Il
giovane Daniele nella fossa dei leoni
(cf. Dn
6; 14,31-42)
Il re Dario divise il
regno in centoventi satrapie, ne affidò una a Daniele, che eccelleva su
tutti, «essendo in lui uno spirito superiore» (Dn 6,3). Gli altri satrapi
decisero di mettere in disgrazia il giovane e non trovarono altro mezzo
che persuadere il re a ordinare che, per la durata di trenta giorni,
nessun suddito rivolgesse preghiere e adorasse altri all'infuori di lui,
il sovrano, e che ogni trasgressore fosse gettato nella fossa dei leoni.
Il re, adulato dai suoi ministri più furbi e invidiosi, cede alle lusinghe
e proclamò la legge iniqua. Daniele, nonostante il decreto, non cambiò le
sue abitudini religiose, per cui «tre volte al giorno si metteva in
ginocchio a pregare e lodava il suo Dio, come era solito fare anche prima»
(Dn 6,11). Le finestre della sua stanza erano rivolte verso Gerusalemme,
ed egli, tre volte al giorno si inginocchiava e pregava «il suo Dio», così
come prevedeva la sua religione. Come altri credenti leali, il giovane
rischia la vita per seguire le pratiche della sua fede. Fu accusato presso
il re.
Il cuore
di Daniele era più forte di quello dei leoni
Il
giovane viene fatto scendere nella fossa dei leoni, che era sigillata con
una pietra: si voleva, in tal modo, non solo segnare il destino della
vittima, ma anche sottolineare l’impossibilità di qualsiasi aiuto che non
fosse divino. Nonostante fosse stato gettato nella fossa, «dove rimase sei
giorni» (Dn 14,31), Daniele non perse né la pace né il coraggio, ma
conservò la fede e pregò il suo Signore. Nella fossa dei leoni,
paradossalmente, il suo cuore era più forte di quello dei leoni.
Certamente era la sua fede che gli infondeva nel cuore coraggio, togliendo
da esso ogni storta di paura.
Il re Dario vedendo la
fede, la pace e il coraggio del giovane, si rivolse dicendogli: «Quel Dio,
che tu servi con perseveranza, ti possa salvare!» (Dn 6,17). L’autore
sacro attesta a più riprese la sofferenza del re nel vedere un così
tragico destino riservato, per altro, al suo protetto: egli ritorna nella
reggia ed è tormentato, passa la notte solo, in digiuno e penitenza, senza
dormire; all'alba infine si reca alla fossa dei leoni per conoscere la
sorte di quel giudeo deportato che egli ama e ammira (cf. 6,19-20). Quando
fu vicino ad essa, gridò: «Daniele, servo del Dio vivente, il tuo Dio che
tu servi con perseveranza ti ha potuto salvare dai leoni?» (6,21). Questo
dettaglio potrebbe avere il suo fondamento nella consuetudine degli
antichi babilonesi di rilasciare la vittima se questa fosse sopravvissuta
alle torture fino al giorno seguente. Ma indica anche che la
contraddizione di questa personalità è caratteristica di chi, avendo ormai
riconosciuto lo Spirito in sé, non sa ancora governare i suoi demoni
interni e spesso si fa da loro manovrare, mettendo a rischio «il regno» e
quanto di meglio c'è in esso (esempio: Daniele); ma la notte di
sofferenza, di dubbio, di veglia insonne, riscatta la sua debolezza e
recupera il prezioso collaboratore. Interessante, inoltre, è notare che
nella sua domanda il re usa un’espressione molto forte: «Dio vivente».
Un titolo questo che ricorre 34 volte in tutta la sacra scrittura, da
Dt 5,26, la prima ricorrenza, ad Ap 7,2, l'ultima. «Dio vivente» è
il Dio che il giovane Daniele ha servito sempre fedelmente, fino a
rischiare la morte. Questo titolo lascia intravedere, oltre a tutto, che,
diversamente dal «Dio vivente» di Daniele, gli dèí dei pagani sono
senza vita, fatti da mano d'uomo, sono «dèi di legno e di pietra», i quali
non vedono, non mangiano (cf. Dt 4,28; Dn 5,23); in altre parole sono
lontani dall’esperienze personali.
Bisogna dire che in
risposta alla domanda del re, il giovane Daniele avrebbe potuto
giustamente mostrarsi avverso ed arrabbiato per essere stato trattato così
vergognosamente. Invece, egli risponde rispettosamente con il saluto
consueto: «Re, vivi per sempre!» (6,22). Con semplicità e brevemente,
senza alcuna animosità, il giovane spiega al re di essere stato salvato
per un intervento divino: «Il mio Dio ha mandato il suo angelo» (6,23). Lo
stesso angelo che era stato mandato per liberare i compagni di Daniele dal
fuoco della fornace ardente (cf. 3,28). Questo angelo, prosegue il
giovane, «ha chiuso la bocca dei leoni ed essi non mi hanno fatto alcun
male» (6,23). Spiega poi il motivo per cui Dio aveva fermato i leoni «sono
stato trovato innocente davanti a lui» (6,23). L'espressione «davanti a
lui» è un linguaggio corrente per indicare che Dio vede e giudica le
azioni di ciascuno.
|