Capitolo ventiseiesimo

Il Padre misericordioso

 

Desidero analizzare quello che è stato definito il vangelo nel vangelo, la parabola comunemente conosciuta come del figlio prodigo. In essa Gesù rivela il volto misericordioso del Padre, poiché il Padre della parabola ci riporta con la mente al Padre celeste. Il titolo datogli figlio prodigo, non é del tutto appropriato, poiché da una lettura attenta si può constatare che il protagonista principale della parabola non é il figlio, ma è il Padre. E’ preferibile denominarla la parabola del Padre misericordioso. Analizzeremo i tre personaggi di essa: il Padre, il figlio minore e il figlio maggiore.

"Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze".

Per comprendere bene il senso di queste parole, dobbiamo rifarci alla mentalità del tempo. In tutta la tradizione del medio oriente non c’è mai stata una storia in cui un figlio chiede al padre l’eredità mentre il padre è ancora vivo… Per la cultura di quel tempo il figlio chiedendo l’eredità al padre lo tratto come già morto (Kenneth Bailey). … Immaginiamoci quanta delusione nel cuore del padre che aveva cercato di non far mancare niente ai propri figli, ora si sente "rifiutato-ucciso" … Il figlio toglie la "patria podestà", non lo considera più suo padre. … Al contrario, forse, dei tanti servitori che probabilmente lo invidiavano per la sua condizione filiale. Il padre comprende che il figlio lo considera morto e con grande tristezza divise tra loro le sostanze. … Nel testo in greco il termine sostanze è reso con ton bìon, cioè la vita. In altre parole possiamo dire che il figlio minore dice al padre dammi la mia vita, voglio gestire da solo la mia vita, senza dipendere più da nessuno. ...

"Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto".

Il testo sacro ci riferisce che va via dopo non molti giorni, quasi a dire che il tutto era premeditato. Forse già da tanto tempo voleva andarsene. Magari già aveva pronto le valigie... Un altro padre, al posto di quello della parabola, avrebbe cercato con molteplici argomentazioni di persuaderlo dall’andarsene… Invece lo lascia partire. Non oppone resistenza. Vuoi fare le tue esperienze... vai. Nell’atteggiamento del padre si può intravedere l’umiltà di Dio. "L’umiltà di Dio è il suo ritrarsi perché noi esistiamo. Per indicare questo la mistica ebraica usa l’espressione "zim-zum", che dice il contrarsi di Dio per far posto all'esistenza della sua creatura" (Forte B., Nella memoria del Salvatore. Esercizi spirituali, Paoline 1992, 66). … Dio da sempre lascia libero l’uomo. Non sapendo gestire il dono prezioso della sua libertà, lo trasforma in libertinaggio che lo porta in situazioni simili al personaggio della parabola: sprecando tutto il patrimonio. Il giovane ha sperperato fosse abbastanza, poichè poveniva da una famiglia benestante. Avevano persino la servitù, non erano dei poveracci. Forse nel paese lontano … in un primo momento, incontrò persone che vedendo, il suo patrimonio, gli diventarono amici. Non sapendo però che questi erano interessati non alla sua persona, ma ai suoi soldi. Fin quando aveva i soldi aveva la loro presenza, ma ben presto il denaro finì. Luca annota venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno e tutti i presunti amici sparirono. Essere nel bisogno in greco per sé significa: essere dopo, essere secondo. Alla pretesa iniziale di autosufficienza, si contrappone una situazione di fatto. Lui restò solo!

Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci . Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava.

Rimasto solo e senza soldi cercò un lavoro. Lui che, in casa paterna, era il padrone ora si ritrova a cercare un lavoro per sopravivere. Lo trovò, ma il più umiliante per un giovane ebreo. Praticamente equivale a rinnegare la propria religione. Il padrone lo mandò nei campi a pascolare i porci. E il maiale era l’animale impuro per eccelenza (cf. Lv 11,7) e pascolare i porci significava divenire impuri e maledetti. Maledetto l’uomo che alleva i porci, dice un proverbio ebraico. Il giovane avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Quel giovane desiderava riempirsi lo stomaco con le carrube, almeno leniva la fame. Era disposto ad entrare in comunione con i porci… nella mentalità semitica bere e mangiare insieme significava comunione di vita. Quasi che si era dimenticato di essere di natura superiore a quella animale. Lontano dal padre la vita non è più vita. Questa situazione cosi drammatica lo porta a ravvedersi. Un proverbio ebraico dice: Quando gli Israeliti sono costretti a mangiare le carrube, si convertono (a Dio).

