La preghiera è un dialogo con Dio

Fondamentalmente, la preghiera è un dialogo (Per un maggiore approfondimento cf. M. Falcone, La preghiera come dialogo, in La Scala 33(1979), 269-278; 300-309. Articolo che l’autore sviluppa in due parti: a) Dio Parla; b) La nostra risposta): "Pregare significa essere in due: noi e lui..." (E. Pietrobon, Pregare è arrendersi a Dio, in Rinnovamento nello Spirito Santo 3(1986), 12); "...è stare con il Signore, è comunicare con lui". La preghiera, dunque, è un dialogo tra due persone, in quanto sono capaci di relazionarsi: l’uomo e Dio (cf. R. Moretti, Lo preghiera amicizia con Dio, in E. Ancilli (a cura di) La preghiera. Bibbia, teologia, esperienze storiche, Città Nuova, Roma 1988, 15). La persona umana è essenzialmente comunione, relazione, comunicazione. È persona nella misura che si comunica, che lascia risuonare (da per-sonare) Dio in lei; il suo essere è determinato dalla capacità e necessità di relazione con Dio, con gli altri, con le cose, con se stessa.

"Il momento in cui Dio diventa persona è il momento in cui si avvia l’esperienza di preghiera. Martin Buber, filosofo e narratore tedesco (1878-1965), afferma che "Dio diventa persona quando cessa di essere un ‘Egli’ per diventare un ‘Tu’; quando cessa di essere un ‘Egli’ di cui parliamo, e diventa un ‘Tu’ a cui parliamo. Il ‘Tu’ è appunto l’espressione del rapporto personale, del mio rapporto con un’altra persona" (M. Magassi, Che cos’è la preghiera, in La Scala 30(1976), 324).

"La preghiera - ha scritto Giovanni Crisostomo - è un dialogo con Dio ed è un bene sommo" (in Hom. VI sulla preghiera; PG 64,462). La preghiera - dialogo è quando noi e Dio parliamo alternativamente: uno parla e l’altro ascolta, poi uno ascolta e l’altro parla. Dio cerca in noi degli interlocutori sui quali riversare il suo amore ed effondere lo Spirito Santo per realizzare una comunione di vita con lui. Nella Sacra Scrittura troviamo un continuo dialogo tra Dio e il suo popolo: attraverso i profeti è Dio che parla, e il popolo ascolta. "Ascolta, Israele!" (Dt 6,4): è la parola d’ordine del pio israelita, La parola divina non è vana e vuota come quella degli uomini: è parola di vita, e produce salvezza (cf. Is 55,11). Nella pienezza dei tempi, Dio "ha parlato a noi per mezzo del Figlio" (Eb 1,1-3); ha mandato la Parola eterna dove è racchiusa tutta la verità e il messaggio del Padre: "Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia" (Gv 1,16). Gesù, iniziando la vita pubblica, chiama i Dodici "perché stiano con lui" (cf. Mc 3,14) e li chiama amici "perché - dice Gesù - tutto ciò che ha udito dal Padre, l’ha fatto conoscere a loro" (cf. Gv 15,15). E essenziale il dialogo.

La preghiera ci permette di comunicare con il Signore. Nella preghiera abbiamo la possibilità di dialogare con lui, attraverso formule precise ma, anche e soprattutto, attraverso gesti, atteggiamenti e opere che ci permettono di dimostrargli che lo amiamo e che siamo consapevoli del suo immenso amore. Nella preghiera, l’uomo parla con Dio, compie cioè l’atto più grande di cui sia capace. San Giovanni Damasceno afferma: "La preghiera è l’elevazione del cuore a Dio" (in De fide orthadoxa, 3, 24, PG 94, 1089D). È un’espressione potente, ma non dice tutto. La migliore definizione della preghiera è quella di Sant’Agostino: "La tua preghiera è una conversazione con Dio. Nella lettura è Dio che ti parla, nell’orazione sei tu che parli a Dio" (In Sermone 85 in Opera di S. Agostino, Esposizione sai salmi, Città Nuova, 1976, voI. XX\’l, 1255. cf. Adalgero, Admon ad Nonsuindam reclus., c. 13; PL 1343, 931 C). Ed ancora Cipriano ribadisce questo concetto: "Prega o leggi con assiduità; ora sii tu a parlare con Dio ora Dio a parlare con te" (Ad Donatiarn, 15, in Cipriano, Opuscoli, Corona Patrurn Salesianum Series Latina, SEI, Torino 1935, vol. XI, 34). Girolamo afferma: "Egli ascolta Dio quando legge le divine Scritture, conversa con lui quando prega il Signore" (Ep. 3,4, PL 22, 334).

