Si lascerà
sottomettere quando lo uccideranno, ma lì è perché c'è una funzione. Dove si
vede un uomo che non si lascia esaltare, li ci deve essere tanta presenza di
Dio; perché l’uomo per natura si lascia esaltare, perché il pensiero dell’io
tende a farsi centro e quando uno trova un altro che gli dice: “Tu sei tutto
per me”, l’altro si mette a scrollare le ali di gioia. Per cui, è meglio uno
che sia severo; infatti quando si ama veramente si richiede la disciplina:
“Dio corregge coloro che ama”. Bisogna avere paura di quello che ci
esalta. Ecco perché la ricchezza può essere pericolosa. La gloria del mondo è
pericolosa: l’uomo quando è in auge non capisce più niente. Quindi è meglio
essere in basso, perché la povertà rende saggio l’uomo, mentre i valori del
mondo lo stordiscono, lo esaltano e non capisce più niente.
Per
me è un segno della divinità del Cristo il fatto che Lui non si lascia mai
esaltare dall’uomo.
Interlocutore: Come
persona si, ma non vedo…
Luigi: Alcuni
hanno cercato di esaltare Gesù; il giovane ricco che gli dice “Maestro
buono”: è un’esaltazione; Nicodemo che dice: “Noi sappiamo che tu sei venuto
da Dio perché nessuno può fare quello che tu fai”, è un’esaltazione. Dopo
la moltiplicazione dei pani vanno per farlo re: è un’esaltazione. Lui la
accetta questa esaltazione? No, non l’accetta. Nota che Lui è buono, nota che
Lui viene da Dio, nota che Lui è re ed è venuto per questo, allora come mai?
Lui è venuto per essere re, ma quando vogliono farlo re, Lui non accetta. Lui è
il Figlio di Dio, ma quando dei demoni dicono: “Noi sappiamo che tu sei il
figlio di Dio”, Lui li mette a tacere. Ora, è li che si vede un carattere
della divinità; altrimenti l’uomo ci sta, cerca quello!
Interlocutore: Se al
posto del giovane ricco ci fosse stata un’anima pura che avesse detto al
Cristo: “Maestro buono”, con lo stesso spirito e disposizione verso Dio
della Cananea, della Emorroissa, Lui avrebbe accettato?
Luigi: Si. Nel
caso del giovane ricco Gesù lo mette alla prova, ed è evidente che in lui non
c'era l’animo autentico, perché quando ha dovuto scegliere tra colui a cui
aveva detto “buono” e il denaro, lui ha scelto il denaro; quindi vuol
dire che non c'è autenticità. Quando una persona mi dice: “Tu sei buono”, ma
poi quando deve scegliere tra me “buono” e un altro, sceglie l’altro, vuol dire
che la sua affermazione era fasulla, che non era sincero, il “buono” per lui è
un altro. Gesù dice: “Non potete servire due padroni”.
Interlocutore: Cristo
rifiuta l’esaltazione quando non parte da un cuore sincero.
Luigi: Quando
non si ha lo sguardo a Dio, quando non abbiamo come centro, come valore
fondamentale Dio; in tal caso non costruisce, non si affida.
Interlocutore: Si,
perché in quel caso l’esaltazione a Dio la facciamo nel pensiero di noi stessi,
crediamo di pregare e invece preghiamo per noi.
Luigi: Teniamo
presente questo versetto: “Gesù non si affidava a loro”; Gesù non si
affida a Nicodemo, non si affida al giovane ricco, perché non c'era il terreno
buono per costruire. Apparentemente sembra che sia buono il terreno, perché
vanno da Gesù dicendo: “Maestro buono”, oppure: “Tu vieni da Dio”;
sembra che il terreno sia buono, invece non è buono, e Gesù non si affida. Gesù
non si affida, non costruisce li sopra; ed è li che si rivela la divinità. “Non
si affidava a loro”.
Interlocutore: Il
Vecchio Testamento è in funzione del Nuovo, cioè non si entra nel Regno di Dio
se non dopo la preparazione richiesta dall’Antico Testamento. Nel dialogo tra
il giovane ricco e Gesù, direi che tutto quanto è richiesto dall’Antico
Testamento è stato compiuto dal giovane ricco e Gesù glielo conferma; che cosa
manca allora per entrare?