Allora rientrò in se stesso. E’ il momento risolutivo del dramma che il giovane sta vivendo. Rientrare in se stesso è il principio della conversione, è il momento decisivo… E’ nel rientrare in se stesso che il giovane può discernere il mistero del proprio cuore e ritrovare la sua vera identità. L’uomo capace di entrare in se stesso è anche capace di ascoltare e gestire ancora la propria coscienza. Il giovane ha scoperto che la libertà sognata ha invece lasciato nel suo cuore una profonda amarezza. Probabilmente avrà ricordato le parole di Geremia rivolte ai figli prodighi del suo tempo: "Avete scelto ciò che è vano e siete diventati vanità" (Ger 2,5). Entrare in se stesso, inoltre, nel linguaggio biblico significa entrare nel proprio cuore (leb). Nella Bibbia è in riferimento all'attività intellettiva e volitiva dell'uomo libero e responsabile di fronte a Dio.

Il giovane guarda se stesso e la sua attuale situazione in relazione alla sua famiglia, dalla quale si era allontanato: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mette a confronto la sua condizione con quella dei salariati di suo padre, ai quali il loro generoso padrone dà più pane di quanto essi possono mangiare. Ognuno di loro inoltre ha un posto caldo per dormire. Lui invece... muore di fame. Giovanni Paolo II così descrive il giovane della parabola nella Dives in misericordia del 1980: "Egli misura se stesso con il metro dei beni che aveva perduto, che non possiede più, mentre i salariati in casa di suo padre li posseggono. Queste parole esprimono soprattutto il suo atteggiamento verso i beni materiali; nondimeno, sotto la superficie di esse, si cela il dramma della dignità perduta, la coscienza della figliolanza sciupata" (5). La grande carestia fu provvidenziale poiché, "l’esperienza della miseria gli consente di guardare in faccia la via della morte che sta percorrendo e di ribellarsi. Quando ci sentiamo soli, quando nessuno sembra volerci più e noi stessi abbiamo ragioni per disprezzarci o essere scontenti di noi... ecco che dal profondo del cuore riemerge il presentimento e la nostalgia di un Altro che possa accoglierci e farci sentiti amati" (Martini, Ritorno al Padre di tutti, 16). La conseguenza dell’essere entrato in se stesso è quella del ritorno alla casa del padre: Mi leverò e andrò da mio padre. Il desiderio del Padre è principio del mettersi in moto. La nostalgia del Padre è essenziale. Nostalgia significa: dolore del ritorno. E’ sintomatico notare che il giovane ha compreso di aver peccato prima contro Dio e poi contro suo padre: e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Non si ha senso del peccato se non in relazione a Dio (Cielo). Il giovane prepara la sua confessione. … Il giovane prepara bene il discorso da fare al padre: gli è ignoto il modo con il quale il padre lo accoglierà.

"Decide di ritornare alla casa paterna, di chiedere al padre di essere accolto - non già in virtù del diritto di figlio, ma in condizione di mercenario -, sembra esteriormente agire a motivo della fame e della miseria, in cui è caduto; questo motivo è, però, permeato dalla coscienza di una perdita più profonda: essere un garzone nella casa del proprio padre è certamente una grande umiliazione e vergogna" (DM, 5). Quando arriva dal padre e sta per confessarsi non figlio, il padre lo ferma.

Partì e si incamminò verso suo padre.

