La fede e l'altruismo di una giovane ebrea

 

Negli ultimi numeri di quest’anno vorrei porre l’attenzione sulla giovane di cui si parla, quasi di sfuggita, all'inizio del capitolo 5 del 2Re. In una storia di potere, che vede come protagonisti grandi personaggi al maschile, si intrufola la memoria di una piccola figura femminile: la giovane d’Israele. Ella rappresenta il personaggio chiave, colei che mette in moto l’incontro e la conversione di un capo siriano: Naaman.

 

La tragica realtà della lebbra

Naaman è un generale dell'esercito Siriano nemico d'Israele e ha vinto delle grandi battaglie. È una persona influente e stimata, uno di quelli che contano, guerriero ammirato dal suo popolo e apprezzato dal suo re (cf. 2Re 5,1b), ma anch'egli ha un problema: è malato. È condannato da una terribile malattia: la lebbra. Tutto quello che per lui ha dell'importanza, agli occhi del mondo, non ha nessun valore davanti a Dio. È lebbroso e non può fare niente per evitarlo. Immaginiamoci lo stato d’animo di Naaman, la sua grandezza ora deve i conti con questa tragica realtà. Non ogni malattia della pelle rendeva impuri, ma solo quelle considerate infettive. Nei casi dubbi si imponeva un periodo di quarantena, che a volte durava una settimana (cf. 13,21.26) o al massimo quindici giorni (cf. 13,4-6.31-32). Durante la sua impurità la persona doveva rimanere fuori della città e segnalare la sua condizione a chi non ne era a conoscenza. Si prescriveva al lebbroso di portare vesti strappate, capelli lunghi e fluenti, barba coperta e di gridare: «Immondo! Immondo!» (13,45). Secondo la concezione ebraica, la lebbra era «la primogenita della morte» (Gb 18,13). I lebbrosi erano lasciati languire lungamente in una lenta morte, e per giunta venivano infamati come peccatori, perché la teologia rabbinica considerava la lebbra una punizione di Dio per i peccati commessi.

Il testo non ci dice in che condizione si trovava Naaman, ma ci riporta che è sposato e che viveva la vita familiare; con questo riferimento si desume che era una semplice malattia della pelle.

 

La fede e l'altruismo della giovane schiava

I siriani avevano fatto delle assalti ed avevano portato come prigioniera una piccola domestica che era passata al servizio della moglie di Naaman (cf. 2Re 5,2).

La giovane si è ritrovata così bottino di guerra: una schiava, proprietà della famiglia di Naaman. E sarà propria questa piccola schiava che permetterà ad Eliseo di estendere la sua fama oltre i confini di Israele, a Naaman di guarire dalla lebbra ed incontrare il Dio di Israele. Non sappiamo il nome della giovane, sappiamo solamente che fu strappata ai suoi cari, alla sua terra e data come domestica alla moglie di Naaman. La giovane faceva tutto quello che di solito c'è da fare in una casa: cucinare, lavare gli indumenti, fare le pulizie ed altro.

Certamente deve avere conosciuto la sofferenza, dal racconto non sembra, tuttavia, abitata dal rancore: non solo ha superato il trauma inserendosi pianamente in questo nuovo contesto familiare, non desidera in cuor suo la vendetta su coloro che l'avevano resa prigioniera; anzi, pensa persino al loro benessere, partecipa, addirittura, alla sofferenza delle persone che, in un certo qual modo, l’hanno ridotta in schiavitù. Questo perché pian piano ha cominciato ad amare i suoi padroni! Pur adattandosi e integrandosi pienamente nella nuova vita, conserva la memoria delle sue origini: è una ragazza ebrea. Ed è proprio di queste origini che si avvale per aiutare il padrone ammalato. Questa giovane è ben istruita dalla sua famiglia in merito alla fede, è audace ma anche saggia; sa stare al suo posto, pur riuscendo a far giungere all’interessato le informazioni che possiede. Non si rivolge direttamente al padrone, ma attraverso la moglie indica la via di soluzione: «Fosse il mio signore dal profeta che c’è in Samaria, certamente egli lo libererebbe dalla lebbra!» (2Re 5,3). Queste semplici parole ci mostrano il cuore della giovane: un cuore puro, non colmo di veleni. Avendo perdonato e dimenticato, ora è libera di amare e servire. Le stava a cuore il bene dei suoi padroni e non poteva tenere per se stessa la fede che avrebbe aiutato anche loro. Sapeva, infatti, che nella sua terra c'è un profeta che in questa situazione estrema può aiutare il marito della sua padrona e non lo tiene per sé. La giovane dimostra il suo grande altruismo, poiché se non avesse parlato, probabilmente Naaman non sarebbe mai guarito.