La preghiera non è un atto unilaterale, ma bilaterale: Parola di Dio e parola dell’uomo; è l’incontro di Dio con l’uomo in domanda e risposta, in amore reciproco, in dono di grazia e cooperazione. La preghiera è un dialogo.

La ragione umana, incline per sua natura più a essere attiva che passiva, ha sempre sottolineato il "dover" amare Dio. Ma la rivelazione dà precedenza all’amore di Dio, non all’amore per Dio. Aristotele diceva che Dio muove il mondo "in quanto amato", cioè in quanto è oggetto d’amore e causa finale di tutta le creature (in Metafisica XII, 7, 1072b); ma la Bibbia dice esattamente il contrario e cioè che Dio crea e muove il mondo in quanto "ama" il mondo. La cosa più importante, a proposito dell’amore di Dio, non è dunque che l’uomo ami Dio, ma che Dio ami l’uomo e lo ami per primo: "In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi" (1Gv 4,10). Il fatto che Dio parli a noi uomini, è l’elemento più caratteristico della religione rivelata. Dio non si accontenta di lasciarsi cercare dall’uomo, è lui che rincorre la creatura, anche quando questa ha peccato. Infatti, dopo che Adamo disobbedì al suo comando, il Signore lo cercò: "Dove sei?" (Gn 3,9). Come potrebbe l’uomo, di sua iniziativa, osare presentarsi al Signore, se prima Dio stesso non si chinasse verso di lui e non gli rivolgesse la parola? E se chi prega non credesse vivamente che il Signore lo ascolta ed è pronto a rispondergli (accettando benevolmente la sua adorazione, il suo ringraziamento, esaudendo la sua richiesta) il dialogo con Dio non potrebbe svolgersi; la preghiera vive scaturendo dalla parola del Signore e tendendo ad essa.

Il carattere dialogico della preghiera diventa cosciente nel massimo grado della cosiddetta orazione passiva, nella mistica. Allora nella coscienza si impone in primo piano l’iniziativa di Dio, il tocco del suo amore, la rivelazione della sua carità nella contemplazione infusa. Preghiera passiva non vuol dire che l’uomo vi partecipa soltanto passivamente; al contrario, mai egli si rivolge al Signore in un modo così attivo come sotto l’impulso delle grazie dell’orazione mistica. Ma nell’esperienza vissuta, l’azione del divino "interlocutore", qui è molto più chiara della risposta umana. Nell’orazione mistica l’anima vive in un modo che porta alla sua massima consapevolezza l’esperienza di fede, la vita nella grazia e della grazia come dono dell’amore divino. La preghiera attiva, nella quale la nostra parola ed il nostro io hanno una parte più rilevante e l’impulso della grazia non viene sentito in modo immediato, è tuttavia, in sostanza, suscitata da Dio e si basa sul suo impulso, sull’appello divino e sull’assicurazione della sua risposta, precisamente come la preghiera mistica. Quanto più chiaramente è percepito dalla coscienza l’appello di Dio e la sua volontà di rispondere, quanto più viva è la fede di chi prega alla presenza di Dio, tanto maggiore è la preghiera. La preghiera cessa di essere tale nel momento in cui la nostra conversazione diventa un puro e semplice monologo, tutto centrato sull’io e i suoi interessi (cf. HERING B., La legge di Cristo, Morcelliana, Brescia 1972 vol. II, 279).