 La decisione di ritornare non può rimanere un pio proposito, ma deve concretizzarsi in azione. … Si incamminò verso suo padre. Nell’esortazione apostolica post-sinodale di Giovanni Paolo II, Reconciliatio et Paenitentia, è scritto "L’uomo -ogni uomo- è questo figliol prodigo: ammaliato dalla tentazione di separarsi dal Padre per vivere indipendentemente la propria esistenza; caduto nella tentazione, deluso dal nulla che, come miraggio, lo aveva affascinato; solo disonorato, sfruttato allorché cerca di costruirsi un mondo tutto per sé; travagliato, anche nel fondo della propria miseria, dal desiderio di tornare alla comunione col Padre" (5). Nella Tertio millennio adveniente la "vita cristiana -è vista- come un grande pellegrinaggio verso la casa de Padre" (49). Secondo me, per tanti uomini del nostro tempo si dovrebbe realizzare ciò, poiché non riescono a vedere Dio come "Padre ricco di misericordia" (Ef 2,4). Quello che è scritto della chiesa, nella Dives in misericordia, deve essere riferito ad ogni fedele, cioè: "considerare come uno dei suoi principali doveri quello di proclamare e di indurre nella vita il mistero della misericordia, rivelato in sommo grado in Gesù Cristo" (cf. 14). Pertanto chi ha sperimentato Dio come suo Padre ha il compito di aiutare gli altri ad incontrarlo come tale. Realizzando così la missione del profeta Elia, cioè dirigere "il cuore dei figli verso i padri" (Mal 3,24) poiché oggi molti cuori sono lontani da Dio. Egli aspetta il ritorno dei tanti figli prodighi come è evidenziato nei versetti successivi: Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il padre lo ha sempre seguito anche da lontano! Nessuna oscurità e tenebra può sottrarlo alla sua vitsta (cf. Sal 139,11s). Questo guardare da lontano ha il moto divino della misericordia, qui si può evidenziare l’amore materno di Dio. E’ la madre che aspetta il ritorno del figlio. E’ lei che vide e spera nel ritorno: ogni giorno forse da un poggio nelle vicinanze di casa, forse dalla terrazza della casa da dove si poteva vedere molto lontano. Lì andava, forse, ogni giorno con la segreta speranza di vedere, una volta, ritornare il suo figlio. Lo verde venire e lo riconosce immediatamente, benché si trova ancora lontano e il suo aspetto sia del tutto mutato: vestito di stracci, deperito nel corpo e nello spirito, il figlio sta stancamente avvicinandosi. Tutta la miseria del corpo e dello spirito gli stanno in volto.

Al posto di "essere commosso" il verbo splanchizomai è meglio tradurlo con: avere viscere di misericordia.

Questo verbo è usato solo dai Sinottici, 5 volte in Matteo, 4 in Marco, 3 in Luca, e sempre riferito a Cristo, salvo 1 volta in cui è riferito al Padre in questa parabola. E’ un verbo dunque riservato, come movimento di amore, alla Divinità. Nell’A.T. è usato solo 2 volte. Tuttavia l’A. T. ci rivela che dietro il verbo sta il sostantivo splanchna, le viscere materne, che traducono solo 2 sostantivi ebraici: raham, l’utero materno, oppure beten, il ventre della madre (Sulla terminologia ebraica e greca cf. la nota 6 della lettera Dives in misericordia). Il significato è avere tenerezza come il seno materno lo ha per il frutto delle proprie viscere. Il padre gli corse incontro, "è da notare che, secondo la mentalità semitica, questo era un gesto scandaloso, perché il padre doveva avere sempre un comportamento solenne, ieratico. Era il figlio che veniva a presentarsi e si prostrava davanti a lui. Non sarebbe stato concepibile il contrario: che il padre si movesse verso il figlio... La parabola ci pone dinanzi a un padre che non ha paura di perdere la propria dignità" (Forte B., Nella memoria del Salvatore, 69).

La parabola ci dice di più gli si gettò al collo e lo baciò, non curandosi che il porcaro è il mestiere più impuro per un Ebreo, e che contrae così l’impurità del figlio. Anzi si getta al collo e lo bacia, questo non è solamente un segno di straboccante tenerezza per la gioia di averlo finalmente rincontrato. Bisogna tener presente il simbolismo del bacio, per cogliere interamente il senso del testo. Il servo, lo schiavo, bacia i piedi. Anche il bacio della mano, per il quale si piega in ginocchio, esprime il fatto che si considera superiore la persona oggetto del bacio. Il bacio sulla guancia si conviene tra uguali. L’abbraccio e il bacio che il padre dà al figlio tornato a casa indica che è considerato sempre suo figlio (Cf. Linnemann E., Le parabole di Gesù. Introduzione e interpretazione, Queriniana Brescia 19912,101). Quel giovane che non si sentiva più figlio finalmente ha ritrovato il volto del padre.

Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio.

