Guarigione del Paralitico di Betsaida (Gv 5,1-9)
-prima parte - 

 

Giovanni riporta questo miracolo come il terzo compiuto da Gesù dopo le nozze di Cana (cf. 2,1-12) e dopo quello della guarigione del figlio del funzionario governativo (cf. 4,46-53). La presente guarigione avviene di sabato nel corso di una celebrazione festiva annuale non precisata e la presenza di Gesù a Gerusalemme fà pensare che si tratti di una delle tre grandi feste ebraiche (Pasqua, Pentecoste, Festa delle Capanne) spesso designate come le feste dei Giudei.
“C’è una piscina chiamata in ebraico Betsaida, con cinque portici” (v. 2), la piscina di Betsaida letteralmente Beth hesed, vale a dire “Casa di misericordia” perché lì Dio usava misericordia verso i malati che vi accorrevano. Si trovava a Gerusalemme e aveva cinque portici, il numero cinque richiama i cinque libri di Mosè. “Sotto questi portici giaceva una folla di ammalati, ciechi, zoppi, e paralitici in attesa del movimento dell’acqua da parte di un angelo” (v. 3). Non era l’angelo a causare il movimento dell'acqua, doveva essere l’acqua che arrivava da un’altra vasca a causare leggeri movimenti. La credenza popolare considerava miracolose le acque della piscina per la presenza dell’angelo del Signore. È affascinante come lo scrittore ebreo convertito Roman Brandstaetter descrive nel suo Gesù di Nazareth, ed. Piemme, tale credenza popolare: “…credevano infatti che quella fosse una piscina miracolosa nella quale, ad un’ora improvvisa, entrava Malach Jahvè, l’Angelo del Signore. Egli, con i movimenti del suo invisibile corpo, agitava l’acqua e allora quello che entrava per primo nella piscina acquistava la salute. Per questa ragione i malati cercavano di arrivare, anche a discapito degli altri sofferenti, fino all’orlo della piscina, lottavano per conquistarsi i posti migliori vicino all’acqua dove rimanevano dall’alba alla sera. Era un’attesa faticosa, piena di tensione; essi (i malati) spiavano, con occhi febbrilmente puntati sull’acqua ogni suo movimento, ogni più piccola increspatura della sua superficie. E quando alla fine notavano un piccolo tremito (ma spesso si trattava di falsi allarmi), come in una gara si lanciavano nell’acqua e si immergevano nella sua profondità ondeggiante sperando nella guarigione. Tutto dipendeva dal riuscire per primi a toccare l’acqua imbevuta dell’Angelo del Signore, e il fortunato che vi riusciva era guardato con invidia dagli altri malati”.
La piscina era diventato un luogo di raccolta di ammalati e infermi, credendo che in quel luogo avrebbero ricevere la guarigione. Gli infermi che giacevano sotto i portici erano di tre categorie: ciechi, zoppi, paralitici.
“C’era là un uomo infermo da trentotto anni” (v. 5), la cifra "38" – forse- può allude agli anni che il popolo di Israele fuggito dall'Egitto ha trascorso nel deserto prima di giungere nella terra promessa: "andammo erranti per 38 anni" (Dt 2,14). Che un disturbo non fosse momentaneo è indicato spesso nei miracoli del NT: la donna di Lc 13,11 era malata da 18 anni (anche At 4,23 e 9 33); era spesso uno dei modi di sottolineare che il caso era senza speranza.
L’evangelista riporta che “Gesù, vedendolo sdraiato e saputo che da molto tempo si trovava in quella condizione, gli disse: Vuoi guarire?” (v. 6). Tra tanti ammalati, Gesù volge lo sguardo verso un uomo che giaceva paralizzato e prende l’iniziativa. L’infermo è affetto da un duplice handicap: da una parte è malato da tanto tempo e ciò fa supporre che la sua malattia fosse incurabile, dall’altra non può approfittare dell’efficacia dell’acqua.
È sconcertante che Gesù, “sapendo” che da 38 anni quell’uomo giaceva paralizzato presso la piscina terapica, si sia soffermato per chiedergli se volesse “guarire”. Se avesse voluto guarire quel malato spontaneamente, a prescindere dalla sua "fede", non sarebbe forse stato sufficiente vederlo in quello stato? È evidente che dietro la domanda c'è l'esigenza di mettere alla prova la “fede” del malato. La domanda, infatti, sembra presupporre una “volontà negativa” da parte del paralitico, il quale, forse, non vuole “veramente” guarire.
Anthony De Mello in Messaggio per un'aquila che si crede un pollo, afferma che c’è tanta gente che vorrebbe cambiare, però nell’intimo non vuole uscire dalle proprie sicurezze. “La gente vuole soltanto aggiustare i propri giocattoli. «Ridatemi mia moglie. Ridatemi il mio lavoro. Ridatemi miei soldi. Ridatemi la mia reputazione, il mio successo... È questo che vogliono le persone: avere dei nuovi giocattoli. Tutto qui.. Quel che cercano è il sollievo; una cura sarebbe troppo dolorosa”.
L'atteggiamento del paralitico sembra essere tipico di quei malati che fanno della propria infermità un pretesto per non assumersi delle responsabilità personali. Non a caso egli addebita ad altri, invece che a se stesso, la causa della propria malattia (o comunque la causa del suo protrarsi nel tempo). Dirà “Signore, io non ho un uomo che m'immerga nella piscina al primo moto dell'acqua, e mentre io vado, un altro vi discende prima di me” (v. 7).
A questo punto vorrei mettere in risalto la responsabilità e presa di coscienza del paralitico. È un miracolo importante quello che compie Gesù al paralitico che, schiavo da ben trentotto anni dei suoi malanni, è costretto ad un letto senza potersi muovere.
Responsabilità etimologicamente vuol dire abilità di rispondere, essere capaci di rispondere agli stimoli (Respons-ability), una capacità che evidentemente il paralitico del brano deve aver perso da ben trentotto anni, una abilità che noi stessi perdiamo nel corso del nostro sviluppo quando pensiamo che siano gli altri a dover fare il lavoro (fisico, ma anche psicologico) al posto nostro e quando perdiamo la fede nella nostra naturale capacità di auto-organizzarci. In poche parole: quando non diamo valore alla nostra capacità di risposta e ci diciamo “non ci riesco, nessuno mi aiuta”.