Luigi: Lo dice
Gesù quello che gli manca!
Interlocutore: Sì,
Gesù gli dice: “Se vuoi essere perfetto…”, dopo aver accettato tutto
dell’Antico Testamento...
Luigi: No, un
momento; lui credeva di aver accettato tutto, per questo Gesù gli dice: “Se vuoi
essere perfetto…….ti manca questo…”.
Interlocutore: Ma Gesù
non lo ha smentito sull’Antico Testamento.
Luigi: No, ma
gli dice: “Ti manca questo…”. Lui aveva osservato tutti i comandamenti,
ma “Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente,
con tutte le tue forze…”; ora, in buona fede si può credere di amare Dio,
di servire i comandamenti. Quindi onestamente il giovane ricco in buona fede
dice di averli compiuti.
Interlocutore: Faccio
questa domanda perché anche io credo di osservare i comandamenti: onoro il
padre e la madre, vado a messa, rispetto la proprietà altrui. Uno pensa di
essere a posto e di appartenere al Regno di Dio.
Luigi: Tu puoi
osservare i comandamenti ed essere in buona fede. Ma non basta essere in
buona fede per entrare nel Regno di Dio; la buona fede ci porta ad
interrogare: “Come mai non entro? Io ho osservato tutti i comandamenti,
faccio tutto bene e giro a vuoto, come mai?”, “Come mai? Voglio fare il bene e
poi scopro che faccio il male, ma come mai?”. Gesù ha ammirato questa buona
fede, infatti non lo ha preso a calci, ma gli ha detto: “Ti manca questa
cosa qui”. Praticamente gli dice: “Tu credi di avere compiuto, di aver
ubbidito ai comandamenti, alla volontà di Dio, però non hai capito che l’amore
deve portare a questa semplicità, a questa nettezza, a questa dimensione: “Non
si può servire due padroni”. Quando Gesù dice: “Va, vendi tutto
quello che hai…”, siamo ancora nell’Antico Testamento, nella morale; invece
quando dice: “Vieni e segui me..” siamo nel Nuovo Testamento. Quindi
c'era un ostacolo, una difficoltà; ma non c'era cattiva fede, non c'era una
malizia. E in quanto non c'è malizia Dio ama. Dio sa dove c'è malizia. “Razza
di ipocriti..”, lo dice perché vede la malizia. Invece qua ama. Però lui crede
di servire il Signore e invece sbaglia.
La
fede, in quanto è fede buona, ti conduce a questa riflessione: “Come mai
anche se ho osservato tutta la legge non entro nel Regno di Dio?”. Allora
arriva la luce che ti dice: “Tu non intendi nella profondità questa parola,
questo Verbo: ti devi preparare a-”. E non si tratta solo di un consiglio,
ma è la condizione per entrare: avere un solo amore.
Ora,
in buona fede possiamo anche avere tanti amori, però Dio opera una selezione.
Gesù è la rivelazione del Verbo di Dio che parla nella vita di ogni uomo,
Antico e Nuovo Testamento. Egli parla per salvare ogni uomo. Cosa fa Gesù? Gesù
vede sempre l’uomo nel dilemma. C'è un tempo in cui tutto è possibile: amare
Dio e amare le sue creature; ma arriva un momento in cui dobbiamo avere un
amore solo: o un amore che ci danna o un Amore che ci salva. Questa è tutta
opera di Dio. Dio nell’arco di settant’anni ci seleziona tutti gli amori,
giorno per giorno; ci vuole tutto un processo, un cammino di scelte. Se noi
aderiamo, allora progrediamo nella selezione di un Amore unico, vero, se non
aderiamo la colpa è nostra, allora sorge il peccato. Avendo ricevuto la luce,
se rifiutiamo, acquistiamo responsabilità. Per cui il giovane ricco è arrivato
con gioia ed è andato via triste: ha preso coscienza che ha rifiutato la
possibilità di entrare. Fintanto che domandava era in buona fede, dopo il
rifiuto incomincia la tristezza.