Il figlio non osa chiamarlo mio (cf. invece vv. 18 e 20). Comincia la sua confessione, ma il Padre lo dissuade: si noti che il figlio prodigo non riesce a fare al padre l’intero discorso che aveva progettato (cf. i vv. 18 e 19 con il 21). Tu sei sempre mio figlio. Con tutto quello che hai combinato non può cancellare la mia paternità. Io sono tuo padre. "Il padre del figlio prodigo è fedele alla sua paternità, fedele all’amore, che da sempre elargiva al proprio figlio... un figlio, anche se prodigo, non cessa di esser figlio reale di suo padre" (DM, 6). …

Il padre, allora, ordina ai servi presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa.

Stando alla storia della parabola, sembra che la scena si svolga nello stesso posto in cui ha avuto luogo l’incontro del padre con il figlio. Lontano! Ciò significa che il giovane prodigo entra nella casa paterna già ristabilito nella sua dignità; il padre non permette che gli altri lo vedono in quella misera condizione. Il giovane deve essere trattato come ospite d’onore per cui deve essere rivestito con il vestito più bello. E’ l’immagine e somiglianza di Dio, gloria e bellezza originaria che riveste l’uomo (cf. Gn 1,27). Questa veste, nel Nuovo Testamento, è Cristo stesso, l’uomo nuovo di cui siamo rivestiti (cf. Gal 3,27). La consegna dell’anello, probabilmente era l’anello con sigillo che significa il ripristino dei pieni poteri. Il vitello grasso... tutto pronto. E cominciarono a far festa. Non si dice: fecero festa ma cominciarono a far festa. E' l’inizio di ciò che sarà senza fine. Da sempre nella cultura e nella religione ebraica il banchetto era l’espressione fondamentale dell’amicizia, della festa e della pace, di perdono e di gioia Sul senso della gioia a tavola cf. Pisano F., La gioia nella comunità parrocchiale, in Spiritus Domini 8-9(1986), 11-12. Il Convito nuziale viene presentato dal Padre con una stupenda, propriamente divina motivazione: perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. La parabola potrebbe terminare qui come nelle tante storie a lieto fine. Non è così, vi è il ritorno del figlio minore che turba nuovamente il cuore del Padre.

Il figlio maggiore ... quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: E` tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare.

Dobbiamo far nostro l’appello che il Santo Padre fa nella lettera Incarnationis Misterium: "nessuno si comporta come il fratello maggiore della parabola evangelica che si rifiuta di entrare in casa per far festa. La gioia del perdono sia più forte e più grande di ogni risentimento" (11).

Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Alcuni esegeti vorrebbero interpretare questo versetto nel senso che anche il figlio maggiore si dimostrerebbe qui un figliol prodigo, giacché anche lui si è allontanato dal padre, pur restando esternamente presso di lui. E’ facile, inoltre, rilevare che il figlio maggiore, nel suo risentimento, a differenza del figlio prodigo non adopera mai il termine padre. In tal modo egli prende le distanze sia dal padre che dal fratello al quale rifiuta l’appellativo di fratello (Mussen F., Il messaggio delle parabole di Gesù, Queriniana , Brescia,59).

Dirà al padre ora che questo ‘tuo figlio’ che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo.

Si noti l’espressione piena d’amore: Figlio. Il Padre gli ricorda che lui lo ha generato (in greco: tèknon + genitivo). Inoltre il padre ribadisce che anche lui gli è figlio a pari dell’altro. Il padre fa capire lui poteva far festa con gli amici ogni volta che lo desiderava, perché lui come il padre è il padrone e non doveva chiedere il permesso. Ma ora bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo ‘tuo fratello’ era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. Viene ribadito al figlio maggiore il concetto che già abbiamo trovato. Le parole del Padre giustificano la festa. La parabola finisce qui, non sappiamo se dopo il figlio maggiore prende parte alla festa, per dare il benvenuto al fratello minore, secondo il desiderio del Padre. La parabola non ci dice se anch’egli accoglie l’invito del Padre a condividere la Sua gioia....

Nella realtà, invece, il fratello maggiore (Gesù) ha letto nel cuore del Padre il desiderio di voler a sé tutti i figli dispersi… E allora è ‘uscito’ dalla casa del Padre per andare in cerca dei suoi fratelli prodighi. Gesù partecipa pienamente alla gioia del Padre e con Lui tutto il cielo perché, come Egli stesso ha affermato vi è "grande gioia in cielo per un peccatore convertito" (Lc 7,7).