Esempio emblematico è il fariseo al tempio, descritto dall’evangelista Luca: "Disse ancora questa parabola per alcuni che presumeva no di esser giusti e disprezzavano gli altri: ‘Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. lo vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato"’ (18,9-14).

Il fariseo prega dicendo: "Io non sono come gli altri". È un capolavoro di preghiera rimasta un monologo. Tutto è falso, nell’atteggiamento e nelle parole del fariseo: i gesti, anzitutto, che rivelano un’immagine falsa di Dio e di se stesso. Sembra un rapporto paritetico, basato sul "do ut des". Il fariseo ostenta una giustizia che non ha. L’esibizione è il linguaggio, che denota l’assenza di un valore. La virtù invece, si manifesta con tratti esteriori ben diversi. Quando un valore cresce nell’esperienza spirituale di una persona, ama la discrezione, che è il linguaggio del tesoro nascosto, e comunica attraverso la strada della semplicità, amica del pudore. Nell’uomo che sta ritto nel tempio appare il compiacimento di sé, che strumentalizza Dio e condanna drasticamente gli altri. Persino la parola "grazie" viene a perdere la sua verità, perché è detta soltanto in funzione di sé: "Ti ringrazio", non perché mi hai fatto diverso dagli altri, ma perché "io non sono come gli altri". La parola più sacra e più espressiva della gratuità dell’amore, il "grazie", viene profanata dall’arroganza dell"’io". Lo stesso nome di Dio è il presunto interlocutore di un dialogo mancato. In realtà i] fariseo è concentrato soltanto su di sé. La sua preghiera "è un falso dialogo", che inquina e profana: Dio, il grazie, se stesso, gli altri. Dio è solo un’occasione per parlare di sé, e l’autolatria, arrogante e presuntuosa, diventa disprezzo per gli altri. Per questo entro l’orizzonte farisaico Dio non parla. Il fariseo è rimasto sulla soglia dell’etico, nella palese illusione del proprio valore: "Digiuno due volte la settimana e pago le decime".

L’esito di questa preghiera è il buio di una vita rimasta qual era: con il silenzio di Dio, la distanza ostile degli altri e il ritorno mortificante al proprio peccato. E una delle tante ipotesi di preghiera non vera. Talora c’è invece sincerità nell’incontro con Dio, ma essa non anima la vita. Il fare unità tra incontro con il Signore e incontro con gli uomini richiede un cammino lungo, paziente, che dura per l’intera esistenza. Assai più dannosa è, tuttavia, l’altra ipotesi: quando la preghiera viene ridotta a formalità, a pratica esteriore che lascia solo l’illusione che ci sia stata, per il fatto di essere saliti al tempio come il fariseo. Niente di più pernicioso1 per la vita dello spirito, del sentirsi facilmente a posto. La preghiera farisaica non ha in sé neppure un germe di verità per cambiare la vita, perché è mancato il dialogo.

Dalla preghiera-dialogo si passa alla preghiera-duetto; il duetto si ha quando due persone parlano o cantano insieme, all’unisono. Una preghiera-duetto è, per esempio, quando, nell’Apocalisse, "Lo Spirito e la sposa dicono [a Gesù]: ‘Vieni!"’ (Ap 22,17). Si pratica questa preghiera-duetto quando, animati dallo Spirito che "è stato riversato nei nostri cuori" (Rm 5,5), ripetiamo a lungo, con amore, la semplice invocazione del nome di Gesù... È la preghiera che la spiritualità monastica della Chiesa Ortodossa conosce come la "preghiera del cuore". Ma c’è una preghiera ancora più spirituale che possiamo chiamare preghiera-monologo; questa si ha quando noi, facendo l’esperienza di non sapere, in verità, cosa ci convenga chiedere in una data situazione, lasciamo che sia lo Spirito a pregare per noi. Egli è il solo che intercede per i credenti, secondo i disegni di Dio (cft. Rm 8,27), essendo il solo che li conosce.