Il giovane Gesù
lavoratore
Dopo l’episodio del ritrovamento
nel tempio Gesù ritorna nell’anonimato. La vita
nascosta a Nazareth si svolse in condizioni modeste, quelle di una
famiglia il cui capo era un carpentiere. Si fa cenno al mestiere di
Giuseppe in Matteo: “Non è costui il figlio del falegname?”. E ancora:
«Non è costui il falegname, il figlio di Maria?» (13,55). Il termine greco
téktôn usato da Marco e Matteo per
descrivere l’attività di Gesù nei trent’anni di vita nascosta è tuttora
oggetto di diatribe esegetiche. Téktôn può essere tradotto sia
con “carpentiere” (muratore), “falegname” e “fabbro”. L’apologista
Giustino nel Dialogo con l’ebreo Trifone, composto intorno al
155, dichiara espressamente che Gesù «mentre era tra gli uomini ha
fabbricato, come opere di carpenteria, aratri e gioghi» (88,18). Anche
nell’apocrifo dello Pseudo-Matteo e nella Storia di Giuseppe
falegname si afferma
espressamente che Giuseppe «era ben istruito nella saggezza e nell’arte
della falegnameria» (II,2). Gesù a tredici anni fu addestrato nel lavoro
di Giuseppe, poiché a quel tempo era compito del padre avviare il figlio a
una professione, che per lo più era la stessa esercitata dal genitore.
Quando Gesù cominciò a insegnare, infatti, molti rimasero stupiti e
dicevano: «Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che
gli è stata data? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria?» (Mc
6,2-3). L'indicazione, dunque, del mestiere di artigiano esercitato da
Gesù è indubbiamente storica.
Gesù appartiene al "mondo del lavoro"
Non esisteva all'epoca di Gesù una
svalutazione del lavoro manuale rispetto al lavoro intellettuale. Persino
i rabbini, esperti della Torà per professione, esercitavano un lavoro.
L'applicazione alla conoscenza della Torà e l'esercizio di un mestiere non
erano giudicati incompatibili. Il lavoro era per l'ebreo un impegno
altamente umanizzante, pur con la componente di fatica. Il lavoro ha una
dignità propria nel piano divino della creazione. Sappiamo che con il suo
lavoro l’uomo partecipa all’opera del Creatore (cf. Gn 1,27-28). Gesù
visse il lavoro nella linea della tradizione sapienziale che lo
qualificava come una via normale per realizzarsi. I saggi esortano a
lavorare per superare la povertà e la condizione di dipendenza, per poter
vivere con una relativa autonomia e dignità. «Vivere del lavoro delle
proprie mani» (Sal 128,2) è motivo di fierezza e fonte di soddisfazione.
Il lavoro impedisce il vegetare spensierato e vuoto del pigro. D'altra
parte, la Scrittura insegna che il lavoro non deve diventare un assoluto:
collocato nella prospettiva del riposo sabàtico e visto nel segno della
benedizione di Dio, va commisurato con la dimensione religiosa.
Gesù non fu un «povero» nel senso
stretto della parola. Il lavoro gli assicurava un sostentamento dignitoso.
La cultura dell'artigiano non è quella dello scriba. Il suo contatto con
la realtà è diverso: più concreto, meno teorico; più particolare, meno
universale. Ciò non esclude, anzi favorisce, una sapienza pratica assai
spiccata. I maestri della Torà apprezzavano il mestiere di artigiano.
Gesù appartenne inequivocabilmente al “mondo del lavoro”. I suoi
discepoli erano: pescatori, agricoltori e operai. Così, quando parla del
regno di Dio, usa costantemente termini connessi con il lavoro umano: il
lavoro del pastore, dell’agricoltore, del medico, del seminatore, del
padrone, del servo, dell’amministratore, del pescatore, del mercante, del
salariato. Gesù paragona la costruzione del “regno di Dio” al lavoro
manuale dei mietitori e dei pescatori. Il significato emergente dalla
scelta di esercitare un mestiere è molteplice: inserimento pieno nella
migliore tradizione ebraica, rifiuto dell'ozio, laboriosità e,
soprattutto, opzione per quel livello di libertà, di dignità e di cultura
che gli consentiva la sua terra di Nazareth, nella sua situazione
concreta. Nello stesso tempo, sarà pure in certa misura e motivo di questo
mestiere, da cui era qualificato socialmente e culturalmente, che
esploderà lo «scandalo» quando visiterà Nazareth. I nazaretani sono
sconcertati dalla sproporzione tra la sapienza superiore, di cui Gesù dà
prova, e la nota condizione di carpentiere, che impediva di disporre
dell'ampio tempo libero richiesto per acquisire quella sapienza. Di qui lo
«scandalo» e la resistenza a superarlo riconoscendo che la sapienza di
Gesù è di un'altra origine, e che Gesù rivela un volto che soltanto la
fede riesce a scoprire e accettare. Anche il suo lavoro rientra nel «segno
di contraddizione» incarnato dalla sua persona.
L'uomo è più importante del
prodotto del suo
lavoro
Dall’insegnamento di Gesù possiamo
chiaramente vedere che l’uomo che lavora è molto più importante del
prodotto del suo lavoro. Il lavoro umano deriva dall’uomo; è destinato
a beneficio dell’uomo, a promuovere la dignità che gli deriva da Dio.
Perfino la città più grande, il più sofisticato computer, la nazione più
importante, non sono altro che opere dell’uomo, intese a servire l’uomo, a
recargli beneficio. Ecco perché il Concilio Vaticano II, parlando del
valore del lavoro umano, dichiara: «L’uomo vale più per quello che è che
per quello che ha. Parimenti tutto ciò che gli uomini compiono allo scopo
di conseguire una maggiore giustizia, una più estesa fraternità e un
ordine più umano nei rapporti sociali, ha più valore dei progressi in
campo tecnico. Questi, infatti, possono fornire, per così dire, la materia
della promozione umana, ma da soli non valgono in nessun modo ad
effettuarla» (Gaudium et Spes,
35). |